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STORIE DAL MONDO
Rassegna di reportage internazionali. A cura di Roberto Fontolan e Gian Micalessin: Guantanamo. Un eccezionale documento esclusivo. Per la prima volta le telecamere televisive dentro il carcere più famoso e discusso del mondo. In collaborazione con Sky. Produzione: National Geographic.
GIAN MICALESSIN:
Buonasera, grazie di essere in tanti anche quest’anno. Vi saluto anche a nome di Roberto Fontolan, con cui da vari anni presentiamo questa rassegna di documentari, documentari che dal nostro punto di vista sono importanti, perché aprono una finestra su un settore informativo, su un modo di fare informazione più profondo, dimenticato spesso dalla televisione italiana e dai media italiani.
Incominciamo con un documentario particolarmente significativo, significativo perché è il primo documentario girato dentro Guantanamo. Il titolo originario è Inside Guantanamo, è stato girato esattamente un anno fa, girato dalla regista del National Geographic che nell’agosto 2008 ebbe l’incarico di andare a realizzare questo filmato, perché per la prima volta le autorità americane permisero a una telecamera di entrare in quel buco nero, in quel carcere di altissima sicurezza per terroristi e comunque sospettati di terrorismo, catturati in Afghanistan e altri paesi, che si trova, come sappiamo, a Cuba.
Prima di questa giornalista, senza una telecamera, era entrato in quel carcere marco Bardazzi, che è con noi questa sera, corrispondente dell’Ansa dagli Stati uniti dal 2000, che nel 2007 mise piede nel carcere di Guantanamo.
Ecco, con me che mi occupo anche di terrorismo a livello globale, e con Marco, soprattutto, che ha visto quel carcere e conosce molto bene anche i problemi legali legati alla possibile chiusura di quel centro di detenzione, parleremo dopo la visione di questo documentario.
Ma prima vorrei chiedere a Marco: perché è importante questo documentario?
MARCO BARDAZZI:
Buonasera innanzitutto, vi invidio perché siete in maglietta e pantaloncini, io sono così perché mi fanno fare il portavoce del Meeting, quindi devo accogliere una serie di ospiti, però vorrei stare come siete voi!
E’ importante per tanti motivi. Io vi invito a guardare una cosa: se voi pensate a Guantanamo, l’immagine che vi viene in mente immediatamente, perché sono anni che i giornali ce la ripetono, sono i detenuti con la tuta arancione, inginocchiati dentro una gabbia con le cuffie, gli occhi bendati, e quella è l’immagine che ci è rimasta di Guantanamo. Che è una immagine vera, però è la Guantanamo del 2002.
Qui vedrete un po’ di tutto, vedrete anche come è iniziata la storia di Gunatanamo, vedrete quella che è la Guantanamo di oggi. Credo che il fatto di scoprire che la Guantanamo di oggi non è necessariamente quella dei detenuti in tuta arancione inginocchiati dentro le gabbie, aiuti a capire molto dal punto di vista, per esempio, di come si fa informazione.
Di questo parleremo dopo insieme, vi racconterò quello che è capitato a me di vedere e Gian racconterà molto di più anche su quello che lui vede su scala mondiale nei bellissimi reportage che fa su scala mondiale da tutto il mondo. Grazie.
GIAN MICALESSIN:
Bene. Buona visione a dopo.
Video National Geographic.
GIAN MICALESSIN:
Bene. Eccoci qua.
Penso che, un po’ come me, tutti voi siete un po’ frastornati dopo aver visto questo documentario, perché è un documentario che, visto nella nostra ottica, che non è quella degli americani, apre una serie di domande e di interrogativi che sono veramente profondi. Benicot, la regista, quando l’ho intervistata, mi diceva che qui vediamo un Guantanamo diverso, diverso da quello che ci eravamo immaginati e diverso da quello che ci avevano riproposto le telecamere, le macchine fotografiche, le fotografie fatte nel 2002. E’ un Guantanamo che è diventato un carcere di massima sicurezza, sicuramente molto simile a tanti altri carceri di massima sicurezza americani, però questo non risolve il problema perché, secondo me, il vero problema di Guantanamo è oggi quello detto da quell’avvocato militare americano, alla fine che dice: “Ecco, questo è il risultato quando ci facciamo prendere dalle nostre paure”.
Io penso che ogni momento, ogni sequenza di questo documentario ci faccia capire la difficoltà dell’America di fronte ad una reazione istintiva, una reazione che non rientrava nell’ambito dei codici in cui si articola la democrazia. La democrazia è difficile, complessa, quando reagisci con una reazione che è istintiva, come dice Bush: “Non sappiamo cosa fare di questa gente, non sono nemici e non sono criminali tout court, sono una categoria che non sappiamo dove mettere, ecco, la mettiamo a Guantanamo”.
Ecco, però, quella decisione presa in un attimo, presa in pochi mesi, ti crea un problema che poi è inestricabile, un problema che mette in contraddizione le tue stesse fondamenta, che diventa l’immagine per cui il tuo nemico ti dice che l’America non è buona, che è quello che dice il talebano liberato, quando dice che grazie a Guantanamo – e intende tutto il mondo che ruota intorno ai talebani – abbiamo capito che l’America poteva non essere buona. Quindi l’America ha creato un simbolo e adesso è difficile liberarsene. E’ vero Marco che forse è difficilissimo, la cosa più difficile è riuscire a chiuderlo adesso Guantanamo.
MARCO BARDAZZI:
Sì, assolutamente. La chiave di lettura è quella. Per capire Guantanamo, occorre capire che cosa è successo negli Stati Uniti nel 2002 e nel 2003, gli anni chiave dopo l’11 settembre. C’è stata paura, c’è stata una reazione immediata e slegata da quelli che sono gli ideali americani, che ha portato a compiere passi che oggi è estremamente difficile poter cancellare. Cioè, chiudere Guantanamo è un qualcosa che tutti vogliono, negli ultimi anni anche l’amministrazione Bush, lo stesso presidente l’ha ribadito continuamente, Obama ha fatto compagna elettorale promettendo questa cosa e il secondo giorno della sua presidenza, come abbiamo visto nelle immagini, ha deciso di firmare un documento che ordina la chiusura di Guantanamo entro il gennaio prossimo. Come farlo però resta molto difficile. Prima magari di vedere perché resta difficile, volevo soltanto accennare a un’esperienza personale che secondo me ha anche a che fare con il titolo del Meeting. Io sono stato quattro giorni a Guantanamo insieme ad altri due colleghi – il Pentagono di solito fa piccoli gruppi per portare giornalisti internazionali là per alcuni giorni – ero con un collega francese del giornale Liberation e con una collega del Los Angeles Times. Ecco, mi ha colpito tra le tante cose che mi hanno colpito a Guantanamo e che è inevitabile che non colpiscano per quello che avete visto, mi ha colpito, dal mio piccolo punto di vista, il fatto che siamo stati con questi colleghi insieme dalla mattina alla sera a vedere sempre le stesse cose e abbiamo visto tre Guantanamo completamente diverse. Nel senso che il collega francese ha descritto un certo tipo di scenario e di atmosfera, la collega americana ha attaccato duramente il Pentagono per le limitazioni di movimento all’interno della base di Guantanamo per noi tre giornalisti e per la durezza delle condizioni in cui ritrovano i detenuti. Ecco io, che cosa ho visto io, in due parole, e credo che per me sia interessante andare a fondo del tema: com’è che si conosce? Facciamo un Meeting sulla conoscenza è sempre un avvenimento. Si conosce attraverso l’impatto con gli eventi che hai di fronte, però parti da un’educazione che hai ricevuto, da un tuo modo di guardare le cose. Non so se la Guantanamo che ho visto io sia quella più corrispondente alla realtà rispetto agli altri due colleghi, quello poi sta a voi giudicarlo, sulla base di chi vi fidate e sulla base di che cosa vi fidate di quello che vi raccontano i giornalisti. Io ho visto, io sono stato in varie basi militari americane, sono stato in vari carceri americani, compresi i bracci della morte, non ho mai visto nessuna base militare dove ho avuto la libertà di movimento come a Guantanamo, dove sono stato in grado di riprendere tutto quello che volevo, di fare fotografie, dovevo soltanto la sera riguardarle con i membri dell’intelligence militare, perché c’erano delle cose che non si potevano fotografare, volevano solo verificare che non ci fossero nelle immagini. Rispetto ai carceri che ho visto negli Stati Uniti, la Guantanamo di oggi che, lo ripeto, non è la Guantanamo del 2002, è esattamente la copia di tanti carceri federali americani. Il carcere, di per sé, è un posto terribile, e questo vale per Guantanamo come vale per il resto del mondo. Non voglio scandalizzare nessuno, ma a Sollicciano a Firenze o a San Vittore a Milano, probabilmente si sta peggio che a Guantanamo in questo momento. Detto questo, resta il fatto che Guantanamo è il segno della sconfitta dell’America, è il segno di ciò che l’America ci ha sempre proposto come modello. Non conta, lo diceva bene Gian Micalessin prima, che anche un regista come me dica che quello oggi è un carcere federale di massima sicurezza come tanti altri. Prima di tutto ciò che ho visto è ciò che mi hanno permesso di vedere, tante cose non le ho viste, come si sentiva all’inizio. Esiste una parte di Guantanamo, si chiama Champ 7, che nessuno ha mai visto, ed esiste dal 2006, da quando hanno trasferito i terroristi che stavano nelle prigioni della CIA; ci stanno i peggio del peggio, Khalid Sheikh Mohammed, l’uomo reo confesso di aver organizzato l’11 settembre sta lì. Che cosa succede a Champ 7, ma che cosa succede anche negli altri campi che abbiamo visto quando non ci sono i giornalisti, io non lo so. Ho visto soltanto quello che mi hanno permesso di vedere. Resta il fatto che, comunque, Guantanamo, per tutti i motivi che abbiamo visto, è la sconfitta di ciò che l’America sa essere, perché ha creato nel mondo quello che ha creato e perché comunque, se anche fosse stato uno solo l’errore giudiziario che hanno compiuto su ottocento, e probabilmente sono molti di più, quell’errore giudiziario è stato fatto con modalità che rendono impossibile o difficilissimo correggerlo, perché è un abominio giudiziario, quello che è sto fatto a Guantanamo, e questo è anche il motivo per cui è così difficile chiuderlo.
GIAN MICALESSIN:
Saluto innanzitutto Roberto Fontolan che è qui con noi, che però non può restare con noi dopo, adesso ce lo spiegherà.
Cosa volevo dirvi… Sono appena tornato dall’Afghanistan, ero nella provincia di Farah, dove ci sono gli italiani, e parlando con il responsabile della sicurezza afgano della provincia, mi chiedevo: ma chi è il capo dei Talebani in questa regione? E lui mi ha detto: “E’ il mullah Sultano”. Dico: “Voi come sapete chi è?” “Noi lo sappiamo bene perché lui era un ex-detenuto di Guantanamo. E probabilmente non sarebbe se gli americani non ce l’avessero rimandato qui. E non capiamo perché ce l’abbiano rimandato, perché grazie al fatto che è stato tre anni a Guantanamo, è diventato immediatamente il capo delle cellule qui a Farah, e ha radunato tantissima gente che non avrebbe avuto la minima idea di unirsi ai talebani”. Quindi gli stessi afgani erano un po’ sconcertati dal fatto “perché li hanno portati via così e soprattutto perché ce li hanno rimandati qui”. Ecco, la domanda che ci facciamo anche noi, penso, guardando questo filmato è: otto anni dopo, a cosa è servito Guantanamo? Non abbiamo avuto nessuna condanna e comunque nessuna sentenza definitiva. Ii modi con cui sono stati condotti gli interrogatori, con la tortura, sono di fatto lo stesso elemento che rende impossibile portare avanti delle condanne. Abbiamo delle corti americane che si occuperanno di andare contro Guantanamo. Quindi la domanda a questo punto è: a cosa è servito? Dove ci porterà, dove porterà l’America Guantanamo?
MARCO BARDAZZI:
la domanda è difficilissima. Quello che non sappiamo è quello che sarebbe accaduto senza Guantanamo, questo va detto nel senso che alcuni di quelli che sono là sicuramente dopo l’11 settembre avrebbero provato a fare qualcos’altro; il problema è perché li abbiamo messi a Guantanamo, potevamo trovare altre soluzioni. L’America… secondo me non è servito a niente, se non a creare un grosso odio nel mondo islamico e un grosso problema per due amministrazioni: non solo per quella Bush ma anche per l’amministrazione Obama.
Ha protetto gli americani e noi occidentali? Non lo so, è difficile riuscire a capirlo ed è una domanda ipotetica. Negli Stati Uniti, come vedete in tutti i film, nel momento in cui ti arrestano ti leggono i tuoi diritti; si innesca un sistema giudiziario che vale per chiunque si trovi sul suolo americano, compresi voi, se andate in vacanza a New York. Scattano tutta una serie di diritti: a Guantanamo non c’è niente di tutto questo. Abbiamo personaggi che sono stati presi su un campo di battaglia in Afghanistan, talvolta consegnati da tribù locali ai militari americani; non c’è stato nessun verbale, non sono state raccolte delle prove scritte su che cosa questi personaggi avessero fatto. Se oggi li prendiamo e li inseriamo dentro il sistema giudiziario americano, l’ultimo degli avvocati d’ufficio è in grado di far uscire lo stratega dell’11 settembre. Questo è il problema di massima, detto molto in sintesi, che hanno oggi gli americani. Proprio per questo l’FBI, da due anni in silenzio, sta rifacendo le indagini su quelli che sono lì dentro. Però capite che è difficile riandare in Afghanistan, interrogare le persone che all’epoca della cattura erano in qualche maniera presenti e rendere tutto ciò in qualche modo presentabile a un giudice americano. Resta però il fatto che se hai passato tre anni in una cella segreta della CIA, non a Guantanamo, dove sei stato interrogato con metodi che non sappiamo, come lo porti questo di fronte a una Corte americana?
Ecco, questo è il grande interrogativo di fronte al quale si trova Obama, che sta cercando di portare adesso, di portare il più possibile i detenuti nel resto del mondo e noi, qua in Europa, non siamo disponibilissimi ad accogliere in nessuno dei paesi europei, pur insistendo sul fatto che Guantanamo deve chiudere; di portarne altri negli Stati Uniti dove sono ancora meno disponibili ad accoglierli, dove ogni senatore sa che se il prossimo Guantanamo americano si trova nel suo seggio, lui ha perso le elezioni alla prossima campagna elettorale.
Quindi Obama ha tutto il Congresso contro; ha una buona parte dell’opinione pubblica contro di fronte all’idea di portare a casa i detenuti in America. A che cosa è servito Guantanamo alla luce tutto questo? Non lo so, a complicare molto la vita a due amministrazioni.
GIAN MICALESSIN:
Ecco, io ricordo un’altra cosa poi di Guantanamo, il modo in cui Guantanamo ha fornito a chi stava dall’altra parte, ai terroristi, la giustificazione per compiere qualsiasi atto, anche il più efferato e forse ci salta agli occhi, almeno a me saltò agli occhi, nel 2004: nel 2004 ero in Iraq e per la prima volta vedemmo quell’immagine terrificante per televisione, di un americano sgozzato, decapitato, che vestiva questa tunica arancione. Ecco, la tunica arancione è diventato il simbolo di Guantanamo, il simbolo per cui chiunque vesta quella tunica arancione, in base al mancato rispetto dei diritti all’interno di Guantanamo, può venir sottoposto alle più efferate uccisioni, alle più efferate torture.
Ecco, non è questo anche l’effetto Guantanamo terrificante?
MARCO BARDAZZI:
Si, Guantanamo resterà uno dei luoghi simbolo del primo decennio del XXI secolo; fa parte dell’immaginario collettivo ormai mondiale, attraverso le tute arancioni, attraverso le immagini del filo spinato. E’ un luogo simbolo della nostra epoca, con cui occorre fare i conti, ed quello che stiamo facendo questa sera, senza pensare, secondo me, di avere facili soluzioni, senza dover ridurre il dibattito a “è stato giusto, è stato sbagliato, sono i buoni, sono i cattivi”. E’ un tema di estrema complessità. Resta il fatto che è vero, ha innescato in giro per il mondo, insieme poi alle immagini di Abu Ghraib, del carcere Abu Ghraib in Iraq, che sono un’altra storia ma è una storia in qualche maniera legata a Guantanamo, ha innescato una serie di reazioni che hanno reso quasi impossibile per l’amministrazione Bush tentare di fare, giusto o sbagliato che fosse, anche il progetto di proporre la democrazia nei paesi arabi, la democrazia americana in qualsiasi maniera; perché questo ha bloccato qualsiasi tipo di discorso; cioè Guantanamo immediatamente ha tagliato l’erba sotto i piedi alla stessa amministrazione, che poi dopo cercava in qualche maniera di trovare delle soluzioni al problema.
GIAN MICALESSIN:
Grazie Marco. C’è qualcuno di voi che vuol fare qualche domanda? Io vi consiglierei di approfittare della presenza di Marco…
DOMANDA:
Sentite, io non me ne intendo, io ho visto il film, di per se stesso dice poco e niente, e la validità del film, del documentario, sta nelle dichiarazioni che sono delegate, preposte alla custodia di Guantanamo. Io ho la sensazione che in queste situazioni di atmosfera collettiva ci sia un umanitarismo fuori luogo, perché si guarda soltanto a Guantanamo e non si vaglia quelle che sono state tutte le cause che hanno determinato Guantanamo. Ora il problema è questo: se Guantanamo ha assunto un aspetto simbolico, quello di coloro che agiscono in maniera efferata contro l’umanità innocente, per poter sostenere una loro ideologia assoluta, incontrastata e incontrastabile. Questo è il punto. Io dico solo due cose: questo è il problema, bisogna metterlo sempre continuamente a confronto con quello che è stata la causa di Guantanamo. Grazie
MARCO BARDAZZI:
No, senz’altro il problema è che di fronte… lei dice che non si vedono le premesse di Guantanamo, non si insiste abbastanza sull’11 settembre, su ciò che successo prima.
Il problema è: era questa la risposta giusta da dare a ciò che era successo prima?
Quello che a me sembra è che l’America nel dare questo tipo di risposta, avendo a disposizione altre alternative, perché ha un sistema giudiziario che comunque è un modello per il mondo, si è creata un problema da sola. Lei dice: “E’ un caso simbolico”, è vero, però è un simbolismo che ha danneggiato l’America più che aiutarla. Ha danneggiato l’Occidente più che aiutarlo. Assolutamente, è semplicemente un parere personale. Può darsi, lo dicevo prima, che Guantanamo abbia impedito un nuovo 11 settembre, non lo so e non lo sappiamo. Quello che abbiamo chiaro è quello che Guantanamo è. E quello che è, è un qualcosa che senza dubbio ha danneggiato un tentativo di rispondere al dopo 11 settembre, da parte dell’America.
DOMANDA:
Hanno istituito la cultura del suicidio per uccidere anime innocenti in tutto il mondo….
MARCO BARDAZZI:
Senza dubbio. Il problema è come rispondere a questo.
DOMANDA:
Alla mia domanda ha risposto Marco prima, cioè perché non spostano i carcerati da Guantanamo nelle altre carceri. Dato che, come diceva Gianni, l’impressione che ho avuto lì a Guantanamo è che fosse un carcere comunque simile alle carceri che ci sono negli Stati Uniti, perché questi 240 detenuti non li portano nelle altre carceri, visto che il sistema è quasi simile? La risposta l’ha data lui prima: perché l’ultimo degli avvocati d’ufficio riuscirebbe a scarcerare il peggiore, non sicuramente il colpevole certo, quindi lui direbbe immediatamente: allora fanno bene a tenerli a Guantanamo. Questa è la mia impressione. La seconda impressione che ho, e correggetemi se sbaglio, è che questo documentario non è solo geografico, ma abbia un taglio, mi è sembrato a me poi magari mi sbaglio, assolutamente anti-Bush e pro-Obama. Però non lo dico per dividere due categorie. L’impressione che ho avuto io è che tutta la sequenza di azioni svolte da Bush vengono immediatamente stroncate dai fatti in maniera negativa, mentre poi il recupero è dato all’amministrazione di Obama. Però ripeto, può essere esclusivamente un’impressione, chiedo a voi.
MARCO BARDAZZI:
Si, sul primo punto ribadisco quello che ho detto prima. C’è una grande difficoltà nel portare i detenuti nel territorio americano, perché Guantanamo non viene considerato territorio americano, perlomeno dal punto di vista giuridico, sebbene lo è senz’altro dal punto di vista militare. Perché al momento in cui scendono dalla scaletta dell’aeroporto di Miami, acquisiscono una serie di diritti che sono poi difficili da gestire di fronte a un sistema giudiziario, perché non è stata fatta un’indagine tradizionale diciamo, non sono state acquisite fonti di prova in una maniera tradizionale ed è quindi complesso trovare adesso la soluzione. Ci stanno lavorando schiere di giuristi anche dell’amministrazione Obama. Si farà, cioè è una cosa su cui Obama non può non fare un passo. Guantanamo, sono convinto, entro il 22 gennaio 2010, sarà chiuso, perché sarebbe un dramma per questa amministrazione se non lo fosse; sarebbe una sconfitta totale. Le modalità per farlo continuano ad essere ancora incerte. Molto più complesso di quello che sembra, lo ha riconosciuto lo stesso Obama.
Quanto al documentario: ha senz’altro un taglio particolare, non c’è dubbio. Io però evidenzierei, come cosa interessante, questa: senz’altro si vuol sostenere una tesi, pur avendo cercato di sentire un po’ tutte le campane, è un dettaglio interessante però e che fa merito secondo me, è un merito per gli Stati Uniti, la libertà di accesso che hanno dato alle telecamere National Geografic, quella che hanno dato a giornalisti semisconosciuti come me. Negli anni precedenti ci sono decine e decine di giornalisti internazionale, direi centinaia, che sono stati portati a Guantanamo ecco, l’aver cercato dopo anni un po’ bui iniziali di far vedere che cos’è Guantanamo, pur esponendosi al rischio poi di aver un documentario che non è necessariamente forse quello che il Pentagono sperava, va al merito della trasparenza americana. Teniamo presente che questo è nato durante l’amministrazione Bush, anche se arriva adesso.
GIAN MICALESSIN:
Si, vorrei dire anch’io un paio di parole, un paio di cose su questo. Ecco, “è contro Bush…”. E’ un documentario. Tu vai dentro un simbolo di quella che è stata l’amministrazione Bush dopo otto anni e questo simbolo parla. Parla con le parole dei detenuti in arabo; che parlano da dietro le celle e fanno la loro propaganda; e parla con le parole dei carcerieri; e parla con i racconti di quelli che sono stati rilasciati da Guantanamo, senza che la loro colpevolezza sia stata provata o dimostrata. E… forse è Guantanamo stessa che parla e dice: “Sono inutile”. Perché questo è l’effetto che io ricavo da questo documentario. Quando vedo una squadra di cinque guardie che deve ragionare per mezz’ora su come togliere un asciugamano da una porta per agire nella legalità; quando senti la guardia, il capo dei guardiani che dice: “In un carcere americano noi non possiamo lasciar morire nessuno, qui devono sopravvivere tutti, anche a costo di comportarci illegalmente nei confronti del detenuto, ma lo dobbiamo tenere in vita”. E qui capisci quali sono le contraddizioni; qui capisci che Guantanamo è una ferita ne cuore della democrazia, perché è come se la democrazia creasse degli anticorpi, e lo eliminasse. Per questo Guantanamo diventa sbagliato. Diventa sbagliato perché è un prodotto della paura, non è un prodotto di un sistema giuridico e diventa un elemento che gli anticorpi della democrazia, nel tempo, lentamente, eliminano, si divorano. Ecco, questo è il mio punto di vista, non è che sia contro o a favore. E’ una specie di visione quasi clinica della malattia Guantanamo, dal mio punto di vista. Altre domande?
DOMANDA:
Buona sera. Dunque, io sono un giurista, studio giurisprudenza, per cui mi interessava molto l’aspetto, ecco, legale, l’alternativa, eventuale, a Guantanamo. Adesso, per esempio, nel Corno d’Africa c’è il problema della pirateria e mi sembra che la posizione dominante sia stata evitare il ricreare un seconda Guantanamo, perché i pirati catturati in certi casi sembra siano stati uccisi, oppure consegnati alle autorità giudiziarie keniote, delegando a loro la risoluzione giuridica del problema. Perché sul piano giuridico oggettivamente non si sa che status riconoscere a queste persone; così come ai talebani o ai terroristi di Al-Qaeda. Ecco, a me sembra da questo punto di vista che forse l’esperienza di Guantanamo, per quanto imperfetta, possa essere sia una soluzione migliore che delegare la risoluzione dei problemi non so, a paesi come l’Afghanistan,… ad ucciderli….
GIAN MICALESSIN:
Ok ho capito: quindi Guantanamo da usare come esempio per agire in altra maniera.
MARCO BARDAZZI:
Ma innanzitutto c’è stato un recente caso di pirateria che ha colpito un equipaggio americano e uno dei pirati catturati è stato preso, portato a New York e processato nel tribunale federale americano, dando subito un esempio del fatto che in realtà ci sono degli strumenti giuridici con cui agire senza dover necessariamente passare da Guantanamo. E’ vero che Guantanamo può essere usato per riflettere su fenomeni come per esempio la pirateria in Somalia. Resta il fatto che la categoria di combattente nemico illegale è stata ritenuta due volte dalla stessa Corte suprema americana come un qualcosa, io non sono un giurista, che giuridicamente non sta in piedi, non riesce a stare al passo con ciò che l’America si è promessa di essere con la propria Costituzione. E’ una categoria giuridica che ha bisogno di alternative. E un paese con la tradizione di democrazia ed anche la tradizione giuridica degli Stati Uniti, non può permettersi di non avere un’altra soluzione rispetto a Guantanamo, perché sarebbe, lo ripeto, una sconfitta per l’America doversi rassegnare a questo tipo di soluzione. Sicuramente ci sono delle posizioni intermedie possibili. Il fatto stesso di aver visto, per esempio, uno dei detenuti di Guantanamo venir trasferito a New York per essere processato per gli attentati nello Yemen nel 2000 o uno dei pirati, catturati a largo della Somalia, portato in una corte federale di New York sempre per essere processato, secondo me indica che giuridicamente si può fare qualcos’altro.
GIAN MICALESSIN:
Roberto ci saluta
ROBERTO FONTOLAN:
No scusate, io mi scuso perché sono arrivato in ritardo, avevo un altro incontro. Volevo solo ricordarvi, ringraziando Gian che cura con me questa cosa, che, come ha detto, è tornato letteralmente nella notte dall’Afghanistan, situazione di cui parlerà ampiamente mercoledì, quando presenteremo il suo documentario realizzato con i soldati italiani in Afghanistan. Ringrazio Marco che ha sottratto un po’ del suo preziosissimo tempo, è il portavoce del Meeting, ai suoi gravosissimi impegni di questi giorni. Vi ricordo che domani ci sarà un documentario sui 10 anni dopo la pace nell’Ulster, cioè nell’Irlanda del nord e sarà con noi John Waters, che è quel giornalista irlandese che penso che molti abbiano imparato a conoscere in questi anni di Meeting, perché è anche una persona, testimone diretto, dell’Irlanda diciamo della repubblica, però è testimone diretto degli avvenimenti che per tanti anni hanno insanguinato l’Ulster. Martedì, dopo domani, ci sarà il documentario dedicati ad alcune esperienze di missione in America latina. Un documentario che è stato trasmesso dalla RAI nei giorni scorsi, all’inizio di agosto, il 3 agosto, che riproponiamo qui. Ci saranno due protagonisti di questo documentario che faremo vedere martedì: uno è padre Aldo, che è stato fino adesso diciamo il Meeting delle ultime due ore, e racconta un po’ la storia e la vicenda di questa parrocchia di San Rafael ad Asunción e la seconda parte è dedicata ad una grande opera sociale a Buenos Aires, che è l’opera di padre Mario Pantaleo. Ci sarà anche l’attuale presidente di quest’opera, che è una signora deliziosa di oltre ottant’anni, che si chiama Perlach. Ci saranno questi due testimoni il prossimo martedì. Mercoledì, come vi ho detto, ci sarà Gian che illustrerà la sua lunghissima storia, quasi un po’ misteriosa, incomprensibile di amore per l’Afghanistan, terra dove va praticamente a far certe vacanze. Ecco, benissimo, scusate mi sono introdotto qui perché volevo ricordare i prossimi appuntamenti. Grazie.
GIAN MICALESSIN:
Io, invece, ringrazio tutti voi che siete stati numerosi anche questa sera; ringrazio Marco e ci vediamo sempre domani sera alle 19,00 qui. Grazie mille. Buona cena.
(Trascrizione non rivista dai relatori)