Chi siamo
STARTUP E SHARING ECONOMY… QUALE OPPORTUNITÀ?
Partecipano: Andrea Contri, Innovation Manager dell’Innovation Centre di Intesa Sanpaolo; Gianluca Dettori, Chairman dPixel Srl; Davide Ghezzi, Fondatore LetzGo; Renzo Noceti, Partner fondatore di key2people e Socio di BonBoard. Introduce Santiago Mazza, Ceo Fotonica Srl.
SANTIAGO MAZZA:
Grazie di essere qui con noi a parlare di questo tema legato ai tempi attuali, il tema delle startup e della sharing economy. Quali sono le vere opportunità che oggi possiamo? Alcuni lo chiamano “consumo collaborativo”, altri “peer-to-peer renting”, e altri ancora, in italiano, “l’economia della condivisione”. Fatto sta che la sharing economy sta diventando un paradigma che regola il passaggio dall’era del “possesso” all’era dell’”accesso”. E questo vale per le prenotazioni alberghiere, per i parcheggi, ma anche per gli orti, per le biciclette, per i vestiti, per il cibo, in alcuni casi anche per le competenze. La crisi da questo punto di vista ha incentivato enormemente lo sviluppo di questo metodo di interscambio di beni e di servizi, attraverso il digitale come strumento di accesso. Non è certamente una coincidenza che tra il 2008 e il 2010 sono nate la maggior quantità di queste imprese di condivisione di beni e di servizi. Ma la di là della crisi comunque la sharing economy in realtà è un paradigma molto più dirompente. È incentivato dall’esplosione delle tecnologie digitali in cui l’acceso prende il sopravvento rispetto al possesso. In Italia i numeri ci parlano abbastanza chiaro: circa il 13% della popolazione italiana nell’ultimo anno ha usato un sistema di sharing economy, o ha interscambiato beni e servizi della sharing economy. In altri Paesi, dove la diffusione del digitale è sicuramente maggiore e l’utilizzo di questi strumenti è un po’ più reattivo, come gli Stati Uniti, il 53% della popolazione ha già nell’ultimo anno utilizzato strumenti della sharing economy; in Inghilterra il 63%. Sono numeri significativi che ci pongono tante domande legate a questo cambiamento.
Oggi abbiamo con noi Andrea Contri, Innovation Manager dell’Innovation Centre di Intesa Sanpaolo, dove coordina il progetto “startup and initiative”, la piattaforma di relazione internazionale che favorisce l’incontro tra startup ad alta tecnologica ed investitori finanziari e industriali. Andrea, aiutaci a capire un po’ di più il concetto di sharing economy.
ANDREA CONTRI:
Grazie, grazie a tutti per avermi invitato. Completo la citazione che hai brevemente introdotto prima di Tom Goodwin, uno dei responsabili dell’innovazione di uno dei più grossi gruppi Media Havas: “Nel 2015 – afferma – Uber, la più grande impresa di taxi al mondo, non ha veicoli; Facebook, la più popolare impresa di media, non crea contenuti; Alibaba, il sito vendite di maggior valore, non ha magazzini; Airbnb, il più grande sito per l’affitto di alloggi, non possiede immobili”. Sta succedendo qualcosa di interessante. Cosa vuol dire sharing economy? Vuol dire mettere in condivisione, a disposizione, qualcosa che io non uso pienamente e tendenzialmente trarne un piccolo ricavo. Gli esempi che vediamo sono molteplici: si va appunto dai classici della casa – quindi avere una stanza e metterla su Facebook e di fatto diventare un micro albergatore – a Uber, tanto discussa e contestata, da BlaBlaCar, che ti permette semplicemente di chiedere un passaggio e condividere il costo della benzina, fino a LetzGo che è qui con noi oggi e che migliora la mobilità urbana.
Oltre a questi esempi classici, ci sono anche esempi un po’ più strani, che non sono andati sui giornali, di cui vi faccio qualche accenno. Uno è il cibo: c’è una startup torinese molto bella che si chiama “Gnammo”, che ha avuto un po’ di problemi legali, che ti permette di portare a casa ospiti che mangiano – pagando – e vengono a cena a casa tua, e così questa esperienza diventa una micro ristorazione; ovviamente ci sono tutta una serie di temi legati all’igiene, al rispetto delle normative, per cui appunto oggi il decollo di questa startup inciampa sopra una serie di elementi normativi. Questo, come vedremo più avanti, è uno degli elementi fondamentali che caratterizzano il fenomeno della sharing economy. Negli Stati Uniti c’è addirittura un posto dove puoi ordinare da uno chef o da una persona che conosci il pranzo e ti porti a casa un cibo preparato da lui o da lei, come se fosse la nonna che ti manda lo zampone a capodanno. C’è la condivisione del tempo e del lavoro, quindi ci sono maker place digitali dove tu puoi metter a disposizione le tue capacità, come imbianchino piuttosto che come traduttore, piuttosto che come esperto di una cosa o un’altra, per farti poi pagare ad ore da chi ha bisogno di quella specifica competenza, di quello specifico aiuto. La cosa più interessante per me che lavoro in banca, è che anche i soldi, anche il modo di gestire i finanziamenti sta risentendo di questa sharing economy. E quindi nascono fenomeni come il “peer to peer lending”, ovvero il prestito tra privati, dove non c’è più un intermediario finanziario centralizzato che si fa depositario delle transazioni, ma si passa direttamente da un provato all’altro e la piattaforma digitale aiuta solo a gestire le transazioni. Negli Stati Uniti l’esempio più famoso è il “lending club” ma anche in Italia con “Smartika”, che è la ex Zopa, ha preso piede negli ultimi anni. Per non parlare poi dell’idea di mettere a disposizione un po’ del proprio capitale perché il progetto di qualcuno si realizzi. Conoscete probabilmente Kickstarter che è l’esempio più famoso. che recentemente ha aperto anche dei progetti italiani, che permette a chi ha l’idea di fare un film, di scrivere un libro o di fare un progetto di qualsiasi natura, di finanziarsi chiedendo soldi ai propri amici ma ad una cerchia sempre più allargata, che diventa un domani il pubblico potenziale di quello che tu stai realizzando. Chi è appassionato del tuo tema ti può dare i soldi perché tu realizzi la cosa che più ti diverte e ti appassiona fare, in modo che lui, vedendo poi realizzato il prodotto finito, se ne sente in parte artefice.
Tutte queste esperienze non c’erano cinque o dieci anni fa, perché il fattore che le rende possibili è il digitale, è il fatto che internet e il mobile sono un interfaccia che rende sempre più fluidi i collegamenti tra le persone; rende sempre più semplice monitorare cosa succede quando tu non sei in casa ma magari hai l’ospite dentro; rende sempre più facile sapere dove si trova l’auto a cui tu hai chiesto il passaggio e quindi tra quanti minuti sarà da te grazie al Gps sul cellulare. Il digitale è la tecnologia che ha reso possibile questa maggiore fluidità e quindi questa ottimizzazione nell’uso di risorse che altrimenti sarebbero rimaste sottoutilizzate o in parte ferme, dall’automobile alla casa delle vacanze.
L’altro elemento fondamentale è quello della fiducia. Si tratta di scambi tra persone, si tratta di esperienze dove io vengo a casa tua a mangiare, io vengo nella tua macchina e mi porti in giro. Il digitale permette di rendere trasparente e accessibile a tutti questa fiducia, attraverso meccanismi come quelle delle recensioni, per cui chi ha avuto l’esperienza di venire a casa tua su B&B lascia detto come si è trovato e tutti gli altri possono leggerlo e giudicare da sé se venire da te o andare da qualcun altro. La cosa più interessante in tutto questo fenomeno rispetto al tema del Meeting è che è la condivisione di un’esperienza tra persone. E’ vero che lo facciamo per soldi, io stesso ho messo a disposizione su B&B una camera di casa mia per l’estate, quando mia moglie e i bambini erano in vacanza. Ho la fortuna di abitare nel centro di Milano e quindi molta gente è venuta o per vedere Expo o per visitare la città. Con ognuna di queste persone alla fine hai uno scambio, hai un’interazione che va più a fondo del semplice rapporto fornitore-cliente che le persone hanno con un’azienda. C’è un desiderio di interagire tra persone che va ben oltre il rapporto con l’azienda. Un esempio: l’altra sera sono arrivati degli ospiti giovani che avevano lasciato i bagagli al deposito bagagli e si erano dimenticati di ritirarli in tempo. Quindi sono arrivati a casa mia senza valigie e dovevano passare la notte. Fossero stati in albergo, gli avrebbero detto: “Si accomodi, ma non possiamo fare niente per lei”. Alla fine io mi trovo in casa della gente che non aveva lenti a contatto, pigiama e spazzolino. Ho aperto uno spazzolino di riserva, gli ho dato le mie lenti a contatto e via dicendo. E questi hanno potuto fare un’esperienza di soggiorno, magari molto più ricca di quella che avrebbero potuto avere in un albergo. Questo perché avevano davanti la faccia di uno che come loro si è trovato a viaggiare e magari ha condiviso lo stesso problema. Quali i vantaggi e i rischi che porta questo nuovo paradigma della sharing economy? Dal lato dei vantaggi, si tratta di utilizzare di più e meglio le risorse che abbiamo, la macchina, la casa, la cucina, e quindi rendere potenzialmente molto più efficiente tutta la parte di consumo e sprecare di meno. Secondo aspetto: l’apertura di una nuova forma di “microimprenditorialità”. Chi fa questa attività, la fa quando normalmente non è nel mercato del lavoro primario. Lo fa durante le vacanze, nei ritagli di tempo, quando è pensionato e per arrotondare porta in giro le persone e diventa guidatore Uber. L’idea è che le perone sempre di più, con un rischio minore, possano mettersi in proprio e attivare una propria microattività economica. Di fatto, queste iniziative sono nate tutte all’interno di culture molto imprenditoriali, come quella anglosassone e quella della Silicon Valley. Terzo aspetto è che le transazioni economiche si arricchiscono della componente umana (l’abbiamo visto prima, l’idea della condivisione), e quindi permettono una relazione molto più stretta. Un esempio. Come Intesa San Paolo, noi abbiamo Banca Prossima, che è il ramo di banca che si occupa di imprese sociali, che ha avuto un’idea veramente brillante, non lo dico per campanilismo, quella di consentire, attraverso una piattaforma di cutfunding che si chiama Terzo valore, a chi volesse prestare soldi ad iniziative di forte valore sociale, così come la cooperativa Cometa o altre opere di questo tipo, di farlo ad un tasso di interesse inferiore a quello di mercato. Le piattaforme digitali avvicinano tutta una serie di persone che hanno un interesse, un tema comune, e rendono possibile la condivisione di uno scopo, di un obiettivo. Questi sono gli aspetti positivi, non vorrei però passare per un ottimista inguaribile che vede solo con le fette di salame sugli occhi tutto ciò che c’è e ci potrebbe essere di buono. Ovviamente si accompagnano al fenomeno anche tre elementi di rischio fondamentale. Il primo, come dicevamo all’inizio, è quello normativo-regolatorio. Questo modo diverso di consumare, di fornire beni prodotti, di condividere le cose, è un paradigma che non esisteva quando sono state scritte le leggi e i regolamenti nazionali, regionali, urbani, che normano quello che possono fare o non fare i taxi con le licenze, o i ristoranti. Per cui è necessario un fortissimo adeguamento normativo. Rapidamente bisogna che il nostro impianto regolatorio si adegui e sia in grado, se non di vietare del tutto, di consentire le parti di queste “sharing economy” che più sono valide per la società. C’è una grossa sfida in questo senso. Secondo elemento di rischio è quello che molti denunciano sui giornali, sui blog: il rischio è che questo tipo di lavoro diventi un nuovo lavoro precario e quindi che un domani tutti, non avendo migliore alternativa, si facciano autisti su Uber o affittuari su B&B e quindi siano costretti, loro malgrado, a mettere a disposizione la propria casa a dei prezzi sempre più risicati. C’è il rischio che questa nuova forma di lavoro non sia tutelata. Bisogna stare molto attenti a capire qual è l’equilibrio giusto da raggiungere, perché chi oggi lo fa per arrotondare, domani non diventi “schiavo” di questo meccanismo. Il terzo aspetto da guardarsi è quello della concentrazione. Abbiamo detto che sono le piattaforme digitali quelle che rendono possibile questo fenomeno. Oggi, per la dinamica naturale del mercato, sono poche le grandi startup, quelle che hanno la massa critica sufficiente per governare questo tipo di fenomeni su scala nazionale o mondiale. Quindi di B&B ce n’è una, di Uber ce n’è una. Ci sono realtà più piccole, più locali, con caratteristiche più specializzate, però il mercato va naturalmente verso una concentrazione. C’è il rischio che il controllo di questa condivisione delle risorse resti in mano a chi oggi offre la piattaforma abilitante e quindi a chi possiede il cancello di accesso attraverso cui le persone si collegano le une con le altre. Nulla di male di per sé, se l’imprenditore che crea la startup ha buone intenzioni. Da capire è poi come le forze di mercato regoleranno anche questo fenomeno.
SANTIAGO MAZZA:
Grazie del tuo intervento. Mi puoi però spiegare meglio come funziona il vostro programma legato alle startup?
ANDREA CONTRI:
Volentieri. Come Intesa San Paolo, da diverso tempo facciamo iniziative legate all’innovazione, all’interno delle varie Business Field del gruppo. Per mia fortuna, dal 2015 è nato l’Innovation Center, che è un po’ il centro che raccoglie tutti questi progetti e iniziative su vari fronti. Questo Innovation Center, che è appena nato, raccoglie due missioni fondamentali. La prima è quella di scovare quale di queste innovazioni vanno a toccare il nostro business. Quindi, come dicevamo prima, conoscere il prestito tra privati, sapere chi sono gli attori fondamentali, quali sono le tecnologie abilitanti, al fine di cambiare il modo con cui noi facciamo banca. Il nostro scopo è un po’ quello di stuzzicare i processi della banca a evolvere velocemente, anche acquisendo tecnologia e soluzioni che provengono dal mercato. La seconda missione fondamentale, che seguo un po’ più da vicino io, è quella di aiutare le imprese nostre clienti a fruire di questa innovazione. Quindi prendere le startup che hanno sviluppato soluzioni adatte ad un distributore o ad una tecnologia in particolare e metterle in contatto con le imprese che hanno bisogno di questo tipo di innovazione per essere competitive, per crescere. Si va da progetti di Open-innovation, a progetti di investimento diretto in startup. Disponiamo di un fondo di venture capital che ha attualmente sessanta milioni in gestione. Abbiamo una serie di progetti direttamente legati al finanziamento anche con forme di capitale di debito con il Fondo di garanzia per le startup. Ma soprattutto dal 2009, gestiamo un’iniziativa, che si chiama Startup initiative, che permette alle startup più interessanti, che andiamo a scovare parlando con tutti gli attori dell’ecosistema, di entrare in contatto rapidamente con il maggior numero possibile di investitori potenziali. Questi investitori sono poi di due tipi. Da un lato, ci sono i Fondi di venture capital e gli angel investor, cioè persone che di mestiere investono soldi propri o di altri in iniziative ad altissimo rischio e ad altissimo rendimento potenziale e sono quelli che rendono possibili questi salti evolutivi, grazie alle innovazioni portate dalle startup. Dall’altro lato, c’è il mondo delle imprese vere e proprie. Quindi chi può finanziare una startup, non sempre e non solo è chi gli da il capitale di rischio, può essere anche il partner industriale, la grande azienda che utilizza la tecnologia sviluppata dalla startup all’interno dei propri processi o dei propri prodotti. Di fatto, ormai da sei anni, abbiamo fatto ottanta eventi dedicati alle startup, degli investment forum dove mettiamo in contatto ogni volta una decina di startup con un centinaio di imprese e investitori. Queste startup le selezioniamo con un processo selettivo- formativo. Prendiamo quelle che sono già mature, che hanno già un’idea chiara e le aiutiamo a mettersi in comunicazione nel modo più efficace possibile a chi le può aiutare a crescere, sia attraverso eventi, sia attraverso piattaforme digitali. Abbiamo lanciato proprio quest’estate una piattaforma che si chiama Tech- Marketplace, dove le piccole e medie imprese possono venire a vedere che cosa fanno le startup che noi abbiamo aiutato nel tempo e magari diventarne clienti o diventare un giorno acquirenti della società in toto.
SANTIAGO MAZZA:
Complimenti. Grazie Andrea per averci spiegato bene il concetto di sharing economy in quello che state facendo. Abbiamo visto che una delle possibilità nell’utilizzo delle economie di condivisione è quella del trasporto. Davide Ghezzi, fondatore di LetzGo che è un servizio di car pooling urbano istantaneo, ci racconterà da dove nasce questa idea, e qual è il sogno che stanno portando avanti.
DAVIDE GHEZZI:
Buona sera a tutti. Vi racconto come nasce LetzGo e cos’è. LetzGo nasce da una grande frustrazione, che è la frustrazione di vedere sostanzialmente la mobilità urbana come assolutamente insostenibile nel mondo. Ho portato non delle slide ma alcune foto che rendono molto bene l’idea, tratte dal Washington Post.
Qui si può vedere una strada di Seattle dove ci sono duecento persone dentro centosettantasette macchine. Questi hanno fatto una sorta di simulazione in cui hanno fatto vedere le stesse persone senza le macchine; le stesse persone in bicicletta; le stesse persone su tre autobus; le stesse persone su una metropolitana leggera. Se ritorniamo alla prima immagine si vede subito che c’è qualcosa che non va nella mobilità urbana. L’idea di LetzGo è nata proprio guardando queste macchine, non a Seattle ma in Viale Papiniano a Milano e vedere che tutte queste macchine sono vuote. A Milano, il Comune dice che le statistiche indicano che l’ottantanove per cento delle persone che girano a Milano hanno quattro posti liberi. C’è solo una persona quindi, sono dei mezzi, che pesano da ottocento a duemila chili e che si spostano senza la minima efficienza. Questo l’ho cominciato a guardare una decina di anni fa, ma non c’era nessun modo per trovare una soluzione. Ho cominciato a pensare cosa si potesse fare per questa cosa che mi dava veramente fastidio. Non potevo mettere le persone in mezzo alla strada su delle sedie, non mi interessa la biciletta, la considero un mezzo pericoloso, soprattutto a Milano. Gli autobus, le metropolitane non sono il mio lavoro. Allora ho cominciato a pensare: ma perché queste persone non possono, condividere la propria auto, almeno quelle che stanno andando nella mia stessa direzione? Ovviamente non sapevo bene come si potesse fare; poi è arrivata la tecnologia che ha reso possibile alle persone geo localizzarsi e quindi sapere chi è all’interno di queste auto e offrire la possibilità di dare un passaggio a un’altra persona, che si sapeva che stava andando nella stessa direzione. Nel 2012 ho avuto questa idea, un po’strana ancora ai tempi; però l’ho presentata all’Expo alla fine del 2012 e ho visto che proprio in quel momento era nata una società in America che faceva la stessa cosa. Sono stato molto contento: c’è qualcuno che ha avuto la stessa idea, non è un’utopia! Sono andato a San Francisco, l’ho conosciuto e gli ho proposto di farlo insieme anche in Italia. Loro ovviamente stavano cominciando in America, quindi non avevano possibilità di farlo anche in Italia. Nel frattempo questa società, che è partita nei fatti con noi, è esplosa; ci sono due o tre società in America che fanno la stessa cosa che facciamo noi. Ho cominciato a studiare questo tema, perché tutta la sharing economy naviga in una sorta di ambiguità, in un’area grigia, perché sono tecnologie che non esistevano quando sono state fatte molte leggi. Quindi ho studiato per più di un anno con un team di avvocati una struttura che permettesse di arrivare ad entrare sul mercato in modo completamente protetto e legale. A fine del 2013 siamo partiti con un test e ad aprile siamo partiti a Milano con LetzGo e poi abbiamo aperto a Torino, Genova e a settembre partiremo con Padova e altre città italiane. Abbiamo più di 1500 driver tra le città in cui siamo presenti; la community cresce sempre di più e ogni giorno, più o meno, riceviamo delle richieste di persone che vogliono aprire LetzGo nella propria città. Vi spiego in due parole che cosa è LetzGo: è la condivisione dei posti in macchina in modo che ci siano meno macchine in giro per la città. Per esempio: io sono in giro per la città, faccio parte della community, voglio andare da viale Papiniano alla Stazione centrale di Milano e indico questo percorso; la comunità dei driver, che è stata selezionata per sicurezza, se c’è qualcuno che sta andando nella stessa direzione, risponde e ti dà un passaggio. Alla fine di questa condivisione, succedono due cose: la prima è che c’è un rimborso dei costi del viaggio; noi diamo una indicazione di questi costi, poi però è il passeggero che decide, come tra amici, quanto lasciare. Secondo, il passeggero giudica il driver e viceversa; questo è un punto fondamentale per la sharing economy. LetzGo ha poi un suo business, prende una percentuale di qualunque rimborso sia lasciato dal passeggero. Nei prossimi mesi noi vogliamo espanderci e soprattutto aiutare la mobilità in posti in cui, aldilà delle grandi città dove c’è una massa critica, non ci sono mezzi di trasporto o in periodi stagionali è difficile muoversi, come nelle zone di mare. Vogliamo andare oltre le grandi città, restando sempre alla necessità di avere una massa critica. Prima è stata finanziata dal sottoscritto poi a fine anno sono entrati gli investitori e adesso stiamo chiudendo nuovi investimenti per finanziare lo sviluppo ulteriore. La frustrazione è stato dunque il primo punto che ha spinto me e i ragazzi con cui lavoro a partire con LetzGo, la frustrazione di vedere delle risorse usate male. Poi ci sono altre due cose molto interessanti che stanno cambiando. La prima è il fatto che ci sono determinate persone che fra pochi anni governeranno il mondo, i cosiddetti millennials. Queste persone sono sempre meno interessate a possedere, per esempio, delle automobili. Im America tra il 2007 e il 2011 il volume di auto vendute ai millennials è sceso del 30%, perché sono meno interessati di quanto lo fossimo noi di un’altra generazione ad avere un’auto. Io non vedo queste persone il sabato pomeriggio a lavare la macchina dal benzinaio: sono più interessati ad avere un servizio, a muoversi da un punto all’altro della città e poi lasciarla lì, l’auto, anche perché c’è una consapevolezza diversa dell’ambiente. Il terzo punto fondamentale è quello che diceva Andrea: è come se ci fosse un ritorno della fiducia. La tecnologia ha aiutato ad avere fiducia nelle persone e a valorizzare la fiducia. Mi ricordo che una delle obiezioni che mi facevano agli inizi era: chi vuole ospitare in auto uno sconosciuto? In realtà è la stessa obiezione che si faceva a B&B: chi vuole ospitare dei perfetti sconosciuti nella propria casa, magari mentre ci dormi? Nel caso di B&B ci sono 150.000 alloggi in Italia e crescono del 100% all’anno. Ci sono sempre più persone che ospitano dei perfetti sconosciuti. Perché lo fanno? Perché delle persone prima di loro hanno creato un circolo virtuoso in queste comunità; gli ospiti che arrivano hanno già avuto dei feedback in precedenza, quindi chi ha dei feedback sempre più positivi avrà sempre più la possibilità di ospitare e di essere ospitato e anche di guadagnare soldi. Questo è un punto veramente importante: la fiducia. È come se fosse ritornata la fiducia nel prossimo.
SANTIAGO MAZZA:
Tutti pensiamo che la tecnologia sia qualcosa di freddo, qualcosa di completamente lontano dai nostri mondi. Invece se la viviamo come tecnologia abilitante, come uno strumento che mi abilita a un incontro reale nell’utilizzo di un servizio, diventa qualcosa di veramente propositivo nel costruire una nuova impresa. Tu hai parlato di un’avventura che stai percorrendo nello sviluppo dell’impresa. Un’avventura di grandissima responsabilità che hai nel guidare questa impresa. Penso che non sia tutto “super” nel fare startup oggi. Ci dici in due parole quali sono le difficoltà che incontri?
DAVIDE GHEZZI:
Il costo del lavoro e la rigidità dei contratti di lavoro sono per me la cosa più pesante. Inoltre abbiamo bisogno di regole chiare. Questo deve farlo innanzitutto la politica. Prima di noi in America, in California, hanno avuto gli stessi problemi. Questi sono degli articoli di giornali di due anni fa in cui si dice che Uber, Lift, Sidecar sono stati bloccati, hanno avuto delle multe. Cos’è successo poi? La reazione di queste società è stata quella di muovere le loro community, di farle parlare. Su Facebook la community di Lift, nostro omologo negli Stati Uniti, ha cominciato a dire: “Ho una persona che mi dà un passaggio in macchina, pago meno, non devo più possedere una macchina o due, ne posso avere solo una, è più economicamente sostenibile. Ci sono una serie di benefici, perché ci bloccate? Rifate le regole”. Hanno poi fatto delle petizioni molto serie, come gli americani sanno fare, e nel corso di alcuni mesi la California ha cambiato completamente registro, regolando le attività di ridesharing. Oggi poi non c’è un giorno in cui uno Stato americano o anglosassone e tendenzialmente anche in Europa, non discuta o approvi una regolazione a favore del ridesharing. Evidentemente la politica sperava di prendere più voti tra le comunità che sostenevano queste nuove forme di quanti ce ne fossero a disposizione tra gli appartenenti ai metodi e ai mezzi di trasporto tradizionali. Questo è molto interessante per un politico adesso. Ci sono delle cose che sono inarrestabili: il mondo è troppo globalizzato per non pensare che quello che succede in America abbia un riscontro positivo ovunque. Quindi il primo consiglio è di guardare questi trend, andare anche in America, in California per vedere cosa stanno studiando da qui ai prossimi dieci anni e come cambierà il mondo, perché là già lo sanno. E sono cose che arriveranno da noi e che devono essere interpretate in chiave locale, come stiamo facendo noi con LetzGo. Per quanto riguarda l’Italia, credo che ci siano tantissime opportunità, proprio per il fatto che nessuno pensa che ci siano delle opportunità. Chi ha un occhio positivo, una mentalità positiva e non si arrende, ha un vantaggio competitivo rispetto a tutti gli altri imprenditori italiani. Un altro consiglio senz’altro è di cercare di andare avanti stando all’interno di tutte le leggi. Nel nostro caso ci siamo ispirati alla normativa europea, che non è una vera e propria normativa ma sono delle linee giuda in Europa, per essere legali, per operare in modo legale. Certo le regole vanno anche un po’ modificate, altrimenti non andiamo da nessuna parte.
SANTIAGO MAZZA:
Ti ringrazio per l’intervento perché sono sicuramente consigli provenienti dalla tua esperienza. Adesso vogliamo interrogarci su come si sta trasformando il lavoro. Lo facciamo con Renzo Noceti, socio fondatore di BonBoard, che da venticinque anni è uno dei migliori cacciatori di teste in Italia. Ha incontrato tantissime persone, ha contribuito fattivamente sull’orientamento e l’impatto delle organizzazioni attraverso le sue competenze. A lui la parola
RENZO NOCETI:
Non vorrei che uscissimo questa sera dalla sala pensando che la sharing economy, l’economia condivisa, è un’economia in più. No, è qualcosa che cambia l’economia che già c’è, che entra nell’orologeria, nei meccanismi, nel funzionamento dell’economia che già c’è. E tra l’altro entra come un treno in corsa, quindi senza chiedere permesso, senza bussare. Io credo che fondamentalmente nel cuore di tutti noi pesino le domande a cui prima Contri ha dato voce: ci sarà più lavoro o meno lavoro? Siamo all’alba di un’epoca meravigliosa, qualcosa che ricorda il lavorare meno o lavorare tutti? Oppure siamo all’ennesimo giro di vite di questo mulino che macina e frantuma le forme tradizionali del lavoro? Io credo che prima di entrare nel vivo delle questioni occorrano alcune precisazione. La prima è che questo Paese restituisce un po’ attutito il rumore della sharing economy, mentre è un rombo fuori dai nostri confini. La ragione è paradossalmente proprio il fatto che le nuove generazioni arrivano dopo e arrivano un po’ depotenziate, se mi consentite. Questo fatto è di per se stesso dirimente nel senso che un conto è installare qualcosa di nuovo su un ceppo di venti anni, un conto installarlo su un ceppo di cinquanta. Lo dico avendo superato i cinquanta. Il secondo punto è disambiguare su alcuni elementi. Ho provato a farlo introducendo degli elementi concettuali. Il primo è che io non vedo meno individuo dentro il concetto di sharing economy, non vedo assolutamente meno razionalità e cercherò di dimostrarlo. Facendo un po’ il gioco degli opposti, io non credo che l’opposto di sharing sia tradizionale oppure egoista. Non è una economia esclusiva ed escludente. Non è un’economia che esclude, ma un’economia che viceversa tende ad includere ed è già emerso in maniera abbastanza chiara. L’ultimo punto che volevo cogliere in premessa è sulle condizioni storiche. Io non credo che si entri nella sharing economy, come prima opzione. Non ci si entra se non per un fatto di necessità. Per cui non è un caso che stiamo parlando, dopo un crisi o nel mezzo di una crisi potente. Ci si entra magari per necessità perché non si hanno i mezzi, e poi ci si rimane invece per scelta, per stile di vita, per stile di comportamento consapevole.
Questo è il punto che è già emerso: io entro perché ho bisogno di spostarmi da qui a là, e poi ci rimango perché non voglio pagare il costo di energie pel gestire una macchina, con tutto quello che si associa in termini di dispersione di energia. Bisogna precisare tutto questo per cogliere le implicazioni. Quindi sostanzialmente siamo attrezzati per il confronto fra l’economia esclusiva e l’economia condivisa, shared, che è un po’ più complessa. L’economia tradizionale la conoscevamo, era familiare, ma qui entra in gioco un fattore nuovo, ed è la community. La community ha un impatto potente, veramente incalcolabile, sia sull’organizzazione sia sul lavoro. La community entra in gioco portando complessità, perché abilita un nuovo approccio, un nuovo modo di fare carriera e di stare nel lavoro, un modo fondamentalmente basato su comportamenti, che sono razionali perché non si dà economia senza comportamenti razionali. È razionale oggi trovarsi a dormire in casa di uno sconosciuto, in una città sconosciuta: immaginatelo dieci anni fa. Era normale? No, era imprevedibile, oggi è razionale, perché? Perché si vuole evitare il costo di un cattivo comportamento, di un feedback negativo. Questo genera razionalità ed economia dove non ce n’era. Allora è chiaro che la community agisce introducendo un effetto rating, che è sovraordinato e democratico e mette sullo stesso piano individui e aziende. Mi colpisce pagina 27 del Corriere della Sera di ieri, 19 agosto: scoprire che Starbucks ha dichiarato di finanziare gli studi dei propri partner, la sua community. È chiaro che la durata dei cicli di vita professionali si è molto ridotta, la frequenza è molto aumentata, il valore predittivo del brand di una azienda sul valore di un curriculum è molto diminuito. Un giorno c’erano scuole: se si usciva da “Tre Emme”, si era certi che quella fosse una scuola di amministrazione finanza e controllo. “Unilever”, “Procter” erano scuole di marketing. Oggi la pluralità dei brand, la durata dei cicli, tutta la complessità è tale che il valore sui curricula è molto ridotto. E allora è un bel problema perché il nostro valore non è più affidabile all’azienda. E’ questo il punto che vorrei richiamare: non credo sia arginabile la frammentazione. Andiamo verso un’epoca di maggiore frammentazione, andiamo verso un’epoca di minore dipendenza da aziende, che inevitabilmente sarà anche un’epoca dove avremo meno dipendenti: credo sia una correlazione logica assolutamente evidente. E nello stesso tempo, credo che la community sia il luogo proprio che si presta a conservare la nostra identità, il nostro valore professionale, dove possiamo collocare questo valore e in qualche modo conservarlo e svilupparlo. È evidente che se cambiano gli assetti, cambiano un po’ anche le regole. Fare carriera nell’economia tradizionale era un fatto di prevalenza, era un po’ darwiniano, era occupare una posizione. Con le community tutto diventa più complicato, perché fare carriera oggi vuol dire essere anche contributivi, innovatori, prendersi rischi. Ci sarà pure una correlazione tra una tendenza così conservativa come quella del nostro Paese, in ordine a tutto ciò che può comportare un rischio e una tendenza a quell’attutimento di cui parlavo poc’anzi. La community è un oggetto che non ama le partite pareggiate, ama le vittorie, come tutte le economie vitali, come tutte le economie giovani, ama vincere, ma ti perdona se perdi. Vuole che tu ti sia preso i tuoi rischi, vuole che tu sia abilitato per la prossima manche. Questo sta cambiando e vediamo cambiare. Cambierà parecchio anche sugli sport che saranno intorno a questa nuova economia. Voi comprendete che più le community sono forti, e più è grande la loro velocità, la finezza con cui riescono a cogliere le singole specializzazioni, e più risolvono integralmente e autonomamente il problema della individuazione, che era il problema per cui serviva un tempo il cacciatore di teste. Ti costringe a cercare il tuo senso in qualcosa d’altro, ed è una bella sfida. Il problema non riguarda solo chi lavora e viene cacciato, ma anche i cacciatori.
SANTIAGO MAZZA:
Mi permetto di entrare nel dialogo direttamente su un’esperienza personale. Mio papà era in Argentina responsabile di Olivetti. Olivetti, un’impresa nata in Italia, che ancora oggi viene apprezzata per la sua attenzione alla persona. Ero piccolo in Argentina e dall’Olivetti mi arrivavano i regali che Adriano faceva per i manager all’estero. L’attenzione al particolare, alla bellezza nel fare il proprio lavoro. Capisco tutto il resto avvenuto dopo, ma questa è l’Italia! Non ce ne sono altre. Complimenti. Renzo, volevo capire: come cambiano oggi le identità professionali già affermate e sviluppate nelle relative community?
RENZO NOCETI:
Hai quasi dato tu la risposta, con questo riferimento veramente straordinario all’Olivetti. Se torniamo a quel mondo di un tempo, veramente c’era una scuola manageriale italiana. Stiamo parlando di qualcosa che ancora risuona. C’era un mondo semplice, un mondo in cui i file con nomi, cognomi ed indirizzi si potevano tenere sul taccuino. Il problema sta nella confrontabilità, sta nell’accettare il verdetto delle confrontabilità, è questo che le nostre organizzazioni devono imparare a fare. Quello che abbiamo visto in questi mesi, in questi anni apparirà probabilmente solo un’eclissi, per cinquanta anni l’Italia è rimasta in silenzio, ma oggi credo che abbia la possibilità di dire la sua, accettando il confronto, accettando le regole del gioco.
SANTIAGO MAZZA:
Grazie Renzo. Abbiamo uno squalo tra noi. Reduce da una recente trasmissione di Italia1, un caro amico che è riuscito in pochi anni ad essere il principale attore nello sviluppo di nuove imprese, le start-up. Gianluca Dettori è Chairman dPixel Srl, e a lui chiediamo se la sharing economy può diventare un driver per l’Italia.
GIANLUCA DETTORI:
Buonasera a tutti, io penso di sì. La sharing economy è stata abilita dai social network dal fatto che oggi su internet ci mettiamo la faccia, il nostro nome e cognome, ci mettiamo la nostra identità e ci prendiamo i commenti. Ognuno di noi ha una reputazione, che si traduce numericamente nelle reti sociali e questo è effettivamente alla base del valore che si libera attraverso questi meccanismi. John Nash ha dimostrato che il capitalismo è fondato sulle assumption che non sono completamente vere. L’idea che perseguendo il proprio fine e benessere personale si raggiunga un equilibrio ottimale nell’economia di cui beneficino tutti, è falsa. Questo ormai lo si vede nella disuguaglianza nella ricchezza, ed è dimostrato dalla matematica. È matematicamente dimostrato che la collaborazione è un meccanismo economico meglio funzionante della competizione pura; non è che non ci sia la competizione, che non ci siano i mercati, ma è meglio riuscire ad avere un atteggiamento di medio termine rispetto al fatto che comunque siamo su questo pianeta, che abbiamo delle risorse limitate, dell’acqua da bere e del cibo da mangiare. Questo tipo di visione un po’ più mistica del mondo, un po’ meno egoistica, è alla base di queste idee. Una delle cose di cui vorrei parlare è un esperienza diretta di sharing economy che ho la fortuna di fare con la società in cui abbiamo investito con il nostro primo fondo. Parlo di Sardex i cui ideali che si sposano perfettamente con la filosofia di Cl, con la vostra idea di mondo. Vorrei raccontarvi brevemente cos’è e poi farvi vedere due estratti di video di due dei quattro fondatori che vi raccontano alcune cose e fanno delle riflessioni interessanti. Innanzitutto, questi sono quattro ragazzi sardi che vanno a studiare all’estero; nascono a Serramanna, un Paese di 5000 abitanti a nord di Cagliari, che si trova in una zona agricola. Quando partimmo con la società, era il secondo comune più povero d’Italia e poi è diventato anche primo comune più povero d’Italia. Loro dopo essere stati all’estero ed aver studiato all’Università filosofia, economia, marketing ecc. si ritrovano di nuovo a Serramanna, al tavolo del bar, si guardano negli occhi e fanno questo ragionamento: noi da migliaia di anni siamo la prima generazione che avuto la possibilità di laurearsi; cosa ne facciamo, abbiamo 110 anni di studio messi insieme, cosa ne facciamo? Si guardavano intorno e vedevano la disperazione, vedevano la gente che non riesce a mangiare tre volte al giorno tutti i giorni. La cosa di cui non riuscivano a capacitarci era questa discrepanza tra povertà e disperazione che vedevano e la ricchezza che era ampiamente disponibile – campi, automobili, case, ristoranti – ma inaccessibile. Da lì si sono inventati Sardex, hanno studiato a tavolino per quattro anni, sono partiti dagli Assiro-Babilonesi ed hanno studiato nelle economie di tutto il mondo, hanno cercato di capire come gli uomini di fronte a grandissime crisi finanziarie hanno reagito per risolvere il problema; ed hanno studiato tutte le esperienze che nella storia si sono sviluppate per cercare un sistema resistente a qualunque tipo di crisi, siano esse finanziarie o economiche, un sistema che consentisse alla gente di godere di questa ricchezza che è dentro ognuno di noi, che è intorno, che ognuno di noi ha e che non è equamente distribuita tra le persone.
Questo sistema Sardex quindi che cos’ è? Hanno inventato questa moneta prendendo a modello un’esperienza che è nata in svizzera nel 1930, di dodici imprenditori di Zurigo che, di fronte alla crisi di Wall Street del ventinove, il crollo dei mercati, la ipersvalutazione delle monete, si sono inventati una moneta alternativa, un sistema economico parallelo che consentisse loro di scambiare beni e servizi senza utilizzare i franchi svizzeri. Tutto ciò non consiste in altro che in una camera di compensazione di credito, dove io sono creditore rispetto a tutti i membri della camera di compensazione dei servizi e dei beni che ho apportato alla community attraverso la transazione economica. Il Sardex è una moneta paritetica all’euro, quindi se questo telefono costa trecento euro, nel sistema Sardex costerà trecento Sardex. Di fatto il Sardex non esiste, è semplicemente una moneta di conto, un modo per fare i conti tra di noi e tecnicamente è credito che viene raggato alle Pmi e adesso anche ai dipendenti. Abbiamo avuto esempi di patti di solidarietà volontari tra le persone di una azienda. C’era una azienda del circuito che doveva licenziare una persona su cinque dipendenti, doveva farla fuori perché il business era calato. Sardex è riuscito a portargli il business aggiuntivo per colmare il buco di fatturato mancante. Gli altri quattro dipendenti hanno deciso di accettare di fare dei patti di solidarietà e prendere il venti per cento del loro stipendio in Sardex, per consentire al quinto dipendente di rimanere a lavorare. Una profonda consapevolezza di cosa vuol dire economia della condivisione, porterà molti di noi a riconsiderare le basi su cui la società è costruita, perché in un sistema di questo tipo, facciamo un esempio paradossale, la disoccupazione è inaccettabile. Nel sistema Sardex ci sono solo due possibilità se sei disoccupato: la prima possibilità è che fondamentalmente non hai voglia di lavorare e se non hai voglia di lavorare, non c’è problema. Se invece hai voglia di lavorare, l’unica possibilità per cui tu puoi essere disoccupato in un sistema di questo tipo è che le cose che tu offri sul mercato non interessino a nessuno. Secondo me allora forse devi andare dallo psichiatra o devi trovare un dottore o forse sei un artista talmente incompreso che solo dopo la tua morte, povero in canna in uno scantinato, riusciranno ad apprezzarti. Se c’è la regia ho un paio di filmati con due interviste. Una è a Carlo Mancosu, che è un po’ il filosofo e l’economista del gruppo. L’altra è a Gabriele Littera, che da Floris, in una trasmissione televisiva, racconta in modo molto semplice, però molto molto profondo, Sardex. Vediamo se la regia riesce a mandare il video di youtube.
Video
GIANLUCA DETTORI:
È ovvio no? Dice: se io ho fame e tu sei un ristoratore, non è che io non ho più fame e tu non hai più voglia di darmi da mangiare. Troviamo un altro modo per metterci d’accordo. D’altra parte la fiducia è il meccanismo su cui si fonda la moneta: la moneta è una convenzione. La fiducia esisteva prima della moneta, nella Mesopotamia non è che c’erano le banconote. A un certo punto la gente ha cominciato a dire: mettiamoci d’accordo, facciamo una camera di compensazione, teniamo qualcuno, uno scriba, che tenga traccia di chi ha dato che cosa e di chi ha preso che cosa e costruiamo un’economia. Questa è la prima considerazione interessante. Una seconda considerazione che trovo interessante quando dice: “Ho studiato, sono un esperto di marketing, non c’ neanche un’azienda in Sardegna che potrebbe pagare le mie competenze come le potrebbe pagare l’Unilever di Londra. Ok, però io in Sardegna voglio lavorare, voglio contribuire, io è lì che voglio fare le mie cose. E allora cosa facciamo? Prendiamo 5000 PMI, salumieri, macellai, e a tutti quanti metto a disposizione le mie competenze. Questa cosa qua se vuoi, fa il paio con la riflessione sui millennials. Perché ormai queste generazioni di millennials, con l’accesso all’informazione, sono destinate a diventare degli iperspecialisti di cose iperspecialistiche, perché queste cose si possono commerciare digitalmente con facilità. Ho visto a Giffoni una startup di ragazzi tra i 15 e i 19 anni, il fondatore aveva 16/17 anni, con quaranta colleghi, non ce n’era uno della stessa nazione e tutti e 40 stanno collaborando per fare un videogioco che lanceranno in autunno. Sono tutti i sedicenni, ognuno fa il suo pezzo di software da casa sua, sono in quaranta in giro per il pianeta, coordinati da questi tre italiani.
RENZO NOCETI:
Volevo solo evidenziare un’altra notizia di cronaca presa un po’ con la sensibilità da cacciatore di teste. Data di qualche settimana, nemmeno mesi, la notizia che l’esperto anzi il responsabile chief digital officer di una delle più importanti catene di distribuzione americana anzi, la più importante, Walmart, è venuto a Bologna, poco distante da qui, a lavorare per Yoox. Questo è un segnale esattamente coerente con l’osservazione che hai appena fatto.
GIANLUCA DETTORI:
È un’esperienza che continua, quella di Sardex. In questo momento stanno facendo girare in Sardegna circa 1.200.000 euro di credito alla settimana, un credito che non genera interessi, su cui non devi pagare gli interessi. Questo è un altro aspetto fondamentale e fondante di Sardex: non ci sono i tassi di interesse e questo consente al sistema di stare in piedi. La terza considerazione è che è relativamente facile capire come funziona tecnicamente Sardex. Infatti è una camera di compensazione multilaterale, dove non è convertibile né in ingresso né in uscita. La cosa difficilissima da capire è perché funziona Sardex. E’ difficile da spiegarlo, l’unica maniera è andare in Sardegna, conoscere membri della community e parlargli e chiedergli come mai siete entrati in Sardex: scoprirete che alla base di questo meccanismo di moneta fiduciaria c’è la volontà di fare del bene alla tua comunità. Tutto il fondamento di questa economia è il grafo sociale della fiducia tra i membri. Noi lavoriamo essenzialmente su questo, lavoriamo sul costruire questo grafo sociale di fiducia tra i membri, ed è veramente un driver potente e resiliente. Non c’è crisi finanziaria che possa abbattere un sistema di questo tipo. L’unica cosa che possa abbatterlo è se viene a mancare la fiducia. Se c’è qualcosa che crea un meccanismo di sfiducia nel sistema, muore tutto quanto. Ma fondamentalmente non c’è un modo tecnico per abbattere un sistema di questo tipo, è molto resiliente questa roba qua. Volevo dire un’altra cosa, che mi ha sempre un po’ colpito:loro hanno sempre avuto questo driver etico fin dal primo giorno, tra l’altro quando erano nati volevano fare una non-profit, anzi stavano facendo una non- profit a Serramanna, li ho convinti a fare una startup e li ho convinti su un concetto molto semplice: ragazzi voi volete fare del bene alla vostra comunità, siete qua per questo, ma se volete avere impatto, la maniera migliore per portare al massimo livello l’impatto sulla società è fare una startup e portare quello che state facendo in questo Paese prima in tutta la Sardegna poi in tutta Italia e dopo su tutto il pianeta. Da lì si sono convinti a fare una startup, con l’idea di dotarsi di una struttura societaria, di un’organizzazione, di un investitore e di un percorso di crescita rapida, per impattare sul mondo in maniera maggiore. Questa è una bella storia italiana di sharing economy.
SANTIAGO MAZZA:
Abbiamo parlato, grazie ai nostri ospiti, di comunità, di fiducia tra di noi, fiducia nella comunità, abbiamo parlato del cambiamento di un’opportunità anche nel modo di lavorare, riconoscendo apertamente la fatica di questo cambiamento che tutti viviamo. Esiste però una condizione che non dobbiamo dimenticare: questo cambiamento lo possiamo fare tutti insieme, solo sapendo chi siamo. Non possiamo mai dimenticare chi siamo come persone, chi siamo come comunità, da dove veniamo. Soltanto questo ci aiuta ad accogliere il diverso, ad accogliere la realtà, abbracciarla e rispondere fattivamente. E’ questa la vera opportunità che abbiamo davanti: ritrovare noi stessi con un desiderio enorme, un desiderio che parte dal cuore. Grazie.