SPIRTO GENTIL – IMPROVVISI

Spirto gentil - improvvisi

Gli Improvvisi di F. P. Schubert. – Live con pianoforte. – A cura di Nazzareno Carusi.

 

PIERPAOLO BELLINI:
Buonasera. Benvenuti a questo secondo appuntamento del ciclo Spirto Gentil. Come abbiamo introdotto l’altra volta, l’idea di quest’anno è proporre un percorso musicale, un percorso anche umano, che aiuti in qualche modo a comprendere meglio, a dare degli spunti ulteriori, degli approfondimenti estetici, artistici, umani a quello che è il contenuto di questo Meeting, cioè il titolo di questo Meeting. Siamo partiti con un approfondimento della prima parte del titolo Alle periferie del mondo, e abbiamo notato, ascoltando quell’opera straordinaria che è la produzione popolare basca, come in qualunque zona della terra, in qualunque tradizione, in qualunque storia, diversissima, con caratteristiche culturali anche lontane dalle nostre, che è possibile individuare sempre un cuore condivisibile da chiunque, che non è frutto di cultura ma è la struttura stessa della nostra esistenza. Le periferie del mondo sono periferie collegate da questa condivisa esperienza elementare che è la ricerca di verità, la ricerca di felicità, la ricerca del senso delle cose.
Oggi vorremmo cambiare direzione e approfondire la seconda parte di questo titolo, esistenza. Vorremmo andare a vedere come quel cuore che è comune a ciascuno di noi, anche se si esprime in mille modi diversi, quel cuore è una periferia infinita, in una infinità di possibilità di desiderio di grandezza, come di possibilità di perdita totale della propria esistenza. Ci sono artisti che sono stati capaci di dire questa profondità infinita, come Leopardi che vede l’universo, le stelle, e dice: Che cos’è tutto questo rispetto alla grandezza del mio cuore che può guardare e chiedersi il senso di tutto questo? Ecco, oggi ascolteremo degli approfondimenti geniali di un artista di un secolo e mezzo fa, ormai, che è riuscito ad andare al fondo di questi abissi. Come al solito vorrei proporre, prima di cominciare, un suggerimento che il maestro Nazzareno Carusi, che poi vi presento brevemente, anzi, l’amico Nazzareno….

NAZZARENO CARUSI:
…meglio

PIERPAOLO BELLINI:
…userà secondo la sua sensibilità e la sua intuizione.
Partiamo da questo primo suggerimento che don Giussani ha voluto regalarci nel proporre questo repertorio: “Queste brevi composizioni hanno come sentimento dominante la tristezza, la nostalgia”. Si intitolano Improvvisi, perché veramente vengono fuori improvvisamente senza mediazioni dal cuore e dall’esperienza dell’artista e hanno forme diverse, prendono forma quasi da soli. Giussani dice: il sentimento dominante è quello di una tristezza, di una nostalgia ma quasi contraddittoria, che vale la pena di cercare di capire, perché tra le righe di questa nostalgia, “eppure c’è sempre un’irriducibile positività più intuita ed esigita dalla ragione e dal cuore che è termine di un pacificato possesso”. E’ difficile – e dopo il Nazzareno ci aiuterà in questo – capire come mai, ma al fondo di questa nostalgia, di questo universale senso di impotenza, emerge tra i suoni una positività che non è frutto di un discorso o di una costruzione ideologica ben chiara, ma è quasi come una cosa che si impone contrastando quella tendenza al negativo. Schubert la lascia parlare. “Per questo” ultimo spunto “Schubert non può evitare di accogliere l’apertura all’eterno che il cuore gli suggerisce. Egli si affaccia al Mistero come in punta di piedi, quasi non sentendosene degno”. C’è da dire che don Giussani era poeta anche quando parlava: “In punta di piedi Schubert sembra avvicinarsi al Mistero”.
Questa è una intuizione: ho chiesto esplicitamente qualche mese fa a Nazzareno, conoscendolo, di farci i conti. Nazzareno è un grandissimo pianista, ha suonato in tutto il mondo, gli ho chiesto dove ha suonato e lui mi ha detto: è inutile dirlo. Perché ha suonato in tutto il mondo. E’ conosciuto come pianista, ha fatto attività divulgativa anche nei mezzi di comunicazione di massa, in televisione. Tra i suoi grandi estimatori, penso che vada fatto almeno un nome che è Riccardo Muti, ma è qui non solo per questo, è qui perché in questi anni ha dimostrato una apertura e una intelligenza, perché intelligenza è apertura, altrimenti non è intelligenza, nei confronti della nostra storia, del patrimonio musicale che abbiamo cercato di valorizzare in quindici anni di attività di Spirito Gentil e l’ha sempre guardato con una simpatia che è quasi infantile. E questa è una cosa molto molto bella. Per questo è un personaggio, lo conoscerete, molto estroverso e molto capace di parlare e di approfondire cose profonde. Lo ringrazio per la presenza, io ho finito. Se vuoi dici qualcosa, altrimenti ci spostiamo direttamente di là.

NAZZARENO CARUSI:
Buonasera, intanto. Dico qualcosa. Ciò che mi colpisce ogni volta che vengo qua e ogni volta che ho a che fare con le cose del Meeting o di Comunione e Liberazione – e francamente non l’avrei mai detto la prima volta che sono venuto, nel 2007, quindi ormai sono sette anni – è invece, al contrario di quello che si pensa, la vostra apertura.
E’ facile essere aperti con chi è aperto. Don Giussani ad un certo punto ascolta Schubert, ascolta le interpretazioni che poi fa proporre in questa collana bellissima che è Spirito Gentil. Non è piaggerìa, anche perché non sono sicuramente certo io né il primo né il più importante a dirlo, ma è forse la collana discografica di maggior impatto da un punto di vista sia culturale che soprattutto emotivo, perché la musica alla fine è espressione di sé, è espressione di ciò che si prova. Non è possibile capire la musica se di fronte alla musica non si sta a cuore aperto. Quei musicologi col sopracciglio un po’ alzato, quei critici che stanno lì a guardare se in una battuta ci stanno sette note o nove, se una frase dura da A a B oppure da A a C, ecco, quelli sono come quei signori che, credendo di trovarvi l’anima, vivisezionano un corpo umano, lo uccidono e non trovano più nulla. Don Giussani invece dice a proposito di questi Improvvisi: “Tutti noi siamo come avvolti da qualcosa che ci penetra, se non ci penetrasse, ci imprigionerebbe, così come quando uno ti abbraccia, non ti soffoca ma ti avvolge se l’abbraccio ti penetra. Noi stiamo davanti al Mistero dell’essere così, dovremmo essere davanti al Mistero dell’essere così, la mattina, in qualsiasi momento della giornata”.
Quando Schubert, all’inizio delle sue composizioni o nel mezzo delle sue composizioni, si sofferma su alcune note che restano lì come sospese, sembra quasi che si sporga su questo abisso che è l’animo umano e che è il mistero della morte. Era questo forse il grande mistero che appunto Schubert non riusciva a concepire, non tanto la morte in sé quanto la resurrezione. Badate, Schubert è stato un grandissimo autore di cose sacre, la sua morte, lo saprete, è avvenuta a 31 anni, pensate, a 31 anni. Il catalogo più noto delle sue opere che è il catalogo Deutsch, arriva alla numero 960. La grandezza di Schubert, come dice Paolo Isotta, che il più autorevole e il maggiore storico della musica e critico musicale vivente, sta nel fatto che fin da quando era bambino, era già Schubert. Quando noi, senza nulla togliere al genio di Mozart, guardiamo e ascoltiamo le partiture di Mozart bambino, ci rendiamo conto che era un genio bambino. In Schubert, la parola bambino, l’elemento bambino non c’è. Francesco Siciliani – ho la fortuna di avere qui il libro di memorie di Isotta che uscirà in ottobre – è stato probabilmente il più grande Direttore Artistico della vita teatrale operistica concertistica italiana, uno che capiva perfettamente non soltanto dove avrebbero portato gli ascolti delle più conosciute ma anche delle sconosciute opere sinfoniche e cameristiche, dove avrebbero portato l’ascoltatore e dove avrebbero portato gli stessi interpreti, perché l’esecuzione che l’interprete fa non solo consente al pubblico di capire la grandezza delle pagine interpretate ma nel contempo aiuta l’esecutore, l’interprete, a crescere lui stesso. Siciliani dice a Paolo Isotta, testualmente: “Vedi, il Lazzaro arriva fino a un momento prima della resurrezione e si diffonde lungamente sul compianto funebre. Schubert non riusciva a concepire la resurrezione e si fermò lì”.
Ora, tantissimi musicologi, con la vista sicuramente molto meno acuta di quella di don Giussani, si fermavano qui anche loro e credevano di poter interpretare, analizzare l’opera di Schubert, fondandosi sul fatto che fosse praticamente ateo e senza invece cogliere quello che secondo me è l’elemento fondamentale della sua musica. Lo Spirito, se parla, non si interessa al fatto che il mezzo con il quale parla creda o meno allo Spirito stesso. Lo Spirito parla e parla attraverso Schubert e Schubert con queste note – lo sentirete nel primo Improvviso dell’Opera 90 che adesso casomai andiamo a suonare, Schubert si ferma su questo Sol fortissimo, brutale quasi, drammatico, una lama che ti fende il cuore, si ferma, c’è un punto coronato, un simbolo che dice che la musica deve fermarsi là e durare tanto. E poi inizia questa sorta di cantilena che viene continuamente riproposta, continuamente variata. Alcuni hanno parlato di melodia infinita. Non è una melodia infinita, è l’infinita capacità di un uomo che fermo in bilico sull’orlo dell’abisso, che non necessariamente deve essere in verticale ma può essere anche in orizzontale, può essere anche proiettato verso il futuro. Scandaglia tutte le possibilità che l’animo umano ha di fronte a quel suggerimento che gli viene da quella sorta di luce che lo crocifigge, che lo fissa lì. Ascoltatelo, il primo Improvviso dell’Opera 90 in Do minore.

NAZZARENO CARUSI:
Scusatemi se vi interrompo, volevo farvi notare come Schubert si ferma, come in corsa, si blocca e da solo comincia a guardare, con una melodia che sembra un laser. Ma non è solo, tutti guardano e Schubert lo sa e allora continua in una tonalità che sembra maggiore e quindi più chiara. Però torna indietro, quasi avesse paura, e gli altri dicono: non temere. Sentite, è una tonalità maggiore. Ma il problema è grave e quindi Schubert si fa aiutare e non è più solo. Queste variazioni non sono soltanto le variazioni dell’animo umano ma sono le variazioni di una persona che sa di non essere più sola: ed infatti sorge il sole. Qui sono ancora di più, e infatti scrive fortissimo. E qui, ancora, è come se si chiedesse: “Ma davvero è così? Sì, è così!”. Eppure sembra un dramma ma non lo è. E infatti, incredibilmente, sentite che serenata, che chiarore, perché Schubert non capiva la resurrezione ma la pensava. Questo è l’abbraccio del quale parla don Giussani, sentite. Il problema è ancora più grande di lui ma l’abbraccio ormai è avvenuto, c’è la mano destra che lo avvolge. Qui sembra quasi come se battagliasse con il destino, ma le forze del male non prevalgono, sentite cosa diventa questo abbraccio.
Scusatemi se mi fermo un attimo, sentite questa mano destra: sono come carezze, come se fosse scesa la mano destra dal cielo a dire: non avere paura, continua a stare qua, non avere paura, non cadi. Perché l’abisso fa ancora paura, ma se l’abbraccio è vero, come dice Giussani, resta. E infatti, sentite cosa succede adesso, do maggiore: la tonalità della luce. E finalmente, il buio si è squarciato con l’elemento dell’abbraccio. Fine di questo tremolio, sentite la nota iniziale? Il fatto di essersi fermato sull’abisso da solo adesso è dentro questo canto perché su quell’abisso non è da solo e lui lo sa. Sentite, do maggiore, qui cresce come a voler dire: dai, no, mi ci lascio andare, mi ci butto dentro ma non per suicidarmi, perché sicuramente non cado, qualcuno mi appoggerà. Ecco, questo è Schubert.

NAZZARENO CARUSI:
Grazie, Grazie mille. C’è un altro elemento che dovrebbe essere considerato ogni qualvolta ci si avvicina a questa musica ed è l’elemento della tonalità stessa. La tonalità è quella cosa nella quale l’opera musicale viene imbastita. La tonalità ha un colore, esattamente come la voce ha un colore. Noi riconosciamo le persone a noi care – gli amici, le nostri mogli, le fidanzate, i nostri figli – dalla voce, non abbiamo bisogno di andare a verificare che quella voce venga da lì. Bene, l’uso delle tonalità in Schubert è un qualcosa di straordinario per dare il colore alla voce di questa sua riflessione sul mondo. Io avevo pensato, se voi siete d’accordo, di farne un altro, di Improvviso, perché mi rendo conto che il tempo è poco. Allora, il terzo Improvviso di questa Opera 90, apro e chiudo parentesi: un altro elemento per comprendere la grandezza di Schubert è il suo rapporto con Beethoven. Immaginate Beethoven che è stato il più grande che ha operato, il più grande “big bang” della storia della musica e quindi della storia del pensiero umano.
Anche qui, apro un‘ulteriore parentesi: Beethoven non era non udente, smettiamola con queste fesserie. Beethoven era sordo, era uno che ad un certo punto non ci sentiva più dall’esterno, ma non era non udente perché continuava a sentirci perfettamente con il suo orecchio interno e ci sentiva tanto perfettamente che un otologo straordinario di Bologna, il professor Bilancioni, sto parlando del secolo scorso, azzardò l’ipotesi ripresa dal grandissimo Piero Buscaroli, ipotesi assolutamente veridica, per cui, nel momento in cui Beethoven si chiude a tutto ciò che musicalmente avviene all’esterno, si concentra su se stesso e provoca questa esplosione micidiale. Ecco, come sia stato possibile ad un uomo arrivare dal classicismo viennese più classico a questa esplosione spaventosa che si comincia ad avvertire già nell’età di mezzo ma che poi ovviamente arriva alla Nona Sinfonia ma ancora di più alla Missa Solemnis, non sappiamo. Pensate che il maestro Muti, il problema del maestro, ve ne dico un’altra. Il 7 di marzo di quest’anno il mitico Paolino Isotta scrive una lettera al Foglio di Giuliano Ferrara che naturalmente, vedendosi recapitare una lettera da Isotta, la pubblica praticamente in prima pagina. Scrive: Caro Giuliano, i’ piezzo dello core mio Pietrangelo Buttafuoco mi ha dato del maestro, riportando un mio intervento e voglio farti “cerziore” (la lingua di Isotta è straordinaria) di questa cosa. Devi sapere che siccome si fanno dare del maestro tizio, caio e sempronio – elenca un bel po’ di gente, a cominciare dall’ex Sovrintendente della Scala, che non merita questo titolo – allora i sottoelencati musicisti in ordine decrescente di età: Riccardo Muti, Paolo Isotta, Alesso Vlad, Nazareno Carusi, inibiscono chiunque dal dargli del maestro e si costituiscono in “cooperativa mona”, che non sto qui a spiegare, evidentemente, cosa voglia dire. Perché “cooperativa mona”? Perché a metà del secolo scorso, il grandissimo Antonio Guarnieri, direttore d’orchestra veramente tra i più grandi che la storia musicale abbia avuto e che era il direttore al teatro “La Fenice”, siccome già all’epoca il termine maestro era abusato, maestro di qua e maestro di là, ad un certo punto al cameriere della Taverna “La Fenice” dice: “Toso, ciamemen mona!”. Quindi, io sono Nazareno, lui scriveva sulla lettera: “Io sono Paolino per tutti quanti”.
Torniamo a noi, Riccardo Muti. La Missa Solemnis di Beethoven, tanti appunto di quei musicologi con il sopracciglio alto vanno a vedere se sia più o meno collimante con quello che è proprio il messale romano in uso, con quella che è la cerimonia della Chiesa, della messa, si chiedono se sia più o meno considerabile come opera sacra o l’opera di un laico. Tutte balle. E’ un’opera talmente grande, talmente sconvolgente l’animo umano, torno a dire scritta da un sordo, che Riccardo Muti, mi viene da chiamarlo maestro naturalmente, non l’ha ancora diretta perché non si sente pronto. Pensate voi che ci sono molto spesso dei ragazzini che arrivano alle prime armi e dicono: “Affrontiamo un’opera del genere”. Ma per dire qual è il rapporto con il sacro di questi grandi geni, ecco, Schubert non è da meno di Beethoven, anche se subiva poveretto la presenza di questo gigante abnorme che tra l’altro abitava a poche decine di metri da casa sua. Non si sa bene se si siano in effetti conosciuti o no, ad onor del vero, nel Beethoven di Piero Buscaroli che è una Bibbia dedicata allo studio di Beethoven, Buscaroli riporta la lettera di un amico di Beethoven che diceva di esser andato a trovare il maestro poco prima di morire in compagnia di Schubert e che Beethoven avesse risposto, alla domanda chi facciamo entrare per primo: “Fate entrare il signor Schubert”.
Quindi, si sono certamente incrociati ma Schubert è come se dalla morte di Beethoven si fosse liberato di questa presenza incombente, che lui non subiva in quanto castrante nei suoi confronti ma venerava. Ecco perché non si azzardava a dire niente. Nel momento in cui Beethoven muore, Schubert è come se raccogliesse la sua eredità e produce questi Improvvisi, gli Improvvisi dell’Opera 142, le ultime sonate che sono dei capolavori giganteschi. Non è vero che Schubert è il genio delle piccole forme, come spesso si è detto, no, Schubert addirittura è colui che la forma la espande in modo tale che ad un certo punto si ritrova incartato su se stesso. La famosa Incompiuta, che è l’ottava sinfonia, non è incompiuta perché lui ad un certo punto è morto, non l’ha finita. No, è incompiuta perché Schubert era consapevole di non poterla compiere secondo i canoni della costruzione sinfonica. Aveva dilatato, aveva ingrandito, ingigantito talmente tanto tutta l’architettura da essere arrivato ad un punto di non ritorno, e quindi si fermò lì. Infatti, l’ultima sinfonia di Schubert è la numero nove detta “la Grande”, appunto. Quindi ci sono anche molte storie su di lui che non colgono la sua grandezza, ma tornando agli Improvvisi e a quello che dice appunto don Giussani in questa prefazione del disco, che io confesso non conoscevo, l’ho letta apposta per preparare il discorso, ho trovato una cosa vera che è questa dell’abbraccio.
Ora, immaginatevi voi che questo Improvviso è nella tonalità di sol bemolle maggiore, immagino che molti di voi conoscano la musica: una tonalità ritenuta difficile, una tonalità con tanti bemolle in chiave, anche con doppi bemolle. Certe volte, devi stare attento alle note che prendi perché se no la stecca si sente immediatamente. E dunque, se n’è fatta una trascrizione in sol maggiore, mezzo tono sopra, per renderla più semplice, pensando che in questa maniera non cambiasse nulla. Invece cambia tutto, perché la tonalità appunto ha un suo colore. Un conto è se io suono un accordo di sol bemolle maggiore, tutt’altra cosa se è di sol maggiore…. Sono due accordi maggiori ma uno ha dei contorni più morbidi. Non è scientificamente provabile e non è neanche certo che sia così ma immaginatevi il simbolo del diesis, per chi non è musicista sarebbe l’hashtag di Twitter, il cancelletto e il simbolo del diesis che è spigoloso. Sembra incredibile – ripeto, sto facendo una mia personale interpretazione – però in effetti è spigoloso e nel sol maggiore c’è il diesis e il bemolle è un abbraccio, tondo e rotondo. Io non so per quale ragione ma fatto sta che suona diverso. C’è un altro Improvviso, che è il primo dell’opera 142. Ad un certo punto, nel primo trio che è di una bellezza straordinaria, si va nella tonalità tremenda, per chi deve suonare, di bemolle minore. E uno dice: ma cavolo, è la relativa minore di do bemolle maggiore! E già lì il cervello si impianta: ma perché non l’ha scritta in sol diesis minore, che armonicamente è la stessa cosa?
Per questo fatto, perché suona completamente diversa. Nella musica di Schubert, è incredibile come predominanti siano le cosiddette “bemollizzazioni” perché ha quasi sempre questa suono e questa necessità di abbraccio nei confronti degli amici che aveva vicini, perché spesso viveva in amicizia. La sua morte avvenne quasi certamente per una debilitazione del corpo dovuta alla sifilide. Io una volta, per essermi permesso di dire che la sifilide non si becca stando a casa da soli in studio, senza avere rapporti con nessuno, dico rapporti personali con nessuno, mi beccai una critica, l’unica critica che ebbi quando andai in televisione per parlare di musica classica in contesti che non erano propriamente da musica classica. Venni accusato di propagandare gli stessi valori del proprietario delle televisioni che mi mandavano in onda: andavo in onda su Mediaset. Purtroppo, molto spesso le vie del Signore sono infinite. Insomma, perché Schubert è morto? Perché appunto viveva continuamente in compagnia. Questo sguardo che lui lancia sempre in ogni sua composizione, su questo abisso che secondo me, se è possibile considerarlo tale, è un abisso non verticale ma orizzontale, è sempre uno sguardo verso l’orizzonte per vedere se caso mai lì in fondo arriva la risposta a queste sue domande. Ripeto, era un compositore profondamente sacro, nonostante che il suo cervello umano, seppure così gigantesco, non arrivasse a capire la resurrezione. Ma nessuno la capisce, è un problema di fede, è un dono, è qualcosa che noi abbiamo perché ci è stato regalato. E probabilmente Schubert pregava per avere questo regalo, chi lo sa? Fatto sta che ogni sua nota, nonostante la sua distanza dalla cerimonia in sé del sacro, ogni sua nota è sacra nel vero senso della parola e soltanto chi è miope e crede che solo chi crede possa occuparsi di cose sacre, può non considerare che lo Spirito parla anche attraverso chi in lui non crede. Beethoven, che non era certamente un baciapile e non era neanche un credente nel senso che noi diciamo, ad un certo punto dice a Schuppanzigh, che era suo carissimo amico ed era il primo violino del Quartetto di Vienna, che doveva suonare i suoi ultimi Quartetti, che sono una cosa difficilissima.
Meno male che abbiamo i quaderni di conversazione e quindi abbiamo praticamente le registrazioni di quello che Beethoven diceva: non li abbiamo tutti perché molti purtroppo sono andati persi ma ne abbiamo molti. Beh, in un quaderno di conversazione, c’è scritta la domanda di Schuppanzigh: “Maestro, si accorge che questo passaggio per il violino è impossibile?”. Poi naturalmente la tecnica violinistica si è evoluta ed è diventato possibile, la tecnica segue sempre l’uomo, soltanto gli scientisti pensano che l’uomo segua la tecnica. La tecnica è non al servizio dell’uomo, è al rimorchio dell’uomo. Beethoven pensa una cosa e l’arte violinistica si evolve. Schuppanzigh dice: ma questo qui… E Beethoven risponde dandogli del lei, anche se erano amici intimi e si davano del tu: “Cosa crede ella? Che quando lo Spirito mi afferra – usa proprio questo termine, mi afferra – io pensi al suo miserabile violino?”. Quindi, il sol bemolle maggiore e, pregando Dio di non sbagliare i doppi bemolle, il terzo Improvviso dell’Opera 90 di Schubert.

NAZZARENO CARUSI:
Grazie, grazie mille. Il primo Improvviso dell’Opera 142, come catalogo siamo al numero 935. Siamo sempre a poco prima della morte di Schubert, anche lì la storia ci ha ricamato un po’ troppo sopra, perché io non credo assolutamente che fosse vero che Schubert sapesse di morire. Nessuno sa di morire. Quindi, sicuramente stava male, sicuramente aveva dei problemi, ma insomma… Anzi, era un periodo di grandissimo lavoro, di grandissima fecondità e, tra le altre cose, di un lavoro di totale apertura verso la vita.
Perché dico questo? Perché, per esempio, questo primo Improvviso non termina come gli altri due con degli accordi lunghi, fino a scemare il suono, ma termina con una pausa, dopo l’ultimo accordo. Bene, se voi ci fate caso, la pausa è un respiro, e il respiro è appunto l’alito della vita. Una pausa messa in fine di una composizione musicale è una porta lasciata aperta, spalancata su tutto quello che la composizione musicale può suggerire. Non è la chiusura di un ciclo ma anzi è la chiave di apertura di una porta per andare a vedere cosa ci sia di là. E Schubert lo dimostra perché qui parte facendo una scala discendente, sostanzialmente, di fa minore alla mano destra, e ascendente alla mano sinistra, sembra voglia andare chissà dove e invece si ritrova sempre con queste note fisse. Sempre su questo bordo dell’abisso nel quale lui vuole guardare, vuole vedere all’orizzonte. E alla fine, come a evocare – è una mia interpretazione, naturalmente, non è scritto da nessuna parte, eppure mi piace vederla così -l’alito che, appunto, il Padre Eterno in tutti noi insuffla, lascia una pausa. Questa composizione, come tantissime di Schubert, si chiude con un respiro, che è il respiro, secondo me, della vita, non della morte, perché ha morte non ha respiro. Quindi è la prova, a mio modestissimo parere – non pretendo di avere la verità rivelata -, che Schubert non pensava affatto alla morte. Se avesse pensato alla morte, sarebbe stato soltanto un pessimista. Come diceva Francesco Siciliani, e Isotta lo testimonia, Schubert era un pessimista eroico, perché non aveva la fede ma combatteva il pessimismo. Qualcosa di “di più”, leggero. Adesso sembra un carillon. Sentite a cosa arriva. È come se parlasse veramente con Dio. Grazie. Grazie. Grazie a tutti.

PIERPAOLO BELLINI:
Non servono parole e non serve proprio a riempire quello che è già pieno, come sentimento e come condivisione di una profondità umana. Per questo, ringrazio Nazzareno che sicuramente ci ha condotto a godere di questa profondità di Schubert e invito tutti venerdì all’ultimo appuntamento. Avremo un altro grande autore che si chiama Wolfgang Amadeus Mozart, La messa dell’incoronazione. Grazie a tutti e arrivederci.

NAZZARENO CARUSI:
Arrivederci.

Data

27 Agosto 2014

Ora

19:00

Edizione

2014

Luogo

Sala Neri CONAI
Categoria
Spettacoli