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SOSTEGNO A DISTANZA: IO PROTAGONISTA NEL MIO PAESE
Rose Busingye, Infermiera e responsabile Meeting Point di Kampala; Massimo Favilli, Direttore Soci e Comunicazione Unicoop Tirreno; Lamas Wabwire Maiyah, Studente alla Cardinal Otunga, Nairobi (Kenya); Damiano Tommasi, Presidente Associazione Italiana Calciatori; Giorgio Vittadini, Presidente Fondazione per la Sussidiarietà. Introduce Giampaolo Silvestri, Segretario generale AVSI.
Sostegno a distanza: io protagonista nel mio paese
Rose Busingye, Infermiera e responsabile Meeting Point di Kampala; Massimo Favilli, Direttore Soci e Comunicazione Unicoop Tirreno; Lamas Wabwire Maiyah, Studente alla Cardinal Otunga, Nairobi (Kenya); Damiano Tommasi, Presidente Associazione Italiana Calciatori; Giorgio Vittadini, Presidente Fondazione per la Sussidiarietà. Introduce Giampaolo Silvestri, Segretario generale AVSI.
GIAMPAOLO SILVESTRI:
Buon pomeriggio a tutti. “Sostegno a distanza: io protagonista nel mio paese”. Oggi siamo qui per raccontare attraverso la voce di alcuni dei protagonisti come una modalità semplice di aiuto può cambiare la vita delle persone e generare un impatto positivo non solo nei Paesi dove questo avviene, ma in tutti coloro che sono coinvolti. È una modalità semplice, alla portata di tutti, che oggi vogliamo provare a raccontare attraverso la voce di tutti i protagonisti che vi presento: Rose Busingye, che molti di voi conoscono, è la direttrice del Meeting Point International, una organizzazione no-profit ugandese nata nel 1993, che opera negli slam di Kampala, in Uganda e che – con il supporto anche dell’Avsi – sostiene quasi 1300 bambini e ragazzi con il sostegno a distanza. Poi abbiamo Lamas Maiyah, che viene dal Kenya, è un ragazzo di 17 anni, che frequenta la “Cardinal Otunga”, scuola secondaria di Nairobi e che ci racconterà la sua esperienza di ragazzo sostenuto a distanza. Poi Damiano Tommasi, presidente dell’Associazione italiana calciatori, che insieme a noi dell’Avsi ha realizzato e sta realizzando un progetto in Uganda di cui ci racconterà e proverà farci a capire come anche lo sport può contribuire alla crescita delle persone e dei ragazzi. Poi Massimo Favilli, direttore Soci e comunicazione di Unicoop Tirreno, quindi una grande realtà imprenditoriale che già dal 2001, quindi più di 18 anni, sostiene qualche centinaio di ragazzi nei diversi Paesi del mondo. E infine Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione per la Sussidiarietà, che ci aiuterà a capire il vero significato del sostegno a distanza e che ha voluto fortemente questo incontro di racconto, soprattutto in questo momento storico. Inizierei con un piccolo video di un minuto e mezzo che racconta – per chi ancora non lo sa – cos’è il sostegno a distanza.
Video
GIAMPAOLO SILVESTRI:
Io partirei direttamente con Lamas e ti chiederei di raccontarci la tua esperienza, cosa ha significato per te il sostegno a distanza in questi anni, nel tuo percorso sia scolastico che educativo. Prego.
LAMAS WABWIRE MAIYAH:
Signore e signori buonasera, sono molto contento di essere qui in Italia e di vivere questa esperienza di amicizia. Oggi vorrei parlarvi della mia esperienza con Avsi e in particolare della mia formazione. Mi chiamo Lamas Maiyah, vengo da Nairobi, precisamente dallo slam di Kibera. Non è stata facile la vita per me, come non è facile per tutti i bambini di Kibera, a causa dell’ambiente negativo di Kibera dove ci sono condizioni igienico-sanitarie molto precarie, per l’acqua e l’alimentazione. Non è stata dunque facile e lo dico veramente, a cuore aperto. Sono nato a Kibera e ho cominciato a frequentare una scuola pubblica che è dentro lo slam. Il mio periodo a scuola non è stato facile, perché ci sono punizioni che vengono date ai bambini e ci sono insegnanti molto duri. È un contesto educativo di scarsa qualità e questo ha avuto un impatto negativo sul mio rendimento scolastico: non rispondevo mai alle domande durante le lezioni, non facevo mai domande, non mi interessavo mai a quello che non sapevo, per questo motivo il mio rendimento era molto scarso ed è andato avanti così fino alla quinta. In quinta si deve fare un esame per passare gli ultimi tre anni. Ero molto preoccupato, perché in Kenya per essere un buon studente bisogna raggiungere un punteggio di 250 su 500 e io arrivavo a massimo di 150 e dunque i miei genitori erano molto preoccupati. Abbiamo quindi cominciato a pensare a come potevo organizzare la mia formazione, perché stavo perdendo le speranze nei confronti nell’istruzione. Volevo diventare un ragazzo di strada dello slam e mollare la scuola. Dato però lo spirito integerrimo di mia mamma, ho continuato a studiare, lei ha trovato una scuola a Kibera che si chiama “Paradise” ed è un contesto buono, la gente a Kibera la chiama “Little Prince Paradise”, quindi tutti i bambini a Kibera vogliono andare in quella scuola. Per questo motivo mia mamma ha pensato a come darmi una possibilità affinché io entrassi in quella scuola. Si è rivolta dunque al preside e grazie a Dio c’è stato un miracolo, perché sono riuscito ad ottenere un colloquio, che però è andato male, perché non avevo avuto tempo di studiare. Il colloquio non è andato bene, ma il preside mi ha dato comunque la possibilità di frequentare la “Little Prince” e mi ha detto: «O cominci dalla prima media oppure torni nella tua vecchia scuola». Dato che io volevo stare in quella scuola, ho deciso di riprendere dalla quinta e lì la quinta era veramente interessante, lo studio funzionava. La vita e l’istruzione sono diventate interessanti di nuovo. La vita non era così difficile, c’era da mangiare nella scuola e c’erano insegnanti preparati, oltre a buoni amici. E, signore e signori, ho incontrato lì l’Avsi, che mi ha dato sostegno all’interno della scuola. Vi dirò brevemente che quando sono andato al “Little Prince” è stato durante il mio anno di recupero. Quando penso a quell’anno, penso proprio che è l’anno in cui è cominciata seriamente la mia formazione. Ho studiato per due mesi alla “Little Prince” e al primo esame ero tra gli studenti più bravi della classe. Quindi c’era una differenza e questo ha riportato speranza nella mia vita e nella mia famiglia e ha significato che sì, potevo farcela. Mi ricordo il mio primo giorno alla “Little Prince”: il preside mi ha detto «Lamas, la tua mamma dipende da te e vuole che tu esca dallo slam. Lamas, sì, ce la puoi fare»”. Questo mi ha dato la motivazione tutti i giorni, fino al giorno della prova di ammissione. E questo mi ha dato molta forza. C’erano insegnanti bravi, umili, un ambiente di istruzione veramente buono e per questo ho cominciato ad avere un rendimento scolastico migliore. Sono diventato uno dei più bravi della mia classe e questo dimostra che potevo avere un futuro grandioso per la mia formazione. Signore e signori, la vita ha continuato alla “Little Prince” e mi sono veramente trovato benissimo lì. Ho potuto continuare grazie alla generosità di Avsi e mio fratello, che era in un’altra scuola, mi diceva appunto che c’era questa “Little Prince” e che quest’altra scuola la “Cardinal Otunga” era una doppia “Paradise”. Quindi volevo andare anche io in quella scuola, ancora migliore, alla “Cardinal Otunga”. Dopo la “Little Prince” ho cominciato a pensare che volevo andare anche io alla “Cardinal Otunga”, ho parlato con uno dei miei formatori, un formatore che mi voleva veramente bene, il quale mi ha incoraggiato molto proprio per poter uscire dalla situazione di Kibera. Mi ha detto «per favore, Lamas, non finire anche tu come i ragazzi di strada». E devo veramente dire che è grazie a lei che sono arrivato dove sono oggi. Non ho mai assunto droghe nello slam, perché questa persona me lo ricordava sempre, tutte le volte e quindi signore e signori, quando ho detto a questa persona che volevo andare alla “Cardinal Otunga” dopo la “Little Prince School”, si è messa a ridere dicendo «meglio tardi che mai». Quindi la vita è andata avanti e mi ricordo che alla “Little Prince School” c’era il trentesimo anniversario della scuola dell’Avsi in Kenya e mi sono avvicinato alla signora Veronica, che era la preside della “Cardinal Otunga” e le ho detto «vorrei seguire questa scuola dopo la scuola che sto seguendo adesso». Lei mi ha detto: «Lamas, devi avere almeno 380 come voto per entrare». Ma quel voto era troppo alto e ho cominciato a trattare, a dire che era un voto troppo alto, che bisognava abbassarlo. Lei diceva 350, e poi alla fine, davanti alle mei resistenze, è scesa a 300, da 300 in su, per poter essere ammesso. In quel caso ero sicuro che sarei entrato, perché sapevo che avrei raggiunto quel punteggio. Quindi, signore e signori, ho fatto il mio esame di ammissione e ho ottenuto 305 come punteggio, ho chiamato la signora Veronica e gliel’ho detto. Grazie, grazie davvero. Quindi, essendo entrato poi con quel voto, ho chiamato la signora Veronica e le ho detto:«Ho preso 305 allora posso venire alla “Cardinal Otunga”?». Mi ha detto: «Sì, la scuola è qua, però c’è un problema e il problema è l’alloggio». E allora sapete cosa è successo? Non si poteva andare alla scuola “Cardinal Otunga”. Però quello era il mio sogno. Ho dovuto affrontare la realtà e ho dovuto accettare la realtà che “Cardinal Otunga” non poteva essere parte dei miei piani. Però ho detto «allora non vado più a scuola e rimango a casa», però mia mamma era molto severa e non avrebbe mai permesso questa cosa. Ha cercato una scuola pubblica nella parte orientale del paese e, signore e signori, vi posso dire che le scuole pubbliche in Kenya non sono buone. Quindi, questo voleva dire che dovevo tornare alla situazione in cui ero prima di andare prima “Little Prince”. Mi ricordo che quando frequentavo la scuola pubblica e, il primo giorno è suonata la campanella e camminavo lentamente verso la mia classe e c’era della gente lì nella scuola che mi ha chiesto «perché stai camminando?». Ricordo che il signor Alton della “Little Prince” ci diceva sempre che non bisogna correre, e quindi camminavo tranquillamente per arrivare alla mia aula. Alla “Little Prince” ci dicevano sempre «chiedetevi sempre il perché, chiedete sempre il perché quando non capite qualcosa» e quindi, ho chiesto alla persona della scuola «perché devo correre?» e questa è stata considerata come una domanda offensiva, maleducata. Non mi dimenticherò mai quel giorno, perché sono stato portato in un cella, una stanza che era una cella vera e propria, e in quella cella ho subito torture. Mi hanno detto che ero un terrorista della disciplina e sono stato picchiato e ho pensato: «Non ho intenzione di continuare a frequentare questa scuola». Al il mio primo esame ho preso un D-, un voto basso, il voto più basso che si potesse prendere. Questo è stato veramente brutto sia per la mia famiglia sia per me e, signore e signori, questo è andato avanti per molti mesi, finché non ho completato il primo semestre e alla fine dell’anno ho preso una E come voto, proprio il voto più basso nel sistema scolastico del Kenya. Sono diventato lo studente peggiore della mia classe. E quindi la situazione era veramente terribile. Il mio insegnante mi ha detto «ma andavi così bene alle elementari e adesso cosa sta succedendo?». «È che gli insegnanti qua sono troppo duri con me». Ero terrorizzato in classe, non facevo mai domande e questo mi ha portato ad avere un rendimento veramente pessimo durante tutto l’anno. Tanto più che l’ultima volta ho preso il voto più basso possibile. Questo è diventata poi una preoccupazione per la mia mamma, che ha cominciato di nuovo a darsi da fare: sicuramente una mamma sa quello che si deve fare. Lei era preoccupatissima per il mio rendimento scolastico, è andata dalla signora Veronica e le ha detto «mio figlio non va bene a scuola, ha preso una E come voto, voto bassissimo», ma la signora Veronica ha detto «qual è il problema perché andava così bene prima?» e allora mi ha chiamato di nuovo per un altro colloquio alla “Cardinal Otunga School”, e non è andato bene. Però mi hanno dato comunque la possibilità di poter cominciare il primo anno e, da quando ho cominciato a frequentare la “Cardinal Otunga” vado molto meglio, sono uno dei migliori studenti della mia classe e sono molto grato a Avsi per questo viaggio. È attraverso di loro che sono qui oggi, grazie Avsi, Dio vi benedica. E grazie a tutti voi per avermi ascoltato, grazie.
GIANPAOLO SILVESTRI:
Grazie a Lamas per questa testimonianza. Innanzitutto bisogna considerare da dove lui è partito, dallo slam di Kibera, uno slam tra i peggiori del mondo, dove vivono quasi un milione di persone in condizioni veramente terribili e come lui sia riuscito a fare un percorso e abbia trovato la forza di fare questo percorso attraverso dei luoghi educativi, è veramente un miracolo. Lui ha detto che quando è andato alla “Little Prince” prima e alla “Cardinal Otunga” poi, è rinato. Questo ci fa capire l’importanza che alcuni contesti educativi hanno nella crescita, nello sviluppo delle persone. Ora vorrei che Rose, tu ci potessi raccontare il significato del sostegno a distanza soprattutto sulla comunità, perché tu, appunto, insieme alla tua organizzazione, lavori in altri due slam in Uganda, a Kampala, con delle donne, delle donne malate. Che significato ha per la comunità dove lavori?
ROSE BUSINGYE:
Voglio cominciare ringraziando di cuore Avsi e il movimento di Cl, perché mi hanno permesso di beneficiare dello strumento del sostegno a distanza che per me è stato come un avventura, un’avventura per scoprire chi sono io e chi sono questi bambini. Ho imparato da don Gius l’avventura: scoprire chi è l’uomo fa sì che tutto il resto guadagni valore. Io ho cominciato con una cosa che sembrava dovesse essere scontata: un malato che prende le medicine e un ragazzo che va alla scuola che gli viene pagata. Invece quando pagavo le scuole, nessun bambino andava. Preferiva restare sulla strada invece di andare a scuola e le donne preferivano morire invece di prendere le medicine. Mi ricordo di un ragazzo, Francis, ero quasi disperata, lo mandavo a scuola e lui non era mai a scuola e ogni giorno inventava una malattia: un mal di stomaco, un mal di qua e un giorno mi ha detto «sai, con la mia mamma stavo bene, ma adesso che è morta, ho perso l’unico punto con cui mi trovavo bene, mi sentivo che ero qualcuno». E lì mi sono svegliata, don Gius mi ha aiutato a scoprire che io non aiuto un povero, non gli do da mangiare perché è povero o ammalato. Io aiuto l’altro perché ha un valore infinito, perché voglio che questa persona sia felice, voglio scoprire qual è il desiderio più grande che ha. Sembrava ovvio che quando dicevo «hai un valore» tutti capissero, invece nessuno capiva e io sono andata in crisi. Ma don Gius mi ha tirato fuori, mi ha fatto scoprire che questo valore sei tu, devi cominciare da te, e io che pensavo invece che scoprire me stessa, cominciare da me fosse egoista. Invece don Gius mi ha fatto scoprire che non puoi dare ciò che non hai, è questa pienezza che devo profondere agli altri, ai malati, ai miei bambini. Faccio l’esempio di due ragazzini che erano a scuola “Luigi” che vedete in immagine. Un giorno rubano il cellulare del professore e quando gli abbiamo chiesto «l’avete rubato?», loro rispondono «no, non abbiamo fatto niente, non abbiamo fatto niente». Me li mandano, io li guardo e gli dico «il cellulare»: lo tirano fuori dalla tasca e me lo danno. Allora gli chiedo: «Perché l’avete dato a me e non lo avete dato ai vostri professori?». Mi rispondono: «Tu vuoi che ti diciamo la verità». Un altro problema è che prima di partire le mie donne hanno trovato due bambini che erano denutriti e la donna che li aveva partoriti, era in un altro centro. Quando gli hanno dato il latte, il latte glielo hanno venduto gli assistenti sociali. E allora le donne «guarda hanno rubato il latte dei bambini, l’hanno venduto». Io gli ho detto: «Guarda, non dovete essere allarmate, perché per loro questo bambino era nessuno, per voi questo bambino ha un valore». Non è colpa loro, perché se tu non scopri che cosa sei, non sai chi è l’altro uomo. Il problema è qual è il contenuto delle persone e questo mi muove per cui il latte diventa lo strumento per dire a questo bambino «tu hai un valore infinito. Non sei questo latte ma sei più grande di questo latte». La novità è nel nesso tra carità e conoscenza, che mi fa guardare l’altro per quello che è veramente. Non è l’apparenza che ha. Davanti a un uomo bisogna sempre passare da quello che appare a quello che è veramente: guardarlo con gli occhi di un Altro. Tu non sei il cellulare che hai rubato, tu non sei neanche il latte che ti do, è questa l’avventura che abbiamo scoperto insieme alle mie donne, per cui loro hanno desiderato la scuola che vedete in immagine. Hanno desiderato una scuola bella, hanno desiderato una scuola dove puoi imparare matematica, scoprire il tuo valore, imparare storia, scoprire il tuo valore. Era da ridere, perché io volevo l’ospedale e loro mi hanno detto «no, tu educherai un’infermiera, educherai un dottore». Poi, l’ultima scusa che avevo trovato, era che non avevo soldi e allora hanno iniziato a fare le collane, ne hanno vendute 48000. Avsi ci ha aiutato e con quello che hanno ricavato hanno costruito questo primo tranch della scuola. Di questo sono orgogliosa, perché neanche io credevo che un ragazzo potesse imparare matematica scoprendo il suo valore. Tutta la gente erano sospettosa, «cosa c’è in quella scuola? C’è tanta silenzio, chissà cosa stanno combinando!». Invece adesso siamo una delle prime scuole in Uganda. Quest’anno una ragazza, Jacqueline, ha fatto l’esame con i i ragazzi di tutta la nazione ed è risultata prima, con uno scritto sulla assicurazione.
Stiamo vedendo i frutti di quello a cui ci ha educato don Giussani. È proprio come un seme, un seme lanciato nel cuore di questi bambini. Bisogna solo aspettare che questo seme cresca e adesso sta crescendo. Tutto ciò che non riuscivo a capire lo sto vedendo con meraviglia in questo splendore, dove si vede come un’onda, che dai bambini va alla mamma e dalla mamma torna ai bambini, una onda che va e ritorna.
E ritorna anche a me, perché l’unica cosa che dico per educare questi bambini è «vieni con me». E i bambini diventano compagni di cammino e io gli dico «io non sono la verità, io sto seguendo la verità. Vieni con me, ragazzo, tu mi correggi e io ti correggo». E senza questa reciproca educazione, non tiri fuori niente. È sempre la scoperta del significato di tutto e di tutto ciò che ci circonda. L’educazione non è una magia, è un metodo per camminare insieme, perché neanch’io aveva già chiaro all’inizio che questa scuola potesse fare questo. Ma educata da don Giussani, nel rapporto con lui ho capito che ero uomo, che ero importante. Come mi guardava! Mi guardava come qualcosa di importante, qualcosa che ha valore e così il mio lavoro è diventato gridare tutti che la vita ha un valore, che la vita ha un significato totale. Questo nel tempo si è radicato in me e anche nella coscienza delle mie donne e adesso va radicandosi nelle coscienza dei loro figli. Ho già detto che ci vuole pazienza a seminare, il cambiamento della fisionomia dei ragazzi richiede sempre di attendere, ripetere, ritornare, riproporre, finché diventa parte di loro. Senza questo, come abbiamo visto, ci sono un sacco di problemi, di ribellioni, niente si sostiene, i ragazzi restano nel mondo che già conoscono, se invece crescono nella coscienza di quello che sono, il loro orizzonte si apre e capiscono di più anche quello che devono studiare, e ottengono anche risultati migliori nella materia che stanno studiando.
Volevo anche ringraziare quelli che mi aiutano, i donatori dei nostri bambini che li sostengono a distanza, uno a uno li vorrei abbracciare veramente, perché senza di loro io non sarei capace di fare questa cosa. Grazie.
GIAMPAOLO SILVESTRI:
Grazie Rose. Mentre la Rose parlava andavano le immagini della “Luigi Giussani Secondary School” che, come avete visto, è una scuola bellissima, veramente bella, un piccolo gioiello, costruita con il contributo delle donne. Le donne hanno prodotto queste collane, che penso molte di voi abbiano comprato, che ancora adesso ci sono allo stand dell’Avsi e che sono servite per pagare la scuola. Quindi in prima persona loro si sono messe in gioco e la scuola sta dando dei risultati anche dal punto di vista della didattica. Come diceva sia Lamas che Rose, paradossalmente in questi Paesi il contesto educativo è molto competitivo, molto più competitivo che da noi, perché se non si hanno certi voti non si può accedere a certe scuole secondarie, se non si hanno certi voti alle scuole secondarie, non si può accedere all’Università quindi c’è una competizione estrema, per cui i ragazzi sono spinti ad avere voti buoni. L’aspetto della didattica è per alcuni aspetti ancora più importante che da noi, altrimenti si è fuori dalla possibilità di fare un percorso educativo. Ma tutto questo è stato possibile anche in un contesto, cioè dalla riscoperta del valore di sé e del valore dell’altro.
Ecco adesso io chiederei a Massimo Favilli di Unicoop Tirreno, cosa ha significato per voi che siete una impresa, il sostegno a distanza che appunto dal 2001 fate con noi di Avsi? E che impatto ha avuto per i vostri clienti e per tutti quelli che lavorano con voi?
MASSIMO FAVILLI:
Buonasera a tutti e grazie per l’invito. Come prima cosa vi dovrei dire sinteticamente chi è Unicoop Tirreno, lo faccio partendo da un piccolo aneddoto vissuto durante il viaggio che ho fatto lo scorso settembre insieme ad una delegazione di Avsi e di alcuni donatori in Uganda, a Kampala.
All’arrivo siamo subito entrati nel clima ed abbiamo visitato le scuole volute dal Meeting Point International di Rose e delle sue donne. Sorgono nuove e bellissime in mezzo alla miseria. Sono vive, colorate, pulite,
E il sostegno a distanza di Unicoop Tirreno è destinato proprio a garantire il percorso scolastico di quaranta bambini in Uganda – dei 171 che sostiene insieme a Avsi – nelle due strutture (asilo e scuola primaria una, scuola secondaria l’altra)
Quando ho visitato la prima scuola, mi sono chiesto che cosa sanno i bambini di noi. Il direttore della Luigi Giussani primary school mi ha spiegato che ogni bambino riceve informazioni sul suo sostenitore e molti di loro erano curiosi di conoscere il “sig. Unicoop Tirreno” così chiamavano questo benefattore che permetteva a molti bambini di seguire i percorsi di studi.
Ci siamo incontrati con alcuni bambini, abbiamo scherzato un po’ sul sig. Unicoop Tirreno e poi ho spiegato loro che Unicoop Tirreno non è una sola persona, ma tantissime insieme che hanno deciso di dare un contributo ad Avsi.
A voi dico qualcosa di più. Unicoop Tirreno è una delle sette principali cooperative di consumo, per intendersi quelle dei supermercati Coop.
Ha circa cento supermercati in Toscana, Lazio e Umbria, sviluppa circa 900 milioni di euro di fatturato annuo, 3.500 dipendenti, ma soprattutto è di proprietà di 600mila soci.
L’impresa cooperativa promuove un modello che non è finalizzato esclusivamente al raggiungimento del profitto, piuttosto ha l’obiettivo di sviluppare nel tempo un progetto. Nel nostro caso il progetto è quello di vendere al miglior prezzo possibile prodotti controllati, sicuri e rispettosi delle filiere produttive e dell’ambiente.
La nostra cooperativa da sempre è attenta ai temi della solidarietà ed è impegnata quotidianamente a dare supporto, per quanto nelle sue possibilità, alle persone che più hanno bisogno.
Non è certo un caso che l’articolo 3 del nostro Statuto, tra gli scopi che la cooperativa persegue, ne indica uno che in particolare si pone l’obiettivo di intervenire in iniziative a sostegno dei Paesi in via di sviluppo e delle categorie sociali bisognose.
È quindi la nostra stessa natura di impresa che ci sollecita a promuovere la partecipazione dei soci a tutte quelle attività che favoriscano lo spirito di solidarietà per contribuire a vivere in una società più giusta e inclusiva.
Quella di Unicoop Tirreno e Avsi è una storia che viene da lontano, da quando nel 2004 alcuni dipendenti decisero di portare avanti un piccolo progetto di sostegno a distanza.
Quindici anni di collaborazione continuativa con Avsi per Unicoop Tirreno hanno un enorme significato, ricco di contenuti. Prima di tutto è un patto di fiducia, di riconoscimento di un soggetto che ha sempre dimostrato di svolgere questo difficilissimo ruolo ottenendo la credibilità istituzionale e dei privati.
Allo stesso tempo riteniamo che anche un soggetto privato, in questo caso la Unicoop Tirreno, per essere altrettanto credibile debba dare un supporto che dura nel tempo, non una toccata e fuga per fare un po’ di marketing sociale, ma un supporto veritiero che condivide le finalità e ha il rispetto non solo per l’associazione che abbiamo deciso di sostenere, ma anche di tutti quei ragazzi (ad oggi sono 171) ai quali abbiamo deciso di dare il sostegno e di accompagnarli fino al raggiungimento della maggiore età.
Da quel lontano 2004 l’idea nata dai quattro/cinque colleghi si è sviluppata. Tutti noi avevamo figli in età scolare e le lettere che abbiamo ricevuto dai bambini sono stato lo stimolo fondamentale per comprendere la portata del sostegno a distanza, ci hanno aperto gli occhi e ci hanno convinto che niente è più importante al mondo, per un bambino, di avere la possibilità di accedere agli studi per guardare al futuro con un minimo di speranza di migliorare le proprie condizioni di vita.
Così abbiamo pensato di promuovere un progetto che potesse coinvolgere molte più persone, dapprima si sono aggiunti altri colleghi e poi è nata l’idea di coinvolgere i nostri soci attraverso il catalogo fedeltà.
Facendo la spesa in Coop il socio accumula dei punti, che possono essere utilizzati in varie forme, premi, sconti, insomma un vantaggio aggiuntivo personale. Allora abbiamo introdotto il concetto di creare un vantaggio per i più bisognosi e da qui è nata la possibilità di donare i propri punti in solidarietà. È diventato un progetto su cui i nostri Comitati Soci (soci volontari) concentrano parte della loro attività di volontariato. Attraverso un presidio nei nostri supermercati parlano con le persone, illustrano i progetti di solidarietà che Coop sostiene insieme alle associazioni di riferimento e promuovono la donazione dei punti.
Complessivamente ogni anno sono migliaia le persone che decidono volontariamente di donare ai progetti di solidarietà parte dei propri punti che hanno accumulato facendo la spesa in Coop.
La Cooperativa non si limita, ovviamente, a fare azione di promozione, ma si mette in gioco direttamente ed economicamente trasformando i punti in controvalore economico e raddoppiandone il suo valore. In sostanza a fronte di 100 euro donati dai soci altri 100 ne dona la cooperativa.
Nel 2018 sono stati 4.488 i soci che hanno deciso di donare parte dei punti per i progetti di solidarietà, così Unicoop Tirreno insieme a loro condivide il sostegno a distanza di 171 bambini.
Parlare con migliaia di persone è una ricchezza che va oltre il valore economico che abbiamo raggiunto, è una opportunità per far comprendere i valori della solidarietà e, per quanto riguarda i Sad, per raccontare quanto c’è bisogno di far crescere culturalmente le nuove generazioni nei loro luoghi di nascita.
Unicoop Tirreno è nata nel 1945 ed ha combattuto il fascismo e le ingiustizie, proprio per rispetto della nostra storia siamo molto distanti dalle politiche attuate dall’ultimo Governo nei confronti dei migranti, ma in fondo direi che se vogliamo cogliere la provocazione “aiutiamoli a casa loro”, non possiamo che dar valore al sostegno a distanza come strumento capace di dare risposta concreta alla richiesta di aiuto di chi vive in contesti di povertà e di guerra.
Non ringrazierò mai abbastanza Sandro Cappello (il funzionario Avsi che tiene i rapporti con la nostra cooperativa) per avermi invitato e ad esser riuscito a coinvolgermi in questo viaggio che a me ha rimesso in ordine le priorità della vita.
Suono di tamburi, canti, balli, così è stata l’accoglienza di Rose e delle donne della Meeting Point International, partner locale della Fondazione Avsi, quando, a settembre, siamo arrivati a Kampala, capitale dell’Uganda, con una delegazione dell’Associazione Volontari per il Servizio Internazionale. E poi la rappresentazione teatrale delle loro esperienze di vita, drammatiche, di chi ha subito oppure di chi suo malgrado si è ritrovato a fare atti di violenza e la loro rinascita attraverso la volontà di dare un futuro a figli. Si liberano danzando dei vecchi vestiti, atto simbolico di questa rinascita.
E poi una visita alla baraccopoli, in una realtà che se te la raccontassero non ci crederesti, qui tutto supera di gran lunga l’immaginazione.
Forse solo vedendole da vicino quelle persone puoi davvero renderti conto del valore di un sorriso. Quanto vale un sorriso? È la domanda di una campagna di Avsi, che a Kampala ha una sede importante per promuovere i sostegni a distanza.
Sono sicuro che il sorriso di Priscilla, una bambina di 10 anni che ho incontrato lì, non sarebbe stato lo stesso se non avesse avuto la possibilità di frequentare la scuola sorta a due passi da Kireka, la baraccopoli più popolosa della città africana. E quello di altre centinaia di bambini che ogni giorno sui banchi di scuola possono imparare a leggere e scrivere, ritagliandosi così una fetta di futuro.
Sì, perché qui costruire il futuro non è tanto per dire, ma serve la forza di volontà e il coraggio di fare qualcosa per cambiare la propria vita e avviare progetti per costruire un futuro migliore.
E se il futuro sono i figli, il loro futuro è dato dalla possibilità di un’istruzione.
Da questi principi è nata l’idea e la necessità di costruire la prima scuola a cui sono seguite le altre, è un’idea fantastica, che guarda avanti.
Una signora che lavora nella mensa della scuola ha voluto abbracciarmi prima che partissi.
Lei vive nello slum di Kireka e ha due figli che frequentano la scuola. Le sue lacrime di commozione sono quelle che porto alle migliaia di soci Coop che hanno donato parte dei loro punti ai nostri progetti di solidarietà.
È la conferma che un piccolo gesto può fare molto.
Nessuna retorica. Ho visto con i miei occhi che è davvero così: i volti di quei bambini così curiosi di imparare cose nuove, il lavoro instancabile degli insegnanti, la bellezza di scuole nate in mezzo alla miseria e allo squallore, la forza di volontà di quelle donne di cui ho ascoltato le storie, toccanti, incredibili.
Il sostegno a distanza non cambia solo la vita di una persona, che sarebbe già molto, ma di un’intera comunità.
GIAMPAOLO SILVESTRI:
Adesso chiederei a Damiano Tommasi di raccontarci quello che avete fatto in Uganda. Con loro è nata una collaborazione, in maniera un po’ casuale all’inizio, ma poi conoscendoci abbiamo visto che avevamo molti punti in comune nel modo di affrontare le questioni, in particolare di come appunto lo sport possa essere un aiuto a far crescere questi ragazzi, perché i ragazzi che loro hanno coinvolto sono quasi tutti ragazzi sostenuti a distanza. Prego.
DAMIANO TOMMASI:
Buonasera a tutti e grazie dell’invito, grazie del coinvolgimento. Se sono qui è perché tutto è partito da qua. Un nostro consigliere del direttivo, Luca Rossettini, ha conosciuto la storia di Rose, ci ha coinvolto come Aic Onlus. Io sono presidente dell’Associazione Italiana Calciatori che da cinquant’anni rappresenta in Italia i calciatori professionisti, è nata soprattutto come attività sindacale prima ancora che il calcio fosse professionistico e ad oggi, il valore dell’associazione è aumentato perché raccoglie anche il mondo dilettante: si possono associare anche i calciatori dilettanti e le calciatrici. L’associazione fa un’attività con attualmente circa 18mila associati, di cui meno di tremila professionisti. Cosa c’entriamo noi in questa attività? Qualcuno ci dice che dovremmo essere sindacato, dovremmo essere un’associazione che rappresenta i privilegiati. In realtà c’è un mondo che parla attraverso un pallone. Luca ha conosciuto l’esperienza di Rose, della Luigi Giussani High School, e la necessità di ricostruire il campo e le tribune e quindi ci siamo fatti coinvolgere come Associazione Italiana Calciatori. La nostra Onlus, nel finanziare questa ricostruzione, ha chiesto di far qualcosa in più. Da qualche anno abbiamo aperto un “dipartimento Junior”, si chiama, e abbiamo creato un modello nostro, che poi si è tradotto nella pubblicazione di un manuale, non so se il migliore o peggiore, di affrontare l’attività sportiva, in questo caso il calcio. Questo per dare degli strumenti ai nostri associati, ex calciatori professionisti o calciatori in attività, che magari lavorano con i ragazzi, con i giovani. Lo staff è sceso a Kampala per una settimana a lavorare con i ragazzi, soprattutto con gli insegnanti della Luigi Giussani School, perché idealmente si è voluto finanziare un campo e concretamente si è voluto anche dare un modo per utilizzare questo strumento, che può non essere solo uno spazio verde in cui giocare a pallone. I ragazzi che sono andati sono ex calciatori professionisti, quindi persone che hanno fatto del pallone il loro strumento di lavoro e da anni si impegnano in giro per l’Italia e non solo a raccontare che il calcio e il pallone possono fare molto di più. Cosa abbiamo fatto? Abbiamo fatto attività con i ragazzi: sono cose che facciamo quotidianamente durante tutto l’anno in Italia, sempre insieme ai nostri calciatori e ex professionisti o calciatori in attività che lavorano con i ragazzi. Andiamo in queste scuole calcio, in queste associazioni sportive, facciamo l’allenamento con i ragazzi, l’incontro di formazione con i loro allenatori e l’incontro con le famiglie. Quasi sempre durante la settimana, durante i campi estivi sempre, facciamo fare l’allenamento ai genitori. La cosa bella è stata che l’ultimo giorno a Kampala anche le mamme hanno voluto fare l’allenamento con i nostri allenatori. Questo per capire cos’è l’attività sportiva per i nostri ragazzi. Credo che se facciamo mente locale ognuno di noi si ricorderà per forza il primo allenatore o la prima allenatrice della nostra disciplina sportiva. Un po’ come il primo maestro, ognuno di noi si ricorda chi era quella persona, questo per dire quanto l’emozione di una passione, di un gioco – quando si è ragazzi è un gioco – incida sulla nostra formazione. Nel viaggio che abbiamo fatto in Uganda insieme a Cdo Sport, tramite Luca Rossettini e insieme ad Avsi, è nato qualcosa di più, qualcosa che mi auguro si possa concretizzare. Dicevo prima che la nostra attività sindacale è anche dare un seguito all’attività professionale: l’attività professionale di un calciatore finisce a 35/40 anni massimo, un piccolo numero di calciatori vive il calcio d’élite, un gran numero di calciatori esce dal mondo del lavoro senza avere una formazione, senza avere una preparazione al dopo. Dare degli strumenti, dare un qualcosa in più a questi ragazzi per poter fare attività attraverso quello che hanno sempre fatto e che è stato per loro la professione, è una delle idee che è nata collegando in questo caso l’attività sportiva all’attività di cooperazione. La finalità dell’attività sportiva in questi luoghi deve essere quella di creare comunità. Una delle cose che ho sentito prima, che si adatta molto bene a quello che è il pallone, è questa affermazione: «Le parole come inclusione e dialogo». Penso che parecchi di voi siano formatori e quindi sapete che quando si cerca di coinvolgere le persone si fa un gioco con la palla o con un oggetto, e chi ha la palla ha diritto di parola: ecco, il calcio in questo caso, ma lo sport in generale, dà a tutti diritto di stare in quel tipo di comunità, dà a tutti diritto di esprimersi, di esprimere il proprio talento. L’emozione e l’abbattimento di eventuali barriere culturali che ci possono essere in questa attività in Paesi fisicamente lontani da noi ma che di fatto conoscono lo stesso linguaggio dello stesso giocattolo, attraverso il pallone sicuramente hanno una via preferenziale. Noi nelle nostre attività colleghiamo sempre delle parole a dei gesti tecnici. Quindi la fiducia si collega al passaggio della palla: la palla la si dà a chi ispira fiducia, a chi si ha fiducia si dà il pallone. A volte si sbaglia un passaggio forse anche perché inconsciamente non si ha tanto fiducia del compagno che la possa mantenere, oppure la si vorrebbe passare a un altro e non a quello che abbiamo di fronte. Chi mastica calcio, chi vive di calcio sa che ogni gesto ha sì un valore tecnico, ma, come per tutte le cose, poi serve il perché si fa quel gesto. Ecco, tante volte si parla del calcio o dello sport come palestra di vita, in questo caso è concreto. Purtroppo in Italia, ma non solo, lo sport è sempre, quasi sempre, visto dalla parte dei vincenti, dalla parte di chi di quel talento fa una professione, di chi – come ho avuto la fortuna di fare io – partecipa a un mondiale, veste la maglia della nazionale, e poco si racconta di quello che è lo sport, e non solo il calcio, per la comunità. La nostra sfida, quella che stiamo cercando di percorrere insieme ad Avsi e Cdo Sport, è quella di raccontare quello che lo sport può diventare anche in un’attività di sostegno a distanza, di cooperazione. Penso che tutti noi abbiamo le immagini di persone che attraversano il Mediterraneo per sbarcare in Europa e, spesso e volentieri, hanno una maglia del Milan, della Juve, del Manchester United. Credo che parlare con questo linguaggio sia accorciare le distanze. Il nostro impegno come associazione – mi auguro che si possa concretizzare – è formare persone che hanno fatto della loro passione il loro lavoro, quindi ex professionisti, per poter raccontare quello che per loro è stato un pallone. Parecchi di quei ragazzi che sono stati nei nostri progetti – questo è uno dei tanti che ci ha portato fuori dall’Italia – tornano emozionati. Purtroppo in Italia una delle attività più difficili da fare per un allenatore di sport è la gestione dei genitori, questo perché ognuno di noi ha il campioncino in casa e ci dimentichiamo che abbiamo una persona, ci dimentichiamo che siamo persone che attraverso lo sport crescono, attraverso la competizione. Tante volte si dice «bisogna dimenticarsi del risultato» invece no, bisogna gareggiare, competere. Si parlava prima della grande competitività che c’è in questi Paesi, saper competere, saper perdere, saper sfruttare i momenti di caduta per poi ripartire, per poi rilanciarsi, è importantissimo. Lui lo diceva prima “I can. Yes”: questo deve essere, perché lo sport è questo. Sentivo che prima Rose parlava delle donne che si sono volute “mettere in gioco”: è un linguaggio che tutti noi usiamo tutti i giorni e che deriva dallo sport. Fisicamente quando si prende un pallone e si ha un campo di calcio, ci si mette in gioco. Imparare da lì a raccogliere le sfide che abbiamo tutti i giorni, è sicuramente uno dei tanti strumenti che, secondo me, potrebbe servire a chi sostiene in quei luoghi quelle realtà e a chi, in queste realtà dove viviamo noi, spesso dimentica quello che lo sport è stato per noi e che può essere per noi. Purtroppo, come ho detto prima, si racconta tanto di quello che è lo sport d’élite, spesso e volentieri viviamo in una società che purtroppo la felicità la misura in euro o in dollari, e anche il valore dei calciatori. Io sono presidente dell’Associazione dei calciatori e, purtroppo, nei bilanci delle società calcistiche i calciatori sono un asset come può essere un immobile, come può essere una struttura capitalizzata e quindi ha un suo ammortamento, che per me è il contrario dello sport. Il valore di una persona non può essere misurato in euro o in dollari e noi viviamo questo paradosso e quindi alla fine, quello che portiamo è molto di meno di quello che ci riportiamo a casa quando andiamo a fare queste esperienze. Mi auguro, come ho detto, di avere una squadra sempre più numerosa di ex professionisti, di professionisti che sposano questa idea, che sposano le idee di esportare una delle eccellenze italiane che è il calcio, però fatto in questa maniera, che racconti quanto lo sport possa essere veramente una forma di dialogo che superi qualsiasi barriera. Con noi, in quella esperienza e in questa esperienza c’è Simone Perrotta, che è campione del mondo e che è stato ed è uno dei simboli del nostro calcio e ha sposato il progetto del nostro dipartimento junior, di cui è responsabile. Mi auguro che possa continuare questo tipo di approccio e ci faccia crescere raccontando un altro calcio, che ha meno spazio sui giornali, perché non ha le sei cifre, ma che sicuramente può farci fare uno scatto d’orgoglio, visto anche che raccontiamo il calcio italiano in Paesi dove la maglia del Milan, dell’Inter, della Juve o della Roma sono un souvenir di un Paese che racconta anche questo. Quindi io ringrazio Rose e ringrazio Luca Rossettini che ha coinvolto l’associazione e speriamo che ci siano altri campi come quello di Kampala.
GIAMPAOLO SILVESTRI:
Grazie anche per il coinvolgimento personale perché, appunto, Damiano è andato giù in Uganda, quindi c’è stato anche un aspetto personale del vivere insieme questa esperienza. Adesso vorrei chiedere a Giorgio Vittadini: il sostegno a distanza dà la possibilità di essere protagonisti o comunque crea valore, o comunque un aiuto, è uno strumento che può aiutare a creare comunità, a condividere esperienze, però molto spesso tutto questo sembra una cosa marginale, perché si dice che per fare la cooperazione e lo sviluppo ci vogliono i sistemi, ci vogliono le politiche. Allora, come si può rispondere a questa critica e invece far sì che queste esperienze, che realmente sono positive, diventino il cuore della vicenda?
GIORGIO VITTADINI:
Dico quattro cose. L’argomento migranti è diventato l’argomento all’ordine del giorno e ne parliamo semplicemente discutendo cosa fare dei barconi che partono dalla Libia, da altri Paesi, se bloccarli o non bloccarli, e quando li abbiamo bloccati siamo tutti contenti. Questa gente, come sappiamo, non parte dalla Libia o dai Paesi vicini, ma parte da molto più in là, perché la situazione dell’Africa è una situazione di neo colonialismo. Il primo punto che vorrei dire è questo: l’Africa oggi è sotto scacco di quello che papa Francesco, ha chiamato la terza guerra mondiale a pezzi, tra Russia, Cina, Francia, Stati Uniti. La Cina sta avanzando per accaparrarsi le materie prime e per esportare persone che vadano lì, la Russia è tornata protagonista, c’era un articolo su il Sussidiario l’altro giorno, anche lei, in una visione globale, per lo stesso motivo, la Francia è da sempre presente e gli Stati Uniti non vogliono sparire. Tutti con l’idea di depredare le materie prime con diversi mezzi, tra cui quelli di insediare governi amici, di far nascere colpi di stato, di favorire guerre anche, non solo per le materie prime, ma anche per l’esportazione di armi a cui partecipiamo anche noi, perché siamo anche noi esportatori di armi. E anche per quei metodi di nascita del capitalismo che noi avevamo visto nel Settecento: una delle cose che avviene adesso è l’espulsione delle terre di quelli che lavoravano lì come contadini, per lo sfruttamento intensivo delle terre, per creare mangime e altro, cosa che è un po’ simile a quello che è avvenuto quando ci fu la privatizzazione delle terre comuni in Inghilterra, nel Settecento, per la nascita del capitalismo. Aggiungiamo a questo il global warming e le guerre tribali, perché un’uscita dal colonialismo senza intelligenza, ha fatto sì che ci siano paesi costruiti in modo da dividere irrazionalmente il territorio. Si sa che la città africana è intorno a massicci, a monti e cose di questo tipo, mentre il modo inglese di dividere i paesi, quello geometrico, ha significato creare conflitti. Allora capiamo che l’Africa è ancora sotto scacco e capiamo perché c’è questo esodo. Non è un caso. Non è che questi vanno via così. Un esodo che va in due direzioni. Uno verso l’inurbamento in enormi città, che sono le peggiori del mondo, che sono gli slum e così via, e nello stesso tempo il tentativo di arrivare in Occidente. Secondo passaggio: quello cui accennava Silvestri. Vi invito a vedere un libro fatto qualche anno fa fatto da Giuseppe Folloni e Ilaria Snider con la collaborazione della Fondazione per la Sussidiarietà e Avsi: Alle radici dello sviluppo, l’importanza del fattore umano. Nella prima parte di questo libro, si analizzano i modi classici dello sviluppo, gli aiuti ai governi fatti da Paesi occidentali o dalle grandi organizzazioni internazionali, Fondo monetario o altro. Ebbene, in gran parte questo tipo di aiuti sono serviti a favorire dei dittatori corrotti, perché l’idea di democrazia occidentale è un’idea che abbiamo noi. Molti di questi Paesi, anche se la forma è la democrazia, hanno come contenuto il dittatore: arrivano i fondi, arrivano gli aiuti, e questi sono dati ai dittatori che, o se li i spartiscono in modo clientelare, o li usano per acquistare armi. Non parliamo dei Paesi dove abbiamo grandi materie prime: quando si interviene dal punto di vista degli Stati, si interviene in modo tale che in gran parte di questi aiuti vanno perduti, anche in grandissima quantità, perché arrivano al punto sbagliato. Secondo passaggio: gli aiuti delle Ong. A parte il fatto che sono diminuiti enormemente, perché se guardate il nostro Paese ha disinvestito, non investito in aiuti al Terzo mondo, ma succede qualcosa che è comune anche ai grandi interventi storici di tipo tradizionale, dei missionari. Non basta fare opere nel Terzo mondo o in Africa, perché se si fanno opere, queste opere rischiano di non essere gestite. Prendiamo per esempio l’azione dei missionari di molti degli ordini religioni intervenuti in Africa, anche cristiani: cosa succede quando questi ordini religiosi vengono meno e ci sono poche vocazioni? Le opere che hanno costruito vanno perdute, perché nel momento in cui l’azione dei missionari è un’azione generosa ma non è capace di generare responsabilità intorno a sé, ci sono interi ospedali, scuole, che finiscono, perché qualcuno non è più in grado di portarli avanti. Così anche gli interventi delle Ong: se hanno come tipo di intervento, interventi ecologico o altro, costruzione di pozzi, agricoltura, interventi anche di imprese, ma non generano il soggetto locale, vanno finendo. Quindi voi capite che anche l’intervento non di tipo statale, che interviene sul territorio con realtà benemerite, religiose, cattoliche oppure laiche, lascia il tempo che trova nel lungo periodo, perché non genera la capacità di continuare. Oggi parlavo con un grande imprenditore di qui, che mi diceva di un grande ospedale fatto in un Paese dell’Africa, gestito da religiosi: i religiosi stanno invecchiando, ne è rimasto uno, e ci si domanda come potrà andare avanti. Anche perché poi come si finanziano? Questi vengono in Europa, raccolgono soldi, ma quando viene meno questa persona, crolla tutto. Allora, terzo passaggio: l’intervento dell’Avsi, l’adozione a distanza, è qualcosa di assolutamente nuovo, non solo sul piano personale delle storie, ma anche sotto il profilo generale. Perché? Cerchiamo di analizzare: primo, la modalità è una modalità molto semplice, raccoglie fondi dall’Occidente sviluppato, che, non sono Stati, non sono grandi organizzazioni, ma sono la gente a cui chiede di convogliare somme compatibili, sostenibili, che guarda caso dove vanno? Vanno al punto in cui sicuramente non sono sprecate: le singole famiglie. Chi per esempio fa il banco alimentare, il banco di solidarietà, sa che questi interventi se vanno a famiglie povere rischiano facilmente di essere interventi che vengono sprecati perché il consumismo c’è dappertutto. Mi ricordo trent’anni fa quando appunto andai per l’Avsi in America latina, in Amazzonia, dove risalii il Rio delle Amazzoni, da Manaus e vedevo le capanne con già allora la tv satellitare. Allora cosa vuol dire invece l’intervento? L’intervento è finalizzato a pagare gli studi. Quindi un intervento che non viene sprecato, perché viene immediatamente impiegato a sostenere il percorso educativo delle persone e quindi voi capite che è un intervento di profonda intelligenza: 24mila adozioni a distanza. 24mila persone che sono educate per tutto il periodo fino al compimento degli studi con soldi sicuri e di fonte sicura. Ci sarebbe da dire: ma se non si sprecassero tanti soldi in questioni inutili e non si discutesse semplicemente in modo inappropriato di sicurezza sui porti e si destinassero questi soldi veramente ad aiutarli a casa loro e non in termini sprezzanti; se fossero invece di 24mila, 240mila, o 2 milioni e 400mila, cosa si avrebbe? L’ultimo punto che voglio dire è l’educazione dell’io, quello che Carrón dice essere il punto cruciale anche di un Meeting di questo tipo: la costruzione del soggetto. Questo intervento dell’Avsi con l’adozione a distanza aiuta a costruire soggetti, persone fisiche che possono essere i protagonisti dell’Africa, perché sono persone che studiano, che hanno una educazione, che prendono una responsabilità, che imparano un mestiere. Questo è l’intervento del futuro, l’intervento che invece di essere supportato semplicemente da una grande organizzazione come l’Avsi, convogliasse anche l’intelligenza dei governi, potrebbe portare a un cambiamento della situazione anche sul piano della emigrazione. Perché la gente non è che emigra perché è contenta di andarsene. La gente emigra, come siamo emigrati noi in 26 milioni, perché non ha possibilità e l’educazione è il primo fattore di lotta alla povertà. Allora, per rispondere a Silvestri, ognuno di noi, che fa una cosa di questo tipo, ogni impresa, sta costruendo il futuro dell’Africa, lo sta costruendo sulla persona con cui rimane in rapporto, perché molte famiglie sono in rapporto diretto con queste persone, ma sta anche costruendo un intervento innovativo. Un intervento che se i politici guardassero, farebbe guardare anche il tema dei migranti veramente con un’idea di sviluppo e non semplicemente con l’idea di liberarsi di gente o di merce che non vogliamo. Grazie.
GIAMPAOLO SILVESTRI:
Le parole che ha detto Vittadini sono molto interessanti, soprattutto per noi dell’Avsi, perché, da una parte ci danno una grande sfida, perché appunto c’è davanti un grande lavoro, ma dall’altra una grande responsabilità, perché appunto l’avere la responsabilità di dare un contributo alla crescita di un soggetto è la più grande responsabilità che uno possa avere, perché è solo partecipando alla costruzione di soggetti che si può dare un contributo positivo all’Africa. Io chiuderei, anche perché per ragioni di orario, ringraziando tutti i relatori, perché ci hanno aiutato a capire attraverso diverse prospettive cosa può generare, cosa può essere il valore di un piccolo gesto come questo e come può incidere nella vita delle persone e nella vita delle società. Vi ringrazio per la serata.
Traduzione non rivista dal relatore