SOCIAL E INTELLIGENZA ARTIFICIALE: NON SERVE LO SCHERMO PER CRESCERE SMART

In diretta su Famiglia Cristiana, Icaro Tv, Play2000, Teleradiopace, Vatican News (ita/eng/esp)

Luca Botturi, professore in media in educazione, Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana (SUPSI); Alberto Pellai, psicoterapeuta, scrittore e saggista. In occasione dell’incontro video intervento di Maryanne Wolf, Ucla University e membro della Pontificia Accademia delle Scienze. Introduce e modera Fabio Mercorio, professore di Computer Science, Università Milano Bicocca e Fondazione per la Sussidiarietà

Negli ultimi due decenni, lo sviluppo del digitale ha trasformato radicalmente ogni aspetto della nostra vita quotidiana: i dispositivi digitali sempre connessi, la diffusione delle piattaforme sociali e l’evoluzione degli algoritmi di personalizzazione delle informazioni permeano le nostre vite, spesso senza che ne siamo pienamente consapevoli. In un tale scenario, i dispositivi digitali sono il contenitore, non il contenuto, che oggi è selezionato, processato e spesso generato da algoritmi di Intelligenza Artificiale. Quella che si prefigura dinanzi a noi è una società in cui l’interazione umana sarà sempre più mediata da dispositivi digitali connessi a servizi complessi e opachi, gestiti da imprese globali. È quindi cruciale sviluppare non solo il senso critico – frutto di una conoscenza dell’oggetto rispetto al suo obiettivo – ma anche competenze adeguate per affrontare il futuro. Questo incontro ospita un dialogo tra un informatico, uno psicologo dell’età evolutiva e un esperto di educazione digitale, per aiutarci a far luce sul compito educativo che ci aspetta. Vogliamo innanzitutto comprendere meglio le tecnologie che abbiamo intorno, per poi discutere, sulla base delle evidenze scientifiche degli ultimi anni, quale sia l’interazione tra i minori e gli schermi, e il ruolo della società, dei genitori e della scuola nell’educare a vivere bene in un mondo digitalizzato. 

Con il sostegno di Regione Emilia-Romagna, Eni, Università Cattolica del Sacro Cuore, Gruppo Maggioli, Tracce

SOCIAL E INTELLIGENZA ARTIFICIALE: NON SERVE LO SCHERMO PER CRESCERE SMART

SOCIAL E INTELLIGENZA ARTIFICIALE: NON SERVE LO SCHERMO PER CRESCERE SMART

Mercoledì 21 agosto 2024 ore 12:00

Auditorium Isybank D3

Partecipano:
Luca Botturi, professore in media in educazione, Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana (SUPSI); Alberto Pellai, psicoterapeuta, scrittore e saggista. In occasione dell’incontro video intervento di Maryanne Wolf, Ucla University e membro della Pontificia Accademia delle Scienze.

Introduce e modera:

Fabio Mercorio, professore di Computer Science, Università Milano Bicocca e Fondazione per la Sussidiarietà

Mercorio. Buongiorno, benvenuti a questo incontro. Grazie. Benvenuti anche a coloro che sono collegati da remoto, Social e AI, intelligenza artificiale. Non basta uno schermo per crescere smart. Da dove nasce questo incontro? Da alcune considerazioni evidenti. La prima è che i device, Idispositivi smart, ormai permeano completamente le nostre vite e quelle dei nostri figli. Molti di noi, soprattutto i giovani, utilizzano i social network, e il terzo fattore è che molti dei contenuti che leggiamo, vediamo o i prodotti che acquistiamo, sono oggi mediati da quella che chiamiamo intelligenza artificiale. Abbiamo quindi considerato questi tre elementi, tenendo ben presente che il digitale è il contenitore e l’intelligenza artificiale oggi modera e seleziona il contenuto. Nell’interazione tra questi due fattori, il dispositivo digitale e l’algoritmo che modera e seleziona il contenuto digitale, ci siamo posti alcune domande. Per esplorarle, abbiamo invitato alcuni ospiti che vi presento. Inizio da Alberto Pellai. Alberto Pellai è medico e psicoterapeuta dell’età evolutiva. Nel 2004 il Ministero della Salute gli ha conferito la medaglia d’argento al merito della sanità pubblica. È autore di molti best-seller per genitori, educatori e ragazzi. Ne ha scritti troppi per poterli citare tutti, quindi ne cito uno a mia scelta, quello che piace a mia moglie, va bene? *Allenare la vita*, Mondadori, che vi suggeriamo tra l’altro. Luca Botturi è professore di media in educazione presso la Scuola Universitaria Professionale della Svizzera Italiana a Locarno, dove si occupa di competenze digitali, media literacy, information literacy e game-based learning. Anche Luca è uno scrittore ed è autore della *Trilogia dell’Urbe*, che comprende tre romanzi di fantascienza che esplorano il rapporto tra tecnologie, libertà e desideri. Grazie anche a Luca per essere qui. Maryanne Wolf, che non è qui con noi ma risponderà comunque alle nostre domande che le abbiamo posto in precedenza, è una nota neuroscienziata delle scienze cognitive e attualmente insegna alla Università di Los Angeles in California. Nel 2020 Papa Francesco l’ha nominata membro ordinario della Pontificia Accademia delle Scienze. La ringraziamo anche se non è qui con noi. A intervenire sul tema dell’AI, in maniera immeritata, c’è il sottoscritto. Io sono Fabio Mercorio, professore di AI e Data Science all’Università di Milano Bicocca. Non ho scritto libri e non sono stato nominato dal Papa. Sono qui immeritatamente e provo a introdurre il tema. Per rendere più fruibile questa oretta insieme, abbiamo pensato di dividerla in due momenti. Nel primo, le domande saranno volte a capire di più cosa intendiamo quando parliamo di digitale, intelligenza artificiale e della relazione con lo sviluppo del bambino. Nella seconda parte, proveremo a delineare aspetti legati alla responsabilità educativa. Non abbiamo intenzione di fare un manuale delle giovani marmotte. Vogliamo invece presentare elementi che variano e cambiano molto velocemente, fornendo criteri di azione, in modo tale che ciascuno possa capire come applicarli nella vita quotidiana. Questo è lo spirito che ci anima. Inizierei subito con la prima domanda per Alberto. Alberto, ti chiediamo: dalla tua esperienza, cosa accade ai giovani nell’interazione con gli schermi e quali sono i processi cognitivi che si attivano?

Pellai. Buongiorno a tutti e a tutte. È un grande privilegio essere qui e poter parlare con così tante persone. Spero proprio che ci siano tanti genitori, tanti insegnanti, tante persone che appartengono alla comunità educante, perché la sfida della tecnologia e della virtualizzazione della vita in età evolutiva oggi è una sfida di portata enorme e noi siamo in un momento in cui dobbiamo decidere quale evoluzione dare a questa sfida. Credo che fino a dieci anni fa ci fosse molto tecno-entusiasmo ed abbiamo quindi accelerato tantissimo la presenza del digitale nella vita dei più piccoli, senza darci alcun genere di criterio. Ed è la prima volta che con delle innovazioni tecnologiche noi ci poniamo bene la domanda su quando sia opportuno far entrare quell’innovazione nella vita di un bambino. Pensate alle automobili: negli ultimi 50 anni sono diventate sempre più sicure, sempre più capaci di tenere la strada, ma nessuno di noi ha mai immaginato di poter anticipare l’età minima per dare l’accesso all’uso dell’automobile ai nostri figli. Nessuno di noi dà le chiavi della propria automobile a un undicenne o a un dodicenne; si aspetta che abbiano 18 anni, un tempo che corrisponde a una maturità cognitiva, un tema che è presente nella domanda, perché guidare un’automobile lungo una strada, dove altre persone fanno la stessa cosa, è estremamente complesso; richiede una serie di funzioni integrative: la visione d’insieme, la capacità autoregolativa, la dimensione della sicurezza, il calcolo della velocità di frenata, tutte cose che bisogna saper fare contemporaneamente, che il cervello cognitivo deve elaborare. Improvvisamente, invece, abbiamo dato a bambini di 8-9 anni strumenti di enorme complessità, che a volte neanche un trentenne sa gestire e usare bene nella propria vita, e gli abbiamo dato libero accesso. Anzi, lo abbiamo anche accelerato in alcune esperienze della vita del bambino stesso. In molte scuole, avere in mano uno smartphone è un prerequisito, o meglio forse lo era; adesso le cose stanno cambiando. È come se prendessimo un bambino che sa andare su un go-kart e lo trasferissimo su un’autostrada a quattro corsie dove passano tir, sperando che chi guida il tir sappia gestire il proprio mezzo in modo tale da proteggere il minore che sta viaggiando sul go-kart. Le cose non sono andate così. Dopo tutto questo tecno-entusiasmo, ora stiamo raccogliendo molti dati di ricerca. Sarebbe interessante che ciascuno di voi entrasse in un grande database di ricerca e verificasse quanta ricerca ci dice che la digitalizzazione precoce della vita dei bambini ha fornito vantaggi per la loro salute e il loro benessere, e quanta ricerca, invece, ci elenca gli effetti collaterali indesiderati, i danni che si sono verificati. Se mettessimo queste due tipologie di ricerca su un piatto della bilancia, vi direi che quello relativo a tutti gli effetti indesiderati è molto ampio. Provo a darvi due blocchi di informazioni. Il primo riguarda la salute mentale. Dal 2012 in avanti, tutti gli indicatori di salute mentale in età evolutiva hanno mostrato un peggioramento continuo ogni anno, dopo un trentennio in cui la loro prevalenza e incidenza era rimasta abbastanza stabile. Trent’anni in cui c’era disagio, ma non in crescita. Improvvisamente, nel 2012, il disagio comincia a crescere; nel 2013 ancora di più, nel 2014 ancora di più, nel 2015 questa curva di crescita del disagio in età evolutiva non si è mai arrestata. Jonathan Haidt che ha scritto un bestseller che si intitola “Una generazione ansiosa” dice questa cosa: nei tre anni che hanno preceduto il 2012 nel mondo sono accadute queste cose: i cellulari sono diventati smartphone, quindi la scatoletta nera che prima ti faceva comunicare e mandare messaggi è diventata un vero e proprio computer portatile con cui puoi fare in ogni momento della tua vita all’esterno ciò che fino a pochi giorni prima potevi fare solo stando seduto davanti al computer di casa. Questo ha comportato che noi usassimo quello che prima chiamavamo telefono cellulare come un vero e proprio computer adibito alla navigazione, spostandoci da uno strumento di comunicazione a uno strumento di connessione e navigazione. Il secondo aspetto è che Apple ha lanciato l’iPhone 4, il primo smartphone distribuito su scala globale con la videocamera integrata, e così tutti abbiamo cominciato a fotografarci e a riprenderci, gestendo una seconda identità accanto a quella della nostra vita reale. I nostri figli, quindi, sono i primi a tenere in mano due vite e due identità: vita e identità reale e vita e identità digitale. Sarebbe meraviglioso se queste due vite si integrassero e completassero, ma chi fa il mio mestiere, lo psicoterapeuta dell’età evolutiva, spesso deve aiutare i genitori che vengono da noi e ci dicono frasi di questo tipo: “Dottore, ci aiuti, perché guardando e spiando nello smartphone di nostro figlio ci siamo accorti che nella sua vita online accadono cose che per noi sono impensabili”. Una frase che cito spesso è quella della mamma che mi ha detto: “Dottore, mi aiuti, perché lei non sa che siti va a vedere tutti i pomeriggi il mio patatone”. Lei era la mamma di un “patatone” nella vita reale e il patatone aveva già fatto un milione di purè nella vita virtuale. Lei non riusciva più a tenere i pezzi insieme. La terza cosa che è accaduta è che è cambiato il mondo dei social. Siamo passati da Facebook a Instagram e Instagram ha inventato questa cosa per cui in ogni momento possiamo andare a vedere le stories, non solo i post. I post durano tutta la vita, le stories durano solo 24 ore, e questo genera una compulsione incredibile a non sconnettersi mai e a stare costantemente curiosi della vita di persone con cui non avremo mai contatti reali, solo virtuali, che però diventano fonti di enorme influenzamento. I guru della crescita dei nostri figli negli ultimi dieci anni, forse questa cosa sta cominciando a cambiare, sono stati gli influencer. In concreto, poi, le ricadute in termini di salute e benessere sulla vita dei nostri figli sono quattro, e ciascuno di voi che ha figli che gestiscono uno smartphone ad uso personale e un profilo social vedrà, in queste quattro cose che ora vi dirò, dei fattori di rischio che compaiono anche nella vostra famiglia. Un primo tema è la deprivazione di sonno. Tutte le ricerche ci dicono che i nostri figli stanno dormendo da una a due ore in meno al giorno rispetto ai loro coetanei di 20, 30 e 40 anni fa, il che significa perdere una o due ore di sonno a settimana. Il sonno è un importantissimo fattore di protezione per la salute sia fisica che mentale sia un grande potenziatore del potenziale di apprendimento dei nostri figli a scuola. Il secondo aspetto è la deprivazione sociale. Non avevo mai visto adolescenti il cui desiderio massimo fosse rimanere chiusi nella loro stanza. Mentre i genitori di vent’anni fa punivano i figli dicendo “vai in camera tua e non uscire di lì”, oggi i genitori dicono “ti stacco il Wi-Fi e se non esci almeno due ore, io non te lo riattacco più”. Questa cosa ci dice che l’adolescenza ha cambiato completamente il suo modo di stare nel mondo reale. Il terzo aspetto è la frammentazione dell’attenzione, con tutta una serie di conseguenze enormi in termini di potenziale di apprendimento cognitivo. Il quarto elemento, enorme, è l’addiction, la dipendenza. Perché i nostri figli, all’una, alle due, alle tre di notte, invece di dormire, stanno svegli, guarda caso, privandosi del sonno, e rimangono connessi? Perché ci sono genitori che ci dicono: “Dottore, ho scoperto che il mio bambino di 10 anni, alle 2 di notte mentre noi dormiamo, si sveglia per andare a giocare a Fortnite”? Per quale motivo a 11, 12, 13 anni, i preadolescenti per la prima volta non hanno più tanta voglia di uscire, di andare dagli scout, a volte si ritirano dallo sport e hanno come massima aspirazione quella di rimanere nella loro stanza a fare cose con il loro smartphone? Questa è la dipendenza, l’addiction, che entra nella vita perché è basata sull’attivazione dei sistemi dopaminergici. La dopamina è il neuromediatore biochimico della gratificazione istantanea: più ne produci, più il tuo cervello ti chiede di continuare a fare ciò che l’ha fatta produrre. Il mondo online è tutto basato sull’attivazione dei sistemi dopaminergici: è un luogo in cui, quando ci entri, tu sei come un pezzo di ferro, e il mondo online è un campo magnetico. Tu, ferro, non sai come resistere all’attrazione esercitata da quel campo magnetico, perché la trovi già lì pronta, che ti dice “stai qua, attaccato a me”. Introdurre questa cosa nella vita di un bambino di nove, dieci, undici, dodici, tredici anni è una delle cose che noi adulti dovremmo imparare a vedere come una delle peggiori cose possibili che sono entrate nella loro vita. Per cui, la tecnologia come strumento, ben venga; la tecnologia come ambiente di vita e di crescita, ahimè, probabilmente non ci ha dato i risultati che avremmo voluto ottenere.

Mercorio. Grazie, Alberto, per gli spunti importanti che avremo modo di riprendere anche nei prossimi interventi. Abbiamo chiesto a Maryanne Wolf come incide l’esposizione precoce agli schermi sullo sviluppo dell’attenzione e del linguaggio nell’età evolutiva. Maryanne non è qui con noi, ma ha risposto alla nostra domanda e abbiamo un filmato.

Wolf. Mi dispiace non parlare italiano, ma saluto con piacere tutti voi del Meeting di Rimini, anche se vorrei poter essere lì con voi. Mi è stato chiesto di parlare di alcuni dei miei lavori, in cui confronto la vita e lo sviluppo dei bambini che trascorrono gran parte del giorno davanti allo schermo e ai dispositivi digitali rispetto ai bambini che crescono con un’esposizione digitale molto minore o addirittura nulla. Una delle domande poste dagli organizzatori del Meeting è di parlare di ciò che accade effettivamente a questi bambini e se ciò influisce sullo sviluppo del linguaggio. Ebbene, un’ipotesi comune è che più i bambini vengono esposti al linguaggio in modi diversi, migliore sarà il loro linguaggio e maggiore sarà il loro apprendimento. Questo è in parte vero, ma la ricerca in materia ci mostra che non è sempre così. In particolare, ci sono nuovi studi, uno dei quali è appena terminato; questo studio si è svolto a Singapore e in Canada, condotto dalla McGill University e dall’Università di Harvard. Cosa hanno fatto? Hanno analizzato la quantità di esposizione digitale di un bambino tra 0 e 8 anni e la correlazione tra la quantità di esposizione digitale e lo sviluppo cerebrale nelle aree dell’attenzione, nonché la relazione tra la quantità di esposizione digitale e il rendimento scolastico, i voti e come andavano questi bambini a scuola. Si tratta di uno studio molto importante per rispondere alla vostra domanda. I risultati sono molto allarmanti. Cosa ci dicono? Dicono che più i bambini sono esposti ai dispositivi digitali, minore è il loro rendimento scolastico. In altre parole, sembra esserci una relazione negativa tra la quantità di esposizione a schermi e a dispositivi digitali e il rendimento scolastico. E, in base alla diagnostica per immagini cerebrale, sembra che con il tempo scopriremo che le aree dell’attenzione, situate nelle zone del lobo frontale del cervello dei bambini, saranno meno sviluppate e connesse del normale. Quindi abbiamo sia gli indici di sviluppo cerebrale, sia i risultati scolastici che ci pongono dinanzi a un avvertimento. C’è anche un altro studio di cui vorrei parlarvi. Anche questo riguarda lo sviluppo cerebrale. Forse alcuni di voi avranno letto il mio libro *Lettore, vieni a casa: il cervello che legge in un mondo digitale*, pubblicato in italiano dalla casa editrice Vita e Pensiero del mio amico, il dott. Aurelio Maria Mottola. Quel libro contiene interessanti contributi di colleghi neurologi pediatrici che hanno analizzato lo sviluppo e l’attivazione delle aree cerebrali del linguaggio quando il bambino utilizza un dispositivo digitale come l’iPad con mille funzioni, rispetto a un approccio puramente uditivo e alla situazione in cui è il genitore a leggere qualcosa al figlio. Si è scoperto quello che è stato definito l'”effetto Riccioli d’Oro”. L'”effetto Riccioli d’Oro” consiste nel fatto che le regioni linguistiche del cervello risultano meno attivate quando il bambino vede tutti i fronzoli tecnologici presenti nella versione della storia sull’iPad. L’attivazione migliore si ha quando ci sono delle persone a interagire con i bambini. Quando parlo di sviluppo del linguaggio, faccio riferimento al lavoro di John Hutton, Zippy Horowitz Krause e altri, che hanno dimostrato che queste regioni linguistiche si attivano molto di più quando ci sono i genitori che leggono ai figli. E su questo c’è tutta una serie di studi.

Botturi. Mi permetto solo una sottolineatura perché penso che quello che abbiamo appena ascoltato ci dia una chiave di lettura molto interessante. Maryanne Wolf ci dice che non è l’esposizione al linguaggio, nel senso di sentire tante parole che ci fa imparare il linguaggio, ma è quando qualcuno parla con noi. Cioè, c’è una differenza sostanziale se noi ascoltiamo uno schermo, un video YouTube, o se c’è un genitore che ci racconta una fiaba. Questo, secondo me, ci dà un’indicazione importantissima per il tema di cui stiamo parlando. Mi sono permesso di intervenire anche perché, a questo punto, ho rubato il ruolo di moderatore a Fabio, perché facciamo una domanda a Fabio: quando diciamo esposizione agli schermi, come diceva anche Alberto prima, in realtà abbiamo in mente i social, i videogiochi, le piattaforme. Questi sono strumenti che ci propongono dei contenuti, ma oggi i contenuti in questi contenitori sono decisi, selezionati, organizzati da algoritmi di intelligenza artificiale che quindi ci troviamo in tasca, intorno a noi. Allora, la domanda è se ci aiuti a capire come funzionano questi algoritmi.

Mercorio. L’idea, quindi, è in pochi minuti provare a capire quali sono i criteri che muovono l’algoritmo, quello che oggi chiamiamo intelligenza artificiale. C’è un video, perché non riusciamo a spiegarlo velocemente. Non è importante leggere, è importante guardare. Questo è un video che ha introdotto un algoritmo, quello che ancora oggi, seppur modificato, è alla base di moltissime delle cose che funzionano online con l’intelligenza artificiale.
Video
Immaginate questo giochino, Breakout, di Atari, immaginate un’AI, un’intelligenza artificiale, che inizia a giocare senza conoscere le regole. Voi avete già capito come funziona il gioco, l’AI no. E quindi inizia a muoversi avendo solo un obiettivo: il punteggio. Qui il primo passaggio importante che dobbiamo cogliere: il fine giustifica i mezzi. Per noi esseri umani no, il fine non giustifica i mezzi, li giudica. Questa è la prima grande differenza tra noi e la macchina. Quindi la macchina, piano piano, impara. Impara dall’esperienza. Dopo un po’ gioca molto bene, come il più bravo della sala giochi, per chi ricorda questo giochino anni ’70, ’80. E più va avanti, più diventa brava nel suo compito. Ricordate che il compito non è fare una bella partita. Il compito è fare punteggio. E allora nel tempo, diciamo così, piano piano impara l’algoritmo che ci sono delle mosse che sono particolarmente profittevoli e altre meno. E la più profittevole è quella di far andare, lo vedrete tra poco, la pallina in alto, sfruttando i rimbalzi e stando fermi: massimo rendimento col minimo sforzo. Anche qui è un criterio che noi solo parzialmente utilizziamo nella vita. Perché questo algoritmo è importante? Perché se sostituite la pallina con noi che leggiamo post, oppure guardiamo video, ascoltiamo musica, acquistiamo prodotti, tutte le volte che l’algoritmo ci raccomanda qualcosa e tutte le volte che a noi piace, noi siamo la pallina che fa il punto. Il punto è quando qualcosa a noi ci piace, il punto è quando noi terminiamo l’interazione. Quindi la macchina ci fa un profilo, questo è un termine ormai che abbiamo imparato tutti a conoscere, e da quel profilo è difficile scostarsi, non perché la macchina sia cattiva, ma perché è progettata per raccomandare solo quello che ha probabilità di piacerti. E se qualcosa potrebbe non piacerti, non c’è convenienza a suggerirtelo. Questa è la ragione per cui negli ultimi anni abbiamo assistito tantissimo a quella che si chiama la polarizzazione, cioè a contenuti estremamente sempre più pertinenti fino a costruirci un vestito che ci sta molto stretto. Ecco, questo algoritmo, ripeto, è alla base della raccomandazione digitale. Il digitale non è soltanto un contenitore perché oggi fruisce di contenuti. Il Nokia 3310 era digitale tanto quanto il mio smartphone, ma l’ha detto bene Alberto, è tutta un’altra storia, perché interagisce. Ma come interagisce? Allora, l’intelligenza artificiale impara dai dati, almeno quella induttiva, quella che stiamo guardando. Allora, immaginate di insegnare. Allora, noi etichettiamo per esempio immagini del mondo e insegniamo alla macchina a riconoscere immagini. Cosa fa la macchina? Riconosce gli elementi caratteristici di ciascuna immagine. È vero anche per il testo, l’audio, il video, per tutto quello che vi viene in mente. La cosa interessante qui da capire è che l’apprendimento avviene dai dati, proprio perché ne abbiamo tanti, l’apprendimento oggi è efficace. Poi facciamo il test alla macchina. Vi sarà capitato di andare su Google e scrivere “foto del mare in bianco e nero” e trovare l’immagine pertinente, perché ha imparato a riconoscere immagini. Poi c’è la fase di test. Se ci sono dei docenti in aula, sapete tutti che all’esame si dà l’argomento visto a lezione ma non l’esercizio svolto a lezione. E quindi nel test cosa si fa? Si danno le immagini di animali visti in pose mai viste prima e alla fine si fa lo score, il punteggio, il voto. Ma se capita qualcosa che la macchina non ha mai visto, come in questo caso, quando i miei figli, a cui ho detto: “Questo è uno squalo”, mi hanno risposto: “Papà, dai, questo è il famosissimo squalo balena”, talmente famoso che io non l’avevo mai visto, e quindi, non avendo mai imparato a riconoscerlo, non l’ho riconosciuto. Per anni noi abbiamo insegnato alle macchine a riconoscere, a catalogare la realtà. Vi sarà capitato di andare su internet e spuntare “non sono un robot”, etichettando semafori, biciclette, no? In quel caso, noi stiamo etichettando la realtà per le macchine. Ma negli ultimi due anni, e vado sulla seconda e ultima parte di questa presentazione, è accaduto qualcosa di nuovo. Quello che è accaduto di nuovo è che le macchine non hanno solo imparato a catalogare oggetti. Questa è una bottiglia, questo è un bicchiere, eccetera. Hanno imparato a riprodurli, a generarli. Da qui, generative AI. Come fa la macchina a rigenerare? Vediamolo con un esempio. Questa è un’immagine reale. Quello che abbiamo insegnato alle macchine è a codificare, cioè a costruire una rappresentazione interna della realtà che, badate, non è come la nostra. Ci sono studi che cercano di capire qual è la rappresentazione che la macchina ha appreso. Codifica quello che per noi è quel funghetto. Come se io vi chiedessi non più di classificare questa bottiglia, ma vi chiedessi: cosa ti fa dire che questa è una bottiglia? La forma? Il colore? La dimensione? L’etichetta? Ciascuno di voi può rispondere a questa domanda, pensando a cosa gli fa dire che è una bottiglia. E la rigenerazione, allora capite, che non è più un creare dal nulla, quindi è generativa non nel senso che genera dal nulla, ma che ripropone contenuti appresi. E quindi, in una fase di decodifica, a un certo punto esce fuori l’immagine rigenerata. E quindi il nome che va su tutti, ChatGPT, è il grande cappello, il capostipite di questa tecnologia che riproduce, genera contenuti a noi noti. Ma come funziona? Ho chiesto al nostro dottorando Antonio, che ringrazio, di preparare un video, per spiegare come funziona questa metodologia. Allora, abbiamo chiesto a ChatGPT di riscrivere “Oggi è davvero una bella giornata” come lo riscriverebbe Dante. Cosa fa ChatGPT? Predice parola per parola senza comprendere quel che fa e quindi si focalizza nella frase sui termini “riscrivila” e “Dante” e poi, essendo stato addestrato sull’intero scibile digitale umano, cioè l’intero internet, inizia a navigare il testo vicino al testo di Dante e genera parole probabilisticamente. Ogni volta che una nuova parola viene generata probabilisticamente, viene aggiunta alla precedente e così l’algoritmo, passo dopo passo, parola dopo parola, genera la frase. Tra poco si vedrà nell’animazione che, non sulla base di ciò che ha appreso, ma sulla base di ciò che probabilisticamente è più vicino al testo che gli ho chiesto, ChatGPT inizia a scrivere una frase così come, secondo l’AI, la scriverebbe Dante. “Oggi si mostra in vero splendore… Oggi si mostra in vero splendore il cielo, irradiando una luce che rallegra l’animo.” Oh, attenzione! Primo e ultimo elemento che vorrei farvi notare: la bella giornata, per l’AI, è il cliché meteorologico. Non è una bella giornata perché hai incontrato qualcuno o perché ti sei innamorato. Perché questo avviene? E vorrei concludere questa presentazione con questo passaggio. Perché noi esseri umani siamo esseri possibilistici. Noi viviamo della categoria della possibilità. L’AI vive, se volessimo dire così, della categoria della probabilità. Certo, anche per noi è importante la probabilità. Se mi alzassi e dicessi: “Mi alzo, inciampo e… Cado”, tutti direste “cado”, perché è probabilisticamente la cosa più naturale. Ma io volevo dire che raccolgo un euro per terra, che è caduto all’amico Alberto, e glielo restituisco. È possibile? Sì. È probabile? No. Quando noi chiediamo all’AI oggi, noi chiediamo a un’intelligenza artificiale che è stata addestrata su contenuti già scritti, già detti, già letti, già visti, di darci probabilisticamente una risposta. Ma noi, ripeto, siamo esseri possibilistici. Il cristiano poi non vive della categoria della possibilità ma della certezza, quindi è un’altra categoria ancora. Questo è importante. Quindi non possiamo spiegare che cos’è l’AI, però possiamo dire in questo modo che cosa ci distingue dall’AI. Con questo vorrei terminare questa parte della presentazione.
Riprendo il cappello del moderatore. E andiamo sulla seconda e ultima parte. Grazie ad Alberto, Luca e Mariana abbiamo capito meglio come funziona, come reagisce la parte del contenuto digitale rispetto alla parte neurologica del comportamento. Chiediamo a Luca, prima di passare alla seconda parte: nel mondo attuale è evidente che non sia possibile evitare di fare i conti con il digitale e quel che comporta. Quindi, quali sono e da dove nascono quelle che oggi vengono dette competenze digitali?

Botturi. Grazie. Questo è un aspetto su cui bisogna intendersi bene perché, appunto, gli schermi in tasca sempre generano una serie di situazioni che portano disagio, che non contribuiscono al benessere dei giovani, ma neanche tanto di noi adulti, eppure siamo in un mondo che è ormai digitalizzato. Basta guardare questa sala: praticamente non c’è nulla che non sia controllato in maniera digitale. Allora, come la mettiamo? Non possiamo dire “fa niente, è ormai un pezzo del nostro mondo”, non possiamo tornare a un’età predigitale, facendo finta di nulla, anche perché il mondo digitale, forse questo è il punto chiave, non è lo smartphone e non sono le applicazioni commerciali che ci tempestano, ma un sacco di altre cose. Partiamo da un assunto: ad un certo punto, il problema era stato quasi messo da parte, dicendo “ma tanto i giovani sono nativi digitali, sono già preprogrammati per fare questo”, e questa era una bufala. Io sono nato negli anni ’70, ma nessuno mi ha detto “tu sei già nato nell’era del motore a benzina, non c’è bisogno che fai l’esame della patente perché sicuramente saprai già guidare”. No, ho dovuto imparare e tuttora i giovani imparano a guidare, chi con più chi con meno successo. Quindi nessuno nasce preprogrammato per la sua era tecnologica. Allora cerchiamo di capire quali sono queste competenze digitali, cioè quando diciamo competenze digitali di cosa stiamo parlando? Ci sono un sacco di modelli che le descrivono, come il DigComp dell’Unione Europea. Non andiamo a fare un’analisi, ma ho provato a prendere due esempi per capire cosa c’è dentro. Se prendiamo appunto il modello DigComp, a un certo punto c’è un ambito di competenza che è la sicurezza digitale e lì dentro troviamo la competenza di usare la tecnologia in accordo con la protezione dell’ambiente in maniera sostenibile. Possiamo essere d’accordo o meno che questo sia centrale e importante, ma andiamoci un attimino più vicino. Cosa vuol dire? Vuol dire che io, come utente di tecnologia, mi pongo il problema, ad esempio, di da dove arriva, se è sostenibile il suo ciclo di produzione. Cosa accade se io butto via uno smartphone all’anno? Ci sono enormi siti con tonnellate di rifiuti elettronici, grandi come città, perché sono poi non riciclabili. Sono tutta una serie di temi che però non hanno a che fare con il saper scrollare velocissimo su TikTok o saper giocare bene a Fortnite, ma hanno a che fare col fatto che io sappia pensare in maniera sistemica, pensando all’ambiente, all’economia, alla società, ai temi legati al lavoro. Cosa vuol dire che la mia tecnologia è sostenibile? Andiamo oltre: se andiamo avanti in questi modelli, troviamo sempre “saper usare la tecnologia per risolvere problemi”. Allora, qui chiaramente serve un po’ di competenza tecnica, devo sapere usare degli strumenti, ma devo sapere identificare i problemi, sapere abbinare i problemi a delle possibili soluzioni. Magari devo imparare a programmare, perché, ad esempio, al Meeting, servono dei software per gestire i volontari. Serve risolvere un problema. Ad esempio, serve un modo che la scorta di medicine di un ospedale rimanga aggiornata. Ci sono un sacco di problemi che incontriamo nella vita aziendale, industriale, della produzione, dell’agricoltura, che vengono risolti grazie a tecnologie digitali. Ma, ancora una volta, questa competenza di risolvere i problemi usando la tecnologia non ha a che fare o ha molto poco a che fare con le competenze, se vogliamo, dei consumatori tecnologici. Quello che voglio dire è che noi spesso, quando pensiamo al mondo digitale, pensiamo allo smartphone e alle app. È vero, ma è un sottoinsieme. Intorno ci sono un sacco di cose che sono molto più importanti, che noi ci stiamo dimenticando. Tant’è che il fabbisogno di professionisti in questi settori è sempre enorme. E non perché abbiamo bisogno di programmatori di Facebook, anche, ma non solo, ci sono un sacco di altre cose. Quindi il primo tema è che le competenze digitali vere non sono quelle dei consumatori. Non stiamo parlando di scaricare un’app, installarla e farla funzionare, fare dei pagamenti, anche questo, ma non è questo il punto della questione. Però abbiamo invece un mercato tecnologico che ci spinge ad adottare questa postura di consumatori compulsivi addirittura. Secondo tema: non è solo sapere usare. Nei due esempi che ho fatto, ma potremmo prenderne anche altri, si tratta di usare le tecnologie, ma anche di avere quella distanza critica che ci permette di capirle, di interpretarle, di dare loro un senso, di essere noi a inserirle, se riprendo le parole che ha usato Fabio un attimo fa, nella categoria del possibile. Cosa posso veramente fare di nuovo, di bello e di utile? Quindi come collego la tecnologia a una mia visione del mondo, magari positiva e costruttiva? Ecco, questa è una prospettiva un attimino diversa. Quindi non dobbiamo farci incastrare. Io ho una collega che ha un figlio che è appena stato alle Olimpiadi, come atleta, nel nuoto e ogni tanto le chiedo come va e lei mi racconta degli allenamenti che questo ragazzo fa, che è un nuotatore professionista. È come se io dicessi “sì, sì, anch’io d’estate vado al lago a nuotare”, che va benissimo, ma non è paragonabile all’allenamento olimpionico, siamo d’accordo? E qui è la stessa cosa: le competenze digitali… “Sì, sì, ma mio figlio è bravissimo, guarda sempre TikTok”, non c’entra quasi nulla. Non stiamo preparando un giovane al futuro mettendogli in mano uno smartphone. Non è questa la questione; apriamo l’orizzonte. Quando parliamo di tecnologie digitali, sì, ci sono gli smartphone, ma pensiamo ai sensori che regolano i processi di sintesi dell’industria farmaceutica. Questo è un mestiere super tecnologico, un mestiere utilissimo. Ha a che fare con le piattaforme social? No, nulla, ma è un mestiere tecnologico. Oppure i programmi di guida automatica degli aeroplani, di assistenza alla guida? Oppure gli strumenti che permettono di gestire le industrie tessili e i telai elettronici? Sono tantissime le applicazioni che probabilmente ognuno nel suo settore conosce. Quella è la vera sfida, la vera sfida è abitare qui i luoghi e lì la tecnologia diventa estremamente utile. Spesso nel nostro discorso è come se la facessimo fuori, perché lì c’è un lavoro, c’è fatica, c’è apprendimento, c’è una carriera professionale, è una sfida vera, diventa un lavoro, invece noi ci concentriamo su quel lato, la schiuma che c’è sopra, che è la parte di entertainment, come se navigare nell’intrattenimento digitale fosse l’obiettivo, fosse quello che ci rende cittadini digitali competenti. Ecco, togliamo la schiuma: è quello che c’è sotto che veramente interessa. Allora la sfida vera è riuscire a mettere a tema quelle competenze, perché quelle competenze sono quelle che ci rendono protagonisti in un mondo in cui il digitale è parte della nostra esperienza.

Mercorio. Grazie, Luca. Mi permetto solo di aggiungere quindi che il tema della competenza digitale, che anche noi osserviamo come competenza che emerge sul lavoro, non è quindi meramente un saper usare, ma è un cogliere i criteri, soprattutto quando, direi, il digitale e la tecnologia che si veicola attraverso il digitale crescono così velocemente che non c’è neanche il tempo di stare al passo. Quindi avere un criterio rispetto a un oggetto ignoto è più importante che sapere usare tutti gli elementi a contorno. Andiamo sulla seconda parte: che responsabilità educative emergono da quanto ci siamo detti? Torno ad Alberto. Oggi c’è il tema di porre un limite o dei limiti di età nell’uso dei dispositivi digitali, di attendere l’età giusta, soprattutto nella scuola. Cosa ne pensi nella tua esperienza professionale?

Pellai. Ma io, come specialista della mente, penso che la nostra mente richieda una fase di specificità nel modello educativo. Cioè, io costruisco la crescita e la formazione di un bambino e di una bambina, che poi diventano preadolescenti e adolescenti, nutrendo la loro mente con stimoli, esperienze e relazioni che sono adeguate all’abilità e alla competenza che quella mente è capace di mettere in gioco. Per cui, nessuno farebbe leggere l’edizione integrale dei Promessi Sposi a un bambino di prima elementare, così come nessuno regalerebbe l’antologia di Peppa Pig a un sedicenne. Vuol dire che l’esperienza che noi vogliamo stimolare attraverso questi due strumenti è la capacità, l’abilità di lettura per sviluppare la passione della lettura, ma ogni età avrà il suo stimolo adeguato. Quindi, che cosa dobbiamo fare in questo momento? Dobbiamo domandarci come si sviluppa e si struttura la mente in età evolutiva. C’è un tempo, che è quello tra i 9 e i 14 anni, che è un tempo di enorme fragilità e vulnerabilità nei confronti dell’ingaggio che viene proposto dalla vita online e dai funzionamenti della vita online, che sono grandi attivatori nel cervello emotivo dei circuiti affamati di gratificazione istantanea. Lo cito molte volte: questo è il dilemma di Pinocchio. Geppetto gli dice di andare a scuola, Pinocchio si fida di Geppetto ed esce di casa per andare a scuola. Lucignolo lo intercetta e gli dice: “Vai a scuola? Che barba, che noia! Vieni con me che andiamo nel Paese dei Balocchi.” Sarebbe meraviglioso se Pinocchio avesse già l’abilità e la competenza per dire: “Ma io ho bisogno di andare a scuola, non di andare nel Paese dei Balocchi.” Ma Pinocchio, in un microsecondo, cambia completamente il progetto di quella giornata. Ma se tutti i giorni incontrasse Lucignolo, cambierebbe tutti i giorni il progetto del suo percorso di crescita. Ora, prendete un dodicenne che vuole fare bene i compiti di matematica. Ha di fianco a sé lo smartphone, perché dentro c’è un’app di calcolo e gli serve per fare i compiti di matematica. Quindi userà l’app di calcolo per fare una cosa importante per la sua formazione, per il suo apprendimento. Quell’app però è dentro uno strumento che gli manda un sacco di altre informazioni e che costantemente gli sta dicendo: “Guarda che io qua dentro ho il Paese dei Balocchi.” Il dodicenne dovrebbe rispondere al suo strumento: “Non mi interessa il tuo Paese dei Balocchi, per me è troppo importante fare i compiti di matematica.” Quanti sono i vostri figli dodicenni che sanno fare questa operazione? Quanti di voi, dopo aver dato uno smartphone al proprio figlio, hanno figli che sono risultati molto più bravi e facilitati nei loro compiti di studio? Un sacco di gente viene a chiedere aiuto a chi si occupa di queste cose, dicendo: “Da quando ha Fortnite, da quando ha lo smartphone, farlo studiare in modo adeguato è un tiro alla fune infinito.” Ora, il dato di fatto è che nel cervello del preadolescente, tra i 10 e i 14 anni, è scoppiato uno tsunami, proprio quella cosa che avete visto nel cartone Inside Out 2. Cioè, improvvisamente, i funzionamenti emotivi hanno un’accelerazione pazzesca e quel cervello diventa affamatissimo di che cosa? Proprio di esperienze gratificanti nell’istantaneo, di sensation seeking, di piacevolezza e fanno molta fatica invece a seguire tutti quei processi che sono formativi, sviluppativi e maturativi dei funzionamenti cognitivi. Se voi entrate, e in questo le neuroscienze ci hanno dato una risorsa enorme, ora possiamo vedere dentro il cervello, guardare quello che accade. E non per niente Maryanne Wolff ci diceva che tutto accade nella corteccia prefrontale, cioè quella zona del cervello che sta qua dietro la fronte, che è la cabina di regia del nostro successo nella vita, che arriva a piena maturazione tra i 18 e i 22 anni. Che cosa succede a un undicenne o a un dodicenne che ha un cervello emotivo che va a 200 all’ora e ha un cervello cognitivo che dovrebbe regolare le richieste del cervello emotivo che va a cinque all’ora e quindi non riesce a stargli dietro? Cosa diventa il lavoro fondamentale dell’adulto? Continuare a canalizzare, a direzionare la potenza del cervello emotivo verso obiettivi che non sono quelli del Paese dei Balocchi (divertiti), ma sono quelli del Paese della vita reale, cioè formati ed educati, che diventano grandi acquisendo quell’allenamento alla vita che ti permetterà di funzionare bene. Le tecnologie sono meravigliose anche come strumenti di apprendimento. Ma quando lo strumento è dentro un ambiente e l’ambiente è un parco giochi che non chiude mai, ti trovi a dover usare degli strumenti mentre costantemente senti il richiamo di tutto ciò che è divertente, attraente e che ti fa fare l’esatto contrario. Ecco, questa cosa qua è davvero molto difficile da regolare. Noi dovremmo, in qualche modo, anche il Ministro con la circolare che sarà operativa… Cosa ci dicono le ricerche? Prendete tre gruppi di ragazzi omogenei e fategli fare lo stesso test. Un gruppo mettetelo in un’aula dove non possono avere lo smartphone. Un altro gruppo mettetelo in un’aula dove hanno uno smartphone spento, ma appoggiato sul banco. Un altro gruppo mettetelo in un’aula dove lo smartphone è appoggiato sul banco e attivo. Loro non possono interagire, ma lo smartphone può mandare tutti i messaggi che vuole allo studente che sta facendo il test. Guardate che valutazione finale riceveranno dello stesso test e scoprirete che la media matematica migliore ce l’hanno gli studenti che non hanno lo smartphone neanche come oggetto visibile; il punteggio intermedio ce l’hanno gli studenti che vedono lo smartphone, però è spento; il punteggio peggiore ce l’hanno gli studenti in cui lo smartphone è lì presente e attivo, anche se non lo possono toccare. È molto importante la circolare ministeriale che dice: facciamo scuole smartphone free, libere dallo smartphone che non deve stare neanche nello zaino per essere tirato fuori nell’intervallo, ma viene depositato all’ingresso della scuola e ritirato alla fine della giornata scolastica. Molti hanno contestato questa cosa, dicendo: “Siete vintage, che metodo preistorico, come non sapete stare al passo coi tempi!” Scusate, ci sono cinque nazioni in questo momento che hanno questa cosa qua come regolamento del loro sistema scolastico. Sono la Norvegia, la Finlandia, la Svezia, la Gran Bretagna, la Francia: sistemi scolastici tra i più avanzati, i più digitalizzati, che in realtà, sulle evidenze di ricerche, decidono che i loro studenti passeranno l’intera giornata scolastica senza l’interferenza dello smartphone. Io credo che questo sia il modo in cui in questo momento dobbiamo usare i dati di ricerca che ci sono disponibili. Se la ricerca ci dicesse che lo smartphone migliora la vita dei nostri figli, gliene regaleremmo cinque. Se la ricerca ci sta dicendo che ha un impatto molto forte sui loro apprendimenti, sui loro modelli di benessere, di stili di vita e su tutte quelle cose che si chiamano allenamento alla vita, di cui il mondo adulto deve essere responsabile e garante, allora dobbiamo davvero fare un’inversione di rotta. Secondo me, questo è il tempo in cui o capiamo cosa vuol dire usarli come strumenti e toglierli dalla vita dei nostri figli come ambienti, o ci troveremo al prossimo Meeting fra qualche anno a dover dire che abbiamo perso la partita.

Botturi. Rubo ancora il cappellino a Fabio per un altro stimolo, perché abbiamo parlato di questi algoritmi, di queste piattaforme, però facciamoci un’altra domanda: chi li costruisce, chi li progetta? Perché? Che obiettivo ha in mente? A che fine ci preparano questi strumenti che troviamo in ogni angolo della nostra vita?

Mercorio. Anche io reagisco, tra l’altro, a quello che ha appena detto Alberto. Prima parlavi dello tsunami che coinvolge gli adolescenti, e credo che anche noi tutti siamo coinvolti da uno tsunami tecnologico che cresce così velocemente. Ovviamente, i numeri sono da considerarsi come indicativi.
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Quanti anni hanno impiegato queste tecnologie per raggiungere 50 milioni di utenti? Allora, iniziamo dall’aeroplano, le automobili, il telefono, l’elettricità: siamo sui 46 anni; poi le carte di credito, 28 anni; la TV, i bancomat, i computer, i cellulari, non gli smartphone; internet, 7 mesi; Facebook, 4 anni; WeChat, un anno; Pokémon Go, 19 giorni. Innanzitutto qui si notano due cose. La prima, la triste inversione di importanza di queste tecnologie per la nostra vita. E la seconda è la velocità. Nel 2008, prima lo diceva anche bene Luca, nel 2008 non c’erano le app. Non c’erano le app: è un’era tecnologica fa. Tutta questa velocità credo che sia evidente che ci abbia messo in crisi, perché non siamo abbastanza pronti, maturi, nel riuscire a mettere la tecnologia a sistema nell’educazione, nel lavoro, nella società, nell’amicizia. Con questa slide l’intervento sarà brevissimo, però questa è importante perché credo che una fatica nel giudicare l’oggetto nasca da un errore di interpretazione dell’oggetto stesso.
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Pensiamo: ogni singolo oggetto che noi creiamo, l’informatica è bellissima, perché vuole velocizzare e risolvere problemi in maniera automatica per dare più tempo all’essere umano di fare altro, non per legarlo a sé, ma per avere più tempo di fare altro. Allora, gli oggetti che noi creiamo risolvono problemi o bisogni in maniera chiara, esatta. Facciamo un gioco semplice. Che cos’è questo? A cosa serve? Perfetto. Che cos’è questa? A cosa serve? Tutti bravissimi, unanimi. Che cos’è questa? A cosa serve? Già qui… Che cos’è questo? Mio figlio direbbe: “Un social dei boomer.” Ma a cosa serve? Se vi chiedessi a cosa serve, ognuno di voi darebbe una risposta diversa. Però col bicchiere è immediato l’utilizzo. Se uso male il bicchiere, se lo uso come un martello, tutti quanti voi immediatamente capireste che sto usando male l’oggetto. Ma qui è più difficile. Cosa dice Facebook di sé stesso? Vuole dare alle persone il potere di costruire comunità e rendere il mondo più vicino. Cosa farà il mondo quando sarà più vicino? Cosa si dirà? Tutto questo è demandato a un’esperienza e una capacità di giudizio che non possiamo delegare alla piattaforma, capite? Ed è per questo che, secondo me, mi permetto di dire, Alberto, è importante il tema dell’avere la preparazione strutturale, dico io, che sono un informatico, per poter stare di fronte a un oggetto con le sue complessità, che non è quindi uno strumento, ma un meta-strumento. TikTok, per essere più millennial: “La nostra missione è ispirare creatività e portare il buon umore.” Come? Come il fine giustifica i mezzi per la piattaforma: “Catturare e condividere i momenti del mondo.” Instagram. Ecco, io credo che questo sia importante, cioè è importante capire che l’oggetto ha uno scopo in sé e che questi oggetti sono cosiddetti meta-oggetti. Sono oggetti che noi riempiamo col desiderio di ciò che ci attendiamo. Faccio una battuta per farvi capire. Raccontavo a dei ragazzi queste cose e a un certo punto nella platea scorgo un ragazzo che fa spallucce all’amico e parlano. Interrompo e gli dico: “Perché hai fatto così all’amico?” “No, commentavo.” “Hai fatto bene a commentare, ma perché non gli hai mandato un WhatsApp? Perché gli hai fatto così?” “Perché è un’altra cosa.” È quello che stiamo dicendo: è un’altra cosa. Oggi i social sono un surrogato dell’amicizia. Chiudo questa parte, visto che stiamo andando oltre con i tempi, citandovi quello che il Papa ha detto al G7, quindi il primo pontefice che interviene al G7, e come argomento decide di trattare l’IA. Forse avrà qualche ragione. Dice: “Dimenticare che l’intelligenza artificiale non è un altro essere umano e che essa non può proporre principi generali”, per quello che ci siamo detti prima, “è spesso un grave errore che trae origine dalla profonda necessità degli esseri umani di trovare una forma stabile di compagnia e da un loro presupposto subconscio, ossia dal presupposto che le osservazioni ottenute mediante un meccanismo di calcolo siano dotate della qualità di certezza indiscutibile e universalità indubbia.” Vogliamo la verità. Noi vogliamo l’amicizia e la verità, meglio ancora se l’amicizia nella verità. Demandarla a un surrogato social è un errore di metodo, non dell’oggetto. E quindi, anche dal punto di vista della verità, demandare la verità a un elemento probabilistico che oggi seleziona il contenuto è un errore di metodo, una fallacia di metodo; non è un errore dell’oggetto. Quindi noi non stiamo dicendo che l’oggetto va messo al bando: sono un informatico, io adoro l’informatica, è bellissima, l’informatica è bellissima. Quello che noi stiamo dicendo è che dobbiamo riscoprire come usiamo i criteri dell’agire, riscoprire come usiamo le cose e riscoprire che alcuni oggetti che abbiamo creato sono più alti, per l’appunto, come diceva bene Alberto, cioè che hanno un meta-oggetto, hanno un desiderio, e quindi dobbiamo tornare a paragonarci noi con quello che ci aspettiamo dall’oggetto. Abbiamo chiesto a Maryanne: gli strumenti digitali offrono stimoli molto più ricchi e attraenti, quello che ci diceva prima bene Alberto. Quali sono le evidenze scientifiche sul tema?

Wolf. Uno degli aspetti più importanti, che centra con le due domande che mi sono state poste dagli organizzatori del Meeting di Rimini, riguarda sia il rapporto tra digitale e sviluppo del linguaggio, sia quello che i genitori possono fare. Da questa ricerca emerge chiaramente che una delle cose migliori che i genitori possono fare è leggere ad alta voce e non far fare tutto allo smartphone. Lo smartphone è diventato onnipresente nella vita dei nostri figli. L’iPad è diventato onnipresente. I problemi sono molti, ma sono due quelli più importanti per i genitori e gli educatori e per tutti quelli di noi che valorizzano l’alfabetizzazione e ciò che aiuta lo sviluppo del cervello e del linguaggio nell’individuo, e ciò che aiuta a indirizzare la vita degli individui e la società. Allora, tutto ciò che sto per dirvi ha come denominatore comune il nostro convincimento dell’importante contributo che l’alfabetizzazione profonda dà al bambino, alla società e persino alla nostra specie. Vorrei quindi che rifletteste su ciò che sta realmente accadendo nella vita dei nostri figli, sia che siate genitori, educatori o decisori politici. Si tratta dello sviluppo di tutti questi importantissimi processi che io chiamo lettura profonda, ma che coinvolgono l’adozione di punti di vista, l’empatia, la deduzione, il pensiero critico e la riflessione. Questi processi di lettura profonda richiedono tempo, e spesso i dispositivi digitali inducono il bambino, il giovane adulto o anche noi stessi, a leggere in modo superficiale. Leggiamo in modo sommario, scorrendo velocemente il testo. Rimaniamo sulla superficie di ciò che leggiamo, velocemente, e questo non lascia al cervello il tempo necessario per attivare davvero tutta una serie di processi linguistici, cognitivi e affettivi molto sofisticati. Quindi uno degli, per così dire, avvertimenti che vorrei lanciare è che tutti noi dobbiamo agire affinché i nostri figli, noi stessi, la nostra società, acquisiscano una capacità di lettura profonda. Non è che la lettura profonda sia impossibile da fare su un computer portatile: dobbiamo farlo tutti per molte ore al giorno. Ma quando si legge velocemente su un computer, è probabile che non ci sia il tempo sufficiente per un’elaborazione più profonda. E quando parliamo di bambini, stiamo parlando proprio dello sviluppo di questi processi di lettura profonda. Ho usato l’espressione “cervello bialfabetizzato” proprio per dire che non si deve pensare che sia una scelta binaria, una buona e una cattiva, tra testi cartacei e tecnologia. Assolutamente no. Non è una situazione binaria: si tratta in realtà di un modo evolutivo di formare il sapere digitale e quello della carta stampata. Entrambi portano alla crescita e all’espansione dei processi cognitivi. Allo stesso tempo, la maggiore esposizione di un bambino a testi su carta, soprattutto nei primi dieci anni di vita, consente di preservare lo sviluppo dei processi di lettura profonda. È comunque possibile fare entrambe le cose, se usiamo la saggezza su entrambi i fronti dei mezzi di comunicazione. Grazie.

Mercorio. Gli ultimi minuti. Chiediamo a Luca, quindi, qual è il ruolo della scuola nell’educazione digitale? Cosa vuol dire digitalizzare le scuole?

Botturi. Questo è un altro grande tema. Immagino che qui ci siano diversi insegnanti, se alzate la mano ce ne sono molti, quindi parlo a loro, ma parlo anche ai genitori, perché questa è una delle sfide: l’educare al digitale, che o si affronta insieme o non si vince. La scuola ha un ruolo fondamentale nel senso che ci sono alcune cose che può fare solo lei. Quell’effetto Riccioli d’oro che citava prima Maryanne si è visto in tante ricerche che mostrano una curva così. C’è un medio in cui l’effetto è massimo. Qual è quel punto medio? Io lo vedrei così: è quel punto in cui la tecnologia mantiene la sua natura di strumento ma non diventa il fungo che riempie ogni spazio mentale libero che abbiamo, che è l’effetto a cui invece ci spingono gli algoritmi e le piattaforme. La scuola deve essere un luogo capace di far incontrare i giovani con la vera natura di questi strumenti, interpretandoli come strumenti, come attrezzi che ci servono a produrre qualcosa di buono. Dobbiamo scrivere un testo? È chiaro che in alcune fasi, averlo in digitale invece che scritto a penna mi permette di fare certe operazioni. Dobbiamo comunicare con un’altra scuola? Dobbiamo preparare un poster da stampare? Ci sono tante situazioni in cui il digitale ci dà una marcia in più. Avere degli spazi così è la vera sfida, non avere dei cortiletti ma inserirli all’interno delle discipline, dentro le materie scolastiche che abbiamo e che già conosciamo. D’altro lato, dobbiamo preservare degli spazi in cui impariamo e coltiviamo tutte quelle competenze, quelle abilità che la tecnologia tende a coprire. Maryanne diceva benissimo, non si tratta di scegliere tra una cosa o l’altra, si tratta di imparare a leggere sullo schermo, perché fa parte della nostra vita, ma anche di saper gestire la carta stampata, di prendere in mano un libro e non sentirci intimoriti. Ecco, avere degli spazi dove possiamo coltivare queste abilità, per cui sappiamo comunicare in chat, ma siamo in grado di sostenere un colloquio, non ci sentiamo a disagio quando siamo in un gruppo di amici, non preferiamo rintanarci in stanza quando possiamo invece uscire a incontrare le persone, anche se è più comodo mandare un messaggino. Ecco, trovare questo equilibrio è delicato, penso che la scuola possa avere un ruolo nel proporre dei buoni esempi, delle situazioni in cui questo equilibrio si possa vedere, si possa toccare. Penso anch’io che togliere gli smartphone, che di fatto sono un ingombro in tanta parte della vita scolastica, possa essere utile. Tutto questo ha senso e funziona se dall’altra parte abbiamo delle famiglie che dialogano con la scuola e che quindi propongono gli stessi criteri con formule diverse adeguate alla casa, anche in famiglia. Perché se invece la scuola diventa il carcere in cui lo smartphone non entrare, invece, fuori, invece, è dappertutto questo gioco non tiene più. Come su tante cose, su tutti gli aspetti educativi che viviamo a scuola, se ci si accorda tra scuola e famiglia diventa un gioco molto più semplice. Cosa vuol dire questo in pratica? Lo dico proprio in sintesi. Primo, vuol dire forse ripensare a quali sono gli spazi nei programmi scolastici che ci permettono di fare questo lavoro, di non ingessarci in quello che si è sempre fatto. In secondo luogo, vuol dire fare una vera formazione dei docenti, che non significa diventare dei piccoli informatici, non è questa la sfida, ma imparare a riflettere su questi temi. Oggi, in un corso di filosofia, penso si dovrebbe accennare al tema dell’intelligenza e dell’intelligenza artificiale, perché solo lì riusciamo a trattarlo con una certa ampiezza. Non è un’occasione che si può far passare così. E l’altra cosa: attenzione, digitalizzare la scuola, cioè pensare una scuola che ci permetta di educare al digitale, non vuol dire riempirla di dispositivi, non vuol dire investire per forza in 100.000 schermi o strumenti o dispositivi. Possono essere utili per le attività che dicevo prima, ma non è quello il fine. Il fine non è diventare un ulteriore tipo di consumatore istituzionale invece che individuale, ma proporre un luogo in cui, come diceva Fabio un attimo fa, riusciamo a interpretare, a metterci davanti alle tecnologie con uno sguardo ampio, considerando quelli che sono i veri bisogni, i veri obiettivi che condividiamo.

Mercorio. Grazie. A pochi istanti prima di chiudere, abbiamo un messaggio conclusivo da Maryanne e poi un minuto a testa di takeaway, visto che l’orario è quello giusto.

Wolf. Ebbene, voglio quindi lasciarvi con una nota di forte speranza. Penso che tutti noi condividiamo il desiderio che i nostri figli non solo espandano tutte le loro competenze digitali, ma che conservino anche il meglio dei processi che abbiamo sviluppato per oltre 2000 anni. E vorrei che voi, educatori e genitori, sapeste che uno dei modi più semplici per iniziare a farlo nei primi 5-10 anni di vita è leggere ai vostri figli ogni sera, non con il telefono, dando loro un cattivo esempio, ma con il buon esempio di trasmettere il vostro amore e affetto attraverso la lettura di storie che li trasportino ovunque e che diano spazio alla loro immaginazione, così che ovunque si trovino, queste storie diano loro la possibilità di essere tanti personaggi diversi e di imparare chi sono gli altri. Grazie di cuore, grazie mille e auguro a tutti voi uno splendido Meeting di Rimini.

Mercorio. Alberto, messaggio conclusivo.

Pellai. Il messaggio conclusivo secondo me è questo: noi siamo la prima generazione di genitori e di adulti che si trova a crescere figli che vengono costantemente intercettati da un sistema di enorme potenziale, di grandissima utilità, che è quella cosa lì, no, che ci avete appena spiegato, ma allo stesso tempo che quando guarda i nostri figli, dice: “Qui dentro c’è un enorme potenziale”, però intanto li guarda e gli chiede quanti soldi mi puoi dare, come facevano il gatto e la volpe con Pinocchio. È proprio una visione non etica della crescita. Se tu, social media, quando guardi mio figlio, ti domandi che valore economico ha dentro il mio sistema, tu stai usando l’infanzia e l’età evolutiva nel peggiore dei modi in cui il mondo adulto guarda l’età evolutiva. L’età evolutiva va tutelata, va protetta, va sostenuta, va fatta crescere. Provate a immaginare un buffet apparecchiato con hamburger, patatine, pizza e ogni tipo di dolci e un magnifico angolo con frutta e verdura. Fate entrare un bambino e gli dite: “Guarda che la frutta e la verdura è ciò che ti nutre veramente, non interessarti di tutto il resto”. Quanti sono i bambini che, lasciati a sé stessi, mangeranno carote e zucchine? Ora, io credo che questo è un tempo in cui noi dobbiamo sgomberare il buffet di cibo non nutriente e, se davvero pensiamo che quella è la cosa che nutre, anche i sistemi che erogano la vita online e tutti i contenuti dei social media devono sapere e sentire che se davanti a me c’è un minore io gli devo dare il meglio e non il peggio.

Botturi. Io penso che siamo davanti a una grande sfida e mi sembra che con gli anni stiamo, come educatori, come genitori, come insegnanti, acquisendo consapevolezza. Ci stiamo rendendo conto: è vero, c’è stata forse un po’ di sbornia digitale negli anni passati, ma ora abbiamo davanti un momento in cui c’è da decidere che forma diamo al nostro rapporto con le tecnologie. Penso che questa sfida consista nell’identificare delle vere sfide da proporre. Il punto è che dobbiamo rimettere in relazione questi strumenti digitali. Ogni smartphone che abbiamo in tasca è più potente dei computer che hanno mandato la prima astronave sulla Luna, quindi abbiamo in tasca veramente uno strumento incredibile e abbiamo intorno strumenti incredibili, ma dobbiamo metterli in dialogo con delle vere sfide, cioè con degli obiettivi per cui possiamo dire: “Qui vale veramente la pena”, in cui i nostri ragazzi dicono: “Questo vale veramente la pena”, e allora ci impegniamo a dare forma a questi strumenti in modo che ci portino a quell’obiettivo e, in questo modo, tutto quello, la schiuma che dicevamo prima, scappa via e rimane l’aspetto di potenzialità, che è poi la vera natura della tecnologia.

Mercorio. Mi permetto di dire due parole veramente brevi, prima di andare via. Ovviamente faccio le conclusioni e prendo le mosse da quello che ha detto Alberto. Noi siamo la prima generazione che sta insegnando anche all’AI la nostra realtà, fatta soltanto di due sensi, perché tatto, olfatto e gusto non c’è. E il timore che nasce in noi e nei ragazzi è quello che mi spaventa di più. Oggi un ragazzo che si trova di fronte alla tecnologia, che fa meglio quello che potrebbe fare lui, questo è un timore grande. Perché? Perché si sente di meno e si disincentiva. Cosa mi impegno a fare se quello che faccio io e che piace a me, come comporre musica, scrivere, disegnare, può farlo una macchina meglio di me? Questo è gravissimo, ma come di fronte al buffet di dolci di cui tu parlavi prima, noi adulti abbiamo una grande responsabilità. Come nessuno di noi genitori insegnerebbe ai propri figli ad andare in bicicletta dicendo: “Ecco la bicicletta, vai, prova e vedi che succede”, ma li accompagniamo, noi dobbiamo sentire la responsabilità di accompagnare i nostri figli, tenendo presente se e in che misura sono pronti ad affrontare alcune sfide, ovviamente facendo presente ai grandi leader tecnologici che alcuni contenuti vanno salvaguardati e tutelati per i minori. Aggiungo io, dobbiamo avere nella nostra posizione i criteri del giudizio, perché l’AI di domani noi non la conosciamo. Quindici anni fa non c’erano le app, eravamo campioni del mondo da due anni e non c’erano le app, capito? È un altro mondo, quindi noi dobbiamo dotare i nostri figli di criteri di giudizio, altrimenti li doteremo di competenze che saranno desuete in pochi anni. Grazie. Vi ricordo che c’è scritto lì: “Una civiltà non cresce senza cultura, dialogo e bellezza: ne sono la linfa vitale”. L’ho letto girandomi e mi sono detto: questo è un momento di dialogo e cultura. Se lo pensate anche voi, uscendo potete donare per il Meeting. Grazie e buon pranzo e buon Meeting.

Data

21 Agosto 2024

Ora

12:00

Edizione

2024

Luogo

Auditorium isybank D3
Categoria
Incontri