Chi siamo
SI PUÒ VIVERE COSÌ
Partecipano: Vicky Aryenyo, Meeting Point International, Uganda; Marguerite Barankitse, Fondatrice Maison Shalom, Burundi. Introduce Rose Busingye, Infermiera professionale, Uganda.
MODERATORE:
Questa sera sentiremo due personaggi, li sentiremo proprio per testimoniare cosa può dare veramente parola all’uomo, alla nostra povertà, ricchezza, malattia e morte. Che cosa può renderci protagonisti nonostante il nostro niente e la nostra meschinità? Ciò che può dare valore a tutta la nostra povertà è qualcosa che va al di là di tutto questo. Una cosa più forte, una scoperta della dimensione infinita del cuore che coincide con lo stabilirsi di un rapporto che è più forte di tutti i limiti. Un uomo che è diventato nostro compagno, è lui che dà volto alla nostra persona e rende la nostra umanità segno vivo della Sua gloria. Don Gius ci ha insegnato che ogni uomo ha in sé la capacità di riconoscere la verità e la bellezza di Cristo e di provare commozione. Nulla è più desiderabile della compagnia umana attraverso cui si rende presente e in cui si dimostra capace di rispondere all’attesa del nostro niente. Per noi allora il nostro lavorare, aiutare gli altri, come sentiremo nella testimonianza di Vicky e della Marguerite, è favorire il venire a galla e chiarirsi del valore del singolo; offrire una amicizia a cui ognuno può appartenere. Perché un io appartenente diventa protagonista perché ha un volto, riceve un volto, riceve una coscienza unificante sé e la realtà. Tu diventi signore della realtà non perché la possiedi tu, ma perché la scopri fatta da un Altro, perché dipende da un disegno che non è tuo. Per noi è questa scoperta di una paternità in atto, dentro la vicenda della nostra giornata, della nostra esistenza, che rende la vita danzante, cosicché uno può anche volare nonostante la malattia e la morte. Non basta un’indagine esistenziale, non basta neanche una reazione istintiva, perché questo non ci fa uscire dalla confusione che caratterizza le nostre vite e la nostra giornata; non fa emergere un volto e non fa risaltare un protagonista. Il nostro piccolo io è proprio come un soffio: non riesce mai ad essere protagonista se non c’è l’appartenenza; senza l’appartenenza uno si afferra di qua e di là a quello che capita e a quello che riesce a prendere; uno rimane instabile e incerto. Quando uno perde il valore dell’appartenenza perde anche il valore di se stesso; perde anche il senso e il valore di tutte le altre cose, il suo io e la sua personalità vanno in crisi. Invece l’appartenenza a Cristo, alla Chiesa, per noi è diventata l’esperienza di un legame che ridefinisce per sempre e che si manifesta in tutto ciò che siamo e facciamo. Quello sguardo ha stabilito anche il contenuto e il metodo del nostro lavoro, cioè comunicare la commozione e la grandezza sconfinata dell’esistenza di ciascuno e offrire una compagnia al destino che abbracci la vita. Tutto ciò che sentiremo dalla Marguerite e dalla Vicky è proprio per comunicare e per dire: tu non sei la circostanza in cui ti trovi, non sei l’orrore della guerra, della malattia che ti è capitata. Tu sei il valore infinito che viene da Dio e ti fa essere e ti ama. Adesso do la parola alla Marguerite.
MARGUERITE BARANKITSE:
Buonasera a tutti, peccato davvero che io non possa esprimermi nella mia lingua, o anche nella vostra, così bella, l’Italiano. Vi chiederò però un piccolo favore, vi chiederò cioè di prestarmi i vostri cuori, di mettere giù le penne, sapendo però che qui c’è una sorella, una sorella che vi sta parlando; una mamma anche, se siete piccini, una mamma che non è qui per parlare dei drammi dell’Africa, ma che invece è qui per dirvi che l’Africa non è perduta, che il mondo è un’unica famiglia, una bella famiglia. Sono così felice di trovarmi davanti a volti così felici, così illuminati! Sono qui per raccontarvi una storia, una storia triste certo, ma che se poi lo vogliamo davvero ci insegna che è possibile vivere felici anche nel bel mezzo delle atrocità. Io vengo da un paese africano piccolo piccolo; so che la maggioranza di voi non sa nemmeno dove si trovi il mio paese: il Burundi. Magari si è parlato molto in televisione, sui media del genocidio in Ruanda, magari forse la gente confonde la storia del Ruanda con quella del Burundi. Ma vi dico una cosa: si tratta di due fratelli gemelli; talvolta sono stati fratelli gemelli, talvolta sono stati fratelli nemici l’uno dell’altro, ma sempre si sono, come dire, imitati nel commettere queste atrocità. Tutti mi chiamano “la grande del Burundi”, c’è questa storia intorno al mio personaggio, e vi chiedo – pazza come mi dicono – di uscire da questa sala con questa vena di follia che anch’io ho, di trasmetterla anche a voi. Mi promettete questa cosa? La mia naturalmente è una follia di amore. Il primo pazzo è stato Cristo, che ha accettato di dimorare sulla croce, affinché noi tutti potessimo essere suoi figli, principi, principesse con una corona sul capo. Quindi parlerò a voi: principi e principesse. Ebbene tutto comincia il 24 ottobre del ’93, dopo aver assassinato il presidente del Burundi, il primo presidente Hutu, eletto democraticamente, quando l’esercito Tutsi ha ucciso il presidente… E io sono Tutsi eh, ma non me ne importa niente di esserlo, non ho scelto di esserlo, non è un valore questo; ma sicuramente io sono una donna, un essere umano, una persona, un figlia di Dio. Quindi appartengo a una famiglia nobile. Nella mia famiglia sono stati uccisi 62 membri e quindi tutti sono fuggiti da una parte e dall’altra: gli Hutu da una parte e i Tutsi dall’altra. Io mi sono rifiutata di fuggire, mi sono detta: non posso fuggire con gli uni o con gli altri. Allora ho preso sette bambini con me, che erano sotto la mia protezione, che stavano con me da tanto tempo, quattro Hutu e tre Tutsi. Li ho presi e sono scappata, mi sono rifugiata presso la sede vescovile, dove ho rincontrato degli intellettuali Hutu che erano in fuga verso la Tanzania. Allora ho detto loro: mi potete dare protezione? Hanno detto di no. Ho voluto seguire i Tutsi verso un accampamento militare e mi hanno detto di no anche loro: state con dei bambini Hutu e allora non potete venire. Allora mi sono rifugiata nella sede vescovile e ho detto a quegli intellettuali Hutu: venite anche voi con me. Purtroppo però, una domenica mattina del 24 ottobre ’93, ho visto proprio di mattina l’esercito Tutsi e i rifugiati Tutsi che si dirigevano dove io avevo nascosto 62 persone. Allora che cosa ho fatto? Sono uscita fuori e ho detto: “Non dovete certo morire come Caino che ha ucciso il fratello Abele” e allora mi hanno detto: “Sei una traditrice”. Ho detto: “No, non sono una traditrice, sono una persona nobile; non potete uccidere tutta questa gente davanti a me”. Allora che cosa hanno fatto, mi hanno legata e hanno dato fuoco con la benzina a tutto il palazzo, a tutto l’edificio. Hanno fatto uscire la gente che stava dentro e, una dopo l’altra, le hanno giustiziate davanti ai miei occhi. Ero così sofferente, sentivo tanto dolore nel mio cuore, ma allo stesso tempo non volevo provare dell’odio. Quando hanno cominciato a uccidere i bambini, beh allora ho detto: “No, slegatemi, vi darò dei soldi”. Hanno accettato. “Vi do i soldi ma proteggete, risparmiate i bambini”. Tutto è durato cinque ore e tutti nel frattempo mi picchiavano. Alla fine di tutto questo tempo mi sono ritrovata in mezzo ai corpi, ai cadaveri: 72 corpi che io amavo tanto, tutte persone che io amavo tanto. Ero la sorella di tutti questi morti, attraverso il battesimo, ma ero anche la sorella di sangue di quei criminali. Non si può, non si può odiare il proprio fratello, anche se è un criminale, ma che cosa dovevo fare? Se voi foste stati al mio posto, che cosa avreste fatto? C’erano due cose possibili da fare: suicidarmi, ma non posso farlo perché la vita è un dono sacro, la vita è una festa, oppure fuggire e chiedere asilo nei nostri paesi. Io però mi sono detta: un paese che cos’è, un paese è anche una mamma, il Burundi è la mia patria, la mia madre patria, non si può abbandonare la propria madre quando è malata. E allora sono partita, senza nemmeno sapere dove andare, con questi 25 bambini sopravvissuti, hutu e tutsi. Li ho guardati questi bambini e loro hanno guardato me e ho detto loro: dobbiamo creare una nuova generazione per il Burundi. Certo, non sapevo che questo sarebbe diventato realtà come lo è oggi, e nel frattempo la guerra continuava. A quei 25 bambini se ne sono aggiunti altri, tanti altri. Dopo 5 mesi avevo con me mille bambini, bambini senza un braccio magari, bambini senza un occhio, e ogni sera li guardavo, loro mi guardavano, nei loro occhi c’era speranza e io pregavo, dicevo a nostro Signore: ci hai detto che sei il Dio dell’amore, dov’è l’amore in tutto questo, dov’è l’amore in questo paese? Però io capivo che Lui mi rispondeva attraverso questi bambini. La sera ballavano, dopo due anni ho anche accolto bambini sopravvissuti al genocidio del Ruanda e mi sono detta: anche questi bambini del Ruanda è Dio che me li manda. Dopo un anno mi sono arrivati anche dei bambini congolesi, e mi sono detta: Signore, ma che vocazione mi vuoi attribuire? Le varie organizzazioni dell’ONU mi hanno chiesto: cosa stai facendo? Mi dicevano: qual è il tuo piano d’azione? Io rispondevo con cinque lettere dell’alfabeto: amore. Mi guardavano e dicevano: lasciatela stare che è una pazza. A quel punto le gerarchie ecclesiastiche mi hanno fatto una domanda: qual è la tua spiritualità? Ho detto: ma, insomma, un po’ di tutto. E loro hanno detto che ero un utopista. La mia famiglia, anche lei mi ha fatto una domanda: non ti vuoi sposare, non vuoi essere una religiosa, ma insomma che cosa vuoi fare? Sei la vergogna della nostra famiglia. E allora in tutto questo qual è stata la risposta? La risposta io l’ho trovata negli occhi dei bambini. Dei pazzi, dei pazzi dappertutto intorno a me, dei pazzi, degli italiani che sono venuti ad aiutarmi, dei belgi che sono venuti ad aiutarmi, dei giornalisti che sono venuti ad aiutarmi, e allora ho capito una cosa, che la vita è una festa, che non c’è fatalità inevitabile nella nostra vita, che l’amore trionfa sempre. I bambini sono cresciuti, nel 2001 avevo seguito 10.000 bambini, malati di AIDS in alcuni casi, bambini-soldato, bambini mutilati e abbiamo fatto delle grandi corse sulle colline, per cercare i membri della loro famiglia e quasi tutti loro hanno ritrovato la loro identità. I bambini sono cresciuti, molti si sono sposati, molti sono diventati medici, economisti, infermieri, ragionieri, e la vita è cambiata. Oggi tutti dicono: questo è il frutto della follia; e io dico: questo è il frutto dell’amore. L’amore significa inventiva. Oggi abbiamo anche costruito un grande ospedale. Tutti sono venuti a vedere questa pazza del Burundi, e oggi l’avete invitata qui questa pazza del Burundi. Grazie, grazie perché credete in questa follia, perché sognate con me un mondo in cui è bello vivere perché formiamo la stessa famiglia. E allora vi voglio chiedere una cosa: quando uscirete da questa sala sognate anche voi, perché per ogni sogno che facciamo, facciamo progredire l’umanità. Invece di maledire le tenebre, accendiamo una piccola candela, come diceva la grande Madre Teresa di Calcutta. Grazie.
Ho un video, soltanto un paio di minuti.
Video
MODERATORE:
Grazie Meggy, adesso passiamo alla Vicky, subito. Io non la introduco, si introduce da sola.
VICKY ARYENYO:
Ciao. Sono felice di essere qui, vi porto l’amore dell’Uganda, della mia famiglia e di tutta la famiglia del Meeting Point International. Sono lieta di far parte di tutti voi oggi. La vita la conosciamo, è un viaggio e voglio condividere con voi questo viaggio della mia vita. Sono cresciuta in un villaggio nella parte orientale dell’Uganda, sono cresciuta in una famiglia separata, vivevo con mia madre da sola e mia madre è stata responsabile della mia istruzione. Mia madre a un certo punto si è ammalata, un tumore alla mammella. Mia madre era l’unica forma di reddito che avessimo in casa, quindi ho dovuto smettere di andare a scuola. Doveva cercare cure e assistenza e io cercavo di aiutarla a sopravvivere. Eravamo solo due sorelle, io e la mia sorella minore, cercavo il modo di prendermi cura sia di mia madre che di mia sorella minore. Un amico di famiglia mi ha portato nella capitale dell’Uganda, Kampala e ho cominciato a lavorare come contabile dell’ospedale locale di Kampala e ho lavorato lì per dieci anni. A questo punto mi sono anche sposata, mentre lavoravo. Due bambini ho avuto, una femmina e un maschio. Durante la terza gravidanza, nel 1992, ho cominciato ad avere problemi con mio marito; mio marito non voleva che portassi a termine la gravidanza e io non riuscivo a capire perché. Mio marito voleva che abortissi, io mi sono rifiutata di farlo e mio marito mi ha detto che se mi fossi rifiutata di abortire, il nostro matrimonio sarebbe finito. Io non riuscivo a capire come un rapporto possa finire a causa di un bambino, pensavo stesse scherzando, pensavo che forse non voleva più la responsabilità di una paternità, comunque ho portato avanti la gravidanza; dopotutto lavoravo, guadagnavo bene, potevo prendermi cura della mia famiglia.
Dopo il parto mi sono presa cura dei miei tre figli e devo dire che mio marito aveva detto la verità, perché il nostro matrimonio è finito. Ho continuato a lavorare e nel 1996 il mio piccolo ha preso la tubercolosi. Lavoravo in un ospedale, conoscevo i sintomi, conoscevo i sintomi della tubercolosi, sapevo cosa significava questa malattia e mi sono preoccupata, mi sono recata dal personale medico e ho chiesto al personale medico perché il mio ragazzo aveva la tubercolosi e la risposta è stata che tutti nascono con la tubercolosi, ma quando il sistema immunologico non è più in grado di rispondere, si sviluppa la malattia. Ho chiesto: che cosa ha fatto sì che il sistema immunitario di mio figlio si deprimesse? Mi hanno detto: tuo figlio è testardo, ha smesso di mangiare, appena riprenderà a mangiare vedrai che il suo sistema immunitario si riprenderà.
La vita è continuata. Verso la fine di quello stesso anno, ho avuto una forma grave di herpes che è sintomo di un’altra malattia. Allora mi sono rivolta al personale medico: quale potrebbe essere la causa del mio herpes? Mi hanno detto: tutti in passato hanno avuto l’herpes e devo dire che in Uganda all’epoca nessuno è stato in grado di dirmi la verità, anche perché c’è una fortissima stigmatizzazione nei confronti della malattia, ma nel 1997 mi sentivo malissimo, ho dovuto smettere di lavorare, ho perso il lavoro e dopo aver perso il lavoro la vita naturalmente si è fatta più difficile. Vivevo a casa con i miei tre figli e questo fino al 1998, quando la malattia continuava a progredire. A un certo punto sono caduta a terra e mi sono risvegliata in ospedale. All’ospedale mi hanno chiesto se ero disposta a fare un test sull’HIV, e naturalmente ho accettato, ero in ospedale che altro potevo fare, ed effettivamente il mio stato di malattia era molto grave. Il risultato è arrivato, ero positiva all’HIV ed è stato per me un periodo molto difficile, mi sono chiesta: perché io? Ero una donna sposata regolarmente, dopo la rottura di un matrimonio, ci sono donne che si risposano frequentemente, non si ammalano mai; ho visto uomini infedeli che comunque non si ammalano. Io sono sempre stata fedele a mio marito, perché io? A quel punto mi sono resa conto del perché mio marito non volesse quella terza gravidanza; probabilmente sapeva che io mi sarei ammalata o avrei dato la vita ad un bambino malato. Sono rimasta due settimane in ospedale e poi sono stata dimessa. In ospedale ho un po’ riacquistato le forze, tutt’intorno a me c’erano malati; nel reparto dov’ero, alcuni sono morti, l’unico miracolo per il quale pregavo era quindi di uscire dall’ospedale viva, sulle mie gambe, perché attorno a me vedevo molto morire e quando ho lasciato l’ospedale ho saputo che quello era già un miracolo, ma non sapevo che quello sarebbe stato l’inizio di un altro viaggio. Quando sono arrivata a casa, ho trovato che mio figlio era gravemente ammalato. Un vicino l’ha portato in ospedale e ho chiesto che anche su di lui potesse essere effettuato un test HIV ed effettivamente anche in quel caso il risultato è stato positivo. Quando ho visto i risultati del test di mio figlio, è lì che ho sofferto di più; è stata la sofferenza più acuta e mi sono chiesta: perché mio figlio? Ho visto donne affette da HIV che hanno dato la vita a bambini perfettamente sani. Allora: che cosa mai ho fatto? Un bambino che era condannato a morire fin dall’utero e questo a causa della posizione di suo padre. Io l’avevo tutelato finché è rimasto nel mio utero, fino alla nascita e comunque è un destino che continuava a seguire mio figlio. In nome di Dio, che cosa ha fatto mio figlio? È un bambino innocente. Se fosse stato suo padre ad ammalarsi, forse mi sarei rallegrata, perché è stato lui la causa di tutto. Ma il padre era in ottima salute, si era risposato, forse con più di una donna, si stava divertendo, non si preoccupava più di noi. Io ho pregato perché quell’uomo morisse, e più pregavo e più invece mio marito stava meglio e non riuscivo a capire Dio. Ho pianto, ho pianto per mio figlio, mi sono dimenticata della mia malattia. Se fossi stata solo io malata, l’avrei potuto sopportare ma non mio figlio. Dio, mio figlio è senz’altro innocente! E mi sembrava che Dio rimanesse in silenzio. La vita fra il 1998 e il 2001 era un po’ come vivere in un altro mondo pur rimanendo sulla terra. Certo che eravamo sulla terra, eravamo nella mia casa, tutti gli amici con i quali condividevo le mie giornate, non venivano più a trovarci. Che torto avevo fatto loro? Ammalarmi? È stato un errore mio? I miei parenti che di tanto in tanto venivano a trovarci mi hanno abbandonata. Gli unici parenti che avevo con me erano i miei tre figli. Non avevamo fonti di reddito, non avevamo denaro, nessuno ci sorrideva, tutti ci odiavano, come se da soli avessimo procurato a noi stessi la malattia. Nel 2001 qualcuno è entrato nella mia casa: erano volontari del Meeting Point International che visitavano i membri della comunità. Qualcuno, probabilmente, aveva detto loro che nel villaggio qualcuno stava morendo. Sono venuti da me, mi hanno detto che cosa faceva Meeting Point International, mi hanno incoraggiata a unirmi a loro. Era una bugia. Persone che non avevo mai incontrato prima: secondo me stavano fingendo. Non potevano voler davvero aiutarmi, stavano facendo finta. Perché tutti quelli che conoscevano il mio passato mi avevano completamente abbandonata e lasciata sola. Io non potevo credere che uno straniero, un estraneo, potesse venire in casa mia e chiedere di aiutarmi. Sono venuti più volte nella mia casa e io semplicemente mi rifiutavo di ascoltarli, c’era un rifiuto totale da parte mia, mi ero chiusa in un bozzolo. I miei altri due figli non frequentavano più la scuola; il mio bambino ammalato, anche lui non andava più a scuola perché il suo insegnante lo chiamava scheletro e lui si rifiutava di andare e tutta la scuola a quel punto l’aveva soprannominato scheletro. Un giorno è venuto a casa piangendo, io non sapevo che fosse stato sottoposto a questa derisione, non me l’aveva mai raccontato prima. Per tutta risposta mi sono lasciata cadere sul cuscino piangendo, mi sono buttata sul letto e lasciavo che il cuscino assorbisse le mia lacrime. Non c’era nessuno con cui potevo condividere questo mio dolore. La mattina sono andata a scuola, volevo parlare con quell’insegnante che l’aveva soprannominato così, mi hanno impedito di vederlo, sono tornata a casa. I volontari hanno parlato con Rose della mia situazione e una volta li ho visti venire verso casa mia e c’era qualcuno di nuovo fra loro. Li ho comunque accolti nella mia casa; la povertà era all’ordine del giorno, d’altra parte noi non ci potevamo permettere né detersivi né acqua, la casa era sporca, come vi ho detto vivevamo in un mondo diverso, pur rimanendo su questo pianeta. Sono entrati i volontari in casa mia, Rose è venuta a sedersi di fianco a me e io a causa della situazione in cui ci trovavamo in quella casa, mi sono allontanata da lei, senz’altro non emanavo un buon odore e dal naso e dalla bocca usciva pus, ero viva anche se il mio corpo era come se stesse sul punto di putrefarsi. Dai piedi fuoriuscivano sostanze, secrezioni maleodoranti, ero piena di piaghe, i miei figli continuavano a stare con me, credo, perché non avevano altro luogo dove andare, erano semplicemente i miei figli e io ero la loro unica parente comunque. Quindi quando Rose si è seduta a fianco a me, io sapevo in che stato ero, mi sono allontanata da lei e continuavo a spostarmi, continuavo a spostarmi e Rose invece continuava a seguirmi e avvicinarsi a me e alla fine non sapevo più dove altro spostarmi. Rose mi ha parlato, erano sempre le solite frasi che anche gli altri mi avevano ripetuto e io anche quella volta ho chiuso il mio cuore. Addirittura era peggio, perché Rose veniva dalla parte occidentale dell’Uganda, io vivevo nella parte orientale, gli altri volontari erano del mio villaggio e quindi sicuramente non mi aspettavo alcun aiuto da lei. Dopo che se ne furono andati, mi sono ricordata di una frase che ha toccato la mia vita. Mi ha detto: se non vuoi venire al Meeting Point, dammi comunque tuo figlio, perché questo bambino ha una vita che può vivere; dammelo ti prego. Se ne sono andati ma queste parole continuavano a risuonarmi nelle orecchie e comunque io mi sono rifiutata di dare loro il bambino, però, un giorno, ho deciso di andare al Meeting Point. E per fortuna quel giorno, quando sono arrivata ho visto che c’era della musica al Meeting Point, stavano ballando. Non riuscivo a capire come un malato potesse ballare, come riuscivano a sorridere, come potevano essere felici. Ho detto no, no, questo deve essere il posto sbagliato e sono ritornata a casa e non sono ritornata al Meeting Point. Questi volontari continuavano a seguire mio figlio e alla fine sono riusciti a catturarmi tramite mio figlio, perché a un certo punto hanno cominciato a prepararlo per il trattamento. E a quel punto ho capito che forse potevo fidarmi e quindi ho cominciato a frequentare il Meeting Point. C’è stato un giorno in cui Rose mi ha invitata nel suo ufficio. Quando andavo al Meeting Point, comunque, rimanevo sempre da sola, mi isolavo, per me le donne che vedevo non erano malate perché ridevano, ballavano, io non potevo credere che avessero le stesse sofferenze che stavo provando io. Quindi stavano per effettuare la terapia su mio figlio, Rose mentre preparavano il bambino mi ha invitata in ufficio e mi ha guardato negli occhi e mi ha detto: Vicky tu hai un valore e questo valore è più grande del valore della malattia. Tu ce la puoi fare, hai solo bisogno di ritrovare la speranza, tu hai un valore e questo valore è grande.
Sono rimasta in silenzio, mentre Rose continuava a guardarmi. Solo queste parole ha pronunciato ma gli occhi, gli occhi che mi guardavano, gli occhi parlavano molto di più della sua bocca. Mi ha guardato con gli occhi che mi invitavano a crederle, come se mi dicesse: c’è qualcosa sopra di te nel quale devi riporre la tua speranza. Mi guardava con quegli occhi, quegli occhi che erano raggio di speranza per me, occhi di amore, quegli occhi parlavano mentre la bocca ripeteva soltanto quelle poche parole: vedrai che la terapia consentirà a tuo figlio di sopravvivere, Vicky devi ritrovare la speranza, devi vivere per vedere i tuoi figli crescere. Ma anche se do loro la terapia, se mio figlio si salva, dove posso trovare i soldi per dar loro da mangiare, come posso mantenere i miei figli, come posso sopravvivere, che miracolo deve mai accadere? È stato soltanto poi, quando sono tornata a casa, che qualcosa continuava a muoversi nei miei occhi, come un film. Dal momento in cui era cominciata la mia malattia e mi ero rinchiusa e tutti mi avevano rifiutato, quelle sono state le prime parole che qualcuno mi aveva rivolto, le prime parole di speranza. Sentivo qualcosa dentro di me che non posso esprimere e non l’avevo mai sentito mentre ero con lei, ma lì, nel mio letto, quelle parole continuavo a risentirle e ho cominciato allora a guardare quegli occhi e quegli occhi mi parlavano. È stato quello il giorno che ho avuto l’incontro con Rose. L’avevo incontrata già tante volte prima, ma non avevo mai avuto un incontro con lei; è stato un incontro profondo, rinfrescante nella mia vita e anche adesso che ve lo racconto, rivedo dentro di me quel filmato dell’incontro con Rose. Ho cominciato a riacquistare la speranza, ho cominciato a frequentare il Meeting Point, ho cominciato a nutrire interesse per il Meeting Point, non ripeté mai quelle parole ma gli occhi mi parlavano ogni volta che mi guardava; quegli occhi continuavano a parlarmi ogni volta che mi incontrava e alla fine è cominciata la terapia su mio figlio e ho visto che la vita ritornava dentro di lui ed è stato l’inizio della gioia nella mia vita. Ho cominciato a capire che anch’io potevo vivere, non importa in quale condizione; ogni volta che avevo davanti a me l’immagine del volto di Rose io cominciavo a immaginare e dicevo: se Rose può guardarmi in questo modo come sarà mai il volto di Dio? Dio in qualche modo mi guarda anche attraverso il volto di Rose e mi sono resa conto che il volto di Dio era sul volto di Rose. Rose mi ha dato una spalla su cui appoggiarmi, è Cristo che mi ha dato quella spalla perché io potessi appoggiarmi quando nessun altro era lì per me; Cristo sottoforma di Rose è venuto da me e mi ha dato la speranza, quella vera e tutto è cominciato con un incontro e quando ho incontrato Rose ho incontrato Cristo e questo incontro ha fatto risorgere la mia vita e questa resurrezione si è fatta sempre più forte, e quando le mie speranze sono risorte, anche il mio corpo ha cominciato a risorgere e questa resurrezione ha dato vita a un ripristino. Io ero ripristinata. Oggi io sono prova di questa realtà, certo la sofferenza, la tristezza, sono reali. Come tutto questo sia successo non posso spiegarlo ma ho un compagno, ho un amico, Rose è sempre stata lì per me e mi ha fatto capire che Cristo è sempre con me, anche di fianco a me quando sono a letto, Cristo è lì con me attraverso questo processo di sofferenza che non posso altrimenti descrivere. Tutto questo è accaduto nel 2002. Nel 2003 anch’io ho cominciato ad essere in terapia, io e il mio bambino siamo in terapia da allora; gli altri due miei figli che avevano lasciato la scuola sono ritornati a scuola. Quando ho cominciato a sentirmi male, Dorine, la mia primogenita faceva la prima media, adesso sta frequentando il secondo anno di università; il mio secondogenito adesso sta frequentando l’ultimo anno delle superiori; l’ultimo adesso ha sedici anni e sta frequentando la seconda superiore. Ogni volta che qualcuno moriva nel villaggio e non si sapeva chi, tutti venivano a casa mia, pensavano che fossimo noi, pensavano che fossi morta io o mio figlio. Purtroppo, o meglio, fortunatamente per noi, noi abbiamo avuto un incontro, un incontro sul quale ci appoggiamo anche oggi. Il mio valore è stato ripristinato, la mia dignità è stata ripristinata ma tutto è iniziato con Rose che rispondeva sì a una chiamata. Quando Rose è stata chiamata, Rose ha detto sì. Riassumo un po’ la sua opera con la storia dei dieci lebbrosi. Lei ha aiutato tanti, forse anche i dieci lebbrosi e io sono uno di quei dieci che è tornato da Rose. Dove sono gli altri nove?
Non riuscivo a capire perché Rose si comportasse così. È solo per quello che sono venuta. Ho visto che il movimento è vivo, il movimento non è una semplice associazione, il movimento è una persona, il movimento ha una vita e produce, genera la vita. Dimentichiamoci di Lazzaro che è risuscitato tanti anni fa, se non avete mai visto un miracolo, sono io, eccomi qua. Perché ero morta. Ecco perché adesso io sono schiava di questo movimento, che mi ha aiutato a capire quale fosse il mio destino, che mi accompagna lungo il mio destino, mi ha aiutato a riacquistare la speranza e adesso soprattutto so di avere una famiglia, la famiglia del movimento; non ho madre, non ho padre, non ho marito ma ho una spalla sulla quale appoggiarmi. Ho incontrato il movimento tramite Rose, stavo quasi per incontrare il padre del Movimento di oggi, don Carrón che ha saputo della mia vita, che è padre della mia speranza, la cui umiltà mi rende umile, che frammenta la mia umanità e che esalta la divinità ed è per questo motivo che, ripeto, io sono schiava del movimento, per l’umiltà che ho ritrovato nel movimento. Ho visitato la mostra, ho visto i carcerati e raccontavo loro della libertà in carcere; quando mi è stato detto che alcuni dei carcerati erano lì, ho detto: anch’io sono prigioniera, anch’io ho subito una condanna, perché il virus è una condanna, uccide, non c’è cura ma ho la mia libertà, tutti possono avere la propria libertà, c’è solo una cosa da fare: bisogna dire sì quando arriva la chiamata. Rifiutarsi di dire sì alla chiamata significa mantenere lo stato di schiavitù. Quando ho ricevuto il risultato di positività al test ho fatto un voto, odiavo mio marito, provavo veramente rancore nei suoi confronti; adesso che sapevo di essere malata avevo fatto un voto, questa cosa terribile che quest’uomo mi aveva fatto, non l’avrei fatta a nessuno, ho mantenuto il mio voto, ho mantenuto questo voto fino ad oggi, non mancherò mai di rispettarlo; ho imparato che Dio è mio marito, padre dei miei figli. L’ho visto, l’ho visto tramite Rose, tramite padre Carrón, l’ho visto nel movimento, ho visto Dio operare nella mia casa. Il rancore è un’arma che uccide. Qualcuno potrebbe chiedermi che ne è stato di mio marito; io non sono un giudice, l’ho perdonato. Lui si troverà davanti al Giudice, il Giudice supremo, io non sono un giudice. E dal momento che sono riuscita a perdonarlo, la mia libertà è stata totale, sono libera, mio figlio è libero e al momento giusto, quando ciascuno di noi morirà, moriremo come chiunque altro, non moriremo schiavi del virus. Abbiamo imparato a dire sì alla chiamata, abbiamo imparato a dire sì al calice amaro che ci tocca bere e che dobbiamo finire, abbiamo imparato a dire sì alla croce che dobbiamo portare e Rose ha accettato di portare la croce con noi e il movimento è con noi e non mancheremo in questo nostro compito. Grazie.
MODERATORE:
Da dove può venire una novità e da dove può venire una protagonista in queste circostanze che avete sentito da Marguerite e da Vicky, cos’è che vince in queste situazioni? Non solo nella malattia, nella guerra, ma anche cosa può vincere nella nostra vita? Don Giussani ha detto che la novità del mondo avviene se l’uomo appartiene, perché nell’appartenenza ogni cosa cambia. L’appartenenza a Dio attraverso il popolo, attraverso il Verbo che si è fatto carne e da questo nasce una civiltà e una società nuova. E da questo la vita può diventare festa, come ha detto Marguerite, anche di fronte alla morte può diventare festa, perché c’è qualcuno che vince e noi vinciamo con lui. Grazie a tutti.
(Trascrizione non rivista dai realtori)