Chi siamo
SE VUOI LA PACE, PREPARA LA PACE
In diretta su Icaro Tv, Play2000, Radio Vaticana, Tv2000, Vatican News (ita/eng/esp), Vita
Visvaldas Kulbokas, nunzio apostolico a Kiev; Oleksandra Matvijcuk, avvocata ucraina, premio Nobel per la Pace 2022; Angelo Moretti, portavoce Movimento europeo di Azione Nonviolenta (Mean); Lali Liparteliani, Ong ucraina Emmaus; Anastasia Zolotova, direttrice Ong ucraina Emmaus. Introduce Giuseppe Frangi, giornalista di Vita
«Se vuoi la pace prepara la pace», scriveva don Primo Mazzolari e la pace non è cosa da farsi dopo la guerra, ma una partita che bisogna giocare anche e soprattutto durante. La pace, lo abbiamo imparato in questi quasi due anni e mezzo terribili, anni in cui la pioggia di bombe avviene ogni giorno, la si prepara anche durante la guerra con la presenza fisica, con un abbraccio, con gli aiuti, con la costruzione di un rifugio dai bombardamenti bello e connesso anche quando l’energia elettrica non funziona, facendo incontrare sindaci italiani con sindaci ucraini, pregando perché la pace arrivi insieme ai rappresentanti di tutte le religioni a Lviv e Kyiv. Far finire la guerra non sta nel nostro potere, ma costruire la pace sì, lo possiamo fare. Come ricorda la “Pacem in Terris” di Papa Giovanni XXIII la pace non è solo assenza di conflitto ma si sostanzia in quattro pilastri: esercizio di verità, giustizia, libertà, solidarietà. Gli stessi pilastri con cui si prepara la pace.
Con questo incontro intendiamo ascoltare alcune testimonianze che raccontano come si prepara la pace in tempo di guerra in Ucraina.
Con il sostegno di Tracce
SE VUOI LA PACE, PREPARA LA PACE
SE VUOI LA PACE, PREPARA LA PACE
Mercoledì 21 agosto 2024 Ore 17:00
Auditorium isybank D3
Partecipano:
Visvaldas Kulbokas, nunzio apostolico a Kiev; Oleksandra Matvijcuk, avvocata ucraina, premio Nobel per la Pace 2022; Angelo Moretti, portavoce Movimento europeo di Azione Nonviolenta (Mean); Lali Liparteliani, Ong ucraina Emmaus; Anastasia Zolotova, direttrice Ong ucraina Emmaus.
Introduce:
Giuseppe Frangi, giornalista di Vita
Frangi. Buonasera a tutti, grazie di essere così numerosi a questo incontro. “Se vuoi la pace, prepara la pace”, scriveva Don Primo Mazzolari. La pace non è cosa da farsi dopo la guerra, ma una partita che bisogna giocare anche e soprattutto durante la guerra. La pace, l’abbiamo imparato, in questi due anni e mezzo terribili, anni in cui la pioggia di bombe sull’Ucraina avviene ogni giorno, la si prepara anche durante la guerra con la presenza fisica, con un abbraccio, con gli aiuti, con gesti fattivi, come può essere ad esempio la costruzione di un rifugio dai bombardamenti bello e connesso anche quando l’energia elettrica non funziona. La si prepara facendo incontrare sindaci italiani con sindaci ucraini, pregando perché la pace arrivi insieme ai rappresentanti di tutte le religioni a Lviv o a Kyiv. Far finire la guerra non sta nel nostro potere, ma costruire la pace sì. Lo possiamo fare. Come ricorda la “Pacem in Terris” di Papa Giovanni XXIII, di San Giovanni XXIII, la pace non è solo assenza di conflitto, ma si sostanzia in quattro pilastri: esercizio di verità, giustizia, libertà, solidarietà. Questo incontro nasce da un’idea di Riccardo Bonacina, fondatore di “Vita”, giornale al quale ho lavorato anch’io al suo fianco per tanti anni, che in questi anni si è impegnato in un appassionato percorso di solidarietà e di vicinanza con il popolo ucraino. Riccardo, per cause di forza maggiore, non può essere qui a condurre questo dialogo, che, come nei suoi intenti e negli intenti di chi vi partecipa, non è un dibattito ma un momento di testimonianze. Abbiamo con noi, e li ringraziamo, collegati Visvaldas Kulbokas, sua eccellenza Nunzio Apostolico a Kyiv, Oleksandra Matvijcuk, avvocata ucraina, Premio Nobel per la Pace 2022, e qui sul palco Angelo Moretti, portavoce del Movimento Europeo di Azione Non Violenta (MEAN), Anastasia Zolotova, direttrice dell’ONG ucraina Emmaus, e Lali Liparteliani, fondatrice della stessa ONG Emmaus. Allora, ringraziando tutti della vostra presenza, io comincerei facendo la prima domanda a Oleksandra Matvijcuk, la Premio Nobel. La presento: avvocata ucraina e leader del Centro per le Libertà Civili, un’organizzazione con sede a Kyiv, che ha ottenuto nel 2022 il Nobel per la pace insieme ad Ales Bialiatski e all’organizzazione russa Memorial. È apparsa su numerosi media internazionali per rappresentare la società civile ucraina, in particolare in relazione a questioni relative agli sfollati interni e alla questione dei crimini di guerra, nonché altre questioni relative ai diritti umani. Le chiedo questo: verità, giustizia, libertà, solidarietà, pilastri del cammino della pace, sono i principi che il Centro per le Libertà Civili e lei stessa hanno provato in questi anni ad incarnare, raccogliendo testimonianze e promuovendo libertà e giustizia, non sottraendosi alla solidarietà. Da questo punto di vista, di fronte ad un’Europa confusa, non crede che proprio il futuro dell’Europa passi oggi da Kyiv, dalla sua voglia di Europa e di libertà? La parola alla nostra ospite.
Matvijcuk. Grazie, vi ringrazio tantissimo per darmi questa opportunità di parlare in questa sessione. E vi ringrazio anche per questa domanda. Perché non si tratta solo di un conflitto tra due paesi. Questo è un conflitto tra due sistemi: il totalitarismo e la democrazia. E con questa guerra la Russia vuole convincere tutto il mondo del fatto che la democrazia, i diritti umani e lo stato di diritto sono valori vuoti, finti, perché nessuno può essere protetto durante la guerra. La Russia vuole convincere del fatto che uno stato è un potere militare con la forza nucleare che può rompere l’ordine internazionale e che può dettare le sue regole a tutta la comunità internazionale e anche forzare il cambiamento rispetto all’ordine internazionale stabilito. E se la Russia riesce a fare questo, incoraggerà altri leader totalitari in altre parti del mondo a fare la stessa cosa. La Russia è un impero. E un impero ha un centro, ma non ha confini. Un impero cerca sempre di espandersi. Gli ucraini rilasciati dalla cattività ci dicono, come la Russia ha detto, che nel momento in cui cadrà l’Ucraina, gli ucraini andranno a conquistare il mondo assieme all’esercito russo, e la prima mobilitazione degli ucraini con le truppe russe è stata lanciata e adesso avviene nei territori occupati dalla Russia. Quindi, al di là del fatto che altri paesi dell’Europa abbiano il coraggio o meno di accettare questa cosa, questi paesi sono salvi solo perché l’Ucraina continua a resistere. Consideriamo la storia moderna. La crescita del male impunito continua ad esserci in Cecenia, in Moldavia, in Georgia, in Mali, in Libia, in Siria e in altri paesi di tutto il mondo. Non c’è mai stata una punizione, c’è stata sempre impunità di atti atroci. Quindi credono di poter fare quello che vogliono. Se si vogliono prevenire i conflitti in futuro, dobbiamo dimostrare la giustizia, dobbiamo punire quei paesi e quei leader che danno inizio alle guerre nel presente. E a questo proposito gli ucraini stanno lottando per la giustizia non solo per sé stessi, stanno cercando di prevenire il prossimo attacco russo al prossimo paese. Io lavoro con le persone che sono state colpite direttamente da questo conflitto e so che le persone dell’Ucraina vogliono la pace più di chiunque altro. Tuttavia, la pace non si può avere quando un paese non smette di lottare. Quella non è pace, quella è l’occupazione. E l’occupazione è come la guerra, ma solo in un’altra forma. L’occupazione non riduce la sofferenza umana. La rende semplicemente invisibile. Ho parlato con centinaia di persone che sono sopravvissute alla prigionia russa. Uomini e donne mi hanno raccontato storie terribili. Sono stati picchiati, violentati, rinchiusi. Sono state tagliate loro le dita. Sono state strappate loro le unghie. Hanno subito qualsiasi tipo di torture, anche scosse nei genitali, e mi hanno detto veramente che hanno subito delle cose terribili. E l’occupazione non cambia semplicemente le cose da una situazione all’altra. Con l’occupazione si ha comunque tortura, violenza e il diniego dell’identità nazionale. Ci sono campi di concentramento e fosse comuni. Vorrei concludere con qualcosa che non si capisce molto nella comunità internazionale. Putin dice apertamente che il popolo ucraino non esiste, che la lingua e la cultura ucraina non esistono, che noi siamo un popolo assieme alla Russia e per dieci anni questa guerra ha fatto vedere delle pratiche terribili. Quando le truppe russe hanno sterminato fisicamente tutte le persone attive nei territori occupati, i preti, i sindaci, i giornalisti, i volontari, gli ambientalisti, gli insegnanti, i musicisti, è stata bandita la lingua e la cultura ucraina in quelle zone. Hanno bruciato i libri ucraini, hanno distrutto il patrimonio culturale ucraino, hanno preso bambini ucraini e li hanno portati forzatamente in Russia per riformare, rieducare questi bambini come russi. Pertanto, le persone in Ucraina non hanno nessun’altra scelta. Se smettono di resistere all’invasione russa, non ci saremo più. Non esisteremo più. Abbiamo bisogno di una pace giusta e sostenibile, come Papa Francesco ha detto molte volte nei suoi discorsi.
Frangi. Grazie, grazie alla nostra amica, poi semmai le farò un’altra domanda. Intanto chiederei a sua eccellenza monsignor Visvaldas Kulbokas, che è lituano, ha 49 e il 15 giugno 2021, quindi prima che cominciasse l’esplosione della guerra, è stato nominato nunzio apostolico in Ucraina. È il solo ambasciatore che non ha mai lasciato la capitale, da quando l’attacco voluto dal Cremlino è iniziato. L’arcivescovo sa per convinzione e per professione che non basta esprimere la contrarietà alla guerra, occorre costruire la pace. Ho ricavato questo suo pensiero. Lui dice:” tutti i giorni, quando celebro la messa la mattina, affido la mia preghiera personale alla preghiera di coloro che soffrono. Sono tantissimi. Peraltro sono prigionieri, non soltanto i militari, ma anche tanti civili. Molti bambini sono scomparsi ed è un grandissimo problema. Sono in contatto con le associazioni familiari dei prigionieri e da loro ricevo testimonianze di grandissima sofferenza”. Allora gli chiedo, gli chiediamo: come si può costruire la pace in questa situazione? Come costruirla quando vediamo che sembrano non avere risultato né i tentativi dei leader politici del mondo, né quelli del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, né gli appelli del Papa, del Consiglio delle Chiese e delle Organizzazioni Religiose Ucraine e Mondiali? Lei ha sostenuto che una delle risposte, accanto al dialogo umanitario, è quella di favorire il crescere di un’unità di pensieri e di sentire tra le società civili. Essere insieme è importante, lei ha più volte detto. Ma come si costruisce questa unità di pensiero e di sentire?
Kulbokas. Grazie. Innanzitutto saluto Riccardo Bonacina, che non è oggi sul palco ma ci segue. Saluto lei, Giuseppe, anche Oleksandra Matvijcuk, Angelo, Anastasia e altri amici. Vedo tanti amici anche nella sala. E poi anche una precisazione: non ero l’unico ambasciatore rimasto a Kyiv nel febbraio-marzo del 2022, eravamo almeno in due, c’era anche l’ambasciatore polacco. Ma ciò che Giuseppe come moderatore ha menzionato, facendo riferimento alle mie parole in cui esprimevo la mia convinzione che sia necessario crescere nell’unità di pensiero e di sentire tra le società civili, corrisponde molto da vicino a ciò che penso adesso, corrisponde a questa tappa della mia esperienza in Ucraina. Quando dico questa tappa, mi riferisco al fatto che c’è un continuo evolversi della comprensione della realtà, anche in me, e forse non di rado anche negli altri. Per esempio, alcune delle tappe precedenti sono state segnate soprattutto da un forte shock. Uno shock che sentivo in me e tutto intorno, soprattutto dalle testimonianze di chi ha attraversato e chi continua ad attraversare l’inferno della prigionia, oppure della separazione dai propri figli. Lo shock era dovuto anche al fatto che, come Giuseppe ha menzionato, nel mondo di oggi abbiamo strumenti giuridici, almeno formalmente: le convenzioni di Ginevra che definiscono il trattamento dei prigionieri, sia militari sia civili, oppure dei feriti gravi, dei medici; abbiamo anche le Nazioni Unite, abbiamo diversi paesi che vengono chiamati potenze mondiali oppure aspirano a diventare tali. Ma tutti questi strumenti è come se si sbriciolassero di fronte alla realtà della guerra, incapaci di prevenirla e di fermarla. E quindi rimane la questione: che cosa fare di fronte alla guerra, come ricostruire la pace? Come sottolinea Papa Francesco, le armi non possono mai essere una soluzione alla guerra. Qui aggiungo che neanche le armi della difesa, che sono pure legittime e giustificabili, proprio perché le armi da sole non arrivano al fondo del problema, alle cause della guerra. E poi, in un modo o in un altro, le guerre, come anche la guerra della Russia contro l’Ucraina, hanno degli antecedenti che possiamo paragonare alle nuvole che preannunciano che qualcosa non va. In questo senso, una delle lezioni che io stesso penso di aver imparato, almeno in parte, durante questi ultimi due anni e mezzo, è che pure io avevo sottovalutato l’andamento di certi processi, pensando ingenuamente che sia sufficiente tenerli presenti, evidenziarli, condividerli con i superiori, nella Santa Sede, con i colleghi, amici, e annunciarli anche in pubblico. Ma la vita insegna che di fronte alle sfide, che sono enormi, alle tragedie, anche gli sforzi devono essere altrettanto enormi. Non sono sufficienti gli sforzi ordinari. E qui la mia impressione è che le istituzioni di ogni tipo, che siano esse istituzioni statali o interstatali, organizzazioni mondiali o anche organizzazioni religiose, tutte le istituzioni hanno una innata difficoltà a giocare d’anticipo, nell’avvicinarsi delle guerre. Ciò perché mi sembra che ogni struttura incorpori dei passaggi burocratici e quindi, che si voglia o no, si perde la sensibilità e la reattività. Inoltre, tutte le istituzioni moderne hanno un pesante carico di lavoro, lavoro urgente oppure considerato come tale, e quindi anche di fronte alle emergenze hanno le stesse capacità di prima, quelle capacità che sono già esauste di suo, di reagire. Invece, chi mi sembra essere più in grado di percepire le emergenze e anche di reagire in modo adeguato ad esse, siano le persone più che le istituzioni. Anche se queste ultime, le istituzioni, possono essere reattive, anche esse, ciò avviene solo a patto che al loro interno vengano valorizzate le persone che compongono una determinata istituzione e che quelle persone non rimangano intrappolate nelle procedure e nelle regole, proprio perché le guerre non seguono nessuna regola e si evolvono molto rapidamente, e già per questo le istituzioni più o meno rigidamente regolate all’interno diventano in gran parte inermi di fronte a questa tragedia della guerra. Stamattina ho avuto un colloquio con una signora cattolica, sottolineo una, la quale è riuscita a portare in Ucraina aiuti umanitari per ben 60 milioni di dollari. Certo, ha amici in vari paesi, anche in Ucraina, anche oggi è venuta con un diacono, con altre persone, ma in pratica fa tutto da sola. Oppure vi potrei menzionare un altro signore che non si identifica con nessuna delle chiese, ma è profondamente credente a livello personale e mi dice sempre che semplicemente ha imparato tre salmi dall’Antico Testamento, li recita a memoria, e mi raccontava come ha evacuato dalle zone oltre la linea del fronte 280 persone, da solo. Oppure vi potrei parlare di una parrocchia protestante che ha evacuato 8.000 persone da Mariupol nel mese di marzo del 2022, quando quella città era già oltre la linea del fronte. Quindi tutti questi fatti attestano che l’umanità e le persone, anche le persone singolarmente prese, hanno un potenziale altissimo di reagire a qualsiasi emergenza. E penso che questo valga anche per la prevenzione della guerra in generale. E soprattutto questo è il motivo per cui dico che ripongo la mia speranza nella società civile, nel senso di persone, oppure gruppi di persone, che prendono a cuore le sfide, riflettono insieme e cercano le possibilità di affrontarle. In questo senso, la società civile già in partenza mi sembra che abbia più possibilità di essere energica, dinamica, concreta e incisiva. Prendiamo un esempio concreto, abbastanza difficile: il mondo delle comunicazioni, i mass media. I canali della comunicazione sono intasati da notizie e anche da tante disquisizioni superficiali, come pure dalla propaganda. Ma la mia impressione è che quando c’è qualche persona oppure qualche gruppo che formula una riflessione o una proposta ben studiata, ben preparata e seria, questa notizia fa strada anche in questo mondo moderno molto intasato di informazioni. Quindi le proposte ben preparate comunque fanno proselitismo, nel senso più positivo del termine. Certamente per essere più precisi ed anche più efficaci nell’elaborare tale idea, tali proposte, abbiamo bisogno di essere insieme, abbiamo bisogno di essere una rete di amici, amici per l’umanità, e l’amicizia si fa ascoltando l’un l’altro, come oggi, non per dovere, ma essendo spinti a ciò dal cuore. Così si evita una gran parte di pregiudizi, di superficialità e di sordità. In questi due anni e mezzo sono venute in Ucraina diverse autorità, delegazioni, diversi gruppi di persone. Tra questi ultimi menzionerei in modo particolare le iniziative promosse dal MEAN, Movimento Europeo di Azione Non Violenta, a cui si sono accomunate anche CEI e Caritas e vari altri gruppi. E quando ci si mette il cuore e l’attenzione, si possono compiere grandi cose. Io spesso insisto con i miei interlocutori, da credente e da vescovo, che uno strumento essenziale per finire la guerra sia la preghiera. Evidentemente quando parlo della fine della guerra non mi riferisco all’eventuale occupazione dell’Ucraina, che potrebbe significare l’interruzione dell’uso attivo delle armi per un certo tempo, ma significherebbe qualcos’altro, non la pace, come Oleksandra ha sottolineato. Piuttosto, mi riferisco alla vera pace, quella pace che possa porre le fondamenta per una pace duratura e vera. E qui la domanda è: chi può capire davvero come deve essere questa vera pace? Per me la risposta è unica: solo Dio e solo quegli uomini e donne che ascoltano e capiscono la profondità dell’essere umano, capiscono il pensiero divino e capiscono che l’uomo è creato a immagine di Dio. In questo senso mi riferisco non soltanto alla preghiera formale, alla preghiera religiosa, perché basta ricordare ciò che dice Gesù nel discorso della montagna: “Beati gli operatori di pace perché saranno chiamati figli di Dio.” Quindi non soltanto chi prega formalmente, ma chi opera per la pace è già figlio di Dio, quindi fa ben più che una semplice preghiera. Intese in questo senso, le preghiere e le conseguenti azioni sono forze inesauribili ed anche imprevedibili, proprio perché sono molto attente alla realtà delle cose. E qui mi avvicino alla parte finale della mia riflessione, e sottolineo un brano che mi è diventato molto caro alcune settimane fa, quando riflettevo sul Vangelo, sul brano del Vangelo, in cui i collettori di tasse si sono avvicinati a Cafarnao, all’apostolo Pietro chiedono a Gesù se Gesù intendesse pagare la tassa del Tempio. E Gesù poi spiega all’apostolo Pietro, successivamente, che non è obbligato a pagare tale tassa, proprio perché è figlio di Dio. Ma, dice a Pietro, “perché non si scandalizzino, va’ al lago, getta l’amo, e il primo pesce che viene, prendilo, aprigli la bocca, troverai una moneta d’argento, prendila e consegnala loro per me e per te.” Quindi, se Dio stesso ascolta attentamente la situazione concreta e perfino si adatta a questa, quindi dal non dover pagare la tassa e invece poi di fatto pagarla perché non si scandalizzino, questo per me è l’esempio più grande: non partire soltanto dalla teoria, dai principi, dai criteri precotti e neanche soltanto dalle leggi, ma interpretare la realtà, captare i segnali, anche le psicologie delle persone, le opportunità e le possibilità. Capisco che si tratta di una sfida molto grande, ma ho fiducia nell’umanità e nella forza dell’amicizia, e molti amici vedo proprio riuniti oggi qui, e credo anche nella capacità degli amici di affrontare la suddetta sfida e condivido questa fiducia e convinzione con voi. Grazie a tutti.
Frangi. Grazie a sua eccellenza, in particolare per questo concetto che ci riguarda tutti, quando ha insistito sull’idea che il principale soggetto di speranza sono le persone. Le persone come soggetto di speranza, le persone o i gruppi di persone. Quindi qui siamo anche a raccontare esperienze di persone e di gruppi di persone. Però volevo fare un’altra domanda al Premio Nobel, Oleksandra Matvijcuk, perché so che dopo ci deve lasciare. Lei ha detto in un suo passaggio che in Ucraina tutti vogliono la pace più di qualunque altro. È una frase che magari può risuonare strana, nel senso che probabilmente ci sono altre preoccupazioni. Mi chiedo: cosa risuona nel cuore di una persona sotto la guerra? Come risuona la parola “pace” in una persona che vive da anni sotto le bombe? È una parola che ha ancora un contenuto profondo? È legata ad una speranza?
Matvijcuk. Cercherò di riportare il tutto a una dimensione umana, nel tentare di rispondere a questa domanda poiché quando si parla di guerra e pace a livello internazionale, spesso gli uomini politici perdono di vista la dimensione umana. Ecco, vorrei raccontarvi una storia di Volodymyr Vakulenko, un autore di storie per bambini. Questa persona è scomparsa a un certo punto dopo l’occupazione russa della regione in cui viveva. Lui ha scritto delle storie meravigliose per tantissimi bambini ucraini, intere generazioni sono cresciute leggendo le sue storie, e la sua famiglia ha sperato fino all’ultimo che Volodymyr fosse vivo, così come altri migliaia di civili ucraini hanno sperato lo stesso. Tantissimi altri purtroppo sono scomparsi, sono finiti sotto la prigionia russa. Ma quando poi questo territorio è stato liberato, abbiamo trovato delle fosse comuni e in una di esse, con il numero 319, abbiamo trovato il cadavere di questo autore di libri per bambini. Ora potreste chiedermi: perché i russi hanno ucciso, hanno assassinato un autore di libri per bambini? Io mi occupo di crimini di guerra e in particolare dei crimini di guerra perpetrati dai russi in territorio occupato per dieci anni. Perché lo fanno? Perché possono. Dobbiamo definire insieme anche il concetto di pace, di pace sostenibile, che significa libertà, significa appunto l’assenza di violenza, significa anche avere una prospettiva di futuro a lungo termine, cosa che le persone ora nei territori occupati non hanno. Le persone nei territori occupati vivono nel terrore, non sanno come difendere i loro diritti, la loro libertà e anche la loro proprietà, le loro vite stesse e i loro cari. Abbiamo bisogno di pace, non di occupazione. La Russia, dopo aver occupato il Donbass e la Crimea dieci anni fa, non si è fermata, quindi bisogna che l’Ucraina possa continuare a difendersi, perché appunto altrimenti la Russia non si fermerà. Chi invece dice che gli ucraini devono smettere di difendersi dice qualcosa di immorale. Noi non possiamo lasciare le persone in balia di torture in questa situazione sotto l’occupazione russa. È il nostro popolo, sono i nostri amici, sono i nostri vicini, i nostri colleghi, i nostri parenti, sono esseri umani, vivi. Ma non voglio concludere con una nota pessimistica. Ecco perché vorrei concludere con un elemento che trovo molto importante da condividere. Io non auguro a nessuno di vivere quello che il mio paese sta vivendo, perché la guerra è terribile, è orribile, forse è la cosa più orribile che può colpire la vita di un essere umano, ma in questi tempi drammatici e tragici ci danno però l’opportunità di cercare invece di tirare fuori il meglio dentro di noi, spingerci a essere coraggiosi, a lottare per la libertà e a fare le scelte difficili ma giuste e ad aiutarci gli uni con gli altri. Perché solo quando ci aiutiamo reciprocamente, solo quando esprimiamo solidarietà, solo quando le persone in Ucraina rischiano le loro vite per qualcuno, anche per qualcuno che non hanno mai incontrato prima, è solo così, in questi momenti, che possiamo diventare consapevoli di che cosa significhi essere umani. E questa guerra, questo orrore, ce lo ricorda, ci ricorda che cosa significa essere umani.
SPEAKER. Grazie.
Frangi. Prima di lasciarla, chiedo a lei e chiedo anche a Sua Eccellenza: qui davanti a me, davanti a noi, ci sono migliaia di persone, in questo momento al Meeting ce ne sono altrettante migliaia. Le chiedo come i partecipanti al Meeting che hanno ascoltato queste vostre testimonianze possono aiutare la causa della pace. Prego, se vuole rispondere lei, Sua Eccellenza, così intanto…
Kulbokas. Ciò che diceva anche pocanzi Oleksandra, la comprensione della pace. Quando mi riferivo alla società civile ci sono varie dimensioni. Una, sostenere la società civile in Ucraina, rafforzarla. Un’altra, come menzionava Oleksandra, che cos’è la pace? C’è un grande aiuto, un grande bisogno di essere aiutati anche nel parlare a livello internazionale, mondiale, di che cos’è pace. Oleksandra, per esempio, ha sottolineato già più volte questo concetto molto chiaro: l’occupazione non è pace. Quindi, già se questa frase venisse diffusa tra gli amici, sottolineata, una semplice frase, già sarebbe un grande aiuto. Quindi una rete di amicizia che diffonde un concetto molto semplice, molto chiaro. Quindi la mia attesa è che questa rete di amici diffonda proprio queste comprensioni di base. E questa rete che è riunita oggi qui, io so benissimo che è venuta con il cuore, quindi è molto capace di farlo perché voi stessi state cercando i modi di come aiutare l’Ucraina. Questa è una delle possibilità.
Frangi. Grazie. Oleksandra?
Matvijcuk. Riprendendo quello che ho appena sentito, e sono perfettamente d’accordo con quanto ha detto la persona prima di me, io sono un avvocato esperto in diritti umani, in diritto internazionale, ma quando non ci sono strumenti giuridici di cui potersi avvalere per fermare queste atrocità, si hanno con le mani legate. Ma so anche che quando non ci si può basare su strumenti giuridici, ci si può ancora basare sulle persone, fare affidamento su di loro, perché le persone possono avere un impatto davvero enorme. E quindi abbiamo bisogno delle vostre parole in favore della libertà e della giustizia. Stiamo lottando per qualcosa che non conosce confini: la libertà. E c’è anche un’altra cosa che non ha confini: la solidarietà. E la solidarietà deve essere proattiva.
Frangi. Grazie, grazie. Grazie ai nostri amici in collegamento. Passiamo la parola adesso ai nostri amici che sono qui presenti sul palco, cominciando da Angelo Moretti, Presidente della Rete di Economia Civile e Sale della Terra e referente della Rete dei Piccoli Comuni del Welcome. Alcune storie di questi piccoli comuni le potrete incontrare nella mostra *Borghi Futuri*. Ma Moretti qui è per un ruolo specifico, diciamo: gli scorsi 11 e 12 luglio, il MEAN, il Movimento Europeo di Azione Non Violenta, che è già stato citato in questa prima parte dell’incontro, di cui è animatore, insieme a Marianella Sclavi, a Riccardo Bonacina, Marco Bentivoglio e di cui è anche portavoce, è tornato per l’undicesima volta in Ucraina, per pregare e per riflettere sui passi necessari per l’uscita dalla guerra. Ci puoi restituire il senso del vostro impegno da pacificatori, da pacifisti concreti, di facitori di pace, come piaceva dire ad Alex Langer, o per dirla con il Vangelo da operatori di pace? Un impegno che è cominciato nell’aprile del 2022. Qual è stato il risultato, ad esempio, di questa ultima vostra missione dell’11 e 12 luglio? A te la parola, Angelo.
Moretti. Grazie Giuseppe e buon pomeriggio a tutti. Davvero grazie per questo momento di riflessione così importante su ciò che sta accadendo in Ucraina, e su ciò che possiamo fare noi in queste condizioni così difficili di una guerra alle nostre porte. L’ultima missione del MEAN, 11 e 12 luglio a Kyiv, possiamo dire che è stato un fallimento, uno splendido fallimento, ma è stato un fallimento e l’ennesimo fallimento. E ho bisogno di prendermi del tempo per dirvi perché è un fallimento, che cosa potrebbe funzionare e che cosa secondo noi sta funzionando, nonostante tutto e perché continuiamo ad andare in Ucraina. Con l’aggressione all’Ucraina da parte di una potenza nucleare, siamo entrati in un’epoca, in una condizione esistenziale differente e inedita per gli europei. Norberto Bobbio, che è il filosofo per eccellenza del diritto e anche della pace, diceva che con l’esplosione di Hiroshima era cambiata la storia del pacifismo, perché nasceva la coscienza atomica, cioè l’idea che gli uomini volessero la pace, non tanto perché è un bene superiore, ma perché è un bene possibile rispetto all’estinzione dell’umanità. Cioè l’idea era che non è più una pace come un fine superiore, ma la pace perché è ragionevole rispetto alla distruzione umana che potrebbe avvenire dalla guerra nucleare. Per cui l’idea era che non è più possibile pensare ad un movimento che non sia pacifista, perché il non pacifismo non può esistere nell’era nucleare. Eppure quando è caduto il muro di Berlino, e quindi quando praticamente pensavamo che la deterrenza atomica fosse finita e quindi di fatto abbiamo pensato che addirittura si potesse far fine alla deterrenza e qualcuno ha scritto anche “fine della storia”, il famoso Fukuyama, cioè non c’era più necessità che la storia avesse dei grandi racconti. Ecco, noi abbiamo vissuto una lunga stagione, noi europei, come se ci fosse una strada in discesa, non ci fosse più bisogno di parlare di pace o di pacifismo o di deterrenza, e pensavamo che di fatto il futuro fosse garantito. Quella condizione geopolitica, quella che abbiamo vissuto dopo la caduta del muro, è una condizione transitoria, passeggera come tutte le condizioni geopolitiche, tutto ciò che accade nell’umanità dal punto di vista geopolitico passa. Eppure abbiamo vissuto come fosse l’ultimo stadio di una storia per cui apparentemente era ormai già tutto scritto. Il 24 febbraio del 2022, siamo passati da una guerra fredda ad una guerra caldissima. L’aggressione all’Ucraina è diventata l’inizio di una guerra globale che per noi europei è ancora tiepida, ma che di fatto si sta scaldando molto e che di fatto può diventare bollente sotto le nostre coscienze impotenti. L’armata di Putin è stata respinta con successo dagli ucraini. È stata respinta proprio quando hanno cercato di espugnare la capitale, Kyiv. Quello è successo nel marzo del 2022. Andrà raccontata questa storia. Però nel frattempo quest’armata è riuscita a rapire 16.000 bambini, ad occupare microaree rurali e grandi centri urbani, uno su tutti Mariupol, una città di Maria. Quindi siamo di fronte ad un nuovo tornante della storia. La domanda è se siamo alla fine della deterrenza o a una nuova forma di deterrenza dopo la guerra fredda? Ecco perché parlo di fallimento. Noi del Movimento Europeo di Azione Non Violenta, da due anni stiamo gridando agli europei: uniamoci in un’azione non violenta di massa contro l’invasione. Dobbiamo metterci in cammino se vogliamo evitare l’escalation nucleare. E al tempo stesso chiediamo con forza, come diceva anche prima chi mi ha preceduto, che ci sia una pace giusta per il popolo ucraino. Ci siamo uniti perché condividiamo la consapevolezza che sia venuto il momento di una mobilitazione civica di massa, non soltanto metaforica delle menti e dei cuori, ma delle gambe. Dobbiamo mobilitare le gambe, perché abbiamo parlato tanto di menti, ma forse questo è il momento di metterci in cammino sul serio. Kyiv è a due giorni di auto da Roma, una guerra diversa. Se vi mettete in auto oggi, nel giro di pochi, meno di 48 ore, siete nel centro dell’Ucraina, a Kyiv. Abbiamo i mezzi di comunicazione più veloci che potremmo mai aspettarci nella storia dell’umanità. Nessuno ci costringe ad essere spettatori di questa guerra. Nessuno ci dice che noi dobbiamo rimanere inchiodati alla televisione, a guardare la guerra alla televisione o sugli smartphone, perché di fatto non è questo il periodo che viviamo. Un grande pacifista, Lanza del Vasto, diceva: “Se percuotono la guancia di tuo fratello, tu porgi la tua.” E nessuno oggi ci impedisce di mettere di fronte a Putin milioni di guance. Perché se volessimo partire adesso, se volessimo andare in Ucraina domani, lo possiamo fare. Siamo uomini liberi, siamo donne libere. E se volessimo arrivare lì a dire “ci siamo, aggrediteci tutti, siamo tutti qui, aggrediteci”, noi lo potremmo fare. Però viviamo un momento strano. Non lo facciamo. Viviamo una grande tensione, una guerra alle nostre porte, ma non partiamo. Potrebbe essere per paura, per paura di partire, paura di rimetterci le penne, paura di invischiarci, però potrebbe esserci anche di più. Giovanni Sartori parlava di Homo Videns, quell’uomo che si sazia solo vedendo, che non deve fare più altro. E un po’ noi siamo figli della pubblicità: si possono fare i soldi senza lavorare, si può dimagrire senza fare nessuna dieta e magari pensiamo di poter fare la pace senza impegnarci. Cioè la pace debbano farla agli altri, appunto chiedono agli ucraini di fare la pace. Un popolo violato, aggredito, molti chiedono agli ucraini: “Fate la pace”, come se fosse nella loro disponibilità questa scelta. Allora probabilmente dobbiamo renderci conto che viviamo in un momento in cui non è più possibile delegare l’azione a qualcun altro perché non è possibile vivere questa condizione del pacifismo come qualcosa che devono fare gli altri, come se toccasse ad un altro popolo. Noi stiamo dicendo, probabilmente, che questa guerra ci sta dicendo che tocca a noi. E tocca a noi europei, non tocca agli ucraini, tocca a noi. Ci siamo messi insieme, dall’Azione Cattolica al MASCI, dall’ANCI alla Rete della Sale della Terra, alle Reti della Carità, a Vita, Base Italia, Movimento del Volontariato Italiano, c’era il Movimento dei Focolari di Ucraina. Siamo andati 11 volte in Ucraina, uomini e donne comuni, esperti internazionali di conflitti, persone come Marianella Sclavi, straordinaria, e meno esperti come me, pacifisti, ambientalisti, cattolici, laici, e ci siamo messi in cammino per fare una nostra piccola parte in questa storia, a servizio della pace, per ascoltare i nostri fratelli e sorelle ucraini, non qui, al sicuro, in Italia, ma lì, in Ucraina, a Leopoli, a Kyiv, a Mykolaiv, a Brovary, a Dorodnya, a trenta chilometri dal fronte, per dire a loro il nostro “eccoci”. Abbiamo condiviso la paura, i rifugi aerei, l’ansia, la mancanza di risposte adeguate alla violenza subita, la mancanza di acqua, di luce, il freddo, il caldo eccessivo senza refrigeratori. Ci siamo resi conto che di fatto, nonostante sembrassimo inutili, facesse piacere agli ucraini che noi fossimo lì come servi inutili. Nikolay, il sindaco di Horodnya, che è un paesino che sta al nord dell’Ucraina tra Bielorussia e Russia, è l’ultimo paese del nord dell’Ucraina, quando ci ha visto arrivare si è commosso, eravamo quattro persone. Mi ha detto: “Non vedo un civile straniero da due anni qui, nessuno è più venuto a trovarci.” A Horodnya, paese di 11 mila abitanti, gli ucraini si sono liberati da soli. Sono arrivati i russi con i carri armati. Il sindaco Nikolay, insieme a tutta la comunità di Horodnya, ha organizzato proteste pacifiche tutti i giorni contro i carri armati. Lì volevano insediare un centro strategico dei russi, sono riusciti a sabotare questo centro strategico. Hanno circondato i militari con le bandiere e con i canti per tutti i giorni del mese di marzo del 2022. Quando è arrivata la Guardia Nazionale Ucraina, i russi erano già sfiancati e di fatto hanno lasciato questa città. Ma nessuno più va a Horodnya, è isolata dal mondo. Quando ci ha visto arrivare, ha detto: “Mi commuovo a vedere che c’è qualcuno che ancora pensa a noi, che ancora pensa che noi esistiamo.” Ci sono centinaia di Horodnya che sono liberate così. Nello Scavo nel suo libro su Kyiv ne parla tanto, di tante esperienze, di tantissimi racconti non violenti dell’Ucraina. Se ne parla pochissimo. Ma l’Ucraina ha fatto un gesto straordinario nella sua resistenza. Nei nostri viaggi abbiamo ascoltato tanto e abbiamo parlato con tutti, con le organizzazioni della società civile in primis, con i leader religiosi, con i parlamentari, con i sindaci, con i giovani, con gli obiettori di coscienza. Abbiamo parlato con tutti ed insieme abbiamo capito cosa avremmo potuto fare. Abbiamo riflettuto con i nostri interlocutori sull’impulso alla vendetta che l’essere vittime di efferata aggressione e violenza suscita in noi, a desiderare di far provare loro le stesse angosce e dolore che ci hanno inflitto. Abbiamo studiato insieme, società civile ucraina ed europea, gli insegnamenti provenienti dalla cultura africana, dall’Ubuntu. Abbiamo scritto documenti condivisi sulla possibilità di smentire il nemico, di spiazzarlo, dimostrando col proprio esempio che, nonostante tutto, la strada dell’umana pietà, solidarietà e rispetto è una strada percorribile. Abbiamo convenuto che reagire alla violenza del despotismo con più democrazia è un’arma fondamentale per la vittoria finale. Mentre gli eserciti si contendono la guerra, cercando di prevalere o di non soccombere, noi possiamo già costruire l’Europa che verrà domani, quando l’Ucraina sarà nella nostra comunità politica, e abbiamo detto insieme: se a Roma nel 1957 sono stati fatti i trattati della Comunità Europea, i primi trattati della Comunità Europea nascono a Roma che era distrutta, era ferita, era debole, forse da Kyiv può nascere la difesa comune europea. È un periodo in cui si comincia a discutere, finalmente, di quello che Spinelli aveva scritto nel Manifesto di Ventotene, di quello di cui parlava De Gasperi, di ciò di cui parlavano i nostri padri fondatori, che poi si era interrotto. E noi diciamo che questo è il momento in cui da Kyiv non può nascere una difesa comune europea fatta solo di eserciti, è la storia che viviamo, ma che devono nascere i corpi civili di pace. Devono nascere quelle istituzioni che Alex Langer aveva detto con lungimiranza, la novità assoluta di quello che può essere l’Europa nella pacificazione del mondo, la capacità di intervenire prima, durante, dopo con i corpi civili di pace, perché ci fosse la possibilità concreta di poter intervenire per manutenere la pace. Se arrivasse la tregua oggi nel Donbass, non sarebbe per forza pace, potrebbe essere violenza latente, odi, rancori, potrebbero esserci delle vendette trasversali. Arrivo a conclusione e dico perché noi diciamo che il nostro è un fallimento, ma che continuiamo a farlo, continuiamo ad andare in Ucraina. Perché secondo noi la pace è come quella perla, per la quale vale la pena mille volte tuffarsi per cercarla. Non fa nulla se cento di quei tuffi del pescatore raccontato nel Vangelo si rivelano inutili tentativi, e che il tuffo vincente sarà comunque frutto di tutti gli sforzi fatti in precedenza e non si sa mai quando arriverà la vittoria. Ma sai che non arriverebbe senza i continui tentativi che si fanno per costruirla. Noi sentiamo di aver fatto un ottimo tuffo inutile e che siamo ancora pronti a farne altri. Non solo, sentiamo che anche se non abbiamo trovato la perla che cercavamo, in fondo in fondo neanche questo tuffo è stato inutile. Perché nella nostra presenza fisica abbiamo detto ai fratelli e sorelle ucraini molto di più di ciò che avremmo potuto dire da lontano. Insieme abbiamo sputato via un po’ di veleno che la guerra insinua in ogni cuore. E non avremmo potuto farlo se non condividendo il dolore, la rabbia e la preghiera. Se un giorno dovessero nascere davvero i corpi civili di pace, non saranno il frutto di una bella accademia o di un think tank di onesti intellettuali, ma il frutto di una sofferenza condivisa che è diventata un bene superiore. Grazie
Frangi. Grazie Angelo. Lali Liparteliani, sei co-fondatrice dell’Organizzazione Non Governativa Emmaus, che tanti di noi conoscono, fondata nel 2011 con l’obiettivo di supportare giovani donne e persone con disabilità, specialmente coloro che escono da istituti di assistenza. Lali, a te chiediamo di raccontare cosa ha significato il fuggire dalla guerra con i tuoi due figli, un destino che è condiviso con altri 8 milioni di ucraini. Ti chiedo di raccontarci come in un’esperienza di sofferenza simile si possa arginare l’odio, come lo si possa curare e come sia possibile sminare i cuori.
Liparteliani. Grazie Giuseppe. Ciao a tutti. Quando sento dire che la pace non è solo assenza di conflitto, ma è soprattutto esercizio di verità, giustizia, libertà e solidarietà, ogni parola risuona nel mio cuore. Perché la presenza di un conflitto nel mio Paese è legata proprio a una riduzione della verità, al calpestamento della giustizia e della libertà, alla propaganda di una menzogna assoluta e assurda da parte della Russia. Ogni giorno vivo con la coscienza che la mia esperienza di migrazione forzata è legata alla menzogna su cui è costruita questa guerra. È legata a un’ingiustizia che toglie la vita a migliaia di civili e innocenti uccisi. Ho bisogno della pace, che sia testimoniata la verità e si realizzi la giustizia, e allo stesso tempo sono grata alla mia comunità per l’esperienza di libertà e solidarietà che vivo con voi. Per me l’esperienza di abbandono forzato della mia dimora è iniziata dal prendere coscienza che casa nostra aveva smesso di essere un luogo sicuro per me e per i nostri figli. Un anno prima della guerra ho perso mio marito, per cui sapevo che dovevo organizzare bene tutto in anticipo, in modo da non muovermi quando sarebbe stato troppo tardi per poter uscire dalla città. L’esperienza dell’essere profughi è l’esperienza di un dolore costante, sordo, senza sosta, per la distruzione che ogni giorno avviene nel mio Paese. È l’impossibilità di condividere la gioia di una nuova nascita con i propri parenti in Ucraina. Per alcuni è l’impossibilità di essere presenti ai funerali di persone care. Per me è l’impossibilità di fare memoria di mio marito presso la sua tomba. Tutto questo non sono solo parole, è la nostra esperienza. Due giorni fa, a Mariupol, nella zona occupata, è morto il papà di un mio caro amico e lui non può andare lì a seppellire suo padre. Non solo, mio fratello e i miei amici a Kharkiv non possono andare al cimitero dov’è mio marito perché i cimiteri sono stati minati dai russi. Oggi però vorrei soffermarmi su un aspetto non immediatamente evidente di questa esperienza, di perdita di sé, di disperazione e di perdita dell’orientamento, perché questa esperienza di essere gettati fuori dalla propria vita ha implicato anzitutto la perdita della propria identità. Mi è difficile descrivere in breve cosa vuol dire che degli aspetti di ciò che so di me, che sembravano ormai assodati, all’improvviso sono diventati incostanti, indefiniti. Ad esempio, quando io sapevo che avevo 41 anni ma mi sentivo come se ne avessi 92. Quando sapevo che sono donna, ma mi sentivo un uomo che doveva velocemente risolvere tutti i problemi. Quando sapevo che io sono la figlia minore, ma all’improvviso i miei genitori diventavano figli. Quando si sono ritrovati in un ambiente estraneo, senza sapere la lingua, senza una casa dignitosa, obbligati a vivere nella cameretta di un ospizio. Tutto questo è il risultato della fuga forzata in cerca di sicurezza, che in maniera impercettibile è diventata un allontanarsi da tutti i punti di orientamento abituale. L’unico aspetto di coscienza di me che è rimasto immutato non è stato il genere, l’età, la nazionalità, l’istruzione o altro. L’unica caratteristica che è diventata punto di appoggio, a partire dalla quale ho ricostruito me stessa, è stata la coscienza che io sono di Cristo. L’appartenenza a Cristo è rimasta come una costante invariabile dentro un’esperienza di infinita indefinitezza, nonostante anche questa esperienza di appartenenza passasse al vaglio della critica, dei dubbi e della disillusione. Ho avvertito che nonostante tutto l’orrore e la mutabilità della mia realtà, c’è Uno che ancora mi sostiene e mi definisce. Dentro l’esperienza di appartenenza a Cristo ho smesso di essere una persona senza casa, straniera, vedova, madre di due bambini, figlia che vive lontana dai genitori, eccetera. Ho riconquistato la mia sorgente cioè l’integrità della mia esperienza. Questa strada per tornare a casa non sarebbe accaduta senza la mia comunità, se non ci fosse stata una compagnia di persone che mi ha portato durante i giorni più difficili. L’esperienza della coscienza che io sono di Cristo non mi permette di fermarmi alle piccole cose. Mi chiama a vivere in pienezza. Una volta mi ha colpito sentire raccontare della reazione di Don Giussani alle lamentele di un volontario che aveva dato dei soldi a una donna povera e aveva reagito negativamente quando aveva saputo che lei aveva usato quei soldi per comprare un rossetto. Giussani gli aveva risposto che non capiva nulla della condivisione, perché non accoglieva le esigenze dell’altro, ma voleva imporgli uno schema moralistico. Non capiva che in quel momento quella donna aveva bisogno, anzitutto, di sentirsi bella. Questa storia mi commuove ogni volta che la sento, ma soprattutto ora, quando viviamo l’esperienza dell’essere profughi. Lo sguardo che ci insegna Don Giussani non parte da delle premesse moralistiche, non è sentimentale, è tutto pieno dell’umanità e della semplicità del nostro desiderio di essere felici. Spesso rispondiamo con facilità alle richieste di aiuto, ma con la stessa facilità, nel nostro tentativo di aiutare, definiamo le persone che si ritrovano in circostanze difficili unicamente come vittime. Cioè, le rinchiudiamo in uno schema di cose per cui dovrebbero essere grati, di cui dovrebbero essere soddisfatti. Con facilità ci immergiamo nella convinzione che sappiamo meglio di loro cosa sia bene per loro. Sono grata a Don Giussani che volge il nostro sguardo all’importanza e al valore della nostra esigenza di bellezza, alla dignità di ogni persona, indipendentemente dal suo status o dalla situazione in cui si trova. Ci insegna a guardare la persona nella sua interezza e pienezza. Sono grata alla nostra famiglia italiana che ci ha accolti a Brescia, perché fin dal primo giorno in cui ci siamo ritrovati a casa loro, ci hanno guardato proprio con questo sguardo che ci ha dato dignità. Sono grata agli amici e a tutti quelli che aiutano e accolgono gli ucraini in Italia per come ci guardate e per come aprite i vostri cuori nel condividere la nostra esperienza. Sono grata a ciascuno di voi, perché chiaramente in quello che fate possiamo testimoniare la solidarietà che esiste tra noi. Mi chiedi come possiamo sminare il cuore e cosa ci aiuta a fermare l’odio e a non incattivirci? Una volta, a un’assemblea della comunità, ho sentito dire che alle vetrate di Notre Dame de Paris sono bastati cinque minuti per distruggersi per sempre a causa dell’incandescenza. All’epoca io stavo vivendo un periodo difficile della mia vita, e ho capito chiaramente che ancora cinque minuti di realtà incandescente e il mio cuore si sarebbe rifiutato di essere quello che era quando era stato creato, cioè rifiutare la capacità di perdonare, amare, essere umana. C’è stato un momento in cui ero a cinque minuti dal chiudere per sempre il mio cuore. Allora mi sono resa conto che il cuore umano è molto più fragile delle vetrate. Per questo quello che mi ha aiutato allora, come oggi, è l’attenzione ad essere fedele al mio cuore, alla sua natura. Non lasciarlo sgretolare, crollare sotto l’assalto del male e della disperazione. Sono gli amici e la comunità, testimoni della mia vita, che condividono con me le gioie e le difficoltà. L’esperienza del fatto che sono stata perdonata e abbracciata più di una volta, persino quando non riuscivo a perdonarmi io. L’esperienza della coscienza che Lui mi attende sempre, come il figliol prodigo, e io posso provare a seguire il Suo invito a perdonare. La gratitudine per tutto ciò che Dio mi ha dato e continua a darmi, la possibilità di vivere ogni giorno con la coscienza delle tante cose che ho. Tutto questo me lo ha insegnato Don Giussani e un lungo cammino nella comunità. E c’è ancora una cosa importante che mi aiuta a conservare il mio cuore: è la sensazione chiara, quasi fisica, del fatto che ogni volta quando tutto è insopportabilmente difficile e faticoso, il Signore mi vede seduta sotto l’albero, come ha visto Natanaele. E allora io un giorno sentirò le amate parole: “Ti ho visto sotto l’albero.”
Frangi. Grazie Lali, grazie per la tua testimonianza. Anastasia, tu sei direttrice di Emmaus a Kharkiv. E a te, come responsabile di questa ONG ucraina, che ha dovuto portare in salvo un grande gruppo di persone con disabilità e che continua a seguire i ragazzi e ragazze con disabilità a Kharkiv, città che in questi mesi è stata particolarmente colpita dai missili e dai droni russi, ci sono stati 190 allarmi al mese, con condomini, case, luoghi di convivenza colpiti, e famiglie con i loro figli con disabilità che non possono lasciare le loro case. Voi avete continuato i vostri progetti di solidarietà. So che anche cercate di curare i cuori e spesso proprio dai ragazzi che assistete arriva una lezione per voi. Ci puoi restituire una testimonianza?
Zolotova. Buongiorno a tutti. La guerra a casa nostra in Ucraina porta un dolore che dura, che non finisce. Non è uguale per me al dolore personale che ciascuno incontra nella propria vita, ma è una sofferenza dell’intero popolo ucraino. L’opera di Emmaus è nata ed è cresciuta a Kharkiv, una città in prima linea che viene continuamente bombardata. Il 24 febbraio del 2022, il giorno in cui la Russia ha invaso l’Ucraina ed è iniziata la guerra su larga scala, una parte di noi era già a Leopoli ed una delle nostre ragazze, Yirka, ci ha detto: “Avevo proprio molta paura che mi diceste che Dio non esiste.” Ecco la guerra, è crudele, una violenza che mette in dubbio il valore della vita di ogni singola persona. Le persone diventano cifre, o ancora peggio, dopo il bombardamento la persona può diventare nulla. Non rimane niente. La guerra ci può costringere ad avere la stessa paura di Yirka, la paura che Dio ci abbia abbandonato. I nostri ragazzi hanno già vissuto una violenza perpetrata nel tempo, simile alla guerra, sperimentata nell’abbandono, nella loro vita da orfani, nel disprezzo assoluto, tanto da convincersi che la loro nascita sia stata un errore e che il loro destino debba essere la sofferenza. Proprio per questa ragione abbiamo deciso di portarli via dalla guerra, perché non vogliamo che rivivano questa violenza. Una volta portati in salvo i ragazzi in Italia, abbiamo iniziato ad accogliere altri ucraini. Noi stessi, spezzati, distrutti, abbiamo sentito come è giusto aiutare altre persone nella nostra stessa condizione. Sempre Yirka ha detto: “Abbiamo dovuto lasciare tutto. L’unica cosa che siamo riusciti a conservare e portare dall’Ucraina è la nostra amicizia.” Siamo riusciti a portare con noi quella casa fatta di rapporti, di amore, di affetto. È stata proprio questa casa di rapporti che ci ha permesso di ripartire qui e provare anche ad aiutare altra gente ferita come noi. Viviamo qui in Italia da due anni e mezzo, ma il cuore è sempre in Ucraina. Una parte di Emmaus è rimasta sempre a Kharkiv. Il cuore è lì con i nostri cari, i nostri colleghi, con tutti quelli che soffrono. Viviamo questa sofferenza incomprensibile. La presenza del male assoluto, i figli che rimangono senza papà, le mamme che perdono un figlio, bambini portati via in Russia, amici e parenti al fronte che combattono, che sono stati feriti, in ostaggio, torturati, senza poi la possibilità di comunicare con chi li aspetta. Le famiglie che si salutano alle fermate del treno e non sanno se si rivedranno ancora. Case distrutte, città completamente bruciate, la presenza della morte. La morte del fratello di Vassia, caro amico di Emmaus, un imprenditore di Kharkiv. La sua famiglia è stata accolta qui in Italia, recentemente sono tutti ritornati a Kyiv. Suo fratello è andato a combattere volontariamente subito nei primi mesi della guerra, poi è scomparso. È stato a lungo cercato e quando finalmente è stato trovato non si poteva più riconoscere. Ed ecco Vassia, il fratello maggiore, che deve trovare le parole per dire alla mamma che occorre fare le analisi del DNA per sapere se quello che è rimasto del suo figlio è veramente suo figlio. Tanti morti ogni giorno. Come ha detto recentemente il dissidente filosofo ucraino e prigioniero politico del periodo sovietico Miroslav Marinovich: “All’epoca, dopo la seconda guerra mondiale, gli ebrei chiedevano: dov’era Dio ad Auschwitz? Invece oggi gli ucraini chiedono: dov’era Dio a Bucha? A questa domanda non c’è ancora una risposta soddisfacente. Non intendo dire che in generale non ci sia la risposta” dice Marinovich “ogni tanto se ne parla ma vorrei che ci fosse la forte voce profetica della Chiesa, perché è vero che lavar le ferite è una funzione importante della Chiesa, ma non è l’unica. Le persone hanno bisogno di risposte, perché altrimenti si perdono. Perché ho perso i miei cari? Qual è il senso della morte? Alla fine la Chiesa deve interpretare il significato del sacrificio di sé. Accadono i momenti in cui il cuore, provocato da queste domande, impietrisce. Sembra che nessun esercizio di solidarietà o bontà sia capace di vincere questo male. Viene da rifiutare anche il pianto, tanto non cambia niente. Personalmente, questa primavera ho avuto un periodo in cui sentivo il peso del male della guerra, in cui non capisci il senso. Ero tormentata dalle domande. Proprio con queste sono andata agli Esercizi Spirituali tenuti da Don Paolo, dove è successo qualcosa e mi sono sentita capita. Ho sentito che sperare è difficile, soprattutto sperare non il primo giorno ma il secondo, il terzo, cioè nel tempo. La speranza non è ottimismo, non è saltare il male della guerra e andare subito alla pace. Partendo da questo, preparare la pace giusta vorrebbe dire chiamare gli assassini con i loro nomi. Ma la speranza deve lottare contro tutti gli ostacoli. Mi ha aiutato a capirlo questo episodio raccontato da Don Paolo. È come nella storia di Maria Maddalena che è andata al sepolcro da Gesù, ma non l’ha trovato, piangeva, continuava a piangere. Le sue lacrime un po’ offuscavano la sua vista, per cui non ha sentito gli angeli, non li ha riconosciuti. Le sue lacrime non le facevano vedere il miracolo della risurrezione. Ma da un altro lato, proprio queste sue lacrime hanno invitato Cristo, hanno spinto Lui ad apparire prima a lei e dire: “Maria, non piangere.” Dovremmo avere la certezza del fatto che il Signore può scendere in qualsiasi buio e vincerlo. La fede ci dà la forza per camminare con questo coraggio. E il coraggio serve perché c’è ancora tanto lavoro di solidarietà per preparare la pace giusta e perché le ferite della guerra avranno bisogno di essere curate. Come ci ha detto, a proposito delle ferite, una volta il vescovo di Kharkiv, il nostro amico Monsignor Pavlo Honcharuk: “Non è ora di ritornare.” Ci ha detto così perché conosce la nostra storia e sa che per noi di Emmaus, che accompagniamo i ragazzi con disabilità, tornare a Kharkiv sotto le bombe sarebbe pericoloso. Sapendo quello che stiamo facendo in Italia, ci ha detto: “Continuate ad aiutare gli ucraini all’estero.” Noi abbiamo avuto il coraggio di farlo pur dovendo anche noi riiniziare tutto da capo, ma è solo grazie a tanti amici, nuovi e storici, grazie a tanti di voi qui presenti in sala, che molti ucraini rimasti senza niente stanno riuscendo a ricostruire la propria vita. Grazie al vostro continuo supporto e aiuto, abbiamo trovato delle fondamenta solide a cui appoggiarci. Poi alla fine ha aggiunto: “Ma preparatevi a tornare in tanti.” Ma cosa vuol dire? “Tornate in tanti perché le ferite sono tante. Bambini orfani, mutilati dalla guerra, la gente che ha perso il senso della vita. Ci sarà bisogno di energie, di persone che saranno capaci di aiutare a rinascere”. Prepariamoci ad andare in tanti.
SPEAKER. Grazie!
Frangi. Eccoci. Non voglio aggiungere parole, perché l’intensità di quello che abbiamo sentito non chiede altro. Chiede forse qualcosa che è stata un’idea di Riccardo, quindi vogliamo rispettare la sua geniale volontà. E quindi chiamo Giulia Villa. È un brevissimo testo. Giulia Villa è una bravissima attrice del Teatro Oscar Desidera di Milano. È un brevissimo testo, La pace come cammino, di Don Tonino Bello. Don Tonino Bello è stato vescovo in Molfetta, morto nel 1993, per il quale è in corso una causa di beatificazione. Ed è un personaggio simbolo dell’impegno per la pace, cioè di tutto ciò di cui abbiamo parlato oggi. Pensate che il 7 dicembre del 1992 partì insieme a circa 500 volontari da Ancona verso la costa Dalmata, dalla quale iniziò una marcia a piedi che l’avrebbe condotto dentro la città di Sarajevo, a proposito di quello che diceva Moretti, da diversi mesi sotto l’assedio serbo, portare la sua presenza e basta. Quindi a te la parola, Giulia.
Villa. A dire il vero, non siamo molto abituati a legare il termine pace a concetti dinamici. Raramente sentiamo dire: “Quell’uomo si affatica in pace, lotta in pace, strappa la vita coi denti in pace.” Più consuete nel nostro linguaggio sono invece le espressioni: “Sta seduto in pace, sta leggendo in pace, medita in pace,” e ovviamente “riposa in pace.” La pace, insomma, ci richiama più la vestaglia da camera che lo zaino del viandante, più il comfort del salotto che i pericoli della strada, più il caminetto che l’officina brulicante di problemi, più il silenzio del deserto che il traffico della metropoli, più la penombra raccolta di una chiesa che una riunione di sindacato, più il mistero della notte che i rumori del meriggio. Occorre forse una rivoluzione di mentalità per capire che la pace non è un dato, ma è una conquista, non un bene di consumo, ma il prodotto di un impegno, non un nastro di partenza, ma uno striscione di arrivo. La pace richiede lotta, sofferenza, tenacia, esige alti costi di incomprensione e di sacrificio, rifiuta la tentazione del godimento, non tollera atteggiamenti sedentari, non annulla la conflittualità, non ha molto da spartire con la banale vita pacifica. Sì, la pace, prima che traguardo, è cammino, e per giunta cammino in salita. Vuol dire allora che ha le sue tabelle di marcia e i suoi ritmi, i suoi percorsi preferenziali ed i suoi tempi tecnici, i suoi rallentamenti e le sue accelerazioni. Forse anche le sue soste. Se è così, occorrono attese pazienti. E sarà beato perché è operatore di pace chi non pretende di trovarsi all’arrivo senza essere mai partito, ma chi parte col miraggio di una sosta sempre gioiosamente intravista, anche se mai su questa terra si intende pienamente raggiunta.
Frangi. Ecco, ringrazio tutti i nostri ospiti perché si sono giocati in prima persona, questo che questo incontro chiedeva, no? Quindi abbiamo sentito verità, come diceva Monsignor Kulbokas, di persone che si mettono in gioco e questo è la pace, ha bisogno innanzitutto di persone che si mettono in gioco. Ringrazio Monsignor Kulbokas, che è rimasto collegato fino adesso, un applauso. E ringrazio tutti, chi è stato su questo palco, chi si è collegato da Kyiv, come il nostro Premio Nobel. Vi ricordo, come sempre uscendo, che tutti questi percorsi, questa crescita di una coscienza che avviene attraverso incontri come questi, sono possibili anche grazie al fatto che si sostengono realtà come il Meeting di Rimini, che dà voce a voci come quelle che abbiamo sentito, quindi sostenete il Meeting di Rimini. Grazie a tutti.