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“SE UN UOMO HA CENTO PECORE E NE SMARRISCE UNA, NON LASCERÀ FORSE LE NOVANTANOVE…?”: L’ESPERIENZA DE L’IMPREVISTO E DI BOCATAS
Partecipano: Jesús “Chules” de Alba, Presidente Asociación Pasión Por El Hombre – Bocatas, Spagna; alcuni ragazzi della Comunità L’Imprevisto e dell’Associazione Bocatas. Introduce Silvio Cattarina, Fondatore e Presidente Cooperativa Sociale L’Imprevisto.
“SE UN UOMO HA CENTO PECORE E NE SMARRISCE UNA, NON LASCERÀ FORSE LE NOVANTANOVE…?”
SILVIO CATTARINA:
Buona sera a tutti, come prima cosa il Meeting ci invita a leggere questo comunicato.
“Colpiti dalle drammatiche notizie del terremoto di questa notte, oggi in tutte le sale del Meeting iniziamo i lavori con un momento di silenzio e di raccoglimento, unendoci ai sentimenti di Papa Francesco, il nostro pensiero va alle vittime e alle loro famiglie, desideriamo essere vicini a loro continuando a vivere questa giornata con ancora maggior intensità. Il Meeting invita ad aderire a qualsiasi iniziativa sarà indetta dalle autorità competenti in questo momento drammatico ed invita tutti i partecipanti ad aderire alla proposta della Presidenza della CEI alla Colletta nazionale da tenersi in tutte le chiese italiane il 17 settembre 2016 in favore delle popolazioni colpite dal sisma”. Ci alziamo in piedi per un minuto di silenzio. Grazie.
Con grande cuore salutiamo i nostri ospiti d’onore che sono gli amici spagnoli: Jesus “Chules” de Alba e Sandokan e gli amici de “L’Imprevisto” che vi presenterò dopo. Comincia l’incontro, avete già letto e sentito di Chules de Alba, Nasce in Spagna nel ’74, è laureato in Diritto, fa il commercialista, ha messo insieme ad altri amici che adesso ci racconteranno una bellissima opera, una bellissima caritativa. Da vent’anni conducono un’esperienza molto bella, cominciamo con un video, poi parlano Sandokan, Chules e i nostri ragazzi de “L’imprevisto”. Alla fine anch’io dirò un po’ di parole, così si svolgerà il nostro incontro.
Video.
SANDOKAN:
Quello che ho imparato è che innanzitutto quello di cui uno ha bisogno è questo. Iniziamo dal basso, perché non si può iniziare a costruire la casa dal tetto, bisogna partire dalle fondamenta. Quindi bisogna volersi bene per far sì che possiamo voler bene anche agli altri. La seconda cosa che ho imparato, grazie a Bocatas, è riconoscere il proprio bisogno e farsi aiutare, voler essere aiutati, attraverso persone che ti permettono di imparare a vivere in modo semplice e gratuito. Le parole che vi dico non sono facili da dire perché tutti noi, qui riuniti, siamo colmi di peccati, tutti noi. E riconoscere i nostri stessi peccati è una delle cose più difficili al mondo: questo ha un obbiettivo ovvero maturare. Questa parola, maturare, ultimamente ce l’ho molto a mente, ci penso molto, perché tutto il percorso che sto facendo mi serve per maturare, per crescere. Quello che il signore vuole da me è che io diventi uomo e questo significa essere in grado di scegliere quello che è buono, cattivo, discernere quello che è buono e cattivo per la mia vita. Un’altra cosa che ho imparato parlando con i miei amici, è qualcosa che tutti sapete: l’essere umano impara sbagliando e il luogo privilegiato di Cristo è proprio il limite, quando sei al limite, quando sei più fottuto, letteralmente. È lì che Cristo compare nel suo splendore. Lui ti tende la mano quando sei nei guai e tu con la tua libertà, che Lui sempre rispetta, ti aggrappi a quella mano oppure ti butti giù, ti perdi. Vi racconterò un piccolo segreto, per me è estremamente importante parlare con Dio, e ancora meglio se lo faccio gridando, urlando a voce alta. Quello che Lui ci chiede, o meglio quello che Lui chiede a me, è semplicemente riconoscere la sua persona e una parola chiara in questo è fidarsi. Non mi sarei mai immaginato che sarei arrivato fin qui, ma neanche per scherzo. La realtà è caparbia e testarda, è molto importante sapere quello che si vuole. Tutti noi siamo bisognosi di amore ed è un bisogno perché noi abbiamo bisogno: o sì o sì. Abbiamo bisogno di riconoscerlo, perché Lui è un bene per maturare. Questa parola, capite, è una parola che è molto presente in me, maturare. Questa parola mi ha salvato e mi ha salvato essere fedele a Cristo e veramente fare attenzione ai momenti. Lo slogan del Meeting è “Tu sei un bene per me”. Sapete qual è il sottotitolo, come continua la frase? Abbiamo visto la mostra e secondo me questo titolo va avanti perché secondo me è un dono di Dio, gratuito. Che bella parola, vero? Le cose gratis… Io ho fatto molta fatica a capirlo però ho capito. Siamo qui. Sapete che è veramente un mistero! Infine, vorrei ringraziare Dio per il dono, il regalo che mi ha fatto o uno tra i tanti, perché ce ne sono stati diversi, sono molto fortunato. Uno di questi tanti regali che ho avuto da Dio si chiama Silvia, lei è la mia fidanzata ed è un regalo di Dio perché Lui ci ha permesso di incontrarci un anno fa, più o meno, quasi. E in particolare lì a Bocatas, l’ho incontrata perché mi hanno invitato affinché potessi recuperare la mia vita, la vita che un peccatore non può rifiutare.
JESÚS “CHULES” DE ALBA:
Ogni volta è sempre più difficile perché lui è molto attaccato alla vita, all’esperienza, meno ideologizzato di me. Scusate il mio italiano, sono spagnolo e qualche parola sarà un po’ in italo-spagnolo. Questo video che abbiamo messo qua sull’intervista a Sando l’ho visto un centinaio di volte perché mi stupisce come lui in questo video abbia dato 11, 12 giudizi sulla vita, sull’esperienza, che tanti di noi fanno fatica a dire nel quotidiano. E mi ha stupito perché lui non ha ricevuto un’educazione, un’istruzione di che cosa è Bocatas, da dove veniamo o tutte queste idee che è riuscito a dire della vita. Che nella vita è essenziale la compagnia, e a cosa serve all’uomo vincere e guadagnare tutto se perde se stesso, la gioia di cuore che è il principale dono di Dio a noi e della vita. Tutte queste cose io non gliele ho mai insegnate, non le ho mai trasmesse a lui con la parola. E lui, in questa intervista, è riuscito a dirle come parole, come giudizio su un’esperienza sua, di una vita sua. Mi sono chiesto perché è stato così per un uomo uscito dalla strada, in un quartiere che da anni è nel mondo della droga, in un mondo veramente duro, un inferno: difficilmente si esce da questo mondo, almeno questa è l’esperienza che noi abbiamo. Ci siamo resi conto che per dare questo giudizio – come è fatta la realtà? La realtà è fatta del dono che ci hanno fatto della vita – uno deve andare alle periferie, deve trovarsi con questa gente. E pertanto io ho ringraziato tantissimo Bocatas perché mi ha facilitato l’andare in questa periferia e rendermi conto di che cosa è fatta la vita, di che grande dono sia stata la vita. Perché, giorno dopo giorno, mi è difficile fare esperienza di questo, che la vita è un dono e che la compagnia è essenziale, e tutte le altre cose che dice il Sando nel video. Per questo Bocatas è stato il dono più grande che Dio ha dato a noi, a questo gruppo di amici in questi venti anni. Curiosamente, pare che noi abbiamo dato un aiuto a un pezzettino piccolo di questo mondo della emarginazione: e veramente è stato un dono, senza dubbio la ricchezza più grossa per la nostra vita. Perché una vita senza significato, senza senso, senza questa gioia di cuore, è una vita che non ha senso, che è triste e pertanto noi siamo contenti. La seconda cosa che volevo dire è che in questi vent’anni noi non abbiamo perso mai la freschezza dell’origine, non abbiamo voluto sostituire questo rapporto diretto con loro per un progetto. Infatti, Bocatas è la cosa più semplice del mondo perché è dare dei panini in questo quartiere a questi drogati che ci vivono. Mi ha colpito e mi colpisce, perché se fosse un progetto sicuramente l’avrei pensato in un altro modo. Faccio solo un esempio per far vedere come è diverso vivere di un progetto, di una misura propria, e vivere di un’altra cosa più grossa, che fa gli uomini grandi. L’ultima novità di questi due anni – noi ci dedichiamo solo a parlare con i drogati – è che nel quartiere ci sono degli zingari, sono clan, famiglie che vendono droga. Zingari e drogati si odiano, la loro è una strana simbiosi, perché gli uni hanno bisogno degli altri ma si odiano di puro odio. Da qualche tempo, alcuni universitari vengono da noi a fare la caritativa e sono diventati amici dei ragazzi zingari, questi figli delle famiglie che vendono la droga. Pertanto, adesso, a Bocatas non vengono solo barboni, tossici, ma anche questi zingari, ragazzi di 14, 16 anni, e anche ragazzini di 10 anni, che fumano, fanno molte cazzate, fanno un casino terribile ma sono diventati amici nostri, a tal punto che adesso un bel gruppetto di questi vogliono venire sempre da noi. Se andiamo in gita in montagna, vengono anche loro, per la festa annuale della parrocchia a Bocatas, vengono. La caratteristica di questi ragazzi è che nessuna associazione di lavoro, della Croce Rossa, della Caritas, che ha programmi in questo quartiere, è riuscita a fare nulla con loro. Non sono riusciti a mandarli a scuola, niente. Questi ragazzi sono l’unico gruppo di Madrid che nessun programma sociale sia riuscito ad influenzare, perché sono assolutamente selvaggi. Se avessimo fatto un progetto sui tossici, saremmo fuggiti da loro, perché odiano i nostri; invece, seguendo quello che fa succedere il buon volto di Dio, abbiamo trovato che questi ragazzi che vengono da noi e distribuiscono cibo ai drogati, sono capaci anche di questo. E abbiamo creato anche un posto, in questo quartiere veramente brutto, dove stiamo insieme a zingari e drogati. Questo si può fare solo per la forza del divino, la forza che tutti questi giorni che sono stato qui al Meeting ho visto all’opera, di Madre Teresa, dei carcerati del Brasile, dell’APAC, dell’energia, della ricreazione di Dio nel suo popolo che fa diventare le opere veramente grosse. E io non voglio fare altro che seguire questa ricreazione che Dio ha fatto tra noi, in questi 20 anni, in questa piccolissima e semplicissima opera che si chiama Bocatas. Ancora chiedo al gran Dio che continui ad andare avanti con noi che siamo disponibili a vedere queste cose, piccole ma grosse, che rispondono al bisogno dell’uomo come abbiamo sentito nel video di Sandokan. Grazie mille!
CAROLINA:
Sono Carolina, ho 22 anni e vengo da Verona. Ho incontrato “L’imprevisto” il 25 agosto del 2010. Fin da quando ero piccola desideravo tutto per me, volevo essere voluta bene, ero irrequieta nel voler dimostrare ai miei genitori ed alle persone che mi circondavano che ero capace e perfetta nell’affrontare i rapporti e le difficoltà. E quando la realtà mi faceva vedere che non tutto andava secondo le mie aspettative, mi sono ribellata molto. Mi sentivo scoperta, inadeguata, non sapevo a chi urlare il dolore che sentivo dentro e l’unica cosa in grado di chiudere ed alleviare la ferita che avevo e che mi porto dietro tuttora era la droga. In tutto il tempo passato a fare del male a me stessa e alla cosa più cara che ho, ovvero i miei genitori, sentivo comunque che non ero nata per questo e che nella mia vita doveva per forza entrare qualcosa di diverso. Con l’aiuto dei miei genitori ho incontrato la comunità de “L’imprevisto”, dove ho passato i momenti più belli della mia vita. Ciò che mi ha cambiato è stato vedere che gli operatori mi hanno chiesto tanto fin dal primo giorno, mi hanno dato un compito, una responsabilità rispetto a me stessa e agli altri, senza dare importanza all’esito ma piuttosto a fare le cose insieme. In tutto ciò, mi sono accorta che il mio limite non mi schiacciava più come prima, più lo mostravo, più mi si voleva bene. Ero circondata da persone che volevano affrontare la vita con me. Dopo tre anni e mezzo di comunità, ho continuato il mio percorso nella casa di reinserimento dove ho vissuto un’esperienza bellissima e ho toccato con mano che ciò che di bello ho vissuto in comunità era possibile anche fuori, che tutte le regole a cui dovevo stare erano la mia base per vivere serenamente con molti amici. C’è stato un momento, però, in cui mi sono smarrita di nuovo, nonostante il forte legame con l’esperienza hanno di nuovo preso il sopravvento la mia presunzione e la voglia di decidere io per me. Una volta tornata a casa, mi è sfuggita di mano la situazione. Ho perso di nuovo il rapporto con i miei genitori, con il mio ragazzo, con gli operatori e le mie compagne di comunità, non riuscivo più a gestire le mie giornate e il lavoro e la ferita che sentivo era talmente forte e insostenibile che sono di nuovo ricorsa alle sostanze. La delusione, il non avercela fatta mi schiacciavano di giorno in giorno, volevo sparire, polverizzarmi. Ma qualcuno mi ha salvata di nuovo. Nella mia paura e confusione, la cosa più vera che ho sentito di fare è stato chiedere aiuto alla comunità. Ho chiamato Grazia, la responsabile. Sapevo che a lei potevo portare tutto il mio male con sincerità e senza vergogna. Non sapevo che cosa sarebbe dovuto accadere, ma quando sono tornata da lei, lei lo sapeva già, aveva già pensato a me ed io avevo solo bisogno di questo. Mi ha proposto di entrare in comunità. Che doccia fredda quel giorno! E nonostante sia stata una gran batosta, io, tra le lacrime, non ci ho pensato due volte e le ho detto di sì, che ci sarei stata. Una volta tornata in comunità mi ha colpito come hanno valorizzato il mio essere ancora qui con loro, quando io nella mia situazione vedevo solo il fatto che avevo fallito, che non ce l’avevo fatta. Ma veramente non ce l’ho fatta? Cosa vuol dire farcela? In questi mesi che sono qua sto lavorando su questa domanda e tutto quello che mi è accaduto non mi schiaccia più, non lo vivo più come una cosa in meno rispetto agli altri. Probabilmente dovevo capire ancora qualcosa e nonostante la fatica ed i sacrifici che sto facendo, in un certo senso, posso dire che non mi sento più smarrita, mi sento di nuovo a casa.
SILVIO CATTARINA:
Jacopo. Potete leggere anche più lentamente, perché tu sei andata un po’ troppo veloce. Ho chiesto ai ragazzi di scrivere perché quelli del Meeting ci sono stati sopra sui tempi, perciò, per non rischiare di allungare troppo, ho detto di scrivere.
JACOPO:
Quel giorno ero lì, seduto ad osservare quella che fino a qualche ora prima era stata la mia camera. Ora sembrava il cassonetto di un clochard, e anche gli armadi distrutti, i vestiti da tutte le parti ed il pianto di mia madre a fare da sottofondo. Io ero lì inerme ad osservare quella stanza, con la speranza di veder sbucare da sotto qualche felpa tutto quello che avevo appena perso. Speravo in un briciolo di dignità, speravo in un briciolo di libertà, ma la cosa più grande che speravo uscisse da lì sotto era un briciolo di me, il vero me, colui che ormai non ricordavo di chi fosse e che avevo il desiderio di incontrare per capire cosa fosse successo alla mia vita. Buonasera a tutti, io sono Jacopo, ho 20 anni e questo è il giorno in cui sono stato trovato, il giorno del mio arresto. Quel giorno io maledicevo il fatto di essere stato trovato, perché vedevo solo coloro che erano davanti a me e non chi attraverso loro era venuto a prendermi. Ciò che mi era accaduto aveva fatto terra bruciata dentro al mio cuore: ora avevo fallito veramente in tutto. Dopo quel giorno sono passati dieci mesi nei quali non ho fatto altro che cercare la conferma del fatto che la mia vita non aveva senso, ero venuto al mondo inutilmente ed ero destinato a soffrire. Questo però era troppo grande da sopportare, così non ho fatto altro che anestetizzare tutto il dolore che il confronto con la realtà portava, fino a non sentire più neanche il grido del mio cuore. Quel grido alla vita della quale avevo bisogno, e perché avevo smesso di vivere, semplicemente facevo il minimo indispensabile per sopravvivere. Il 9 dicembre 2013 la vita ha voluto mettermi su quella strada che mi avrebbe aiutato a capire da chi e perché ero stato trovato. Il 9 dicembre 2013 sono entrato a “L’imprevisto”. Per quanto in quel momento la comunità non rappresentava altro che il peso del mio fallimento, quel giorno sentivo qualcosa di nuovo dentro di me. Sentivo che alla mia vita stava capitando qualcosa di grande, sentivo di avere finalmente la possibilità di lasciare tutto alle spalle e ricominciare. Per un attimo, è stato come se tutto quello che era accaduto prima fosse stato cancellato e la mia nuova vita stava iniziando. Appena arrivato in quel luogo, mi è stato chiesto se fossi arrivato nel posto giusto, se davvero questa era la comunità. Sono rimasto stupito di come tutto era curato, pulito, ordinato, di come tutto era bello, di come i ragazzi presenti fossero pronti ad accogliermi con un sorriso. Sembrava che quel giorno tutti attendessero me. Fin da subito, il mio cuore mi ha detto che questa era la mia strada, anche se poi non volevo accettarlo. I primi mesi sono stati difficili, mille regole da rispettare, giudizi, orari e tanto altro che non aveva mai fatto parte della mia vita. Quello però che ogni volta non riuscivo a capire era il fatto di trovarmi davanti persone disposte a non guardarmi per tutto quello che avevo fatto e che ero stato: loro mi guardavano per ciò che portavo e per ciò che potevo essere. La richiesta si basava su quello che era più giusto per me, per la mia vita. E non su quello che faceva meno male, io questo non riuscivo ad accettarlo. Non riuscivo ad accettare che ci fosse qualcuno disposto ad offrirmi il suo bene così gratuitamente. Così mi ribellavo davanti a questa cosa, perché è molto più facile accettare il male che il bene; per accettare il male basta lasciarsi andare, basta lasciare che le cose ti travolgano senza opporre alcuna resistenza. Mentre per accettare il bene bisogna lottare, bisogna essere sinceri e leali nei confronti della realtà e del proprio cuore, essendo responsabile davanti agli altri e alla propria vita. Più mi ribellavo e più loro erano vicini a me. Più volevo stare solo e più mi trovavo di fianco qualcuno pronto a dirmi che non era disposto ad abbandonarmi. Così ho perso mesi a lottare contro me stesso, credevo di lottare contro la comunità, contro la ingiustizia della vita nei miei confronti, ma poi ho capito che stavo semplicemente lottando contro tutte le occasioni che la vita mi offriva. Dopo circa un anno dall’inizio del mio percorso, Dicio, il responsabile di noi ragazzi, mi propose di fare un permesso, cioè di passare un weekend a casa con la mia famiglia per fare quello che non facevo da molto tempo: il figlio. I miei genitori sono divorziati perciò abbiamo deciso che avrei passato un giorno con mio padre e un giorno con mia madre. Mia mamma per tanto tempo ha avuto dei problemi, e tornata a casa dopo un anno ho potuto constatare che le cose non erano cambiate quasi per niente. Ricordo che quel giorno a casa di mia madre ho preso il telefono, ho chiamato l’operatore che era in comunità e gli ho detto: “Qui le cose non sono cambiate di una virgola! Perché?”. La risposta è stata: “Ora pensa a fare il figlio, stai vicino a tua madre e poi affronteremo tutto il resto insieme”. In quel momento mi sono fidato, ho seguito ciò che mi era stato detto ed ho aspettato di tornare in comunità. Arrivato in comunità, però, mi aspettavo che loro mi risolvessero il problema. Invece, non appena sono andato a cercare Dicio per raccontargli cosa era successo, lui mi ha detto: “So già tutto. Prenditi un paio di giorni per riflettere e poi ne riparliamo”. Allora mi sono detto: “Ma come? Io sono qui a chiederti aiuto e tu mi dici ne riparliamo?”. In quei giorni ero distrutto, nonostante pensassi di essermi lasciato alcune cose alle spalle, la vita era stata di nuovo pronta a presentarmi il conto. Poi finalmente è arrivato quel giorno, quel momento, quello sguardo davanti al quale esistevo solo io. Colui che si era smarrito e aveva bisogno di qualcuno che tornasse a riprenderlo. Così sono entrato nell’ufficio di Dicio e abbiamo iniziato a parlare. Quando mi sono seduto, lui mi ha guardato e mi ha detto: “Quindi?”. Allora ho cominciato a raccontargli quello che era successo ma lui mi ha fermato subito e mi ha detto: “Questo lo so già! Tu invece hai riflettuto su quello che è successo?”. Io avevo riflettuto molto su quello che era successo e avevo sofferto molto. Così gli ho raccontato cosa avevo vissuto. “Sai, Dicio, mi sono reso conto di una cosa. È arrivato il momento davanti al quale non posso più raccontarmela, non posso più scappare, mi trovo davanti a una scelta e le opzioni sono due: posso fare finta che questo anno non sia accaduto niente, e mollo tutto come ho sempre fatto, oppure inizio a lottare. Ed io voglio iniziare a lottare perché sono stufo di starmene seduto in un angolo a guardare la mia vita che scorre, senza fare niente. Voglio iniziare a lottare per la mia libertà, voglio iniziare a lottare per dare una dignità a tutto questo dolore, voglio crescere, voglio andare avanti, sento il bisogno di diventare un uomo ma da solo non posso farcela e ho bisogno del vostro aiuto”. La sua risposta è stata semplicemente: “Bene, credo anche io che sia arrivato il momento, iniziamo!”. Così il mio sguardo nei confronti della vita è cambiato, non guardavo più al dolore e alla fatica che alcune scelte comportavano ma guardavo al bisogno che avevo di compiere quelle scelte. Ora avevo smesso di lottare contro e avevo iniziato a lottare per la vita. Ora capivo come la mia libertà non stava nel poter scegliere come sarebbe andata la mia vita e cosa mi sarebbe capitato, la mia libertà sta nell’accettare la mia vita, nell’essere umile nei suoi confronti dicendo sì alle sue proposte. Essendo curioso di capire perché mi veniva proposto tutto questo, sapendo per certo che ciò che essa mi proponeva era sicuramente in quel momento la cosa di cui avevo più bisogno per crescere ed accrescere l’esperienza della mia persona. Da quel momento sono iniziati i mesi più duri, ma proprio per questo più belli. Ora non potevo più mentire al mio cuore che vibrava ogni volta che si trovava davanti alla bellezza della vita. Ora sentivo di avere una grande responsabilità nei miei confronti e nei confronti di chi mi circondava, perché essere responsabili significa avere dei doveri e avere dei doveri significa rendere conto a qualcuno. In quel momento della mia vita, sentivo la necessità di rendere conto a qualcuno perché avevo capito che Silvio, Dicio e tutti gli operatori non portavano semplicemente la loro persona, io avevo bisogno di rendere conto a Chi attraverso loro poneva il Suo sguardo su di me, a Chi attraverso loro parlava a me, io avevo bisogno di rendere conto a qualcosa di più grande. Avevo bisogno di rendere conto a Dio. Da quel momento, ho capito che non c’era più nessuna situazione davanti alla quale io potessi dire “non ce la faccio”, perché non ero più solo. Così ho ripreso gli studi, ho fatto un lavoro su mia madre, ho imparato cosa significhi volerle bene. Ho imparato ad essere figlio con mio padre, con il quale ora ho un rapporto bellissimo mentre prima di entrare in comunità non ci parlavamo neanche. Ho continuato a lottare. Ora mi rendo conto di quanto io sia piccolo nei confronti della vita, di quanto povera sia la mia persona. Nella mia vita ho sempre sentito un gran vuoto dentro me, qualcosa che mancava. Vedevo quel vuoto come qualcosa da colmare, da tappare per far sì che io potessi sentirmi bene. Quel vuoto lo sento tuttora ma adesso spero e prego di poterlo sentire per tutta la vita. Quel vuoto è la mia fame di vita, è ciò che mi spinge a non accontentarmi e ad essere curioso perché io ora so che sono destinato a qualcosa di grande, che ogni sacrificio che la vita mi chiede è una occasione per arricchire la mia persona. E allora, dopo che hai assaporato tutto questo, hai voglia di correre ad abbracciare tutto quello che la vita ti propone perché è sicuramente dura, piena di dolore, comporta dei sacrifici. Ma la vita è bella e vale la pena di essere vissuta. Il 28 giugno 2016 ho finito il mio percorso in comunità ed ho deciso di fermarmi a Pesaro nella casa di reinserimento, una casa nella quale abbiamo l’opportunità di continuare a valorizzare la nostra vita. Ho deciso di fermarmi a Pesaro perché ho capito chi in quel lontano febbraio 2013 mi aveva trovato ed ora voglio che non mi lasci più. Voglio che quello che ho trovato qui mi accompagni per tutta la vita e duri per sempre, perché fino a tre anni fa pensavo che la mia vita fosse una sfiga e che quindi io fossi uno sfigato. Ora invece sono certo che la mia vita è una sfida ed io sono un uomo che lotta per la propria libertà.
SERENA:
Sono Serena. Ho 17 anni. Vengo da Pescara e sono in comunità da poco più di un anno. Ero arrivata ad un punto in cui sentivo che niente avesse più senso, avevo fatto troppo male, avevo distrutto troppo e non avevo idea di come potevo aggiustare le cose, anzi non ero capace di farlo e così mi lasciavo scivolare dolori, fatti, persone e giorni addosso: aspettavo con indifferenza. Poi, qualcosa è successo, mia madre mi cacciò di casa e lì fu una svolta per me. Nel giro di un mese sono arrivata a “L’imprevisto”, mi sentivo tanto arrabbiata ma in verità avevo solo molta paura. Nonostante ciò, sono stata accolta da tutti anche se non mi conoscevano e anche se io non volevo accettare il loro aiuto. Sono stata voluta con serenità, pazienza e amore. Anche se all’inizio non me ne accorgevo. Ho impiegato del tempo per vedere l’aiuto che mi veniva dato. Spesso anche con forme poco gradite. Adesso mi rendo conto di come molte cose che mi davano fastidio, mi abbiano aiutata a cambiare, a partire da un fatto che può sembrare banale come le regole o essere sempre accompagnati da una compagna più anziana nel fare le cose, il non essere mai lasciati soli a se stessi. Una cosa che mi ha fatto molto soffrire, ma crescere, sono stati i giudizi di compagne e soprattutto operatori. Le riprese che mi venivano e mi vengono tuttora fatte per farmi vedere la realtà di quello che faccio e sono. La realtà, tema ripreso ogni singolo giorno, con la quale tuttora mi capita di fare fatica, perché magari penso a quello che non ho o al passato o semplicemente mi incastro nei miei pensieri che non mi portano a nulla di buono, che mi distraggono dalle persone e dal bello che ho intorno, che mi portano a riproporre soliti meccanismi come per esempio il chiudermi in me stessa, ed è un aspetto su cui per molto tempo ho battuto il chiodo e che purtroppo continua a tornare fuori anche adesso. Ma in questi momenti mi trovo a dover prendere una scelta: continuare ad aspettare e non fare nulla, come troppo spesso ho fatto in passato, oppure cercare un rapporto con qualcun altro aprendomi ad una relazione. Chiedere aiuto non è sempre facile perché devi ammettere a te stessa che da sola non ce la fai, abbattendo così il muro dell’orgoglio, dover fare la fatica di andare da qualcun altro che non sempre ti dirà quello che vuoi sentirti dire, è una cosa che da poco ho imparato. In questo, non solo mi accompagna la comunità e lo rivedo in tante situazioni passate, in cui sapevo solo fuggire per non affrontare le questioni e ogni volta gli operatori erano pronti a tendermi la mano per riprendermi, nonostante sapessero che sarebbe potuto riaccadere. Non so se qualcun altro fuori sarebbe stato in grado di starmi dietro con così tanta costanza e impegno. Loro però ci sono ogni giorno e penso che non li ringrazierò mai abbastanza.
RICCARDO:
Buonasera a tutti, io mi chiamo Riccardo, ho 28 anni e vengo da Forlì. A 21 anni la mia tossicodipendenza stava per arrivare al punto di non ritorno e una sera, dopo aver preso un rullo di botte da mio fratello, avevo deciso di fare l’ultimo tentativo, volevo entrare a San Patrignano. Lo scontro con mio fratello in un attimo ha fatto sentire al mio cuore tutto il male che stavo facendo a me e alla mia famiglia. È stato come se qualcuno mi avesse preso per le orecchie e mi avesse chiamato per nome. Ormai era da tempo che per me nulla aveva più un valore, era tutto una finzione ed ero completamente chiuso nel mio dolore, nella mia ferita. Nessuno poteva capirmi e il mio problema era togliermi la dipendenza dalla droga. Ho parlato per caso con un ragazzo di 42 anni, amico di mio fratello, e questo ragazzo, la prima cosa che ha fatto è stato guardarmi dritto negli occhi e chiedermi come stavo: ero già stato preso e ancora non lo sapevo. Era come se mi conoscesse da sempre, come se fosse un amico di tutta la vita. Parlando, lui mi inizia a raccontare del rapporto fra lui e ‘sto Silvio, che non avevo mai sentito nominare. E poi mi dice che questo signore aveva una comunità dove lui era stato 20 anni prima. Subito in me è nato un desiderio di volere anche io un rapporto così per me, non avevo esperienza di rapporti del genere. Nella mia vita non avevo mai incontrato nessuno che mi aiutasse ad esprimere quello che io sentivo. Nel giro di pochi giorni, sono riuscito ad entrare da Silvio, ne “L’imprevisto”. L’impatto iniziale è stato durissimo, e ciò che mi faceva più male era vedere i miei genitori piangere ancora. “L’imprevisto” è un luogo molto bello ma anche molto duro, tutto è concentrato per il bene della persona, tutto sul rapporto, quel rapporto genitoriale che ti mette al mondo e ti accompagna per tutta la vita. Non capivo le regole ma desideravo con ardore capire perché quelle persone mi volevano bene gratuitamente, volevano bene a me, ad un disgraziato come me che aveva scelto di fare da solo. Mi hanno sempre chiesto tutto, fin da subito, più del massimo che io pensavo di dare. Mi hanno sempre valorizzato molto di più di ciò che era il mio giudizio. Ci tengo a precisare una roba: perché in comunità, il bene non è affetto ma sono critiche e giudizi spesso dolorosi, verità che uno non vuole ammettere. Tutto ciò per me era massacrante, ma dietro ogni mazzata c’era un abbraccio di un amore infinito ed era proprio quello che mi costringeva a mettere le mani nella mia ferita e a guardarla. Dopo tre anni di comunità, avevo deciso di rimanere a Pesaro, a continuare il percorso di reinserimento. La vita però mi ha riportato a casa. Per motivi di lavoro ho scelto di ritornare in fabbrica con il babbo e con i miei fratelli. Per me è stato un ricominciare da capo, ripartire, rinascere. A Forlì avevo terra bruciata per tutto, ma la vita è una possibilità infinita e quindi ero certo che qualche aiuto sarebbe arrivato. È partito tutto dal mio dire sì ad una proposta, proprio come in comunità. Ecco il ripetersi di un metodo e a me ‘sta roba mi colpisce tutte le volte che ci penso. Dal mio sì, si è aperta la mia esperienza insieme ad un gruppo di amici a cui tengo molto, persone che mi vogliono bene così come sono e ai quali cerco di dare tutto ciò che ho ricevuto. Persone con le quali sono molto libero e che aiutano la mia libertà. Quest’anno Silvio mi ha persino chiesto di andare in Kazakhstan a raccontare la nostra esperienza. Ed è accaduto in un periodo faticoso per me: avevo mille obbiezioni per non andare, ma allo stesso tempo ero anche molto curioso. Le mie obbiezioni sono sparite subito appena siamo arrivati. Siamo stati accolti da persone che ci guardavano come se fossero amici da sempre. L’incontro con ogni persona era speciale e io mi chiedevo: ma chi è questo amico che mi accoglie così? Io ho nel cuore il volto di ogni persona che ho incontrato là, dall’altra parte del mondo. Certo, mi hanno ringraziato perché gli ho raccontato la mia storia, ma l’incontro più bello l’ho fatto io. L’ho fatto io attraverso i loro occhi. Sono io che ringrazio. Loro e la loro storia mi hanno aiutato in un momento di fatica. Il mio problema nella vita è incontrare una bellezza del genere. Ho bisogno di tutto l’amore del mondo per vivere. Per meno di questo non ne vale la pena. È meglio drogarsi per meno di questo. È vero, sono riconoscente a Cristo perché mi ha salvato la vita, a “L’imprevisto” che mi ha aiutato, ma se io oggi non sto attento e non mi accorgo della vita che ricevo, allora nulla di ciò che ho detto serve. Invece tutto serve. Tutto è utile perché la misericordia non è stato salvarmi sette anni fa, la misericordia è ogni volta che il mio cuore si commuove perché incontra l’amore e questo può succedere in ogni circostanza e con chiunque. Spesso mi chiedo: ma perché io? Perché io e non un altro? Perché non quel ragazzo che è al cimitero dove volevo essere io? Vedete come siamo fatti male? Quanto è difficile accettare la vita? Nella mia esperienza, dire di sì mi ha cambiato la vita. Certo, giudicare e capire bene chi e che cosa ti viene proposto. Ma il giudizio non basta. Il cuore unito al giudizio formano un unico sistema di navigazione che non sbaglierà mai. Nel nostro cuore c’è tutto. Bisogna lottare sempre per esprimere tutta l’attesa di ognuno di noi e fare la guerra al mondo che ci vuole raccontare che l’amore non esiste. Allora cosa stiamo qui a fare che cosa? A raccontarci che Gesù è morto di freddo in cima all’Everest? La prima battaglia è contro noi stessi. Ogni persona ha un desiderio infinito e l’unico tentativo valido è vivere per cercare la risposta al cuore dell’uomo.
SILVIO CATTARINA:
Il prossimo, i poveri, non sono una categoria sociale, morale o politica. Sono persone. I poveri non sono le fasce deboli, i nuovi poveri sono: Andrea, Giovanni, Filippo, Giuseppina. Il mio prossimo è quello che io incontro ogni giorno e ogni attimo, appena uscito di casa. L’uomo non è mai un caso problematico, l’appartenente ad una categoria, ad una professione, ad una norma ma una persona. Una persona inconfondibile. Con la sua storia e il suo percorso, con e verso Dio. È un figlio di Dio. Non il suo passato. Quante volte lo diciamo ai nostri ragazzi della comunità: non sei il tuo passato, non sei il male che hai fatto, il male che hai ricevuto. La persona è sempre bella e affascinante. Soprattutto la persona fragile, povera, sghemba, sfortunata, piccola, addolorata, sola. È sempre bella. È sempre affascinante. Scopri il perché, scopri il segreto della bellezza, scopri il segreto della sofferenza, diciamo sempre ai nostri ragazzi. “Se un uomo ha cento pecore e ne smarrisce una, non lascerà forse le novantanove?”. Abbiamo dato questo titolo perché il punto della questione, il cuore della vita, è essere quell’uomo che cerca quella pecora. Infatti, subito prima di quella frase, c’è un piccola, breve domanda, drammatica e terribile, che Gesù rivolge ai suoi discepoli prima della frase che dà il titolo al nostro incontro. Cristo dice: “Che ve ne pare? Se un uomo ha cento pecore e ne smarrisce una, non lascerà forse le novantanove?”. Che ve ne pare? Che commozione. Che responsabilità. Quel “che ve ne pare?” ci lancia di fronte ad una presenza. Io chiedo di essere quell’uomo, capace di cercare quell’unica pecora. Chiedo di sentire sempre quel “che ve ne pare”. Ma chiedo anche di essere quella pecora. Chiedo alla vita, ai ragazzi, agli amici, di insegnarmi ad essere quella pecora. Cioè umile. Non voglio essere orgoglioso, superbo, considerarmi nel giusto. Una pecora che desidera essere cercata, trovata, scovata. Fra i mille crepacci della vita. Chiamata. Come mi ha detto l’ultimo giorno di comunità Thomas: “Io sono stato unico, il più importante per te, per voi tutti”. Oppure Eugenio: “Ci sarà mai un posto veramente importante su questa terra per me?”. Oppure Stefano: “A cosa veramente sono chiamato?”. Oppure Albenzi: “La comunità è stata un’esperienza più drammatica della storia stessa perché mi ha tenuto aperta la ferita”. O Giuliano: “Ho sempre atteso una cosa speciale per me, l’ho sempre sentito che avrei incontrato qualcosa di grande”. Occorre qualcuno che mi cerca per dirmi che sono importante, che sono la cosa più importante. La cosa più preziosa che c’è in tutto l’universo. Sì, io. Io. In assoluto sono la presenza, il fatto più prezioso che c’è in tutto l’universo. Perché basta un abbraccio per cambiare, per cambiare il mondo. Un sguardo nuovo, una voce che mi sussurra, che mi desta e ridesta. Che mi dice la cosa più bella di tutto il mondo: tu sei, tu vali. Quante volte, anche questa frase diciamo ai nostri ragazzi: se no vai via, non possiamo stare insieme, non possiamo incontrarci se tu non pensi di essere la cosa più bella del mondo? Il punto è che lo pensi anch’io. Che anche l’operatore lo pensi. Mentre sempre più spesso, tanti operatori non pensano questo di se stessi. Occorre dunque pensare che il più povero sono io. Sono io piccolo, peccatore, meschino, fragile. Non sono gli altri ad avere bisogno ma sono io, sono io quello più ferito. Non voglio essere il fratello maggiore della parabola, voglio essere il figliol prodigo. Voglio imparare a vivere dentro la misericordia. Per opera della misericordia. Dai ragazzi che aiuto, dai ragazzi stessi, dentro l’abbraccio dei numerosi amici della nostra opera, di tutti gli amici della nostra città, delle persone che ci vogliono bene. Voglio uscire, andare, imparare, conoscere. La Chiesa in uscita. Imparare a guardare. Che commozione quando Anna un bel giorno mi disse: “Grazie che mi hai guardato”. Cosa sono? Accoglienza, condivisione, solidarietà, umanità, dignità. Cosa sono? Basta guardare. Basta guardare il povero. È lì. Se hai un cuore grande, capisci tutto. L’imprevisto non sono io, non l’ho fatto io. Innanzitutto non è fatto dagli operatori, anche se la responsabilità è sempre di noi adulti, beninteso, ci sentiamo responsabili di giovani che ci sono affidati e chiediamo loro tanto, tutto, sempre più. Con forza e con fermezza, ma non consideriamo “L’imprevisto” opera delle nostre mani, della nostra capacità. La misericordia la capiscono i poveri, gli ultimi della società, i reietti, gli emarginati, perché considerati una vergogna per i genitori, per tutti. Un disastro, un disturbo per la società, un castigo, perché piccoli, i giovani, gli umiliati dell’epoca moderna, i diseredati per antonomasia, i miserabili dei nostri giorni sono i giovani. Il campo profugo più vasto ed abbandonato, più drammatico che c’è in Italia, è la sua gioventù. Se consideriamo lo stato di abbandono, di insignificanza, di passività, di trascuratezza nel quale si dibatte, ma appunto c’è la misericordia. Quando date un banchetto non invitate i parenti, gli amici, i buoni, i giusti, i ricchi, ma gli storpi, i sordi, i ciechi, gli infermi, cioè i giovani d’oggi. Gli invitati, i giovani d’oggi. Che felicità. Sì, la felicità è il primo riscontro che la misericordia paga sempre, ti sovrabbonda di doni, di grazie. I poveri, gli ultimi, i deviati, hanno il cuore più aperto, più limpido, più grande, capisco prima i di più, perché la loro grande e insopprimibile sofferenza è quella di sapere che c’è qualcuno che li ama. Questo davvero contrasta la sconfinata sfiducia, lo scoraggiamento, l’impotenza, il senso di non valere, di non contare. La rabbia contro se stessi contro il mondo, perfino contro Dio. Tanti pensano di essere sbagliati, di essere nati male, allora fanno seguire la sfibrante ricerca delle cause, delle responsabilità. No, il vero grande lavoro è il grido, il grido a Dio, il grido all’altro, all’altro uomo, al padre, alla madre, all’amico. Il grido è la poesia dei poveri. il grido è la grande preghiera dei poveri. Il lavoro dell’uomo è il grido, non la capacità, non la riuscita, il grido di misericordia, il grido alla misericordia. Il grido dell’uomo non può essere lanciato nel vuoto, nel vento, essere inutile e amaro. Come faceva di notte Maria Elena quando scappava che gridava inutilmente al buio. La domanda non è verso un ignoto sconfinato, ma verso un volto. Nella realtà c’è un volto, una presenza. Il punto è vedere, guardare, indicare una presenza. Questa è la prima cosa da dire ai ragazzi. Nulla mai ci soddisfa, nulla: la droga, l’alcol, la fame, il sesso, Internet, la carriera, i soldi. Siamo tutti drogati, dice Vittadini. Una presenza, una grande presenza. Solo una presenza eccezionale, straordinaria può bastare. Una presenza che mi dice che mi ha sempre voluto, sempre atteso, che ha sempre pensato e desiderato il mio arrivo in questo mondo. Che da sempre mi ama e che mi amerà per sempre. La presenza non è “L’imprevisto”, diciamo ad esempio ai nostri ragazzi: non guardate noi ma guardate dove noi guardiamo, altrimenti i giovani sono prigionieri delle loro stesse mani, incatenati al mito della riuscita, del successo. La vita come esito della capacità delle proprie mani, no. La vita è una questione di amore, di incontro, non cambiare ma incontra, come ci hanno testimoniato così bene i nostri amici spagnoli di Bocatas. Oppure Veronica che dice: “Mi hai sempre aspettato”. O Marigona che chiedeva sempre: “Cosa siamo noi per te? Io, per te, chi sono?” o Massimiliano: “Starai sempre con noi? Quando uno di noi finisce la comunità, tu come stai? Quando sei a casa tua, pensi a noi? Pensi a me? Perché fai questo per me?”.
Dio accoglie e risponde al grido del povero, al grido del malato, dell’offeso, del prigioniero. Che liberazione. Meno male che risponde lui. Che angoscia, che impotenza fosse tutto nelle nostre mani. Invece chiedi, grida, vedrai che tutto viene, tutto in sovrabbondanza. La ferita è il dono più grande che la realtà ci offre, ci fa riconoscere poveri e fragili, bisognosi di tutto. La misericordia arriva, il buon pastore c’è. Accade qualcosa, accade qualcuno che irrompe, che illumina tutto, che fende impetuosamente. Un vento sommesso e dolce che squarcia il cielo. Da lì capisci che tutto è nuovo, che tutto è cambiato, in un istante, un istante eterno, per sempre. Occorre conoscerlo, riconoscerlo, amarlo, chiamarlo per nome. Quando si cambia in comunità?, ha chiesto una volta una persona, e Susanna ha risposto: “Non lo sai. Ma ti alzi un bel giorno e lo vedi, lo capisci, lo senti. Tutto ne parla. È evidente. Se non lo dici tu, lo gridano le pietre”. Diciamo ai ragazzi: non siamo qui per la droga, siamo fatti per una ragione più grande del bisogno stesso. Cerchiamo qualcosa e qualcuno, che, venendoci in contro e abbracciandoci, ci porti in dono ogni sorta di grazia. Guardiamo a tutto senza misurare, senza fare calcoli. La carità inizia sempre una cosa che non finisce più, non finisce mai, che è per tutto il mondo, che serve per tutto il mondo. Il dramma della vita non è il male, il dolore, ma pensare di non essere all’altezza di trovare qualcosa e qualcuno che il dramma lo prenda, lo abbracci, lo innalzi, lo lanci in alto, in alto, in alto. Che gli operatori, gli educatori condividano la sofferenza dei ragazzi, dei genitori, che sappiano chiamare per nome i ragazzi e i genitori, sappiano tenere luoghi dove tutto intorno c’è bellezza, ordine, pulizia, fiori, affinché coloro che sono aiutati, coloro che vedono, tutto il mondo si chieda: da dove viene tutto questo? Da dove nasce? Qual è l’origine? La misericordia è un eterno imprevisto, un improvviso, uno straordinario, un fuori programma spontaneo, naturale, viscerale, esplosivo. La misericordia è incredibile. È creatrice, è sovversiva, insurrezionale, simpatica, gioiosa, caotica, anarchica, confusionaria ma bella. Cosa avrà detto prima in cuor suo e poi a tutto il mondo? Cosa avrà detto quella pecora quando ha visto arrivare il buon pastore? Come si saranno guardati? Quando si è sentita sollevare, caricare sulle spalle, tenuta per le zampette attorcigliate intorno al collo del nuovo grande amico. Con forza, con sicurezza e poi alla fine, una volta deposta, riconsegnata alla sua casa, riaccompagnata alle altre pecore, guardando di nuovo il volto dell’uomo avrà detto: ma chi è? Ma chi è veramente che mi ha caricato sulle spalle? Come ti chiami? Dimmi il tuo nome e dimmi dov’è la tua casa.
La carità si può fare anche senza Dio, la misericordia la faccio, Dio, attraverso di te, tramite te. Voglio imparare questo, voglio imparare la misericordia. Voglio essere il più povero fra poveri. Sicuramente, tra i miei ragazzi, il più bisognoso, io. Voglio imparare di continuo nella mia povertà e fragilità. Voglio inciampare di continuo nella mia fragilità e povertà affinché io possa capire che io sono il più bisognoso di misericordia, di perdono. Non voglio essere una persona normale, tranquilla, garantita, a posto. Non voglio correre il rischio del cinismo e dell’indifferenza. La vita si capisce bene quando si piange molto, quando gli occhi sono pieni di lacrime. La misericordia ricrea, rigenera, rilancia, cambia, fa nuove le cose. Ne abbiamo bisogno per vivere, per vivere tutti i giorni. Occorre incontrare una vita, degli uomini vivi, come abbiamo sentito. Un amore nuovo, un amore che mi disarcioni, con una tenerezza mai vista, misericordia, perdono non vogliono dire sopportare, giustificare, tollerare, dimenticare, chiudere un occhio ma solo una prospettiva nuova, diversa, una misura nuova, un criterio nuovo, un altro giudizio. Ecco perché essere precisi, fermi, severi con i ragazzi, chiedere tanto e chiedere tutto. La misericordia è anche dura, esigente, perché è una sovrabbondanza di bene, di amore, prende il povero e lo fa ricco, il pezzente e lo fa principe e il re sovrano. Ma lo tratta anche con fermezza, con regole certe e rispettate, dentro un cammino serio. Insomma, non è giusto tollerare ancora luoghi di accoglienza dove si permette ingiustificatamente e colpevolmente ogni comportamento, ogni trasgressione. Lassismo, disimpegno, menefreghismo, talvolta violenza e abbandono. Accade questo, questa trasandatezza e questa trascuratezza dell’io quando si vede solo il dolore e non invece la promessa, più del dolore, tu nel cuore da sempre hai inscritto una grande promessa, che non guardi, che non vedi, che non vuoi vedere e ascoltare. Noi ci inginocchiamo davanti a tanto dolore, ma soprattutto ci inginocchiamo davanti a Dio che tutti i santi giorni ci mette in cuore questa bella e grande promessa, una grande promessa di vita, di felicità. Il dono che sono i nostri ragazzi è offerto a tutti e a tutto il mondo. Non per il loro dolore ma per la loro riscossa, per la loro rinascita. Ragazzi luminosi, belli, virili, obbedienti alla realtà. Omar diceva: “Pensavo che fossimo insieme per la sfiga. No, noi siamo insieme per il medesimo desiderio di felicità”. C’è una cosa grande, c’è sempre qualcosa di più grande. La nostalgia, lo struggimento che vivi. Questo tratto inconfondibile della tua persona è il punto infuocato del mistero in cui si dibatte la tua vita. Offrilo per il mondo, a tutto il mondo, offrilo a Dio. Il Signore compie cose immense, straordinarie in chi si affida a lui. In chi si affida con audacia, con ardore veemente, talvolta anche rabbioso, ferito dalla grande ingiustizia che è il desiderio di felicità, il punto non è il male ma è il desiderio di felicità. La grande questione non è il dolore o il male, come pensa tutto il mondo, ma è questo bisogno infinito di felicità. Il Signore dà tutto a chi è sulla croce con lui. Stiamo con i nostri ragazzi. Per meglio e più comodamente, più felicemente, stare sulla croce con te, o Cristo. L’uomo che incontra la misericordia non è solo un uomo sereno, perdonato, rassicurato. È un uomo che ha una forza che non conosceva prima, una ricchezza impensata, un sovrappiù di umanità. Laddove ha abbondato il peccato, la grazia ha sovrabbondato. Viva Ciules e Sandokan e tutto il loro gruppo numerosissimo di spagnoli. Viva la Spagna e viva Bocatas.