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SE NON SIAMO ALLA RICERCA DELL’ESSENZIALE, ALLORA COSA CERCHIAMO?
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Adrien Candiard, membro Institut dominicain d’études orientales (Ideo). Introduce Bernhard Scholz, presidente Fondazione Meeting per l’amicizia fra i popoli ETS
Numerose e incisive sono le domande che nascono dalla crescente incertezza esistenziale di tanti giovani e meno giovani, dalla frammentazione della vita sociale, da un futuro che pare inaffidabile, dall’aumento della conflittualità e delle guerre sempre più atroci. Troppo spesso chi si lascia definire da questi ed altri problemi risponde con la distrazione o la rassegnazione oppure con l’aggressione e l’accanimento ideologico. Ma è possibile trovare un orizzonte di senso che ci permetta di affrontare queste sfide in modo costruttivo, di trovare delle risposte creative? È di fronte a questa emergenza che abbiamo scelto come titolo del 45° Meeting di Rimini la provocazione lanciata dall’autore statunitense Cormac McCarthy: «Se non siamo alla ricerca dell’essenziale, allora cosa cerchiamo?».
Con il sostegno di isybank, Tracce, Generali-Cattolica
SE NON SIAMO ALLA RICERCA DELL’ESSENZIALE, ALLORA COSA CERCHIAMO?
SE NON SIAMO ALLA RICERCA DELL’ESSENZIALE, ALLORA COSA CERCHIAMO?
Mercoledì 21 agosto 2024 Ore 15:00
Sala Auditorium Isybank D3
Partecipano:
Adrien Candiard, membro Institut dominicain d’études orientales (Ideo).
Introduce:
Bernhard Scholz, presidente Fondazione Meeting per l’amicizia fra i popoli ETS
Scholz. Un cordiale benvenuto a ognuno di voi e un caloroso benvenuto a Padre Adrien Candiard. Se non siamo alla ricerca dell’essenziale, allora cosa cerchiamo? Già in questi mesi di preparazione al Meeting, questo titolo ha trovato in tante persone una risonanza e consonanza quasi immediate. È come se questa domanda avesse destato un attimo di respiro, avesse aperto un orizzonte in un mondo dove siamo ogni giorno invasi da un’infinità di informazioni e anche di distrazioni, coinvolti o forse anche travolti da incessanti cambiamenti, imprevisti e spesso violenti. È troppo evidente la necessità di trovare o di ritrovare un’essenzialità che ci permetta di vivere con dignità e in verità una vita che non vuole soccombere al rischio di una latente o manifesta alienazione, che vuole e cerca relazioni positive e feconde, un’essenzialità che ci sostenga nel nostro essere liberi e responsabili. Siamo molto grati a Padre Adrien Candiard per aver accettato il nostro invito a condividere con noi le sue esperienze e le sue riflessioni su questa domanda che abbiamo tratto dall’autore americano Cormac McCarthy. Chi ha frequentato il Meeting negli ultimi anni si ricorderà che Padre Candiard è intervenuto nel 2021 in un incontro con il titolo “L’Io, la fede e la sfida delle culture”, e l’anno scorso in un incontro dal titolo “L’Appiattimento del mondo e la domanda di verità”. Due momenti nei quali è emersa la sua capacità di affrontare domande cruciali del nostro tempo con un’intelligenza genuina e una sensibilità originale, caratteristiche che troviamo anche nelle sue numerose pubblicazioni che hanno raggiunto un grande pubblico internazionale e che sono state anche prestigiosamente premiate. Padre Candiard è nato a Parigi, è entrato nel 2006 nell’ordine domenicano dopo un periodo dedicato alla politica. Da dodici anni vive al Cairo, è membro dell’Istituto Domenicano per gli Studi Orientali ed è priore del Convento Domenicano locale. Vive quindi in un luogo che ha sicuramente favorito la sua dote particolare di dialogare in modo sincero e fecondo con altre religioni e culture. Grazie, Padre Candiard, di essere con noi. A Lei la parola.
Candiard. Grazie, Bernhard, per la calorosa accoglienza, grazie a tutti voi. Infatti è la terza volta che vengo a Rimini per il Meeting. So che si sente che il mio italiano non è migliorato di anno in anno, è sempre un po’ faticoso, soprattutto chiedo la vostra indulgenza perché l’orario di volo è stato un po’ notturno. Al Cairo, dove, come ricordavi, abito, un giovane francese di 23 anni è venuto a trovarmi. Lui era in Egitto per un’esperienza di volontariato di qualche mese. Era venuto a trovarmi per parlare della fine del suo soggiorno in Egitto. Gli rimaneva solo un mese. Allora gli chiedo cosa avesse intenzione di fare. Ci riflette un po’, poi mi risponde: “Profittare”. Questo programma, che, almeno in francese, dove la parola ha preso forse qualche sfumatura diversa rispetto all’italiano in cui bisognerebbe dire “godere pienamente del tempo a disposizione”, una cosa del genere, ma questo programma, che si sente ripetere spesso dai giovani della sua generazione quasi come un imperativo categorico, come il segreto ultimo della saggezza, come la regola morale suprema, non aveva nella bocca di questo giovane cattolico, che dava, che offriva generosamente il suo tempo, un significato volgare, edonista o egoista tipo Don Giovanni o tipo Petronio. Voleva soltanto vivere intensamente quest’ultimo mese, impegnarsi fino in fondo per i bambini ai quali insegnava, non sprecare uno solo di questi ultimi momenti preziosi in cui poteva continuare a scoprire l’Egitto, riscaldarsi dell’affetto degli amici conosciuti lì, vivere appieno l’avventura del suo soggiorno lontano da casa. Niente, vedete, di moralmente condannabile. Per questo non me la sono presa con il suo motto “profittare” in nome, forse, di un moralismo ristretto che, opponendo lo spirito di sacrificio a quello di godimento, avrebbe probabilmente mancato l’essenziale. “Profitta quanto vuoi, ma di cosa in fondo? O più precisamente, secondo quale ordine di priorità?” Perché gli dico: “Ecco esattamente cosa accadrà in questo ultimo mese. Se l’unico motto che hai per questo mese è quello di non sprecare nemmeno un secondo, di farne sempre il miglior uso, di vivere solo momenti eccezionali, allora passerai soprattutto il tempo a chiederti se quello che stai vivendo è all’altezza delle tue aspettative, se non avresti fatto meglio a essere altrove o con altri. Continuerai a valutare, confrontare, rimpiangere. È una tirannia esigente, quella dell’imperativo di ‘profittare’. È una tirannia paradossale, perché impedisce proprio di essere semplicemente lì, felice di ciò che si vive. Porta nel cuore un’inquietudine costante che rovina ciò che promette. Essere obbligati a profittare di tutto significa soprattutto temere sempre di perdere qualcosa. Insomma, è impossibile profittare di nulla se innanzitutto si cerca di profittare.”
Forse quel giorno ho saputo esprimermi con chiarezza, perché lui, nonostante lo sforzo di sopportare, di ascoltare un adulto che dà consigli di vita, mi ha ascoltato, e quel giorno mi capisce, capisce il vicolo cieco in cui lo mette il suo motto. Ma allora mi chiede: “Cosa fare?” La mia saggezza, in fondo, è solo quella di Seneca: “Per il marinaio che non sa in che porto approdare, nessun vento è favorevole”. Cosa desidera lui fare di questo mese? Cosa conta di più? Cosa non vuole perdere? Che lo decida e vi si attenga, e tutto ciò che la Provvidenza gli porterà in più sarà un dono, un dono da accogliere con gratitudine. Profittare va benissimo, a patto di sapere cosa si vuole, cosa è importante, a patto di avere un’idea relativamente chiara di ciò che è essenziale. Non vi racconterei questo aneddoto, abbastanza comune nella vita di un prete, se non mi fosse sembrato allora una favola piuttosto giusta della nostra condizione moderna in cui persone per bene, che cercano di fare del bene, temono così tanto di perdere la propria vita, di mancare qualcosa, da affogare in questa ricerca, con gli occhi sempre attirati da un telefono che non si spegne mai. Chi l’ha spento? Che non si spegne mai e che si tiene lì come la promessa, sempre delusa, lo sappiamo, ma sempre rinnovata, di un mondo più interessante che ci verrebbe rivelato da un messaggio o da una notifica che giustificherebbero, crediamo, la nostra vigilanza perpetua.
E qual è la morale di questa favola? Piuttosto che disperdere la nostra attenzione in una disponibilità a tutto campo, sarebbe meglio concentrarci sull’essenziale. Una conclusione forse saggia, ma che non ci porta molto lontano, perché dopo tutto niente è più consensuale di un invito a preferire l’essenziale all’accessorio. Chi potrebbe dire il contrario? Anche gli originali, che intendono difendere il superficiale, il futile, non mancano di concludere che ciò che tutti gli altri considerano frivolezza insignificante è in realtà fondamentale, e alla fine è sempre l’essenziale a prevalere. Tutti sono d’accordo nel dire che l’essenziale è essenziale, ma naturalmente è molto più difficile concordare sulla natura di questo essenziale, ed è a questo punto che iniziano i problemi.
Non necessariamente qui a Rimini, dove un’associazione cristiana, Comunione e Liberazione, invita un frate predicatore a parlare. Non sareste né scioccati né sorpresi se io vi dicessi che l’essenziale su cui dobbiamo concentrarci è Gesù Cristo. Anche se naturalmente non ci sono solo credenti o cattolici in questo nostro incontro, questo è proprio l’interesse del Meeting, nessuno qui si scandalizzerebbe per sentire dire cose del genere. Al massimo potreste essere solo un po’ delusi di non aver imparato nulla di nuovo e soprattutto forse di non aver acquisito qualcosa da condividere tornando a casa. Perché sapete benissimo che una volta terminato il Meeting, quando ognuno sarà tornato a casa con la testa piena di bei ricordi e di nuove idee, dopo incontri appassionanti, bisognerà ritrovare il nostro mondo in cui, lo sappiamo, non c’è molto consenso su ciò che deve essere considerato essenziale. E questo è certamente ciò che caratterizza le società moderne: non siamo d’accordo su ciò che è essenziale. E non è del tutto nuovo. È già ciò che Max Weber descriveva un secolo fa, parlando di politeismo dei valori. Il sociologo vedeva la società tedesca del 1919 attraversata da diversi sistemi di valori tra i quali sembrava impossibile scegliere seguendo un metodo scientifico.
Per scegliere con sicurezza: la civiltà francese è migliore o peggiore della cultura tedesca? Forse ho una mia opinione sull’argomento, e vi lascio indovinare quale, ma Weber ha ragione: la mia è solo un’opinione, non una verità scientifica. E, nota Weber, va anche ben oltre. Alcuni dei suoi contemporanei vedono nella non violenza predicata nel Sermone della Montagna, con il suo invito a porgere l’altra guancia, l’orizzonte insormontabile dell’etica, mentre altri, lettori ad esempio di Nietzsche, comprendono molto diversamente la dignità di un essere virile e preferiscono rispondere colpo su colpo. Ognuno, continua Weber, deve scegliere tra queste due etiche inconciliabili, una avrà il volto del diavolo e l’altra quello di Dio. E non sarebbe molto difficile, lo sapete, moltiplicare gli esempi che dimostrano che la situazione descritta da Weber si è solo rafforzata un secolo dopo. Così, per esempio, dobbiamo, in nome di un’etica della compassione e del rifiuto della sofferenza, proporre la morte a coloro che soffrono o dobbiamo, invece, opporci con tutte le forze a un’eccezione per l’eutanasia, che presto potrebbe spingere alla morte i più deboli, i poveri, i disabili, tutti coloro che sono considerati rapidamente un peso per la società? In questo dibattito che attraversa le nostre società si può ovviamente avere un’opinione molto precisa e molto netta. Ma non si può credere che questa opinione, su un tema tanto fondamentale quanto la vita e la morte, sarà condivisa da tutti, neanche nel nostro immediato entourage. E così ci ritroviamo in dibattiti interminabili, interminabili perché propriamente indecidibili.
Se non siamo d’accordo su ciò che è essenziale, allora purtroppo i nostri ragionamenti spesso non hanno nessuna presa né effetto su coloro che non condividono i loro presupposti. E ciò che Weber chiamava la guerra degli dei, lo scontro nella società tra concezioni irriducibili non solo su alcuni dettagli, ma su ciò che deve essere considerato essenziale. Noi non siamo soltanto gli eredi della diagnosi di Weber, ma anche della sua soluzione. Per evitare la violenza della guerra degli dei, lo sfaldamento delle società i cui membri non concordano più sull’essenziale, egli raccomandava di distinguere i fatti dai valori. I primi, i fatti, sono oggetti della scienza, mentre i secondi rientrano nel campo della libertà di scelta. Forse noi abbiamo un po’ radicalizzato la sua posizione, questa soluzione. Se per lui la discussione su cosa sia essenziale o meno doveva sparire dal dibattito scientifico, perché la soluzione non poteva essere scientifica, noi forse tendiamo a farla sparire dal dibattito tout court. Per preservare la pace civile, potremmo insieme, in una società, fare commercio, fare affari, andare al cinema, parlare di calcio o del tempo, ma non discutere dell’essenziale. Non iniziare a dibattere su cosa dobbiamo considerare essenziale o, più precisamente, possiamo parlarne quanto vogliamo, purché non cerchiamo di aver ragione, di considerare il nostro essenziale più vero o più essenziale di quello del vicino. In altre parole, il politeismo dei valori era, nei tempi di Weber, un dato di fatto, tra sistemi in lotta per prevalere sugli altri, ed è diventato, nelle nostre democrazie pluraliste, una questione non più di fatto, ma di diritto, perché nessun sistema di valori, per quanto ambizioso, può mai prevalere e imporsi sulla libertà di scelta di ciascuno.
In questa situazione, quale sarebbe un atteggiamento cristiano? Non ci si può certo accontentare, sapendo di essere portatori di una salvezza universale rivolta a tutti, di vedere il Vangelo ridotto a una serie di proposte particolari che non si rivolgono a tutti. Credo che il movimento essenziale del pontificato di Benedetto XVI possa essere compreso come lo sforzo di ricreare l’universale, di riaffermare la possibilità di un terreno comune per la discussione tra gli uomini, il terreno della razionalità, per poterci spiegare su questo terreno, ritrovato, le ragioni della fede, per rimettere in qualche modo la discussione sull’essenziale al centro del dibattito. Uno sforzo ammirevole che va certamente continuato e amplificato, e probabilmente un Meeting come questo fa anche questo lavoro. Però dobbiamo continuare senza farci illusioni. Il pluralismo delle nostre società è, dal punto di vista umano, almeno insormontabile, ed è questa società e non un’altra che dovremmo trasformare reintegrando l’universale che dobbiamo evangelizzare.
E non è così semplice evangelizzare una società pluralista. Si finisce presto per adattarsi e accettare le regole di un funzionamento concorrenziale. Così come Pepsi e Coca-Cola si spartiscono i mercati, non senza una lotta accanita, noi dovremo guadagnare quote di mercato, o almeno non perderne troppe, di fronte ai nostri concorrenti: l’Islam, il pentecostalismo, l’ateismo, ma anche e forse soprattutto l’indifferenza e un materialismo diffuso. È una tentazione per i cristiani considerarsi in questo mondo un campo tra gli altri, ovviamente quello migliore, cercando di raccogliere quanto più anime possibile per la propria causa, guardando con ansia i numeri delle conversioni e delle defezioni. È una tentazione tuffarsi a capofitto in questo grande mercato dove ciascuno propone a una folla disorientata la propria idea dell’essenziale, cercando di parlare più forte degli altri, di attirare l’attenzione in mezzo a proposte altrettanto numerose sul mercato quanto le marche di pasta proposte al supermercato sotto casa.
“Vendimi Gesù”, mi disse una sera in un bar in Francia una ragazza attirata dal mio abito religioso, che in Francia è un po’ più esotico rispetto all’Italia. Probabilmente, quando mi fece questa domanda, lei era incuriosita di sapere se sarei stato in grado, in pochi minuti, di proporle una trovata più convincente di un libro di crescita personale. E dovetti risponderle che, sebbene Gesù ci lavi dal peccato, non avevo alcun detersivo da vendere. Perché l’annuncio del Vangelo fatto in questo modo non è più del Vangelo. Perché sappiamo bene che una tale concezione è intrisa dello spirito del mondo, dove si tratta sempre meno di servire la verità e più di dominare sugli altri. Si confonde facilmente, ve lo dice un domenicano, si confonde facilmente l’amore per la verità con la passione per avere ragione. Soprattutto, forse, quando si è eredi di una Chiesa che per lungo tempo ha detenuto in Occidente una sorta di monopolio sull’essenziale. Senza contare che questo passato rischia presto di mescolare al nostro zelo missionario le tristi passioni del rimpianto e della nostalgia. Non è questa, questa via concorrenziale, quella del mondo, non è la via del Vangelo. E non è nemmeno, mi sembra, probabilmente non per caso, la via proposta da Don Giussani. Ne parlo con la massima cautela, perché ci sono qui letteralmente migliaia di persone più qualificate di me per spiegare il suo pensiero. Perché veramente lo conosco abbastanza poco, ma nella mia ignoranza mi sembra comunque di aver capito che tutto il suo impegno per l’educazione, attraverso in particolare il percorso che conoscete molto meglio di me, che tutto questo suo impegno mirava a proporre la fede come un’avventura e non come una chiusura del pensiero. In altre parole, non considerava l’essenziale a cui la fede ci dà accesso come una conclusione definitiva, un insieme così concluso, finito, da poter presentare e vendere ai nostri contemporanei proprio come un barile di detersivo, ma piuttosto come l’oggetto di una ricerca. E’ per questo, mi pare, che c’è un rischio educativo. Con conclusioni definitive da ripetere e trasmettere non c’è rischio, se tutto è già scritto. Non c’è rischio, ma probabilmente non c’è nemmeno educazione. Perlomeno non educazione alla fede, perché la fede non è il punto di arrivo e quindi la fine di ogni ricerca. Se la ricerca ci portasse fino alla conversione, poi adesso che ho la fede non cerco più? Al contrario, la fede è l’inizio, il principio di una ricerca continua, senza la quale essa non è altro che un’idolatria, un’idolatria in più, anche se può essere l’idolatria del vero Dio.
Ecco perché non mi sorprende che sia stata scelta come tema di questo Meeting una citazione di un romanzo di Cormac McCarthy, che organizza tutto il nostro incontro, che vedete dappertutto scritto anche là: “Se non siamo alla ricerca dell’essenziale, allora cosa cerchiamo?”. Non sono sorpreso perché, lo vedete, il cuore di questo interrogativo non è quel famoso essenziale, ma piuttosto la ricerca dell’essenziale, il che cambia tutto. Affermare di possedere l’essenziale non è la stessa cosa che cercarlo. Una Chiesa che vede la sua missione come un dovere di aiutare a vedere, insegnare a ciascuno a cercare l’essenziale ovunque esso si trovi, una Chiesa così non è la stessa cosa di una Chiesa che semplicemente richiede l’adesione. Accettare che la fede non sia il possesso dell’essenziale, ma piuttosto l’inizio della sua ricerca, è certamente l’antidoto più efficace contro le nostre tentazioni di idolatria, ossia di appropriazione di Dio, contro le nostre tentazioni di fanatismo o contro il rischio di vivere secondo lo spirito del mondo con la sua concorrenza sfrenata.
Dire questo, presentare la fede come una ricerca, non significa fare l’elogio del dubbio, e certamente non del dubbio permanente. Il dubbio esiste, è un fatto, e ci sono anime che ne sono tormentate, che ne sono ossessionate, che non trovano mai pace, mentre altre ne sono appena sfiorate. È soprattutto una questione di carattere, non di virtù, a cui sarebbe un errore attribuire un valore morale, in un senso o nell’altro. Qui, comunque, non si tratta di fare l’elogio del dubbio. Cercare l’essenziale, quando si è credenti, non significa sottoporsi senza fine a un dubbio lancinante su Dio, sulla sua esistenza, sulla sua Chiesa, sulla sua bontà, ma piuttosto credere che non siamo mai arrivati alla fine della nostra ricerca, che non possediamo mai Dio, che è Infinito, e che per l’eternità saremo sempre in procinto di scoprirlo, sempre all’inizio del nostro cammino, avendo intravisto solo la superficie di un Dio sempre più grande e più bello di quanto credevamo. “Per l’eternità, mi direte, benissimo, avremo tutto il tempo per abituarci”. Ma oggi cosa significa concretamente vivere nella ricerca dell’essenziale? Abbiamo capito, bisogna non possedere l’essenziale ma cercarlo, ok? Ma oltre le belle parole, cosa significa?
E credo che ci sia una risposta molto concreta a questa domanda, ma per arrivarci vi chiedo di seguirmi in una piccola deviazione nell’astrazione. So che è pomeriggio, che fa caldo, ma fidatevi, non sarà troppo lungo. E poi non è colpa mia, è colpa dello scrittore americano Cormac McCarthy, autore, dicevo, del romanzo da cui è tratto il titolo del nostro Meeting, di cui più o meno è estratto questo titolo. Perché se avete la curiosità di leggere il romanzo, se lo farete, scoprirete che non contiene esattamente il nostro titolo. Cosa vedrete alla fine del romanzo? “Se non siamo alla ricerca dell’essenza,” scrive lo scrittore, “allora cosa cerchiamo?” Si parla di essenza, non di essenziale. Probabilmente gli organizzatori del Meeting, che poi non hanno mai preteso che la citazione fosse letteralmente di McCarthy, hanno ritenuto, e hanno fatto bene, che in questo modo, con l’essenziale, sarebbe stata più ampia e più significativa per molti di noi. Essere alla ricerca dell’essenza delle cose è un po’ nebuloso, certamente più nebuloso che cercare l’essenziale, nonostante la radice comune. Cosa intendiamo esattamente per essenza? Senza addentrarmi nell’esegesi del romanzo, che poi è piuttosto enigmatico, sembra che per McCarthy l’essenza nel contesto del libro vada capita nel suo senso filosofico, l’essenza che per Aristotele è la causa o il principio che rende una cosa ciò che è. Cercare l’essenza di ogni cosa è l’indagine metafisica per eccellenza, quella che si interroga al di là dei fenomeni, al di là della superficie delle cose, su ciò che esse sono in realtà.
E vedo ciò che state pensando: “Ecco un altro domenicano che non può fare a meno di ricondurre tutto ad Aristotele e alla Scolastica di San Tommaso. Ci aveva promesso qualcosa di concreto e ci troviamo adesso a distinguere tra essenza, sostanza, accidenti… impossibile”. Ma non preoccupatevi, non è affatto in questa direzione scolastica che vi voglio portare. Perché cercare così l’essenza delle cose è forse un progetto appassionante per un metafisico, ma non ho molta voglia di farlo mio. Se cercare l’essenza delle cose significa rinchiuderle in un nodo stretto di definizioni sempre più precise, temo che ciò oscuri una realtà che al contrario si rivela sempre sorprendente e inattesa. È sempre ciò che non comprendiamo che è più interessante. Ve lo dico così, se non mi capite potete pensare che è più interessante. (Applausi) Vedo che siete in tanti a non capirmi, ma ovviamente il ragionamento è sempre utile, chiaramente, ma viene solo dopo, viene dopo l’evento, dopo l’incontro che ci ha fatto saltare in aria tutte le nostre previsioni, tutte le nostre categorie predefinite. Il metafisico è utile, non dico il contrario, lui che viene poi a mettere tutti i pezzi nelle caselle giuste con sopra l’etichetta giusta. Ma è utile come lo è un archivista che ordina e classifica. Napoleone aveva i suoi archivisti che ce lo rendono oggi più comprensibile. Ma Napoleone non è un archivista. Fa la storia, non la classifica.
E temo sempre, quando ci si appassiona alle classificazioni, alle definizioni, che si possa passare, nel nome dell’essenza, accanto all’essenziale, che a volte supera tutte le nostre griglie mentali. E per dirvela tutta, non sono sicuro che cercare le essenze come lo fa un metafisico sia un progetto veramente cristiano. A meno che non intendiamo questa ricerca dell’essenza in un senso radicalmente diverso. Non si tratta più di rinchiudere il reale in definizioni razionali predefinite, ma di prendere sul serio il racconto della creazione, che nella Bibbia non mira ovviamente a competere con l’astrofisica nella descrizione degli eventi, ma a rivelarci quale significato Dio stesso dà a ciascuna delle sue opere. Il cuore di questo testo, che tutti conosciamo bene, è quel ritornello che ritorna giorno dopo giorno: quando Dio contempla ciò che ha creato, “Dio vide che era cosa buona”. Ritornello che torna, però, alla fine con una variante, il sesto giorno. Quando Dio ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza, “Dio vide quanto aveva fatto ed ecco, era cosa molto buona”. Se le cose, e soprattutto gli esseri, hanno un’essenza che dobbiamo cercare, non può trattarsi di una definizione concettuale e astratta, ma di quella bontà fondamentale che è la loro verità più profonda. Mettersi alla ricerca dell’essenza significa allora impegnarsi a dire di fronte a ogni cosa e soprattutto a ogni persona: “È bello che tu esista”. Dirlo, ma soprattutto pensarlo, adottare sul mondo lo stesso sguardo del Creatore che sa vedere in ogni cosa un riflesso della sua bontà, che guarda vespe e zanzare e sa dire: “È bello che tu esista”, che guarda ogni essere umano e dice: “Ecco, è molto bello”.
Percepire l’essenza delle cose e degli esseri significa saper guardare loro con questo sguardo di riconoscenza, di gioia, di benedizione. “È bello, è molto bello che tu esista”. E questa essenza va cercata. A volte non è affatto evidente. E per dire la verità, io diffido un po’ di chi dice che gli salta agli occhi, che è chiaro che tutto è buono. Chi vede nel mondo il bene senza sforzo, di solito non guarda il mondo, lo sogna, lo immagina, è più comodo. Tuttavia, non si tratta per noi di attraversare la vita con un sorriso costante, tutto bello, con un ottimismo a prova di bomba. Questa esigenza di cercare l’essenza, la bontà delle cose e degli esseri deve essere accolta senza ingenuità, senza superficialità, senza negare a priori l’esistenza del male o l’esistenza dei malvagi. Non si dice soltanto “È bello che tu esista” a un bambino che gioca innocente sotto il sole, sorridendo. Lo si dice anche a chi ci ha appena tagliato la strada. E io che vivo al Cairo, ammetto che a volte faccio fatica a vedere la bontà degli uomini quando guido. Credo che il mio vescovo, che è qua, capisca cosa ho in mente. Lo si dice anche a un assassino, a un criminale di guerra, non per indulgenza, minimizzando il male come se si dicesse: “Ma no, non voleva fare il male, non è cattivo”. Ma sì, a volte lo voleva fare il male, ma sì, è cattivo, certo, ma quella non è la sua essenza, non è l’essenziale, anche se a volte ci vorrà tutta una vita, una vita di ricerca e di sforzo per trovarlo, questo essenziale, a volte ben nascosto.
Perché se ogni uomo è a immagine di Dio, il peccato, dicevano i Padri della Chiesa, gli ha fatto perdere la somiglianza. E la vita cristiana non consiste solo nello sforzo di ritrovare, attraverso la virtù, i sacramenti, la vita spirituale, la nostra propria somiglianza con Dio, ma anche di cercarla appassionatamente negli altri. E finché non abbiamo visto la bontà degli esseri, significa che non abbiamo ancora finito di cercarla. Finché non abbiamo trovato in loro un riflesso della bellezza di Dio, significa che la nostra ricerca deve continuare. Questo programma di vita non ha nulla di sentimentale o sdolcinato, è infatti di un’incredibile esigenza, che è quella della mistica. Lasciare che da ogni incontro nasca un’epifania, una manifestazione di Dio. E questa è la vera contemplazione cristiana. Cercare con metodi più o meno sofisticati di perdersi nell’uno o nel tutto non ha nulla di evangelico. Cercare in ogni persona la presenza, a volte ben nascosta, di Dio: ecco invece ciò che fa Gesù dal mattino alla sera. “Beati i puri di cuore perché vedranno Dio”, ci promette Gesù. Ma dove lo vedranno Dio, se non sul volto del loro prossimo? A condizione, è vero, di avere un cuore abbastanza puro da non vedere in quel volto una rivalità, una minaccia, una sfida, ma piuttosto l’occasione di incontrare il Dio vivente. Si dice spesso che il prossimo è il test della nostra vita spirituale. Sapete, credo di essere molto avanzato nella vita spirituale, di essere arrivato a vette dove sfioro Teresa di Ávila, poi il vicino mette la musica un po’ forte e mi arrabbio. Allora è vera questa storia del test, importante. Ma questo è vero proprio perché il prossimo è anche il luogo dove ogni vita spirituale cristiana deve radicarsi. Luogo a volte arido e difficile, ma necessario se voglio prendere sul serio la ricerca dell’essenza, la ricerca dell’essenziale.
E come ogni programma di vita spirituale, anche questo non è soltanto individuale, personale. Dobbiamo cercare questa essenza nella nostra piccola vita quotidiana, ma è anche il moto della nostra vita cristiana comune, è il programma stesso della vita e della missione della Chiesa. Benedire, ossia dire bene, un vero bene, senza secondi fini. Quante volte diciamo, purtroppo, in fondo: “Beh, in realtà non è bello che tu sia, non è bello che tu esista, ma pazienza, me ne faccio una ragione”. A volte si sentono, dietro le proteste di benevolenza universale, tante riserve mentali che suonano come rimpianti. “Vabbè, sarebbe comunque più semplice”, si sente a volte nei silenzi, “se non esistessero omosessuali o musulmani”. Insomma, dei “sarebbe meglio che tu non fossi” che rendono purtroppo inudibili i nostri tentativi di annunciare il Vangelo. Si potrà poi, ovviamente, discutere di morale sessuale o dibattere di verità religiosa quanto si vorrà, e si avrà sicuramente ragioni di farlo, se e solo se, si è cominciato dal principio: dire, e non solo dire, pensare veramente per ogni essere umano: “È bello che tu esista”. Perché dirlo è autenticamente trasmettere e annunciare la buona novella.
Ogni mistica suppone una certa ascesi, e anche questa non fa eccezione, è l’ascesi dell’essenziale, che comporta il non perdersi nel secondario. Niente è più facile oggi, ma forse era già vero ieri, che essere coinvolti in tutte le polemiche della superficie mediatica. E talvolta con le migliori intenzioni del mondo, con per esempio la preoccupazione di offrire un punto di vista cristiano su questa questione. Ma è sempre utile per il Regno di Dio? La mia, per quanto relativa, notorietà mi porta a pormi la domanda abbastanza spesso. Anche stamattina, qualche giornalista ti vuole fare una domanda su un argomento che non c’entra con il Meeting. Come tutti, ho le mie opinioni, che sono molto buone ovviamente, su tanti argomenti. E la maggior parte delle volte sono opinioni che cerco di fondare sulla mia fede cristiana. E sono sempre lusingato quando un giornalista mi chiede di sviluppare i miei pareri. E a volte, anche senza la domanda, ho voglia di condividerle sui social. Ma si tratta davvero di un annuncio della buona novella? O non è piuttosto una distrazione, una perdita di tempo per me e per gli altri nella ricerca dell’essenziale, una mancanza nell’ascesi dell’essenziale? “Cercate prima il Regno di Dio e la sua giustizia e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta.” La missione dei cristiani è prima di tutto annunciare questo essenziale, questa capacità di vedere il Bene, e poi insegnarlo, non come una conoscenza fondamentale, un capitolo di libro da sapere a memoria, ma come un saper fare, imparare a guardare il mondo, a guardare gli uomini e a vedere in loro l’essenziale.
Come tutti i saper fare, lo si può trasmettere soltanto praticandolo in noi stessi, con pazienza e umiltà. È un compito allo stesso tempo molto semplice e veramente straordinario, che si può praticare ovunque, e prima di tutto nelle nostre società pluraliste. Vedere e far vedere in ogni uomo la manifestazione di Dio non è giocare il gioco mondano della concorrenza che descrivevo prima, ma trasformare modestamente ma efficacemente il mondo, un cuore alla volta.
Ve lo dicevo all’inizio, significa che sto per finire, è la terza volta che ho la gioia di venire al Meeting di Rimini, la terza volta che mi fate l’onore di invitarmi. Sono lontano dall’essere veramente familiare con tutte le ricchezze che questo evento offre, ma sto iniziando a capire qualcosa. Ho capito prima di tutto cosa non è. Ho capito che non è quello che ne dicono i giornalisti, interessati soltanto da quando arrivano i politici. Più importante, e questo forse lo temevo di più quando sono venuto la prima volta, ho capito che il Meeting non è una fortezza dove ci si ritrova tra cristiani che credono tutti la stessa cosa per poi ripartire, rinvigoriti, all’assalto del mondo pieni di energia per conquistarlo e dominarlo. Non è una riunione di marketer che cercano il metodo migliore per vendere il loro Dio al resto del mondo. Al contrario, nella diversità dei suoi invitati, delle sue proposte, credo che questo Meeting cerchi di assumersi il rischio di comprendere, di guardare il mondo così com’è, con le sue contraddizioni, le sue lotte, i suoi fallimenti, con i suoi punti ciechi. Cercare di guardarlo, però, come lo vede Dio, come una meraviglia, forse ferita, ma pur sempre una meraviglia, dove Dio si rivela e si fa vedere.
Forse è per questo che ci torno sempre con gioia, forse anche voi ci venite per questo, perché, dopo tutto, se non siamo, io e voi, alla ricerca dell’essenziale, allora cosa cerchiamo?
Scholz. Grazie. Mi sembra che l’applauso dica che hai toccato il cuore e ci hai aiutato a guardare il mondo, a guardare anche noi stessi, e ci hai molto confortato con le tue parole. Difatti, noi siamo alla ricerca dell’essenziale proprio nel senso che tu dici, a guardarlo, a cercarlo ogni giorno nella meraviglia di un mondo anche molto ferito. Avere compagni come te in questa ricerca ci aiuta tantissimo. Grazie.