Chi siamo
SCUOLA: STATALE O PARITARIA PURCHÈ SIA MIGLIORE
Partecipano: Luigi Berlinguer, Presidente Comitato per lo sviluppo della Cultura scientifica e tecnologica e Presidente Comitato Nazionale per l’apprendimento pratico della musica nella scuola del MIUR; Claudia Giudici, Presidente Istituzione Scuole e Nidi d’infanzia del Comune di Reggio Emilia e Membro del CdA di Reggio Children; Susanna Mantovani, Docente di Pedagogia Generale e Sociale all’Università degli Studi di Milano Bicocca. Introduce Giorgio Vittadini, Presidente Fondazione per la Sussidiarietà.
GIORGIO VITTADINI:
Buongiorno. Benvenuti al dibattito “Scuola: statale o paritaria purché sia migliore”, che completa la serie di incontri sull’educazione e sul capitale umano che ci sono stati in questo Meeting. Questo, evidentemente, è il dibattito più importante sotto il profilo giudizio sulla situazione attuale, perché è all’interno non solo di un percorso di questo Meeting, ma di un percorso di lunghissimo periodo, dato che discutevamo di questi temi già negli anni ’90 quando, quando Luigi Berlinguer, nel ’97, venne qua come Ministro della Pubblica Istruzione prima di varare le due leggi sull’autonomia e sulla parità che, come ho detto sempre in pubblico e come ripeto, rimangono il punto di riferimento sulla scuola, insuperato come visione. Allora siccome repetita iuvant o la goccia scava la pietra, noi pensiamo che, andando avanti a riprendere questo tema, si arriverà a dei risultati. Già la legge che è uscita va, come principio almeno, in questa direzione, ma evidentemente il dibattito culturale che diventa politico è il centro e quest’anno abbiamo voluto fare una novità non solo per il ritorno graditissimo di Luigi tra di noi, ma anche perché nel trattare il tema autonomia-parità vogliamo far vedere che per noi il problema è una concezione, non la difesa di una parte. Siccome tante volte abbiamo portato degli esempi che riguardavano la paritaria, questa volta vogliamo portare una visione che mostra, anche sotto il profilo culturale, la complementarietà con quello che ha fatto e fa sull’aspetto politico Luigi e poi un esempio di scuola autonoma di diritto pubblico che risponde a questi risultati. Allora, insieme a Luigi Berlinguer, abbiamo tra noi Susanna Mantovani, docente di Pedagogia Generale e Sociale all’Università Bicocca di Milano, che è sicuramente uno dei punti di riferimento più importanti della pedagogia in Italia e poi Claudia Giudici, che è Presidente dell’Associazione Scuole e Nidi d’infanzia del Comune di Reggio Emilia e membro del CDA di Reggio Children, che, forse non tutti sanno, è una scuola studiata in tutto il mondo, studiata da Heckman, premio Nobel sul capitale umano, e studiata in America come esempio di scuola di qualità. Comincia Susanna Mantovani, poi Claudia Giudici e finisce Luigi Berlinguer.
SUSANNA MANTOVANI:
Grazie di avermi invitato. A questo bel titolo aggiungerei solo una parola: la scuola migliore per tutti. Spendo due minuti a condividere con voi qualche idea molto semplice di quella che io credo sia la scuola migliore. La scuola è migliore se è buona per tutti e tornerò un attimo su questo tema che ormai è tema molto sottolineato anche da tutti i documenti più importanti, europei ed internazionali. Una scuola di qualità migliore per tutti è una scuola che riconosce e rispetta tutti i suoi allievi e anche il patrimonio culturale e la conoscenza, cioè che dà sempre un messaggio di riconoscimento, di interesse e di rispetto al patrimonio culturale. È una scuola che sollecita la passione per lo studio e la sostiene. È un termine sul quale io torno, perché il temine passione significa non soltanto desiderio, ma anche sforzo, impegno e qualche volta anche sofferenza. Indica una strada impegnativa e la scuola migliore è quella che educa alla cultura, al riconoscimento culturale, alla passione per apprendere e anche al senso di responsabilità. Quindi una scuola che mette al centro i ragazzi, i bambini, gli studenti, mentre la scuola come ambiente fisico e gli insegnanti che vi lavorano svolgono quel ruolo fondamentale, ma di backstage, che è lo scaffolding, il sostegno, affinché queste cose possano avvenire. E allora torno su alcuni di questi concetti. La scuola migliore possibile deve essere la scuola per tutti i bambini e tutte le bambine, per tutti i ragazzi e tutte le ragazze che vivono nel nostro Paese per tempi lunghi o per tempi brevi. Per poter rispondere al diritto di tutti senza escludere nessuno, nessun bambino che abbia integri tutti i suoi sensi, nessun bambino che abbia anche delle disabilità, nessun bambino che abbia patrimoni e stili di vita diversi, per essere una scuola buona, di qualità, è necessaria la collaborazione, l’integrazione di tutti i diversi soggetti che possono realizzarla e offrirla. Senza contrapposizione. Abbiamo bisogno di tutti coloro che si impegnano nella scuola e hanno delle esperienze educative e pedagogiche di qualità da mettere in campo. Il diritto all’accesso e il diritto alla qualità. Noi abbiamo un problema di dispersione all’interno della scuola dell’obbligo, ma abbiamo anche un problema di accesso, perché non tutti i bambini e i ragazzi hanno lo stesso accesso alla scuola. Questo è un elemento fondamentale per garantire il diritto al benessere di tutti i bambini, bambine, ragazze, ragazzi. Il concetto del benessere e dell’accesso sono tra quelli più sottolineati nei nuovi documenti internazionali, europei e anche in quello della convenzione dei diritti dell’infanzia. La definizione di benessere si è ampliata. Riguarda certamente i bisogni fondamentali che concernono la vita, il rispetto della proprietà, ma anche la possibilità di espandere al massimo le proprie potenzialità cognitive, emotive, espressive, in generale umane. Quindi se noi ci mettiamo nell’ottica del diritto all’accesso e del diritto al benessere, ne deriva anche l’impegno per una scuola di qualità. Proprio per questo io penso che non sia così importante discutere su chi gestisca una scuola, ma quanto e prima di tutto su come sia questa scuola, che garanzie di accesso dia, di qualità, rispetto e benessere, e come faccia a promuoverle. A seguire: su come investire le risorse pubbliche nel modo più produttivo e razionale, su come valutare e verificare che vengano spese bene e utilizzate bene e come sostenere le scuole verso un miglioramento costante qualora non ce la facciano. Credo, in un modo semplice, di avere presentato alcune delle parole – valutazione, miglioramento, ampliamento delle risorse per le scuole medesime – che sono dibattute, anche se a volte con una terminologia più burocratica, nel quotidiano, uscendo dalla contrapposizione ma non dalla dialettica, che è sempre utile per non adagiarsi mai e per cercare, anche in competizione, gli argomenti migliori tra scuola statale e scuola paritaria. Infatti, sia le scuole statali sia le scuole paritarie hanno il compito comune di garantire a tutti il diritto all’accesso, il diritto alla qualità, il diritto al benessere, come lo abbiamo definito e in questo senso sono tutte pubbliche, a mio avviso. Però le risorse vanno conquistate e sono un bene prezioso e oggi di risorse sappiamo che non ce ne sono molte. Penso però che proprio per il fatto che siamo in un tempo in cui le risorse sono limitate e in cui il tema della sostenibilità, come tema realistico ed etico a un tempo, è entrato in prima linea in tutto, debba entrare anche nel nostro pensare all’educazione e alla scuola. Questa è un’occasione per superare gli steccati e le contrapposizioni, perché abbiamo bisogno delle risorse ben utilizzate, ben verificate nel loro utilizzo, ben gestite, per garantire ai bambini e ai ragazzi del nostro Paese, quindi alle loro famiglie, i criteri di qualità di cui abbiamo parlato. Quindi una scuola di qualità, di accesso, di benessere, ma anche di sobrietà e di responsabilità. Questi mi sembrano gli elementi principali e avendo in mente, senza steccati, una prospettiva di valori comuni – so che ieri c’è stato uno splendido dibattito tra Carrón e Weiler, di cui ho letto e a cui mi dispiace di non aver potuto partecipare – sono profondamente convinta, occupandomi in questi ultimi anni anche di temi interculturali, che quello che ci rende possibile riconoscerci ed è comune, è comunque maggiore di quello che ci differenzia e ci divide. Quindi su questo bisogna puntare: sulla cultura, sui patrimoni culturali, e anche su una scuola che attraverso un contesto accurato trasmetta il valore dell’infanzia. Un secondo tema più sfaccettato, e che credo richieda una discussione più approfondita e anche più complessa, in questo momento è il tema della scelta della scuola da parte delle famiglie. La scelta e la selezione vanno insieme, è un tema più delicato. Anche nella scuola pubblica, comunale o statale, nella scuola di Stato, ci sono scelte non sempre trasparenti, a volte occulte. Sappiamo benissimo che i genitori che hanno chiesto aumenti culturali, economici, che conoscono i luoghi, chiedono quella sezione, soprattutto nelle superiori, quindi scelgono rispetto a chi non ha tutti gli strumenti per scegliere, allo stesso modo in cui scelgono un certo tipo di scuola. Ecco, io credo che anche il diritto di scelta sia importante, ma sia successivo alle garanzie di qualità, di accesso, di benessere per tutti date da tutti i soggetti a cui prima facevo cenno. Questo è il quadro che io ho tentato di delineare brevemente e aggiungo un ultimo tema legato alla scelta. Si parla della scelta, si parla anche della selezione nella scuola, perché si parla del merito e vorrei fare quest’ultima considerazione, prima di passare a dire due cose sui piccoli e passare la parola a Claudia Giudici. Il merito è qualcosa molto importante, ma al merito si educa, perché riconoscere il merito vuol dire riconoscere chi si è impegnato, ma anche chi è responsabile di impegnarsi per il bene di tutti e l’educazione al merito deve incominciare immediatamente in tutte le scuole, generando insieme sostegno e anche senso di responsabilità, qualunque sia la scuola che si frequenta. E allora io credo che ci sia un settore, e per questo sono particolarmente lieta di essere qui, di cui forse non si è parlato molto in questi grandi consessi, che è quello del servizio per le scuole dell’infanzia, quello che oggi in Europa viene chiamato early child education and care. Esso, mettendo insieme educazione, istruzione e cura come elementi inscindibili che sono già in atto nel nostro Paese, mostra un tipo di collaborazione tra diversi tipi di agenzie che non si contrappongono tra pubblico e privato, statale e paritario. Sto parlando del sistema delle scuole dell’infanzia. Già dalla loro nascita, nel ’68, la legge diceva che lo Stato sarebbe intervenuto solo laddove le scuole non esistevano già. Le scuole c’erano nei grandi comuni, meno al sud, mentre nei comuni e intorno alle chiese c’erano delle scuole di comunità. Ancora oggi il Comune il Milano oggi gestisce l’85% delle scuole dell’infanzia. In questo panorama, ci sono le scuole comunali, le scuole del privato sociale e i servizi per la prima infanzia del privato sociale e c’è lo Stato. Questo sistema interagisce già molto di più che non ad altri livelli di scuola, qualche volta in modo molto virtuoso, come a Reggio Emilia, attraverso progetti di formazione comuni, un comune impegno nell’accesso, attraverso meccanismi quali l’accreditamento. C’è in questi servizi un sapere gestionale, organizzativo che massimizza le risorse, pur cercando di creare luoghi belli, che rispecchino il valore dei bambini, diventando un modello anche per altri livelli di scuola. I servizi nelle scuole per l’infanzia che hanno queste caratteristiche sono anche la prima occasione in cui le famiglie con i propri bambini si incontrano e si presentano in pubblico. Sono le prime esperienze di cittadinanza per genitori, per i quali non ci sono più tanto spesso nel nostro Paese gruppi amicali che producono bambini nello stesso periodo, Reggio Emilia è stata veramente un’apripista in questo dialogo tra tipi diversi di scuola. C’è un problema: resta ora da generalizzare. La legge recentemente approvata parla di un sistema integrato. Ne parla e ne può parlare perché esperienze di integrazione esistono nel nostro Paese. Quindi, se noi ci muoviamo verso le scuole migliori, pensiamo alle scuole migliori, oltre gli steccati, dobbiamo pensarle come delle nicchie culturali e delle nicchie di sviluppo, luoghi nei quali bambini e genitori si incontrano e possono trovare sia il riconoscimento di ciascuno, nella sua straordinaria diversità, ma soprattutto dei fini e delle responsabilità comuni, pensando al futuro di tutti noi. Con autonomia, e sarà certo Luigi Berlinguer che ci parlerà di questo, e con responsabilità, che sono le condizioni, gli ingredienti fondamentali per avere la garanzia di una qualità a disposizione di tutti. Grazie.
CLAUDIA GIUDICI:
Ringrazio moltissimo per questo invito a confrontarci, adesso dovrebbe esserci un power point che accompagna la mia presentazione. Quali politiche per una scuola di qualità, purché sia migliore, come diceva giustamente Susanna Mantovani, per tutti? Io porto a questo dibattito il contributo dell’esperienza dei servizi educativi 0-6 anni della città di Reggio Emilia. Quindi cercherò nel mio contributo di mettere in evidenza, anche con alcuni passaggi storici, le scelte pedagogiche, politiche e gestionali, che sono state compiute e che ci consegnano un patrimonio per la città, ma non solo per la città, particolarmente prezioso e importante. In questo racconto che vi farò, cercherò di evidenziare l’esperienza delle politiche del comune di Reggio Emilia, quindi il sistema pubblico integrato, così come si è costruito a partire dall’esperienza dei nidi e delle scuole dell’infanzia comunali, quindi delle scuole paritarie degli enti locali. Questa è un’esperienza ha più di 50 anni e in questo lungo viaggio ci riconsegna un tentativo costante di ricerca di qualità per tutti i bambini, con la consapevolezza che cambiare la vita dei bambini è essenzialmente cambiare la nostra vita. Reggio Emilia è una città che ha cercato di mettere al centro come obiettivo quello di rispondere al diritto di educazione di tutti i bambini attraverso la qualità dell’esperienza di cura, di benessere e di educazione e contemporaneamente rispondere al diritto-bisogno di conciliazione di vita e lavoro dei genitori. Questo mi sembra un passaggio importante, perché talvolta, soprattutto rispetto ai servizi educativi, sono diversi gli accenti che vengono messi come in contrapposizione. Si tratta invece di una grande ricerca di conciliazione di diritti. Reggio Emilia è una media città dell’Emilia Romagna, che ha una lunga tradizione di educazione laica prescolare, lunga tradizione di impegno della società civile ispirato a un’idea di educazione come bene comune. Questa è sempre stata la bussola di orientamento delle varie scelte politiche che si sono succedute. Nel 1945, al termine della Seconda Guerra Mondiale, fu aperta e fu costruita, mattone su mattone in un territorio della nostra città, una scuola laica che porta la scritta dei cittadini che la costruirono: “Uomini e donne insieme abbiamo costruito i muri di questa scuola perché la volevamo nuova e diversa per i nostri bambini”. Credo che qui ci sia un messaggio forte, una metafora potentissima: ricostruire a partire dai bambini. Questa esperienza propone anche un ribaltamento sostanziale: non lo Stato che crea un servizio, che fornisce un servizio, ma cittadini che costruiscono e gestiscono una scuola nuova e diversa per i bambini, che si impegnano come cittadini a sostenere e a dare cittadinanza ai diritti dei bambini insieme ai diritti dei genitori e soprattutto delle madri. Quindi l’esperienza educativa di Reggio nasce da questo gesto di partecipazione, di solidarietà, di corresponsabilità forte. Un impegno civile, soprattutto delle associazioni femminili, che si è saldato con gli intenti politici di amministratori sensibili e non ideologici, di pedagogisti militanti come il professor Malaguzzi, Sergio Neri e Bruno Ciari, che hanno fin da subito intrecciato l’istanza sociale e il percorso pedagogico, costruendo intorno a sé una grande intelligenza collettiva con la forza delle idee e di un progetto che si voleva perseguire. E’ quindi da questo incontro tra movimenti, istituzioni e pedagogia che ha preso vita l’esperienza delle scuole comunali di Reggio Emilia. Sottolineo comunali, perché da quelle esperienze di autogestione, di partecipazione dal basso si sviluppa, negli anni ’60, con la scuola dell’infanzia e poi nel 1981 col nido, una fase istituzionale dei servizi, che vede il Comune assumersene direttamente la gestione, però sulla base dell’esperienza precedente. Ne nasce una nuova idea di bambino, ma anche di insegnante e di genitore. Un’idea di scuola saldata alla città, in dialogo costante con la città attraverso la partecipazione sociale dei genitori, dei cittadini, delle associazioni, degli organismi istituzionali. Un investimento collettivo sull’educazione come diritto dei bambini e contemporaneamente una responsabilità della comunità. La responsabilità di rispondere a questo diritto all’educazione, considerato diritto primario di tutti i bambini, che è diventato particolarmente rilevante negli anni ’90, quando, come è accaduto in molte realtà del nostro Paese, la città è cresciuta di oltre 40.000 abitanti, passando da 130.000 a 170.000 abitanti. Un cambiamento molto rapido, che chiedeva risposte per continuare a perseguire quell’obbiettivo che fino a quel momento era stato ricercato: il diritto all’educazione per tutti i bambini e bambine, un’educazione di qualità.
Ecco allora che quello che era già presente nella città – la presenza di scuole comunali con una lunga tradizione, le scuole aderenti alla Fism di ispirazione cattolica, le scuole della comunità, e un’esperienza statale quasi assente fino a quel momento, con pochissime scuole – ha portato a un sistema pubblico integrato. In questo anno scolastico che si sta per aprire abbiamo un incremento di scolarizzazione sullo 0-6 del 70%, che raggiunge in questo anno scolastico il 40% al nido, e l’88% nella scuola dell’infanzia. Questo con il concorso di tutti i soggetti gestori. In questo sistema pubblico integrato, l’esperienza comunale, sulla quale poi dopo farò alcuni accenni, ha portato ad avere un ruolo forte ed importante. Il Comune è un soggetto gestore diretto di un numero significativo di servizi, che sono 33, 12 nidi e 21 scuole dell’infanzia, con convenzioni di 15 servizi a gestione comunale indiretta con cooperative. Poi ci sono le scuole della Fism, le scuole dello Stato e alcune scuole di privati. Quindi il Comune, nell’articolazione di queste politiche, mantiene un coordinamento forte, in quanto, essendo l’ente direttamente vicino ai cittadini, ha testimoniato di essere il soggetto maggiormente capace di interpretare, attraverso politiche di partecipazione attiva, il ruolo dei servizi educativi sul proprio territorio, valorizzando le competenze, interpretando i diritti e le istanze culturali e sociali. In questa prospettiva di soggetto più vicino al territorio, ha interpretato il superamento della contrapposizione ideologica pubblico e privato. I primi accordi con la Fism risalgono agli anni‘’70, nel 1987 furono aperti i primi nidi cooperativi, furono sostenute dal Comune esperienze di autogestione dei genitori e una collaborazione con le scuole dello Stato. Questo però non significa non mantenere la distinzione di identità, le radici in cui affondano e prendono forma le diverse esperienze. Significa che il comune si assume il ruolo, nel sistema pubblico integrato, di realizzare un dialogo rispettoso di tutto il sistema e individuare i valori e i temi di fondo comuni, quindi le condizioni per garantire la qualità dell’esperienza dei bambini e delle famiglie. Un altro aspetto importante è la progettazione condivisa del sistema educativo cittadino e delle politiche per l’accesso all’interno del sistema. Politiche per l’accesso che hanno a che fare con i criteri di ammissione, la contribuzione della famiglia, gli orari di funzionamento, con aspetti che, se non coordinati, rischiano di costruire servizi che accolgono pezzi di città differenti. Complessivamente l’idea condivisa è che il diritto all’educazione dei bambini è una responsabilità dell’intera comunità cittadina. Questo avviene attraverso convenzioni che vengono stipulate con i diversi soggetti gestori, che hanno in questi cardini che ho richiamati dei vincoli volti a garantire modalità e criteri di accesso inclusivi, parametri di qualità condivisi, costruiti e attesi dalla comunità cittadina e un’apertura dell’intero sistema pubblico integrato al controllo degli organi di rappresentanza della città con il cardine della partecipazione delle famiglie. Quindi questi vincoli, che trovano la declinazione negli atti che si vanno a realizzare, generano un’idea di pubblico che riconosce ai diversi soggetti gestori, indipendentemente dallo status giuridico che hanno, una funzione pubblica, quella di rispondere al diritto ad un’educazione di qualità. L’integrazione comporta poi collaborazione tra i diversi soggetti gestori che hanno responsabilità sul territorio, sinergie, scambi di esperienza, per costruire una qualità che sia riconosciuta e riconoscibile dai cittadini, pur nelle differenze dei progetti educativi delle varie scuole. E’ un sistema che costruisce nel suo insieme anche delle offerte differenti di servizi: la modulazione degli orari che porta a una diversificazione per corrispondere a un’esigibilità dei diritti, ma che non viene trovata solo ed esclusivamente in una gestione. Un altro elemento importante è l’armonizzazione della contribuzione delle famiglie, perché non sia l’elemento economico quello che diventa inclusivo od esclusivo per qualcuno. In tutte queste diverse armonizzazioni tra le gestioni, c’è all’interno del sistema pubblico integrato il fare riferimento ad un’idea di qualità che vede alcuni cardini condivisi, che si trovano nei documenti( protocolli di intesa, convenzioni) che si vanno a firmare, ma che soprattutto si agiscono nelle pratiche di percorsi di formazione comune, di tavoli inter-istituzionali reali di scambio e di progettazione. Vorrei adesso richiamare alcune condizioni di qualità, riprendendo anche quanto ha detto Susanna Mantovani. Quali sono le condizioni nelle quali si costruisce la qualità? Innanzitutto la compresenza, la contitolarità di più educatrici-insegnanti con il gruppo di bambini. Questo è un fatto importante. L’altro aspetto è la condivisione della responsabilità educativa da parte di tutte le figure professionali che compongono il gruppo di lavoro: pedagogisti, insegnanti, cuoche, atelieristi. Inoltre, nella nostra esperienza educativa nelle scuole, c’è una figura che ha una formazione artistica, che lavora con il gruppo delle insegnanti, portando dentro al progetto educativo una dimensione estetica, una sensibilità e linguaggio espressivi, che diventano parte condivisa del gruppo di lavoro. Altra condizione di qualità: un gruppo di lavoro che ogni settimana ha tempi di aggiornamento condivisi, in cui progettare insieme il contesto educativo. Un ambiente relazionale pensato come spazio relazionale. Un ambiente che consente esplorazioni ai bambini. Esplorazioni di tipo differente, un ambiente pensato e progettato per consentire autonomie ai bambini, ma anche libere scelte all’interno del contesto di gruppo e di regole condivise. Uno spazio pensato per consentire scoperte, stupori e incontri inaspettati. Uno spazio che ha forti contiguità tra interno ed esterno. Uno spazio che offre prospettive differenti, che cura i significati dell’esperienza educativa in tutti i momenti della giornata e dell’anno. Uno spazio amabile, accogliente, includente. Uno spazio che nella sua quotidianità rassicura e sfida l’intelligenza dei bambini e la loro curiosità. Uno spazio di ricerca per adulti e bambini che, attraverso la documentazione, dia identità all’esperienza educativa. La documentazione è un fatto essenziale anche per la partecipazione dei genitori, che occupandosi del loro singolo bambino, assumono anche una prospettiva e uno sguardo diverso sull’infanzia e sull’educazione. Uno spazio che consente ai bambini e agli adulti di diventare gruppi che apprendono, che conoscono insieme, e che costruisce nel tempo la prospettiva di essere cittadini: lo si è già dalla nascita ma si continua ad alimentare questa dimensione. Sono spazi dove la dimensione estetica, il diritto alla bellezza che dobbiamo consegnare a tutti i bambini, genitori, cittadini, e la cura sono tratti di identità essenziali e fondamentali per il progetto educativo. Il diritto quindi ad avere luoghi belli, curati, come riconoscimento della dignità di ogni bambino e dei loro genitori. Le riflessioni che rapidamente ho proposto hanno cercato di fare emergere un aspetto che ritengo particolarmente importante, che è quello di condividere qualità e peculiarità di un’esperienza italiana, del fare scuola del nostro Paese, di fare scuola di qualità. È un invito a produrre un dibattito sul tema pubblico e privato, non ideologico, ma capace di includere, qualificare e valorizzare le esperienze esistenti, con l’obiettivo di dare a tutti i bambini, come scriveva Loris Malaguzzi nel 1981, la scuola che si meritano.
LUIGI BERLINGUER:
Sono molto contento di essere qui. Ci sono stato nel ’97 in un’altra veste, ma abbiamo camminato insieme in questo periodo. E sono molto contento che il Meeting e Giorgio abbiano assortito queste voci, dopo che ho sentito Susanna Mantovani e la Giudici suonare una musica per me. Quello che io volevo dire oggi è che c’è l’eterno problema della scuola paritaria, del rapporto con la scuola di stato, dei finanziamenti. Però io comincio a percepire come una cosa stucchevole questo tema, come una cosa proprio secondaria. Intellettualmente non mi interessa più, perché a me interessa la scuola, ovunque essa si svolga. Consapevole che è sempre pubblica una scuola, perché deve allevare creature. E questo stanco ritornello, scuola pubblica scuola privata, è vecchio come il cucco. Non ci si rende conto che siamo nel 2.000 e che quella tematica, che pure ha ossessionato la lotta politica sulla scuola per decenni, non esiste più. E tuttavia ritorna. Come ritorna questa paura di costruire nella scuola non soltanto uno spazio disciplinare che pure ci deve essere – non esisterebbe scuola senza insegnare l’italiano o la matematica o la storia e così via – ma anche un altro spazio. È significativo che, nelle slides che ho visto della Giudici, non sia mai stata presentata un’aula. Non ho visto neanche i banchi. E siccome il segreto intendimento è di promuovere un movimento per bruciare i banchi…oggi non si può fare, perché sono di plastica e fanno fumo. Per interpretare il pensiero della Montessori che li considerava neri catafalchi. E anche quello che ha detto Susanna, quel modo di descrivere l’attività educativa, non è riferito all’aula. Eppure il simbolo della scuola, ancora per la maggioranza degli italiani, è l’aula. E poi continuiamo a parlare di obbligo – per fortuna la CGIL ha sposato l’idea che bisogna che si vada a scuola tutti fino a 18 anni – a parlare di obbligo usando termini costrittivi. Nella scuola il termine non è l’obbligo, è lo stimolo a crescere, è la curiosità, lo stimolare il gusto a scoprire qualcosa che non si sa. Perché quando si scopre una cosa nuova, si prova una grande soddisfazione. E leggo che papa Francesco parla di sana inquietudine, di cuore inquieto. Parla di dare risposte a interrogativi che tutti si portano dentro. Accenna al perché di san Paolo dell’Areopago e si domanda che tutti si domandino: “Che cosa stiamo a fare nel mondo? Vale la pena di vivere?”. Queste sono le domande della scuola. È una linea pedagogica il suo messaggio al Meeting. È una linea che ci dice che nella scuola oggi non si deve più trasmettere un sapere, non si deve incentrare sulla lezione, ma si deve costruire un percorso. Anzi, lui parla di un processo. “Iniziare processi senza occupare spazi”. E allora perché noi oggi dobbiamo guardare a queste cose in quest’ottica? Perché inquietudine significa ricerca, significa che il discente, l’allievo, chi impara, non deve solo registrare la conoscenza trasmessa. Non deve solo magari imparare a memoria, che pure va esercitata, ma è un’altra cosa, deve scoprire con la sua testa i problemi che stanno dentro ciascuna materia, ciascun episteme. Non si possono presentare gli epistemi preconfezionati e trasmessi. E questa è una rivoluzione per la scuola italiana, che è tutta basata sulla trasmissività, almeno la secondaria. E quindi si propone un tema centrale. Io mi rammarico che nella discussione appassionata sulla scuola degli ultimi mesi, che ha portato la scuola alla ribalta in tutti i giornali, in tutti gli organi politici, non si parlava d’altro. Ho sentito pochissimo risuonare la parola studente. Sembrava che non fosse il protagonista primo e questa è la verità. Non è demagogica la mia posizione, non voglio esaltare gli studenti, perché fa comodo a sinistra dire “viva gli studenti”. Non gli studenti, l’apprendimento, il momento in cui si impara, il momento in cui si costruisce la persona, il momento in cui il soggetto costruisce se stesso nel segno della curiosità, ma anche della creatività, dell’espressività di tutte le potenzialità interne che sono in ogni essere umano, anche il meno brillante. La scuola è questo e se è questo va cambiato l’impianto, va rovesciato… e l’idea di cambiamento in questa stagione, nei mesi passati, è stata detta poche volte, mentre noi dobbiamo uscire da qui e già l’impostazione lo ha detto questo, proponendo che alcune cose vadano cambiate da subito. La prova è quell’assurdo orario scolastico, basato ogni settimana su quel tipo di ore sempre uguali, che limita la scuola soltanto al mattino, che crede quindi che lo studente è al pomeriggio che studia e studia a casa, dove ci sono le distinzioni sociali e quello studiare a casa dà ancora un senso di classe alla nostra scuola, di condizionamento sociale anche sui risultati. Le due signore che mi hanno preceduto, le due colleghe, hanno proposto un orario che continua: la scuola deve stare aperta tutto il giorno, tutto l’anno, tutta la vita. E’ una rivoluzione o no? Sconvolge tutto. Noi dobbiamo fare una rivoluzione, perché la scuola per tutti è di per sé una rivoluzione. Quando io sono andato nella scuola superiore eravamo in pochi eletti e già sostanzialmente selezionati, salvo qualcuno che prendeva una borsa di studio, un’eccezione che confermava la regola. Se noi andiamo in quella direzione, dobbiamo comprendere che non è certamente che il docente deve fare tutto il giorno l’insegnante, per carità di Dio, ha un contratto che dev’essere rispettato; le ore del docente singolo sono fissate. Ma nei Paesi evoluti non ci sono insegnanti volontari disponibili o sopranumerari, ma c’è il bibliotecario oltre al docente, lo psicologo scolastico, l’infermiere, lo specialista dell’orientamento, l’animatore della vita studentesca, l’assistente sociale, il consigliere dell’insegnamento pre-scolastico, della valutazione della rieducazione, lo psico-educatore, l’ortopedagogista, l’ortofonista, l’audiologo, lo specialista in particolare dei problemi dell’apprendimento e così via. La scuola è un grande servizio di vita a chi sta crescendo ed imparando, con l’apporto di competenze articolate e avere un solo docente, una sola funzione di trasmissione, non è più la scuola di cui abbiamo bisogno. Perché dev’essere aperta. E in questo l’elemento essenziale è sollecitare la curiosità, come ci ha ripetuto Papa Francesco e creare in questo la ragione d’essere. L’obiettivo della dignità della persona è legato ad un nuovo umanesimo, al ritorno all’uomo: mettere al centro l’essere umano, la persona in questo processo e per far questo bisogna sollecitare tutte le sue potenzialità. Bellissimo il richiamo ad Ulisse del Pontefice. Mi fa sperare per le culture umanistiche di questo Paese. Non ha scelto l’eroe Achille, che era eroe perché ne ammazzava tanti ogni giorno e più ne ammazzava e più era eroe. Non ha scelto la guerra. Ha scelto il ritorno, ha scelto la risposta a quella mancanza. Ha scelto cioè il fatto che nel ritorno e in quella figura di Ulisse c’è la forza della serenità e dell’intelligenza, che è il metro per costruire una politica pedagogica. Scoprire il sapere per capire, non solo per ricordare; per penetrare il reale. L’autonomia è questo. Con una scuola solo dettata dalla Pubblica Amministrazione di viale Trastevere, tutte queste cose non passano. Dobbiamo riuscire a dare spazio a tutte le misure che potenziano la creatività curricolare ed educativa di ogni singola scuola, perché oggi nella scuola non c’è a sufficienza una comunità educante. La scuola per tutti non può essere realizzata senza una comunità educante, che registra le differenze di velocità nell’apprendimento, che sostiene i diversi momenti di forza e di debolezza, che utilizza anche con i genitori tutte le altre forme di coinvolgimento generale. Perché attraverso l’autonomia è la vita che entra nella scuola. Il messaggio è un messaggio di attrazione, di piacere; ma noi continuiamo a parlare di obbligo, continuiamo a parlare di costrizione, continuiamo a parlare di “aurea severitas”, citando Seneca; lo cito anch’io Seneca: “non scolae, sed vitae discimus” diceva. L’aveva capito. Si impara per la vita e non solo per la scuola. E se la vita non entra, se non si aprono le porte, se non si creano quegli ambienti che avete visto, se non si racconta il modo in cui il Comune, tutte le altre organizzazioni, sono partecipi, questa apertura non si realizza. Anche qui dobbiamo abbandonare tanti luoghi comuni, tanti schemi del passato che sono invecchiati di fronte alla scuola per tutti. E il primo è che non si deve rifiutare l’idea weberiana del Beruf, della professione, perché ogni cittadino deve lavorare. La società dell’antichità era bellissima, il mondo classico era bellissimo, ma c’erano gli schiavi, c’erano degli essere umani diventati oggetto ed erano schiavi. Noi non vogliamo una società che possa utilizzare gli schiavi per certe funzioni, gli schiavi moderni ovviamente. Vogliamo che tutti abbiano questa possibilità. E allora è la creatività di tutti che deve essere caricata in questo. E per fare questo ci vuole un elemento di attrazione della scuola che piaccia. La bestemmia più grande in Italia è che l’arte a scuola sia considerata inutile e dannosa, perché distrae. È una bestemmia. Non è una svista, non è un errore che non ci sia. È una scelta per escludere una platea, una parte dei discenti, coloro che non sono abituati a ragionare con estrema logicità e ad avere anche una passione per l’astrazione. Inserire nell’emisfero destro del cervello il potenziale completo della capacità intellettiva dei nostri discenti è condizione per la scuola di tutti. È un passaggio obbligato. E per fortuna abbiamo vinto questa battaglia e si può forse imparare oltre che l’italiano, la matematica, la storia, bellissime, anche la musica. Perché la musica è cultura. Lo sapete? Pensate cosa sono costretto a dire in un Paese come il nostro. E allora si possono fare molte cose da subito a legislazione vigente. Non inventiamoci subito altre leggi. Non perdiamo tempo, perché la passione del Parlamento non può essere solo quella di far leggi, che pure deve fare, ma anche quella di verificare che la normativa che c’è venga attuata, possa camminare già e bisogna ottenere che cammini ciò che c’è e vada avanti. La scuola del passato, uso una parola forte, disprezzava il lavoro perché lo considerava la pratica estranea alla cultura. Ma possiamo dire che oggi il lavoro è estraneo alla cultura? Che anche l’attività lavorativa, qualunque essa sia, non abbia dentro di sé il bisogno di un arricchimento costante del sapere? Possiamo dire che non sia esso stesso leggibile modernamente come un elemento di cultura? Creare alternatività fra sapere e lavoro non solo è classisticamente sbagliato, non solo è ideologicamente sbagliato, ma non crea le condizioni dell’uguaglianza di fatto. È vero che i comunisti hanno fatto mettere in Costituzione, nel primo articolo, che la Repubblica è fondata sul lavoro, ma è stato Moro a far scrivere, nell’articolo 3, che bisogna realizzare di fatto l’uguaglianza e la libertà. Ed è quell’incontro che ha funzionato, “di fatto”. L’articolo costituzionale per la scuola è l’articolo 3, perché chiede lo sviluppo dell’uguaglianza e della libertà nella persona umana e la rimozione degli ostacoli ad opera della Repubblica. Ecco come torna in primo piano l’apprendere, lo studente, il capitale umano inteso come capitale culturale prima di tutto e con esso il capitale produttivo. Io credo che la giornata di oggi ci possa spingere ad osare di più nel proporre il cambiamento radicale, nel proporre la rivoluzione, che deriva dalla rivoluzione dell’espansione scolastica avvenuta alla fine del secolo scorso. Non possiamo più soltanto tollerare di fare piccoli aggiustamenti e piccole appiccicature. Oggi è il tempo del grande cambiamento ed io ringrazio Giorgio e il Meeting per averci consentito di portare questa voce in quest’aula. Grazie!
GIORGIO VITTADINI:
Sta succedendo qualcosa di nuovo. In molti incontri del Meeting è risuonato questo qualcosa di nuovo, sotto il profilo profondo, culturale. Ricordo quando abbiamo cominciato a discutere con Luigi. Allora c’era la sinistra che parlava dell’equità, c’erano i cattolici e gli altri che parlavano del merito, dell’uguaglianza. Un dibattito come quello di oggi dice che un certo popolo, trasversale culturalmente, perché le nostre origini sono diversissime, ha fatto un percorso comune di responsabilità in cui, come sentivamo dal primo intervento della Susanna Mantovani, merito ed uguaglianza, stato e famiglia, qualità e equità vanno insieme, vanno insieme perché non si può rinunciare all’una o all’altra in un mondo che cambia. E diverse posizioni culturali hanno fatto un percorso, ascoltando le altre, per costruire – usiamo subito a parola di Luigi – “un nuovo umanesimo”, che poi è la parola che ci ha detto Mattarella, questo personalismo, questo mettere al centro l’uomo in un momento in cui non è che non ci siano nemici: il nichilismo, il terrorismo, il liberismo, la distruzione dell’umano, la riduzione della dignità della persona. Quello che era l’intuizione dell’origine della Repubblica Italiana, l’incontro tra culture, allora evidentemente difficile da realizzare in un mondo ideologicamente diviso, oggi arriva ad un percorso comune, perché nella diversità dell’identità, nel pluralismo culturale, si abbiano delle istituzioni che hanno in comune questi ideali, che sono comuni come realizzazione. L’esempio di Claudia Giudici di questa bellissima realizzazione di Reggio Emilia, dice che quando questo percorso c’è, si arriva ad una apertura, non ad una chiusura, si arriva ad una costruzione che è per il bambino in questo caso, per la persona, per la sua dignità. E nelle parole finali di Luigi capiamo il perché. Perché quella costruzione della società dal basso, che noi sentiamo come esigenza, anche se in questi ultimi anni certe volte è andata in crisi, si è deteriorata, ha sbagliato, è ancora più attuale, soprattutto nel punto più cruciale: l’educazione. Non inculcare qualcosa, ma “e-ducare”, tirar fuori da. M’impressiona che, avendo diretto il dibattito tra due grandi pedagogisti, Carlo Wolfsgruber e Eddo Rigotti, sia venuta fuori la stessa cosa. Rigotti diceva: “Non possiamo istruire col principio d’autorità”. Perché questo è debole. Invece dobbiamo – le stesse cose che diceva Luigi – tirar fuori, superando anche – altro grande tema del Meeting – la cultura umanistica e la cultura tecnica, l’arte, la musica. Per noi è fondamentale. Abbiamo avuto qui quelli dell’università di Notre Dame che ci dicono che negli Stati Uniti, paradossalmente, nelle università americane, l’arte e la musica sono fondamentali. Non esiste grande università pubblica, privata, non profit, che non metta a tema questa unità. Perché è l’uomo che è capace anche di conoscere la tecnica, la costruzione. Allora io penso che, come diceva Luigi, il dibattito di oggi, che mette insieme autonomia e parità, debba segnare il percorso comune di un movimento che arrivi a superare quello che ormai è passato e che ha come esito quello di chiudere. Mentre noi dobbiamo creare, dobbiamo educare il giovane che sta all’altezza delle sfide di tutti i giorni, le sfide che ha l’Italia per non andare in serie B, le sfide dell’apertura. Ma questa apertura non è la rottura col passato, è la costruzione da una tradizione, che – come tante volte ci ha detto Giussani – è l’introduzione alla realtà totale, nell’oggi, nella critica, nel paragone, nel pluralismo, nell’apertura culturale. Questo penso che sia la sfida che ovunque, ma soprattutto nel mondo della scuola e dell’educazione, questo incontro del Meeting, questo incontro interessantissimo, bellissimo, apra. Andiamo avanti così. Grazie!