Chi siamo
Santa Messa
Presiede S. Ecc. Mons. Francesco Lambiasi, Vescovo di Rimini.
La S. Messa sarà trasmessa in diretta televisiva su Rai1.
OMELIA DI S. ECC. MONS. FRANCESCO LAMBIASI
Dobbiamo riconoscerlo francamente, questo Gesù dal volto severo, dal piglio così brusco e intransigente facciamo fatica a inserirLo nel file dei ritratti che di Lui abbiamo salvato in memoria. È davvero sorprendente: il Gesù mitissimo, dolcissimo si mostra oggi così ruvido e inflessibile di fronte a questa mamma che non ha fatto niente di male, se in fondo lei si rivolge a Lui per mendicare almeno una briciola della Sua prodigiosa misericordia nei confronti della sua bambina malata. È forse una colpa imperdonabile quella di non appartenere al popolo santo del Dio di Israele? Ripercorriamo allora la sequenza evangelica, che l’evangelista Matteo scandisce in tre scatti: innanzitutto, ci viene detto che Gesù si è ritirato in una zona confinante con la costa fenicia, e cioè con una terra pagana ma anche implacabilmente nemica di Israele. Ed ecco, di colpo entra, quasi a gamba tesa, potremmo dire, questa donna cananea che, straziata dal dolore, grida, rivolgendosi a Gesù, rovesciandogli addosso la sua pena inconsolabile: sua figlia è crudelmente straziata da uno spirito maligno. Abbiamo ascoltato la prima reazione del maestro galileo, non è intonata alla sua rinomata, squisita umanità ma sembra tradire una gelida indifferenza: «ma Egli non le rivolse neppure una parola». Intervengono allora i discepoli a sollecitare il Maestro perché accordi alla straniera quanto lei implora, solo così se la potranno togliere finalmente di torno: «mandala via». Ma Lui non ha mai mandato via nessuno, perché Lui è missionario e un missionario non può essere insieme un dimissionario, è missionario del Padre e non può essere dimissionario dei Suoi figli. E però ora se ne esce con una dichiarazione raggelante, che a prima vista appare intonata al particolarismo più ristretto: «Io sono stato mandato solo alle pecore sperdute del popolo di Israele». Ma la povera mamma non si dà per vinta, taglia la strada a Gesù, si accovaccia ai suoi piedi e singhiozza: «Signore, aiutami». La replica di Gesù è formulata con un paragone amaro e imbarazzante: «Non è giusto prendere il pane dei figli e buttarlo ai cagnolini», poiché gli Ebrei affibbiavano cordialmente l’appellativo di cani agli odiati pagani. Dinanzi a una risposta così spietata e così spiacevole, chiunque si sarebbe arreso, ma non quella donna che azzarda un ultimo assalto per espugnare il cuore di Gesù e controbatte con fiducia incrollabile: di mangiare il pane dei figli, lei non ha né diritto né merito, e per questo non millanta alcun credito, non avanza alcuna pretesa. Ma almeno di qualche minuscola briciola di bontà da parte del Figlio di Davide, lei ha bisogno, ne ha un urgente, incontenibile bisogno. A questo punto, Gesù esplode in una dichiarazione di irrefrenabile stupore: riconosce alla donna la sua fede e lo scontro–incontro si chiude con una parola di condiscendente misericordia: «Donna, davvero grande è la tua fede!». È la seconda volta che nel Vangelo di Matteo ricorre questo grido di ammirazione stupefatta per una fede che Gesù, Gesù in persona definisce davvero grande. La prima volta era accaduto con un centurione romano, quindi con un altro pagano, che era andato da Gesù a portargli la pena del suo servo paralizzato, e Gesù subito si mette in moto per andare in casa, ma anche qui il centurione gli sbarra la strada perché lui non si ritiene degno che un Maestro così eccezionale varchi la soglia di casa sua. E allora Gesù, di fronte a questa fede, esclama ammirato: «In tutto Israele, io non ho trovato una fede così grande». Di contro, più di una volta, e precisamente ben quattro volte, Gesù invece si dichiara deluso, amareggiato per la poca fede che Lui registra proprio nella cerchia dei suoi discepoli più intimi, a cominciare da Pietro: «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?». Questo Vangelo, fratelli e sorelle, lascia trasparire due verità. Una prima verità è quanto mai confortante, ed è questa: Gesù ci rivela il volto di un Dio senza frontiere, senza confini, senza ferree barriere; il Padre suo ha un cuore infinitamente più grande del nostro cuore, ma non si lascia confiscare da nessuno. È un Dio che non si stanca di far saltare i numi dei fondamentalismi più gretti, dei quali in questi giorni siamo stati purtroppo ancora una volta costretti a vedere di quanta cieca violenza e di quali esiti raccapriccianti siano capaci. Ma insieme Dio Padre non la smette di costruire i ponti del dialogo e dell’inclusione più integrante e sconfinata, perché Lui non riesce a pensarsi come un Padre con figli e figliastri, di serie A e di serie B, e si porta in cuore un sogno insopprimibile, che tutte ma proprio tutte le Sue creature possano sedere un giorno a mensa nel regno del Padre. E dunque capiamo perché Gesù allora in un primo tempo sembri ribadire la barriera figli/cani, ma è una strategia evangelica che gli permette appunto non tanto di blindare, di confermare quella barriera ma di farla demolire dalla fede. Così, la storia della salvezza di tutti si traduce nella salvezza della storia di ognuno dei figli. Ma in questo Vangelo c’è anche una verità provocante, ce la insegna appunto la Cananea: chiunque abiti nei territori della sofferenza, ha un posto privilegiato nel cuore del Padre, a prescindere da qualsiasi appartenenza di razza, di cultura, di nazione e di religione. Perché la sofferenza rinvia alla fragilità dell’umano, che Gesù è venuto a condividere facendosi samaritano dell’altro, di ogni altro, anche se straniero, anche se povero, disabile, carcerato, disoccupato, malato, tossicodipendente o altro ancora. E solo se noi ci lasciamo devastare il cuore dalla sofferenza dell’altro, che troppo spesso noi teniamo a debita distanza, solo perché altro da noi, la fede ci salva. Altrimenti, aggrava la nostra già grave responsabilità.