Santa Messa

Celebra S. Ecc. Mons. Francesco Lambiasi, Vescovo di Rimini.

 

EMILIA SMURRO:
Con la Santa Messa iniziamo questa 32° edizione del Meeting. Presiede la celebrazione della Messa il Vescovo di Rimini, Sua Eccellenza Mons. Francesco Lambiasi, concelebrano Sua Beatitudine il Cardinale Antonio Naguib, Patriarca di Alessandria dei Copti Cattolici, Monsignor Ivan Jurkovic, Nunzio Apostolico a Roma, Father Richard Duffield, Prevosto dell’Oratorio di san Filippo Neri a Birmingham, Padre Romano Scalfi, fondatore di Russia Cristiana, don Stefano Alberto e don Roberto Battaglia. Vi ricordo che, per la distribuzione dell’eucarestia, i ciliaci riceveranno la comunione in Auditorium, presso il megaschermo di sinistra a metà del salone. Vi do ora lettura del messaggio che Sua Santità Benedetto XVI ci ha inviato, attraverso il Vescovo di Rimini:

“Eccellenza Reverendissima,
anche quest’anno ho la gioia di trasmettere il cordiale saluto del Santo Padre a Vostra Eccellenza, agli organizzatori e a tutti i partecipanti al Meeting per l’Amicizia tra i Popoli, che si svolge in questi giorni a Rimini. Il tema scelto per l’edizione 2011 – “E l’esistenza diventa un’immensa certezza” – suscita vari profondi interrogativi: che cos’è l’esistenza? Che cos’è la certezza? E soprattutto: qual è il fondamento della certezza senza la quale l’uomo non può vivere?
Sarebbe interessante entrare nella ricchissima riflessione che la filosofia, fin dai suoi albori, ha sviluppato attorno all’esperienza dell’esistere, dell’esserci, giungendo a conclusioni importanti, ma spesso anche contraddittorie e parziali.
Possiamo tuttavia essere condotti direttamente all’essenziale partendo dall’etimologia latina del termine esistenza: ex sistere. Heidegger, interpretandola come un “non permanere”, ha messo in evidenza il carattere dinamico della vita dell’uomo.
Ma ex sistere evoca in noi almeno altri due significati, ancora più descrittivi dell’esperienza umana dell’esistere e che, in un certo senso, sono all’origine del dinamismo stesso analizzato da Heidegger. La particella ex ci fa pensare a una provenienza e, nello stesso tempo, ad un distacco. L’esistenza sarebbe dunque uno “stare, essendo provenuti da” e, allo stesso tempo, un “portarsi oltre”, quasi un “trascendere” che definisce in modo permanente lo stesso “stare”. Tocchiamo qui il livello più originario della vita umana: la sua creaturalità, il suo essere strutturalmente dipendente da un’origine, il suo essere voluta da qualcuno verso cui, quasi inconsapevolmente, tende. Il compianto Mons. Luigi Giussani, che con il suo fecondo carisma è all’origine della manifestazione riminese, ha più volte insistito su questa dimensione fondamentale dell’uomo. E giustamente, perché è proprio dalla coscienza di essa che deriva la certezza con cui l’uomo affronta l’esistenza. Il riconoscimento della propria origine e la “prossimità” di questa stessa origine a tutti i momenti dell’esistenza sono la condizione che permette all’uomo un’autentica maturazione della sua personalità, uno sguardo positivo verso il futuro e una feconda incidenza storica. È questo un dato antropologico verificabile già nell’esperienza quotidiana: un bambino è tanto più certo e sicuro quanto più sperimenta la vicinanza dei genitori. Ma proprio rimanendo sull’esempio del bambino capiamo che, da solo, il riconoscimento della propria origine e, conseguentemente, della propria strutturale dipendenza non basta. Anzi potrebbe apparire – come la storia ha ampiamente dimostrato – un peso di cui liberarsi. Ciò che rende “forte” il bambino è la certezza dell’amore dei genitori. Occorre, dunque, entrare nell’amore di chi ci ha voluti per poter sperimentare la positività dell’esistenza. Se manca una delle due, la coscienza dell’origine e la certezza della meta di bene cui l’uomo è chiamato, diventa impossibile spiegare il dinamismo profondo dell’esistenza e comprendere l’uomo. Già nella storia del popolo di Israele, soprattutto nell’esperienza dell’esodo descritta nell’Antico Testamento, emerge come la forza della speranza derivi dalla presenza paterna di Dio che guida il suo popolo, dalla memoria viva delle sue azioni e dalla promessa luminosa sul futuro.
L’uomo non può vivere senza una certezza sul proprio destino. “Solo quando il futuro è certo come realtà positiva, diventa vivibile anche il presente” (Benedetto XVI, Enc. Spe Salvi, 2). Ma su quale certezza l’uomo può fondare ragionevolmente la propria esistenza? Qual è, in definitiva, la speranza che non delude? Con l’avvento di Cristo la promessa che alimentava la speranza del popolo di Israele raggiunge il suo compimento, assume un volto personale. In Cristo Gesù il destino dell’uomo è stato strappato definitivamente dalla nebulosità che lo circondava. Attraverso il Figlio, nella potenza dello Spirito Santo, il Padre ci ha svelato definitivamente il futuro positivo che ci attende. “Il fatto che questo futuro esista, cambia il presente; il presente viene toccato dalla realtà futura, e così le cose future si riversano in quelle presenti e le presenti in quelle future” (ibid., 7). Cristo risorto, presente nella sua Chiesa, nei Sacramenti e con il suo Spirito, è il fondamento ultimo e definitivo dell’esistenza, la certezza della nostra speranza. Egli è l’eschaton già presente, colui che fa dell’esistenza stessa un avvenimento positivo, una storia di salvezza nella quale ogni circostanza rivela il suo vero significato in rapporto all’eterno. Se manca questa coscienza è facile cadere nei rischi dell’attualismo, nel sensazionalismo delle emozioni, in cui tutto si riduce a fenomeno, o della disperazione, nella quale ogni circostanza appare senza senso. Allora l’esistenza diventa una ricerca affannosa di avvenimenti, di novità passeggere, che, alla fine, risultano deludenti. Solo la certezza che nasce dalla fede permette all’uomo di vivere in modo intenso il presente e, nello stesso tempo, di trascenderlo, scorgendo in esso i riflessi dell’eterno cui il tempo è ordinato. Solo la presenza riconosciuta di Cristo, fonte della vita e destino dell’uomo, è capace di risvegliare in noi la nostalgia del Paradiso e così di proiettarci con fiducia nel futuro, senza paure e senza false illusioni.
I drammi del secolo scorso hanno ampiamente dimostrato che quando viene meno la speranza cristiana, quando cioè viene meno la certezza della fede e il desiderio delle “cose ultime”, l’uomo si smarrisce e diventa vittima del potere, inizia a chiedere la vita a chi la vita non può dare. Una fede senza speranza ha provocato l’insorgere di una speranza senza la fede, intramondana.
Oggi più che mai noi cristiani siamo chiamati a rendere ragione della speranza che è in noi, a testimoniare nel mondo quell’“oltre” senza il quale tutto rimane incomprensibile. Ma per questo occorre “rinascere” come disse Gesù a Nicodemo, lasciarsi rigenerare dai Sacramenti e dalla preghiera, riscoprire in essi l’alveo di ogni autentica certezza. La Chiesa, rendendo presente nel tempo il mistero dell’eternità di Dio, è il soggetto adeguato di questa certezza. Nella comunità ecclesiale la pro-esistenza del Figlio di Dio ci raggiunge; in essa la vita eterna, a cui tutta l’esistenza è destinata, diventa sperimentabile già da ora. “L’immortalità cristiana – affermava all’inizio del secolo scorso Padre Festugière – ha per carattere proprio di essere l’espansione di un’amicizia”. Cos’è infatti il Paradiso se non il compiersi definitivo dell’amicizia con Cristo e tra di noi? In questa prospettiva, prosegue il religioso francese, “poco importa in seguito dove ci si trovi. Il cielo è in verità là dove è il Cristo. Così il cuore che ama non desidera altra gioia se non quella di vivere sempre presso l’amato”. L’esistenza, dunque, non è un procedere cieco, ma è un andare incontro a colui che ci ama. Sappiamo quindi dove stiamo andando, verso chi siamo diretti e questo orienta tutta l’esistenza.
Eccellenza, auguro che questi brevi pensieri possano essere di aiuto per coloro che prendono parte al Meeting. Sua Santità Benedetto XVI desidera assicurare a tutti, con affetto, il Suo ricordo nella preghiera e, auspicando che la riflessione di questi giorni rafforzi la certezza che solo Cristo illumina pienamente la nostra esistenza umana, di cuore invia a Lei, ai responsabili e agli organizzatori della manifestazione, come pure a tutti i presenti, una particolare Benedizione Apostolica.
Unisco anch’io un cordiale saluto e mi valgo della circostanza per confermarmi con sensi di distinto ossequio dell’Eccellenza Vostra Reverendissima, dev.mo nel Signore,
Tarcisio Card. Bertone, Segretario di Stato di Sua Santità

OMELIA

S. ECC. MONS. FRANCESCO LAMBIASI:
Quel giorno – un giorno che fin dalle primi luci dell’alba deve essersi annunciato, per i Dodici, come il giorno più lungo da quando avevano cominciato ad andare dietro al Nazareno – dalle parti di Cesarea di Filippo, ai piedi dell’Hermon, furono pronunciate le parole più assolute e vertiginose che mai siano state dette e udite sotto la volta del cielo. Simone di Betsaida arrivò a dichiarare a Gesù di Nazaret: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. E Gesù, di rimando, promise a Simone di depositare nelle sue mani le chiavi del Regno, e arrivò a dichiarargli: “Tu sei Pietro e su di te come su una pietra edificherò la mia Chiesa. Tutto ciò che legherai o scioglierai sulla terra, sarà sciolto o legato nei cieli”. I cristiani non hanno paura di riconoscere che queste parole, del tutto indeducibili da carne e da sangue, rappresentino uno scandalo invalicabile per la ragione umana. Come può un uomo – fatto di carne e sangue, e quindi di nervi e di brividi, di sogni e di sudori, di rabbie, paure, sorrisi e lacrime – essere dichiarato nientemeno che figlio di Dio? E come può un altro uomo come Pietro – fatto pure lui di sangue e di carne, ma per giunta impastato di miserie e meschinità, ferito da sbandate, imbrattato da viltà e tradimenti – venire accreditato addirittura come il luogotenente, vicario di quell’uomo-Dio? Lo ammetteva senza contorsioni diplomatiche il giovane Joseph Ratzinger, il quale al riguardo si chiedeva: “Ci è davvero lecito aggrapparci al fragile stelo di un singolo evento storico? Possiamo correre il rischio di affidare l’intera nostra esistenza, anzi l’intera storia, a questo filo di paglia di un qualsiasi avvenimento, galleggiante nello sconfinato oceano della vicenda cosmica?”.
1. L’uomo Gesù è Dio
Chi è dunque nella sua più profonda identità questo Gesù di Nazaret? Cosa possiamo rispondere noi, se ci lasciamo folgorare dalla sua domanda rovente: “Ma voi chi dite che io sia?”. Venti secoli di dibattito hanno registrato rischi in un senso o nell’altro: sottolinearne talmente la divinità a scapito della sua autentica umanità, oppure rimarcarne l’umanità facendo scivolare in ombra la sua piena e perfetta divinità.
Riprendiamo l’affermazione di Pietro e proviamo a leggerla in senso bidirezionale: Gesù è il Figlio di Dio; il Figlio di Dio è Gesù.
Dire che Gesù è il Figlio di Dio significa dire che Gesù “è veramente e perfettamente Dio”. Chi nega la divinità dell’uomo Gesù e contemporaneamente lo ammira e lo esalta come il più umano degli uomini, il maestro più sapiente e più generoso nel donarsi, il profeta dei profeti della fratellanza universale, cade nell’abbaglio più tragico che la storia abbia mai registrato. Perché Gesù ha preteso di essere il Figlio di Dio in persona, e dunque o sono vere le sue parole, o hanno fatto bene Erode Antipa e i soldati del pretorio a deriderlo come pazzo, e le autorità ebraiche e romane a farlo fuori.
In effetti è storicamente indubitabile che Gesù abbia accampato delle pretese straordinarie, umanamente esorbitanti. Gesù è cosciente di essere mediatore di una nuova relazione con Dio, proprio perché si pone di fronte a lui come il Figlio, l’unico, l’unigenito, l’amato: “Il Padre ha messo tutto nelle mie mani. Nessuno conosce il Figlio se non il Padre. E nessuno conosce il Padre se non il Figlio e quelli ai quali il Figlio lo fa conoscere” (cfr Mt 11,27).
Per quanto non abbia mai ostentato la sua divinità, è lo stesso linguaggio, da lui usato, a ‘tradirlo’. Ha un modo troppo familiare di parlare con Dio, fino al punto da pregarlo in dialetto e di chiamarlo Abbà, Papà. Ha un modo troppo sicuro di parlare di Dio, come l’unico che reclama di non potersi sbagliare su di lui. Ha un modo troppo presuntuoso di parlare al posto di Dio, fino ad osare di rimettere i peccati. Un linguaggio così strabiliante rivela la coscienza di una unità talmente inscindibile con il Padre, che soltanto la fede può credere: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt 16,15-16).
2. Dio è l’uomo Gesù
Nel centro pulsante del messaggio cristiano non si incontra solo la divinità di Cristo, ma si intercetta pure l’umanità di Dio. I contemporanei di Gesù rifiutarono il suo messaggio e lo scomunicarono, perché l’immagine di Dio da lui offerta non combaciava con l’immagine di Dio da loro rivendicata. Per non naufragare nel vortice di questa insidiosa tentazione, il credente non ha altro scoglio a cui aggrapparsi dell’umile, povera, dimessa storia di Gesù, in cui contempla, con gli occhi stupiti della fede, la sorprendente tenerezza di Dio. Dalla storia di Gesù di Nazaret il cristiano apprende che la potenza di Dio non è un potere faraonico che schiaccia e annichila l’umano, ma una incredibile potenza d’amore che lo salva e lo esalta; che la gloria di Dio non oscura l’uomo, ma lo promuove e lo celebra; non lo scavalca, non lo deresponsabilizza, ma lo coinvolge in una impegnativa, appassionante collaborazione.
L’incarnazione va presa sul serio: facendosi uomo, Gesù è stato “messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato” (Ebr 4,15). Gesù è Dio che ha pensato con mente d’uomo, ha amato con cuore d’uomo, ha lavorato con mani d’uomo. Ha conosciuto la più premurosa compassione per i malati, la misericordia più sviscerata per i traviati. Ha testimoniato rabbia di fronte all’impermeabile ostinazione dei farisei. Ha provato tenerezza per i piccoli e i poveri, ha sperimentato angoscia e terrore di fronte alla morte.
Non prendere sul serio queste pagine evangeliche significa ridurre Gesù ad un super-man o ad un attore divino che gioca a recitare la parte dell’uomo. Al posto di un Dio vivente che si è fatto uomo, ci ritroveremmo fatalmente tra le mani un’idea evanescente di Dio fatta dall’uomo.
Ma sarà al mattino di Pasqua che Simon Pietro misurerà l’altezza, la lunghezza, la profondità del mistero di Cristo. Questo mistero non è un complicato rebus teologico, ma è in tutto e per tutto un mistero d’amore. Dopo la straziante morte in croce, alla luce abbagliante della risurrezione, Pietro rilegge la storia di Gesù come la rivelazione dello sconfinato, stupefacente amore di Dio per noi. Il Maestro aveva condiviso in tutto la vita dei discepoli e della povera gente, con le sue gioie e le sue pene, le sue fatiche e le sue incertezze, senza mai inseguire privilegi, senza mai esigere sconti, senza mai pretendere garanzie, esponendosi all’accoglienza e al rifiuto, all’amore più struggente, all’odio più implacabile. Non aveva abitato i palazzi del potere, non si era circondato di pretoriani o di gorilla, non aveva frequentato i circoli dei V. I. P. del tempo. Aveva amato tutti, sempre, dovunque, comunque. Aveva amato i poveri e i peccatori, recando loro la gioia del Padre che guarisce e perdona. Aveva amato gli indifferenti, incalzandoli con la spina dell’insoddisfazione e suscitando in essi il brivido del mistero, mediante il racconto inquietante delle parabole. Aveva amato i superbi e i soddisfatti proclamando con parole sferzanti il rischio mortale a cui li esponeva la loro boriosa, accigliata sazietà e offrendo ad essi, dalla croce, la disarmante forza del perdono.
Ecco l’Uomo! Ecco il Dio fatto uomo! Pietro l’aveva rinnegato, e dopo aver incrociato il suo sguardo quella notte amarissima, si era sciolto in lacrime, per il tormento di averlo tradito e per la irrefrenabile commozione di vedersi da lui perdonato. Ma quando poi lo incontrò di nuovo vivo quel mattino sul mare di Tiberiade e il Risorto gli chiese per tre volte se lo amava, e per tre volte Simone di Giovanni gli protestò il suo affetto e si vide consegnare le pecore e gli agnelli della sua Chiesa, quel giorno Pietro imparò che il verbo amare, quando ha per soggetto Cristo, non può più essere declinato al passato, perché, come Dio, il Risorto è ormai l’eterno presente, e può dire non ad anni pari o a giorni alterni, ma sempre e per sempre: “Io-Sono-Amore“.
La Chiesa è la compagnia di quanti condividono con Pietro-Benedetto che credere vuol dire “tuffarsi nell’universale apertura di un incondizionato amore”. E con Pietro-Benedetto confessare Cristo vuol dire “riconoscere come Cristo l’uomo che abbisogna di me, vedendo in quella povera creatura umana lui stesso, così come qui e ora mi si fa incontro; vuol dire quindi accogliere l’appello dell’amore come rivendicazione della fede”.
Così, solo così l’esistenza diventa una immensa certezza.

(Trascrizione non rivista dai relatori)

Data

21 Agosto 2011

Ora

10:00

Edizione

2011
Categoria
Incontri