Santa Messa

Celebra S. Ecc. Mons. Francesco Lambiasi, Vescovo di Rimini.

 

EMILIA GUARNIERI:
Vi do lettura del messaggio del Santo Padre, indirizzato a S. Ecc. Mons. Lambiasi, Vescovo di Rimini:

“Eccellenza Reverendissima,

in occasione della XXIX edizione del Meeting per l’Amicizia tra i Popoli, in programma a Rimini dal 24 al 30 agosto p.v., mi è gradito far pervenire a Lei, ai promotori e a quanti prendono parte a codesta significativa manifestazione il saluto cordiale di Sua Santità Benedetto XVI.

Il provocatorio titolo dell’incontro: “O protagonisti o nessuno” colpisce immediatamente l’attenzione. In verità, è questo il preciso intento degli organizzatori: far «riflettere sul concetto di persona». Che cosa significa infatti essere protagonisti della propria esistenza e di quella del mondo? La domanda si fa oggi urgente, perché l’alternativa al protagonismo sembra essere spesso una vita senza senso, il grigio anonimato dei tanti «nessuno» che si confondono tra le pieghe di una massa informe, incapaci purtroppo di emergere con un proprio volto degno di nota. L’interrogativo allora va meglio focalizzato e potrebbe essere così riformulato: che cosa dà un volto all’uomo, che cosa lo rende inconfondibile, assicurando piena dignità alla sua esistenza?

La società e la cultura, in cui siamo immersi e di cui i mezzi di comunicazione costituiscono una potente cassa di risonanza, sono largamente dominate dalla convinzione che la notorietà costituisca una componente essenziale della propria realizzazione personale. Emergere dall’anonimato, riuscire ad imporsi all’attenzione pubblica con ogni mezzo e pretesto, questo è lo scopo perseguito da molti. Il potere politico o economico, il prestigio raggiunto nella propria professione, la ricchezza messa in bella mostra, la notorietà delle proprie realizzazioni, l’ostentazione fin anche dai propri eccessi… tutto questo è considerato pacificamente come «successo», come riuscita della propria vita. Ecco perché sempre più spesso le nuove generazioni ambiscono a professioni e carriere idealizzate proprio perché offrono una ribalta che consente loro di apparire, di sentirsi “qualcuno”. L’ideale a cui mirano è rappresentato dagli attori del cinema, dai personaggi e miti della televisione e dello spettacolo, dagli atleti, dai giocatori di calcio, ecc..

Ma che ne è di chi non accede a un tale livello di visibilità sociale? Che ne è di chi è dimenticato, se non addirittura schiacciato dalle dinamiche della riuscita mondana su cui è impostata la società in cui vive? Che ne è di chi è povero, inerme, malato, anziano o disabile, di chi non ha talenti per farsi strada tra gli altri o è senza mezzi per coltivarli, di chi non ha voce per far sentire le proprie idee e convinzioni? Come considerare chi conduce una vita oscura, senza apparente rilevanza per giornali e televisioni? L’uomo di oggi, come quello di tutti i tempi, tende alla propria felicità e la insegue dovunque crede di poterla trovare. Ecco quindi il vero interrogativo che si nasconde sotto la parola «protagonismo», che il Meeting propone quest’anno alla nostra riflessione: in che cosa consiste la felicità? Che cosa può veramente condurre l’uomo a conseguirla?

Il Papa Benedetto XVI ha indetto quest’anno uno speciale anno giubilare dedicato a un «campione» della cristianità di tutti i tempi, il fariseo di Tarso di nome Saulo, che dopo aver perseguitato con furore la Chiesa delle origini, si convertì all’irrompere della chiamata del Signore. Da quel momento egli servì la causa del Vangelo con dedizione totale, percorrendo instancabilmente il mondo allora conosciuto e contribuendo a porre le basi di quella che sarebbe diventata la cultura europea, informata dal Cristianesimo.

Rari sono gli spiriti che hanno mostrato una vastità di conoscenze e un acume pari ai suoi. Le sue Lettere manifestano la forza esplosiva della sua personalità appassionata ed hanno attratto milioni di lettori, esercitando un’influenza unica su generazioni e generazioni di uomini, su interi popoli e nazioni. Attraverso i suoi scritti, Paolo non cessa di presentare Cristo come autentica fonte di rispetto tra gli uomini, di pace tra le nazioni, di giustizia nella convivenza. Noi tutti, a duemila anni di distanza, possiamo ancora considerarci “figli” della sua predicazione e la nostra civiltà sa di essere debitrice a quest’uomo proprio per i valori che stanno alle sue fondamenta.
Eppure l’esistenza di san Paolo è ben lontana dalle luci della ribalta e dai pubblici riconoscimenti. Quando egli morì, la Chiesa che aveva contribuito a diffondere era ancora un piccolo seme, un gruppo che le somme autorità dell’Impero Romano si potevano permettere di trascurare o di provare a schiacciare nel sangue. L’esistenza di Paolo, esaminata nella sua quotidianità, appare inoltre tribolata, afflitta da ostilità e pericoli, piena di difficoltà da affrontare più ancora che di con consolazioni e gioie di cui godere. È lui stesso a darne testimonianza viva in moltissimi passi dei suoi scritti. Ecco cosa dice, per esempio, nella Seconda Lettera al Corinti: «Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i trentanove colpi; tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balia delle onde. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte di falsi fratelli; fatica e travaglio, veglie senza numero farne e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità. E oltre a tutto questo, il mio assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le Chiese. Chi è debole, che anch’io non lo sia? Chi riceve scandalo, che io non ne frema?» (11,24-19). Questa corsa a ostacoli – cosi la potremmo definire -, compiuta con la forza e nel nome del suo Redentore, Paolo la concluse a Roma, dove condannato a morte venne decapitato. Assieme a lui, nell’infuriare della persecuzione dell’Imperatore Nerone, morirono molti altri cristiani e tra questi Pietro, il pescatore di Galilea e capo della Chiesa.

La vita di Paolo può essere considerata veramente «riuscita»? Siamo qui dinanzi al paradosso della vita cristiana come tale. Che cosa significa infatti per il cristiano «riuscire»? Che cosa ci dicono le vite di tanti santi che hanno trascorso la loro esistenza ritirati nei conventi? Che cosa ci dicono le vite e le morti di innumerevoli martiri cristiani, i cui nomi sono sconosciuti ai più, i quali hanno concluso l’esistenza, non tra le acclamazioni, ma circondati dal disprezzo, dall’odio e dall’indifferenza? Dove sta dunque la «grandezza» della loro vita, la luminosità della loro testimonianza, il loro «successo»?

Anche di recente il Santo Padre Benedetto XVI ha ricordato che l’uomo è fatto per il compimento eterno della sua esistenza. Ciò va ben oltre la semplice riuscita mondana e non è in contraddizione con l’umiltà delle condizioni in cui si svolge il suo pellegrinaggio sulla terra. Il compimento dell’umano è la conoscenza di Dio, da cui ogni persona è stata creata e a cui tende con ogni fibra del proprio essere. Per conseguire questo, non serve né fama né successo presso le folle. Ecco dunque il protagonismo che il titolo della presente edizione del Meeting di Rimini punta a riproporre, Protagonista della sua esistenza è chi dona la sua vita a Dio, che lo chiama a cooperare all’universale progetto della salvezza.
Il Meeting vuole ribadire che solo Cristo può svelare all’uomo la sua vera dignità e comunicargli l’autentico senso della sua esistenza. Quando il credente lo segue docilmente è in grado di lasciare una traccia duratura nella storia. È la traccia dell’Amore di cui diviene testimone proprio perché afferrato dall’Amore. Ed allora ciò che fu possibile per san Paolo lo diventa anche per ciascuno di noi. Non importa se il disegno di Dio prevede per noi un ridotto raggio d’azione; non importa se viviamo tra le pareti di un monastero di clausura o se siamo immersi in molteplici e diverse attività del mondo; non importa se siamo padri e madri di famiglia o consacrati o sacerdoti. Dio si serve di noi secondo il suo piano d’amore, secondo modalità che Lui stabilisce e ci chiede di assecondare l’azione del suo Spirito; ci vuole suoi collaboratori per la realizzazione del suo Regno. A ciascuno dice: «Vieni e seguimi» (Le 18, 22), e soltanto seguendolo l’uomo conosce la vera esaltazione del suo io.
Questo ci insegna l’esperienza dei santi, uomini e donne, che molto spesso hanno vissuto la loro fedeltà a Dio in maniera discreta e ordinaria. E tra di loro troviamo molti veri protagonisti della storia, persone pienamente realizzate, esempi viventi di speranza e testimoni di un amore che nulla teme, nemmeno la morte.
Il Santo Padre auspica che queste riflessioni aiutino i partecipanti al Meeting a incontrare Cristo, per meglio comprendere il valore della vita cristiana e realizzarne il senso nell’umile protagonismo del servizio alla missione della Chiesa, in Italia e nel mondo. A tale scopo Egli assicura la sua preghiera per la buona riuscita del Meeting ed invia a Lei, agli organizzatori e a tutti i presenti una speciale Benedizione.
Unisco ben volentieri i miei fervidi voti augurali per un proficuo successo della manifestazione, e profitto volentieri della circostanza per confermarmi con sensi di distinto ossequio

dev.mo nel Signore
Tarcisio Card. Bertone
Segretario di Stato

Nella Santa Messa che celebriamo oggi, preghiamo in maniera tutta particolare in suffragio del nostro carissimo amico Claudio Chieffo, di cui sono trascorsi pochi giorni dal primo anniversario della morte.

SANTA MESSA. OMELIA DI SUA ECC. MONS. FRANCESCO LAMBIASI

Nella sua magistrale introduzione al cristianesimo, consegnata alle stampe esattamente quarant’anni fa nell’estate del 1968, una delle più roventi del secolo scorso, Josef Ratzinger scriveva: l’uomo non raggiunge veramente se stesso tramite ciò che fa bensì tramite ciò che riceve, egli è tenuto ad attendere il dono dell’amore e non può accogliere l’amore che sotto forma di gratuita elargizione. Non si può fare l’amore da soli senza l’altro, bisogna invece attenderselo, farselo dare e non si può divenire integralmente uomini fuorché venendo amati, lasciandosi amare. Le parole del giovane teologo di Tubinga non solo ci aiutano ad incrociare il messaggio del Santo Evangelo appena proclamato con il tema suggestivo e quanto mai intrigante di questo Meeting, il passo citato ci dà anche modo di vedere come il collegamento tra la parola del Signore che conferisce a Simone Bariona una nuova identità: “Tu sei Pietro” e il titolo del Meeting o “Protagonisti o Nessuno”, sia un collegamento fondato e legittimo oltreché fecondo di luce per il cammino dei prossimi giorni seppure, è ovvio, abbia bisogno di qualche passaggio che ora vorrei provare ad esplicitare. Ripartiamo dall’evento di Cesarea di Filippo, uno squarcio di luce piovuta dall’alto, un momento breve come un sibilo ma gremito di vita eterna. Alla domanda imbarazzante posta a sorpresa dal Maestro: ma voi, voi chi dite che io sia? Pietro rispose senza esitare: tu sei il Cristo il Figlio del Dio vivente e fu come se la storia dei dodici, la storia di Israele su su fino ai profeti lontani, fino al Padre Abramo si trovasse raccolta in quelle parole troppo grandi per venire direttamente dal figlio di Giona. Di più, quel giorno, fu come se il cielo si aprisse una terza volta dopo il Giordano e il Tabor, a illuminare non solo Lui, Gesù di Nazaret finalmente riconosciuto in terra come il Messia, il Figlio di Dio in carne e ossa. Oltre che su di lui, il cielo questa volta si squarciava anche su Simone che riceveva una nuova identità. Non era più semplicemente un anonimo pescatore condannato a raschiare il lago di Tiberiade per sottrargli qualche pesce sempre troppo scarso per le tante bocche da sfamare. No, Simone veniva accreditato né più né meno come la roccia della Chiesa. Da quella risposta non prodotta da carne e sangue ma suggerita direttamente dal Padre che sta nei cieli, il figlio di Giona veniva generato come uomo nuovo e si vedeva automaticamente registrato nell’anagrafe del Regno dei cieli con una identità impensabile: “io dico a te, tu sei Pietro”. Simone assumeva così il nome di pietra, con la missione vertiginosa di reggere sulle sue spalle di povero peccatore, reso indefettibilmente pescatore di uomini, la nuova casa dei credenti, la Santa Chiesa di Cristo. Ti chiamerai Chefas, Pietro. Questa era stata la promessa fin dal primo giorno con quel rabbì misterioso e seducente, piovuto da Nazaret, un’oscura borgata da cui secondo Natanaele non poteva venire nulla di buono. Ora nei pressi di Cesarea è la stessa parola fatta carne che dice il nuovo nome di Simone e gli dona una nuova esistenza. E’ sempre Lui che dice il mio nome. Come io da Lui sono chiamato, quello è il mio nome e quello io sono e non un altro. La mia identità è dono che viene dal Dio amore che mi chiama perché mi ama. Come appunto scriveva Ratzinger quarant’anni fa. L’uomo trova se stesso lasciandosi amare e chiamare dal Dio amore e così diventa integralmente umano, potremmo dire autentico protagonista. Questa certezza, fratelli e sorelle, voi lo sapete, fa parte del Dna del cristianesimo ma è stata messa in questione dalla modernità che ha collocato l’uomo al centro dell’universo, affidando a lui, e solo a lui, la responsabilità del destino suo personale e quello dell’intera umanità. Nei Manoscritti economico filosofici del 1844, Marx aveva dichiarato che l’uomo è indipendente quando non vive per grazia di un altro, quando la sua vita è la sua propria creazione, quando in ultima analisi si sbarazza di Dio. Lo stesso Marx aveva indicato l’emblema dell’uomo moderno, finalmente liberato dall’alienazione religiosa, in Prometeo, l’eroe della mitologia greca che dà la scalata all’Olimpo per rubare il fuoco agli dei e portarlo sulla terra, aprendo così la marcia trionfale dell’umanità verso il sol dell’avvenire. E per questo. sempre secondo Marx. meritava di essere collocato addirittura in cima al calendario di quelli che lui chiamava i santi atei. La certezza tutta cristiana che non sono io il creatore del mio io, insomma che io non mi posso autogenerare né autopartorire ma sono stato creato e poi rigenerato da un Dio che è Padre e dunque vuole la mia più piena realizzazione e non il mio annientamento, la mia distruzione, questa certezza viene negata pure dalla postmodernità, che si presenta a dominante narcisista. Ricordiamo anche qui un altro mito della letteratura greca: Narciso è un giovane bellissimo, innamorato della sua immagine fino al punto da non comunicare con altri se non con la sua eco. Narciso si può infatti tutt’al più autoclonare, non può né autoconcepirsi né da sé solo generare. Un giorno, vagando tra i boschi, egli giunge alla riva di un laghetto ghiacciato. Comincia allora a rimirarsi e, nel desiderio di abbracciare la sua immagine, si sporge fino a sprofondare nello specchio di acqua gelata e così muore. Narciso non è un uomo cattivo, è un giovane triste, si porta in cuore il sogno di essere felice ma è vittima di una terribile illusione, quella di potersi procurare la felicità da solo. Narciso non è ateo, è idolatra, il suo dio è il suo io, egli adora se stesso, la sua è auto-latria una vera io-latria. Ma l’amore morboso per il proprio io è droga che porta diritto alla fase terminale, non per nulla, sempre secondo il mito greco, Narciso è il nome del fiore soporifero che intreccia le corone delle divinità dei morti, Orfeo e Persefone. Anche il termine narcosi, è imparentato esso pure con Narciso. La cultura moderna e post moderna ci confermano in negativo che il vero protagonismo non è quello dell’uomo che si vuole affermare contro Dio e sopra gli altri o si illude di realizzarsi senza Dio e senza gli altri. Solo Cristo ci salva dai deliri allucinanti di onnipotenza prometeica e dai miraggi disperanti e ossessivi del narcisismo. Il filosofo danese Sören Kierkegaard ha scritto: si parla tanto di vite sprecate ma sprecata è soltanto la vita di quell’uomo che l’ha lasciata passare ingannato dai piaceri della vita e dalle sue preoccupazioni, in modo che non diventò mai, non diventò mai, con una decisione eterna, consapevole di se stesso come spirito, come io. Oppure, ed è lo stesso, perché mai quell’uomo ebbe, nel senso più profondo, l’impressione che esiste un Dio e che lui, proprio lui, il suo io sta davanti a questo Dio. E concludeva: mi sembra di poter piangere per una eternità al pensiero che esista questa miseria. E’ vero “o protagonisti o nessuno”; ma protagonisti, ha scritto Don Giussani, non vuol dire avere la genialità o la spiritualità di alcuni, ma avere il proprio volto, avere il proprio volto che è in tutta la storia e l’eternità unico e irripetibile. Questo è il paradosso della Chiesa di Gesù Cristo, fondata sulla roccia della fede di Pietro. Tutti fondamentalmente uguali, perché tutti ugualmente fratelli, ma nessuno più eccellente o eminente di un altro, perché uno solo è il Maestro Signore. Pretendere statuti privilegiati significherebbe fare velo alla sola vera superiorità, la Sua, la quale deve brillare unica e intatta. Uguaglianza, quindi, ma non omologazione, uniformità e conformismo. Nella Chiesa siamo tutti somiglianti a Cristo ma ognuno con il suo volto individuale, inconfondibile, insostituibile. Realizzando in ogni battezzato l’immagine dell’unico modello, quello di Cristo, lo Spirito Santo esalta l’originalità di ognuno. A ciascuno, ci dice Paolo, è data una manifestazione particolare dello Spirito, per il bene comune. Così accade la santità, uno spettacolo variopinto, policromo, polifonico. Citando lo scrittore francese Jean Guitton nell’ultima udienza generale, quella di mercoledì scorso, il Papa ha detto: i Santi sono come i colori dello spettro in rapporto alla luce, perché con tonalità e accentuazioni proprie ognuno di loro riflette la luce della santità di Dio. E’ vero, Pietro, Paolo, Giovanni riverberano qualche tratto del santo volto, ma ognuno in modo singolare, originale e irripetibile. Nessun santo, nessun testimone della fede è rimpiazzabile con un’altro. Giovanni Paolo I non si può scambiare con Giovanni Paolo II, Teresa di Calcutta non è sostituibile con Chiara Lubich, Don Giussani con Don Benzi. Protagonismo nel senso evangelico e santità cristiana sono dunque intercambiabili. Aderendo a Cristo, pietra viva, scrive l’apostolo Pietro, anche noi veniamo impiegati come pietre vive per la costruzione della santa Chiesa di Cristo, a cominciare dalla prima pietra, lui, Simone figlio di Giona, la pietra di fondamento che si lascia mettere sotto tutto, in basso, per reggere tutta la cattedrale e non pretende di andare a finire in cima ad una cupola che tutti guardano e ne restano abbagliati. Ciò che conta è comunque trovarsi là dove si viene messi dal divino Architetto. Ogni pietra ha il suo posto, questo è il volto ultimo del protagonismo cristiano. Un giorno un discepolo si rivolse ad Abba Antonio e gli chiese: Abba che cosa ti aspetti che ti chieda il Signore quando ti presenterai davanti a Lui? Non mi chiederà, rispose Abba Antonio, perché non sono stato Abramo o Mosè o Pietro ma perché non sono stato Antonio. Lo Spirito del Risorto, fratelli e sorelle, ci aiuti a diventare come Maria, che Dante definiva la faccia che a Cristo più si somiglia e ben ha ragione, perché Maria è davvero il modello più alto di protagonismo cristiano, lei che si lascia guardare, abbracciare per misericordia di Dio nella sua povertà e che proprio per questo permette a Dio di fare cose grandi in lei, Lui che è misericordioso e santo è il Suo nome. E allora che Maria, e questo è il mio augurio come vescovo di questa città, di questa Diocesi che vi accoglie tutti, fratelli e sorelle, che Maria ci ricordi sempre che quanto più un cristiano diventa fedelmente conforme al Figlio di Dio, tanto più diventa autenticamente conforme al suo vero io.

(Trascrizione non rivista dai relatori)

Data

24 Agosto 2008

Ora

11:15

Edizione

2008
Categoria
Incontri