SANITÀ PER TUTTI: UN SISTEMA CON UNA DATA DI SCADENZA?

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Giorgio Bordin, Presidente Medicina e Persona; Raffaele Donini, Coordinatore della commissione Salute della Conferenza delle Regioni; Fabio Pammolli, Professore ordinario di economia e management, Politecnico di Milano; Orazio Schillaci, Ministro della Salute; Riccardo Zagaria, Amministratore Delegato DOC Generici. Modera Carlo Lucchina, Componente Consiglio di Amministrazione Istituto Sacra Famiglia.

Un servizio sanitario amico, sussidiario e solidale mette la persona che ha un bisogno di salute e di assistenza sanitaria al centro del proprio interesse, cerca di offrire servizi in maniera equa e solidale su tutto il territorio nazionale e con accessibilità in tempi ragionevoli, fa della presa in carico del paziente un punto di forza e adotta la prossimità dei servizi come metodo di affronto del bisogno. Per questo ha necessità di un giusto finanziamento, deve poter contare su professionisti preparati e adeguatamente motivati, deve garantire a tutti l’accesso alle cure ed alle terapie secondo i tempi definiti dal bisogno, deve rispondere all’emergenza, all’acuzie, ed alla cronicità, e deve perseguire senza esitazioni il diritto dei suoi cittadini ad essere curati nel migliore dei modi possibili. È così il nostro SSN?

Con il sostegno di Diatech Pharmacogenetics e DOC Generici.

SANITÀ PER TUTTI: UN SISTEMA CON UNA DATA DI SCADENZA?

 

SANITÀ PER TUTTI: UN SISTEMA CON UNA DATA DI SCADENZA?

 

Lunedì, 21 agosto 2023ore: 19.00

Sala Ferrovie dello Stato B2

 

Partecipano:

Giorgio Bordin, Presidente Medicina e Persona; Raffaele Donini, Coordinatore della commissione Salute della Conferenza delle Regioni; Fabio Pammolli, Professore ordinario di economia e management, Politecnico di Milano; Orazio Schillaci, Ministro della Salute; Riccardo Zagaria, Amministratore Delegato DOC Generici.

 

Modera:

Carlo Lucchina, Componente Consiglio di Amministrazione Istituto Sacra Famiglia.

 

Lucchina. Signore e signori, buon pomeriggio. Il titolo di questo incontro è già intrigante per natura: “Sanità per tutti: un sistema con una data di scadenza?” Questo perché? E credo che sia l’argomento di riflessione di questo pomeriggio. Noi abbiamo un sistema sanitario universalistico, volutamente universalistico, nel rispetto dell’articolo 32 della Costituzione: ci siamo dotati di prestazioni obbligatorie, che sono i livelli essenziali di assistenza, abbiamo il diritto-dovere di prendere in cura le persone, prendercele in carico dalla prevenzione, dall’età scolare all’età adulta fino alla terza età e di combattere tutto quanto ne consegue. Il problema è capire se c’è la possiamo fare, se siamo arrivati a un punto dove si manifesta una preoccupazione sulla capacità di avere le risorse necessarie e sufficienti e i modelli organizzativi necessari e sufficienti per potercela fare. Di questo stasera ne discutiamo col professor Fabio Pammolli, che è Professore ordinario di Economia e Management al Politecnico di Milano, con Giorgio Bordin, che è Presidente di Medicina e Persona, con Riccardo Zagaria, che è l’Amministratore Delegato di DOC Generici e con Raffaele Donini, che è il Coordinatore della Commissione Salute della Conferenza delle Regioni. Questo pomeriggio doveva essere con noi anche il Ministro Schillaci, che purtroppo ha avuto un impegno particolare, personale e, quindi, non è potuto intervenire. Il ministro Schillaci, però, ci ha fatto avere una sua nota, che vi leggo e può essere anche la premessa per gli interventi successivi, perché è la posizione del Ministro riguardo all’argomento che discutiamo questa sera.

 

Nota di ORAZIO SCHILLACI: “Buonasera. Saluto e ringrazio il Presidente della Fondazione “Meeting per l’amicizia tra i popoli”, Bernhard Scholz, per l’invito; saluto i relatori, il moderatore e tutti i partecipanti a questa serata. Mi scuso se non posso essere presente, ma ci tenevo a far avere il mio contributo nell’ambito della sessione dedicata a un tema fondamentale qual è la salute e il nostro Servizio sanitario nazionale. Un servizio sanitario che è e resta fortemente ancorato ai principi di universalità, equità e uguaglianza, e che non è in scadenza. Ha bisogno di una forte cura ricostituente per troppo tempo rimandata, questo sì; abbiamo trovato un sistema ingolfato che va ripensato. Per anni non si è innovato per rispondere ai cambiamenti intervenuti, innanzitutto epidemiologici, e questa mancanza di lungimiranza ha determinato numerose criticità che si sono sedimentate e con la pandemia acuite. Ma non siamo al capolinea, nonostante a qualcuno piaccia crederlo. Vogliamo rendere più attrattivo il nostro sistema sanitario agendo su due leve: quella economica – stipendi migliori agli operatori della sanità – e quella organizzativa – rivedere un modello che non funziona come dovrebbe –. Dobbiamo iniziare a pensare che la salute è un bene comune, un tema che unisce, non che divide. Da dove partire? Dai cittadini ai quali siamo impegnati a dare risposte, cure, assistenza di qualità in tempi giusti e garantite su tutto il territorio nazionale; dagli operatori della sanità, attraverso gratificazioni economiche, prospettive di carriera e ponendo le condizioni perché possano operare in serenità. Ma occorre anche poter contare su un maggior numero di risorse umane e ciò vuol dire anche liberarci di paletti e tetti di spesa vari imposti da una vecchia visione ragionieristica della sanità. Ereditiamo un decennio di tagli lineari che è costato 37 miliardi alla sanità. La pandemia ha dimostrato che non avere investito in salute è stato un errore, perché la crisi sanitaria è diventata crisi economica e sociale. Questo governo ha dato subito un segnale, aumentando le risorse del fondo sanitario nazionale, 8 miliardi in più sul triennio 2023-2025; con la prossima legge di bilancio puntiamo a risorse aggiuntive del fondo che intendo destinare prioritariamente al personale sanitario. Abbiamo già adottato incentivi partendo dal settore dell’emergenza-urgenza e approvato norme che impediscono il ricorso ai medici a gettone, le cosiddette “cooperative”; ora lavoriamo a misure per potenziare gli organici. Abbiamo approvato i nuovi livelli essenziali di assistenza che risalgono al 2017 e aggiornato tariffe che erano ferme dal 1996 e ho preso di petto da subito il problema delle liste d’attesa, assicurando alle Regioni i fondi per accelerare i piani di recupero: i soldi ci sono, ho chiesto alle Regioni di spenderli, e spenderli bene. Nell’ambito della riforma che stiamo mettendo in campo, il PNRR è un’ulteriore tassello per costruire una sanità di prossimità che sappia dare risposte appropriate ai bisogni di salute e di integrazione socio-sanitaria. Riguardo la proposta di rimodulazione del PNRR, l’impianto della “missione salute” resta lo stesso: non ci sono cambiamenti sostanziali se non rimodulazioni utili a rispondere a difficoltà che alcune Regioni stanno avendo sul fronte dell’aumento dei costi. Altro fattore chiave per la sanità del futuro è la digitalizzazione: penso alla telemedicina, su cui siamo in fase avanzata, che gioca un ruolo essenziale per il potenziamento della sanità di prossimità, o al fascicolo sanitario elettronico, che finalmente è entrato nella sua fase operativa. Infine voglio richiamare l’attenzione sull’importanza della prevenzione: un sistema che non solo cura, ma che sa prevenire garantisce più salute, quindi meno malati in futuro e più sostenibilità del sistema sanitario. Basti pensare che le malattie croniche non trasmissibili hanno superato quelle infettive come principale causa di morte nel mondo: la prevenzione attraverso corretti stili di vita è un’arma fondamentale per contrastarle. Concludo ribadendo una differenza importante rispetto al passato: siamo impegnati in una strategia di medio-lungo termine. Gli interventi-tampone o il semplice aumento di fondi non hanno mai portato nei fatti a garantire la salute a tutti. Serve ripensare a una medicina pubblica più vicina alle persone e più innovativa. A questo stiamo lavorando insieme a Regioni, associazioni e parti sociali, che da subito hanno condiviso un dialogo costruttivo e propositivo, e continueremo a impegnarci per il bene del Servizio sanitario nazionale e di tutti noi. Vi ringrazio ancora per questo momento di confronto, e auguro buon lavoro a tutti voi e un successo sempre maggiore a una manifestazione ricca di spunti e di contributi importanti come il Meeting di Rimini.”

 

Lucchina. Ecco, signori, questa è la lettera che il Ministro Schillaci ci ha fatto pervenire, che identifica alcune posizioni, oserei dire, ben precise, soprattutto riguardo alla richiesta di ulteriori fondi.

Ma su questo vorrei sentire cosa ne pensa il Professor Pammolli, perché il Professor Pammolli è un conoscitore del sistema sanitario dal punto di vista finanziario, evidentemente ed economico, ma del sistema sanitario si tratta. Quindi, riusciamo a trovare l’equilibrio fra risorse disponibili e i livelli essenziali di assistenza? Perché l’obbligo che noi abbiamo a livello costituzionale, peraltro sancito da giurisprudenza consolidata dalla Corte Costituzionale, è: il sistema deve rispettare ed erogare i livelli essenziali di assistenza, che possano essere garantite a tutti condizioni di appropriatezza ed efficienza. Quindi, si può chiedere al nostro Servizio sanitario nazionale che possa garantire l’erogazione dei LEA in queste situazioni? Se mancano risorse, a suo parere,  ne sentiamo di tutti colori,  c’è chi parla di qualche miliardo in più, di qualche decina di miliardi, eccetera, quale potrebbe essere la necessità effettiva?

 

Pammolli. Intanto grazie per l’invito. E’ è sempre un piacere venire al Meeting e partecipare al confronto in questa sede. Anticipo la risposta, che è sì; poi mi prendo una parentesi per cercare di dare un quadro e di argomentare la ragione che mi porta a dire sì. Parto però da un’analisi molto rapida che mette in evidenza anche le sfide che abbiamo e che ci attendono. In primo luogo, io credo che noi dobbiamo ricordare il fatto che il Paese ha un livello di spesa pubblica elevato e ha accumulato nel corso del tempo un livello di incidenza del debito pubblico sul Prodotto interno lordo che è secondo solo a quello della Grecia, a livello europeo. Dico questo perché naturalmente questa situazione macroeconomica espone il paese a una sfida della sostenibilità complessiva dell’insieme dei conti pubblici e alla sfida della crescita, perché è chiaro che se aumenta la velocità con la quale facciamo crescere l’economia, abbiamo anche un beneficio rispetto al rapporto debito-PIL. Questo, in una fase in cui i tassi di interesse non sono più i tassi di interesse di due anni fa: i tassi di interesse sono tassi di interesse più elevati. È vero che abbiamo anche una dinamica inflattiva che normalmente nella storia è sempre stata considerata buona per chi è molto indebitato; purtroppo non è più così, perché i mercati aggiustano molto velocemente il costo delle emissioni obbligazionarie e, quindi, la verità è che l’incremento dei tassi per un Paese molto indebitato aumenta la portata della sfida. Scusate questa breve parentesi, però è importante dare la cornice entro la quale poi quei diritti costituzionalmente sanciti – e richiamerò anch’io un po’ della giurisprudenza che citavi – si inseriscono. La seconda considerazione è un dato che non ci deve spaventare, ma ci deve far riflettere. Ogni occupato in Italia, ogni persona che lavora, contribuisce al finanziamento del welfare anziano del pilastro pubblico – quindi pensioni, sanità e assistenza – con un valore che è superiore al 66% del PIL pro capite; quindi da un lato abbiamo la platea degli occupati, ciascun occupato ha un proprio reddito da lavoro,  naturalmente la tassazione generale e le addizionali regionali, poi, costituiscono un elemento di carico fiscale, oltre che la contribuzione al pilastro previdenziale pubblico, che è a ripartizione; quindi, anche se noi nominalmente accantoniamo quell’importo per la nostra pensione futura, che sarà calcolata sulla base dei contributi versati, quella liquidità viene utilizzata per pagare le pensioni in corso di erogazione. Il 66% del PIL pro capite. Il valore corrispondente per la Germania è di 24 punti percentuali più basso, analogamente a quello che accade per la Spagna: la Francia è un po’ più vicina all’Italia. Perché dico questo? Perché questo è un secondo elemento che ci deve far capire che queste tendenze di lungo periodo – le tendenze demografiche che richiamava anche il Ministro Giorgetti questa mattina – sono tendenze che richiedono interventi di carattere strutturale macro; i tedeschi lo hanno fatto sviluppando il pilastro pensionistico complementare a capitalizzazione, quindi, i fondi e questo determina anche la possibilità, introducendo delle flessibilità nello smobilizzo del montante, di avere una componente che va a cofinanziare la parte di long take care, ad esempio; gli olandesi lo hanno fatto con un’altra soluzione che è stata quella di introdurre una componente assicurativa obbligatoria, un po’ come l’RCA della sanità, che però ha finanziato tutte le residenze degli anziani e la permanenza del degli anziani all’interno di queste residenze. Faccio questa parentesi per dire che una parte della risposta è una parte che ha a che vedere con queste grandi tendenze di finanza pubblica, da un lato, e di sostenibilità dall’altro. Venendo a noi abbiamo una seconda sfida, oltre a quella demografica, che è quella tecnologica, che è un bene. Abbiamo fatto con alcuni amici e colleghi un lavoro che è stato pubblicato qualche anno fa che si chiama The endless Frontier, “la frontiera senza fine”, che riguarda il fatto che l’innovazione sanitaria e farmaceutica continua a dispiegarsi perché la nostra comprensione delle patologie – patologie che non comprendevamo vent’anni fa – sono oggi oggetto di innovazione; questa innovazione naturalmente si manifesta non con la sostituzione di terapie con terapie a più basso costo – poi magari avremo degli approfondimenti –, ma con l’espansione della frontiera: quindi malati che prima non erano cronicizzabili diventano cronicizzabili e naturalmente questo ha un costo. Alcuni flash. Primo, io sono tifoso della Fiorentina, quindi sono abituato a fare con quello che ho. E il primo punto è quello di vedere come riusciamo a fare con quello che abbiamo, regola semplice. Allora, per rispondere alla tua domanda: ci sono varie stime che stimano il cosiddetto output gap, cioè quanto in termini di livelli essenziali di assistenza le singole Regioni erogano rispetto a delle stime del fabbisogno standard di quella Regione. È un quadro non omogeneo sul territorio nazionale. Purtroppo le Regioni che sono più in difficoltà finanziaria sono anche quelle che erogano volumi di sanità più bassi. Non voglio dare qui una stima percentuale di questo gap, però dico anche che accanto a questo gap ci sono anche margini, ed è doveroso porci di fronte al sistema con l’occhio di chi cerca di proseguire nel lavoro che le Regioni e la Ragioneria Generale dello Stato hanno fatto in questi decenni di allineamento della spesa alla spesa standard. Ora, qui abbiamo un problemino, perché la riforma sancita con la Legge 42 del 2009 e col Decreto legislativo 68 del 2011 introduceva un principio che era quello del superamento della spesa storica e di costruzione dell’impianto del nuovo assetto attorno al costo standard e al fabbisogno standard. Il problema è che invece la spesa sanitaria viene ancora oggi distribuita sulla base di una funzione che è 65% quota capitaria secca e 35% quota capitaria ponderata in base alla presenza degli anziani e in base alla distribuzione della popolazione per sesso e fascia di età. Nell’ultimo accordo all’interno della Conferenza Stato-Regioni c’è anche una componente che riguarda la deprivazione, che introduce una proxy del contesto economico sociale; però non abbiamo completato un percorso all’interno del quale il fondo sanitario nazionale viene ripartito sulla base dei livelli essenziali di assistenza o delle prestazioni che vengono erogate, viene ripartito sulla base della popolazione. Allora, come andare verso un sistema che sia più collegato ai LEA è una sfida. Ultimo punto, noi abbiamo trattato i buoni e i cattivi – do alcuni flash – così: i buoni sono buoni, i cattivi vanno in piano di rientro. I piani di rientro sono stati uno strumento molto incisivo, ma anche uno strumento molto pesante per le regioni. Noi vediamo, da dati di colleghi come Francesco Vidoli o anche in un volume che abbiamo pubblicato per Il Mulino un paio di anni fa, il fatto che le zone più periferiche nelle Regioni – quindi quelle meno collegate ai grandi distretti urbani – sono anche quelle che hanno sofferto di più dall’inserimento della Regione nei piani di rientro. forse un percorso che abbia una zona grigia e che distingua già dal monitoraggio – che viene fatto nel tavolo di monitoraggio presso la Ragioneria Generale dello Stato, ma dove le Regioni sono coinvolte ed è coinvolta Agenas – tra Regioni buone, cioè quelle che con le risorse che derivano dalla ripartizione del fondo sono in grado di erogare le prestazioni, Regioni che hanno una situazione di squilibrio, che magari si manifesta anche con un incremento delle addizionali, e Regioni che invece sono da sottoporre a piano di rientro. Se anticipiamo il momento in cui monitoriamo l’efficienza gestionale – e gli strumenti ci sono – e lo facciamo prendendo degli standard nazionali per macro-capitoli di spesa – che sono il costo del personale, che sono il costo per i servizi esterni – senza naturalmente arrivare a dei dogmi, ma avendo dei percorsi di accompagnamento di questo monitoraggio, io credo che già impariamo a fare meglio con quello che abbiamo. Poi è naturale che le Regioni chiedano molto e che lo Stato tenga conto anche dei vincoli macroeconomici che richiamavo prima: questa è una dialettica che c’è sempre stata. L’unica osservazione che faccio è che in questa dialettica più che mai oggi, dopo il Covid e in questa situazione complessiva del Paese, deve esserci una stella polare, che è la compostezza istituzionale e la consapevolezza del senso di responsabilità che tutte le parti devono portare sul tavolo, non solo nelle azioni, ma anche nelle parole.

 

Lucchina. Grazie, professore. Dottor Bordin, Lei è anche, oltre che esimio medico, Presidente di Medicina e Persona, che è un’associazione di medici, infermieri e personale sanitario. come vede la situazione? Si parla che mancano medici, mancano infermieri, mancano tecnici… c’è una situazione all’interno del mondo sanitario critica, da questo punto di vista. Che prospettiva vede lei davanti sentendo anche tutti i vari suoi colleghi, non solo medici? E soprattutto, l’esperienza del Covid cosa ha lasciato agli operatori sanitari?

 

Bodin. Io penso intanto che il dibattito su numeri di posti letto e personale è veramente onnipresente sui media da anni. E se vent’anni fa il tema era quello dell’esubero del personale sanitario, è passato tanto tempo. oggi la vulgata dice che il personale sanitario non c’è. Penso che i numeri abbiano un significato, ma hanno un significato se rispondono a due domande. La prima è se posti letto e personale bastano rispetto ai bisogni, e quindi quali sono i bisogni. La seconda è quali scenari ci attendiamo nei prossimi anni. Intanto, i bisogni in questi anni sono cambiati, si è trasformata la funzione dell’ospedale per acuti, si è trasformata clamorosamente e si sta tuttora trasformando. i posti letto sono scesi – e sono scesi del 15% negli ultimi 10 anni – però a fronte di degenze più brevi, più snelle, con prestazioni più efficienti, che hanno spostato a dei setting ambulatoriali ciò che prima si faceva ricovero; per dirla in poche parole, con meno posti letti, si fanno tante cose in più. Oltre al calo dei posti letto c’è anche un calo dei ricoveri di circa del 20%. Questo è un dato, un pochettino più difficile da interpretare, perché non è chiarissimo se siano calati i ricoveri per una incapacità di erogazione rispetto a un bisogno, o se è calato davvero il bisogno; l’interpretazione di queste cifre a volte è difficile. Di fianco ricordiamo che, oltre a questo fenomeno, c’è che se l’acuzie ad alta intensità e criticità ha come luogo privilegiato e assoluto l’ospedale, c’è poi tutto il grande, enorme peso della cronicità, che è aumentata da molto tempo, ma continua ad aumentare – ce l’ha ricordato ancora anche il Professor Pammolli – e aumenta per effetto proprio del fatto che la scienza supera gli episodi acuti ma non guarisce le malattie. E questa cronicità va tolta dall’ospedale; va tolta dall’ospedale perché il tempo della cronicità è il tempo della vita, e quindi va vissuta e affrontata vicino a dove uno vive, anche perché molto spesso la maggior parte degli interventi sono a bassa intensità e criticità. E su questo devo dire che la parola prossimità sta diventando una parola chiave anche di alcune riforme organizzative che tutti conosciamo bene. Quindi, sui posti letto tutto bene? Sì e no, perché se i numeri non sono forse drammatici, come descritto, a mio parere rimane drammatico il tema dello scopo, del senso della cura. Lo scopo dovrebbe essere ciò che muove l’organizzazione e dunque anche la riorganizzazione del sistema sanitario. Sicuramente questi numeri non sono in grado di intercettare questa domanda. L’ospitale nasceva parecchi secoli fa come luogo di ospitalità e accoglienza del bisogno sanitario, mosso, tra l’altro, dalla carità, ma aperto a una dimensione totale del bisogno. E il bisogno, con la B maiuscola, di una persona malata non è riconducibile alla somma puntuale dei suoi bisogni. Allora la domanda è: il nostro sistema sanitario sa ancora prendere sul serio il bisogno di salute e di salvezza di una persona malata? È evidente che la soluzione non è nella forma – la forma deve evolversi per poter essere efficiente, efficace e sostenibile –, ma non è neanche vero che la qualità della prestazione di per sé garantisca la cura, perché come il bisogno non è una somma di bisogni, la cura non è una somma di prestazioni. E infatti non è un caso che lo scontento dei pazienti che si sentono non curati sembra inversamente proporzionale alle conquiste che la scienza medica da un lato e l’organizzazione dall’altro pongono in termini di efficacia e di efficienza. Quindi qualche cosa anche questo deve porre. Questo sui posti letto. Però, se noi andiamo sul numero di medici, di infermieri, anche qui abbiamo situazioni intanto diversificate. Problemi di scarsità ce ne sono sicuramente, perché il blocco delle assunzioni e il personale non reintegrato è un dato di fatto. Però il nocciolo, anche qui, non è tanto nei numeri assoluti, quanto anche nella ripartizione e nella distribuzione per aree funzionali. Tutta l’area dell’emergenza-urgenza, i medici di medicina generale, i pediatri di libera scelta sono, lo sappiamo, in enorme sofferenza e tra l’altro sono anche poco attrattivi – oltre ad una eterogeneità regionale di cui si è già parlato e che in alcune zone acuisce maggiormente dei fenomeni. Ci sono quindi carenze in alcune specialità, ma soprattutto – anche questo forse è stato già accennato – c’è una quota molto alta di medici che nei prossimi 4-5 anni andranno in pensione. E sicuramente, se un tempo noi eravamo in esubero di medici e se adesso siamo poco al di sopra della media degli altri Paesi europei di welfare, ci possiamo attendere nei prossimi anni una carenza reale. Diverso è il problema infermieristico, qui le carenze… da una parte è un personale più giovane e quindi un personale più stabile negli anni, però dall’altra attualmente registra una carenza e questa carenza è una carenza assoluta, ma anche una carenza rispetto al rapporto fra numero di infermieri e medici. Mi sembra, dai dati che ho, che in Italia il rapporto è di 1,4% rispetto a una media europea del 2,3%; quindi con meno medici si possono fare in una buona organizzazione sicuramente attività superiori a patto però che ci sia una robusta e capace attività infermieristica. Quindi, grossolanamente, mi sembra che i numeri dicano questo, anche se, come dire, le forme informative sono eterogenee, sono difficili da reperire e i dati consolidati sono sempre quelli consolidati a un paio d’anni fa. Però, è proprio negli ultimi due anni che stiamo vedendo un fenomeno nuovo, e questo fenomeno è esploso dopo la pandemia, anche se il Covid ha in qualche modo scoperchiato il vaso di Pandora e ha fatto vedere qualche cosa che pescava comunque negli anni precedenti e che oggi sta diventando macroscopico. Il Covid non ci ha causato solo problemi; ci sta dando – ci ha dato, ma ci sta dando – nei fatti un segnale potente, che è una grande opportunità di rilancio della nostra professione e che non possiamo permetterci di sprecare. C’è una crisi profonda nei professionisti della sanità che migrano in uscita del Servizio sanitario nazionale, ma ancora una volta, a mio parere, non tanto attratti dal privato, come dice la vulgata più comune, quanto proprio per lasciare un lavoro che non soddisfa, un lavoro che non compie, non realizza. Molti non passano solo da fare il medico o l’infermiere a farlo in un altro posto, ma smettono di fare il medico, smettono di fare l’infermiere. E chi rimane in ambiti clinici cerca aree felici altrove, che non trova, così che alla delusione si accompagna anche il rimpianto e il senso di fallimento. Queste sono cose che noi misuriamo oramai nei nostri colleghi, lo vediamo tutti i giorni. E questo disagio mi sembra che abbia molti motivi. Alcuni motivi sono propri della nostra realtà sanitaria. Per esempio, antica come la malattia e la sua durezza, che si fa fatica a reggere, dal razionalismo al positivismo si è compiuta una parabola che ha creduto che la scienza potesse rendere inutile la carità, occupandosi solo di un corpo malato come di una macchina guasta che deve essere riparata. Oggi, quasi per contrappasso, si è dilatata una richiesta di relazione a cui non sappiamo più rispondere per un’insufficienza culturale, insufficienza culturale globalizzata, di cui il nostro Paese sembra essere per fortuna un po’ in ritardo, anche per le nostre radici, ma a cui partecipa pienamente. I malati sono sfiduciati, la ricerca di autonomia è unilaterale ed è carica di pretese, alimentando un contenzioso verso il quale la classe medica cade nell’errore di esercitare una medicina solo difensiva. Non è stato così, forse, anche con il Covid? I medici che sono stati incensati e osannati all’inizio, sono stati rapidamente criticati e oggi devono subire anche tutta una serie di cause di risarcimenti per colpa professionale. La quantità di adempimenti amministrativi e burocratici – che sono due cose diverse, ma pesano entrambe – e soprattutto anche di tipo normativo collegate alle prestazioni sanitarie – e le prestazioni sono in crescita continua, riempiono tutto il tempo, da una parte sottraendolo alla cura, ma soprattutto svilendo la professione, che rischia di diventare impiegatizia – e l’assenza di realismo di chi governa a qualsiasi livello, a governare irrigidendo la complessità del sistema e trasformandolo in un sistema complicato e asfittico. Queste mi sembrano delle cause, come dire, interne alla nostra storia. Ma ci sono anche motivi che attengono alla più generale crisi del lavoro: il tema della Great Resignation, che occupa tutto il mondo occidentalizzato e di cui anche il nostro lavoro prende parte.E’ un’insufficienza esistenziale, è proprio una povertà dell’io ed è un problema che non può essere affrontato credendo che solo la migliore organizzazione, solo dei soldi in più o solo qualche turno in meno ci potranno salvare. Nel 1926 Malraux scriveva: “Non c’è ideale al quale sacrificarci perché di tutti noi conosciamo la menzogna, noi che non sappiamo cosa sia la verità”. Io penso che oggi questa posizione sta diventando palpabile. Allora chiudo dicendo che il Ministro ricordava che bisogna ridare un ringiovanimento, una spinta, un’energia. Io spingo un po’ di più: occorre proprio rifondare la sanità, ritrovare uno slancio originale; essere originali vuol dire sempre tornare all’origine, non fare qualcosa di strambo e di diverso. E io penso che sia un lavoro culturale e urgente che a fianco di tutte queste problematiche di sostenibilità diventi proprio una risposta a una domanda di senso che questo disagio esprime. Noi in Medicina e Persona abbiamo a tema questa domanda come priorità e pensiamo che la risposta a questo nuovo inizio possa accadere a condizione intanto di non essere da soli e, anzi, solo dentro una compagnia umana capace di andare al fondo della propria esperienza professionale, riscoprendo non solo lì dentro il senso del nostro prendersi cura, ma dal di dentro potendo anche offrire in atto soluzioni che diventino anche soluzioni organizzative. E per questo l’augurio è che da domani mattina non solo col mio collega con cui mi troverò, ma a tutti i livelli, finanche a livelli istituzionali, ci si possa far compagni su questa, che penso sia un’urgenza assolutamente non procrastinabile.

 

Lucchina. Grazie, Dottor Bordin. Dottor Zagaria, con lei parliamo di farmaceutica, ovviamente, sia la farmaceutica ospedaliera che la farmaceutica territoriale. La farmaceutica, in fondo, da qualche anno a questa parte, dà un contributo alla sostenibilità, quello che in gergo tecnico si chiama il Payback. Questo ce lo spiega perché è importante. Tra l’altro sulla farmaceutica si scatena una posizione non omogenea delle Regioni sui ticket, che sono differenziati anche in modo significativo. E per l’ultima domanda: nel prontuario nazionale entrano i farmaci cosiddetti ad alto costo, cioè sono farmaci che per ogni ciclo di cura pro capite per alcune patologie – soprattutto oncologiche, ma non solo – valgono centinaia di migliaia di euro. Lì l’industria farmaceutica, o meglio, il mondo farmaceutico, non può fare nulla per dare una mano?

 

Zagaria. Grazie, grazie prima di tutto dell’invito, e permettetemi, siccome si parla di data di scadenza… noi dell’azienda farmaceutica siamo esperti di date di scadenza, perché le applichiamo quotidianamente sui nostri farmaci, speriamo che mai, visto che il nostro penso sia uno dei sistemi sanitari migliori in Europa, che qualcuno metta una data di scadenza sul nostro caro e amato sistema sanitario nazionale. Permettetemi, prima di iniziare il mio intervento, di inquadrare – e ringrazio il dottor Lucchina – quello che è il tema all’interno dei 126 miliardi, che è il Fondo sanitario nazionale (125, 126, poi il professore mi corregga pure se dico delle inesattezze): quant’è la parte farmaceutica. La parte farmaceutica privata e pubblica è circa di 34 miliardi che l’anno scorso nel 2022 – cito dati OsMed, quindi report che l’AIFA ha appena pubblicato, non più tardi di tre settimane fa – è cresciuta del 6%; quindi stiamo parlando di una spesa che comunque sta andando avanti e quest’anno è cresciuta del 6%. Quindi 34 miliardi è la spesa pubblica e privata; di questi 34 miliardi, 23 miliardi è la spesa pubblica. Quindi 23 miliardi di spesa pubblica, al quale però vanno sommati quasi 10 miliardi –9,9 miliardi– che è la spesa farmaceutica di ogni cittadino italiano; quindi 1/3 della spesa farmaceutica, forse non tutti lo sanno, è già oggi a carico delle singole persone. Cosa c’è dentro questi 10 miliardi? C’è dentro la quota di ticket regionale, c’è dentro – e qua permettetemi una breve digressione – circa un miliardo, un miliardo e due,  che è la quota che i cittadini non scegliendo il farmaco generico, cioè quello che costa meno, assolutamente identico – infatti si chiama equivalente per definizione –, ma sceglie il brand, l’originator, è chiamato a pagare circa in totale un miliardo  e duecento milioni. Quindi di 10 miliardi, un miliardo e due è collegato alla scelta libera al cittadino – non a caso in Italia la penetrazione del farmaco generico è circa il 20%, ben inferiore rispetto alla media europea (in alcuni paesi addirittura arriva vicino al 50%). Detto questo, quindi, 1/3 è privato. Per quanto riguarda invece quello che è la spesa pubblica e la spesa territoriale, prima il dottor Lucchina parlava di spesa ospedaliera e spesa territoriale, ben 12 miliardi, che l’anno scorso sono cresciuti anche questi del 5,7,  sono la spesa sul territorio, la spesa a carico in cui lo Stato contribuisce rimborsando i farmaci che i pazienti vanno a comprare in farmacia. Detto questo, permettetemi una digressione, prima parlavamo di 10 miliardi di euro che è la spesa a carico del cittadino. Si capisce anche l’importanza,  prima stavo passeggiando per il Meeting, di opere come il Banco Farmaceutico che sono presenti anche storicamente in Italia da più di vent’anni, che si occupano appunto di dare una risposta anche a chi non è in grado di far fronte a quei 10 miliardi di spesa che oggi cittadini pagano e che sono chiamati a pagare. Torniamo però alla spesa pubblica e vediamo come, avendo bene in mente quanto citava Pammolli prima,  il Sistema sanitario nazionale deve fare i conti con quella che è la curva demografica italiana. Un dato che non è ancora stato citato, lo cito io, di un recente rapporto Istat dice che oggi la popolazione over 65 è circa il 23% della popolazione totale italiana; nel 2050, dato Istat, sarà il 35% della popolazione italiana. Adesso capite perché ho citato questo numero. Perché? Perché se noi prendiamo la spesa totale e la dividiamo per i pazienti italiani lo Stato ha contribuito per circa 222 euro per ogni cittadino, circa ogni cittadino ha speso ha consumato in media 18 confezioni di farmaci. Se ci spostiamo sulla quota over 65 da 220 passiamo a 556 euro. Capite bene che c’è un bel gap e di pazienti, di cittadini italiani sopra i 65 anni il 98,4%, quindi la quasi totalità dei cittadini italiani, hanno ricevuto almeno una prescrizione di farmaci. Collegate questo dato col dato che vi ho detto prima e capite bene che bisogna intervenire in qualche modo. Perché nel 2050 i  pazienti che consumano i farmaci per la quasi totalità non saranno più il 23%, ma saranno il 35% della popolazione italiana. Un ultimo dato come paragone europeo: noi ci posizioniamo al sesto posto in Europa, perché se noi prendiamo la spesa sanitaria sia privata che pubblica, oggi siamo al sesto posto in Europa, dietro Germania, Austria, Belgio, Francia e Spagna. Detto questo, che è il contesto macro,  che cos’è che possiamo fare già da oggi? Ben venga quello che diceva – per rendere il farmaco sempre più fruibile- ben venga quello che diceva il Ministro in apertura, perché sicuramente è di buon auspicio. Sicuramente il sistema sanità nazionale ha bisogno di un adeguamento di quelle che sono le risorse. Io non sono un tifoso della Fiorentina, però sono un tifoso della Juve, però condivido –  mi spiace –  condivido quanto detto dal professor Pammolli prima, che bisogna però iniziare a fare con quello che si ha. Tante cose si possono già iniziare a fare per garantire la sostenibilità della farmaceutica in Italia. In primis,  il Covid ha reso evidente che non è scontato  che anche in Italia recandoci in farmacia, che siano reperibili tutti i farmaci. Il caso Amoxicillina era su tutti i giornali, non più tardi di qualche mese fa. Questo perché? Perché – non so se tutti lo sapete – ma la catena, la filiera produttiva farmaceutica non italiana ma mondiale ad oggi è ancora assolutamente dipendente da paesi come la Cina e l’India per quanto riguarda la produzione di intermedi,  non di principi attivi, ma di quei pezzettini della molecola chimica che stanno a monte del principio attivo. Quindi, capite bene, che ben vengano – ne parlavo anche prima ripercorrendo quello che è il tavolo sulla farmaceutica, ho incrociato il Ministro D’Urso nel salottino che è qua, presente al Meeting in parallelo con noi in  un altro incontro -,  di quanto sia importante quanto lui ha promesso e auspicato all’interno della farmaceutica, di interventi che vadano a sburocratizzare e a incentivare anche quello che è non solo in Italia ma in Europa il  reinvestimento in una produzione farmaceutica anche di principi attivi, che metta al riparo lo shortage di farmaci. Detto questo però non basta perché l’ Amoxicillina è mancata perché si chiedeva alle aziende farmaceutiche di dover produrre –  il produttore di originator ha deciso perché non era più economico produrla –  quindi si è chiesto alla restante parte della filiera di dover sopperire, non andando a toccare il prezzo, perché il prezzo del farmaco è anelastico, non si può aumentare;  i costi sono aumentato, quindi, le aziende hanno detto un attimo, però, va bene produrre per un po’ di mesi, per un per un po’ di anni in perdita, però AIFA, che è l’Agenzia italiana del farmaco, a un certo punto ha detto che i farmaci dovevano essere aumentati per non produrre sottocosto. Quindi in primis la cosa da fare è agire non su tutti, ma perlomeno su quei farmaci il cui costo oggi è inferiore ai 5 euro per permettere appunto la disponibilità in farmacia. Il secondo punto, e lo si diceva prima, è un aumento generale della farmaceutica. Pensate che prima si parlava di spesa ospedaliera. La  spesa ospedaliera nel 2023, quest’anno, ha un tetto che è intorno ai 10 miliardi, 9 miliardi e rotti. Si stima, dati ai cuvia (parola poco comprensibile), non di Farmaindustria,  né di Egualia (l’associazione che rappresenta i produttori di  farmaci generici) che questo tetto verrà superato per tre miliardi e tre. Quindi, pensate bene cosa, oggi, che senso ha un tetto di cui si sa già, prima di partire, che per un  30% verrà superato. Quindi, sicuramente questo tetto va rifinanziato per poter permettere, come diceva Lucchina prima, di poter far fronte nel migliore dei modi a quello che è il fabbisogno di farmaci ad alto costo e quindi permettere l’innovazione anche grazie alle risorse che l’ingresso dei generici e un maggior consumo dei generici possono liberare nella spesa farmaceutica. E da ultimo e concludo, un ultimo punto che si può fare anche, che viene bene anche prima dell’intervento dell’amico assessore regionale, è sicuramente una maggiore uniformità a livello regionale, perché oggi non esiste appunto un unico regime di dispensazione, ma esistono 21- 22 regimi di dispensazione diversi. Allora io mi chiedo, a produttori di farmaci che vengono venduti omogeneamente in tutta Italia, che senso ha che un farmaco che io produco venga distribuito con regole diverse, quindi che un paziente abbia un accesso diverso a seconda della regione dove abita. Questo assolutamente si può correggere. Come? Andando dietro a quella che è l’idea del viceministro Gemmato, di una lista unica, di un prontuario farmaceutico unico a livello nazionale che disciplina quali sono le molecole che, non per ragioni di costo, ma per come è nata la 405, debbano essere dispensate o sulla territoriale o in ospedale, evitando che ogni regione faccia a modo suo.

 

Lucchina. Grazie, grazie. Dottor Donini, lei è il coordinatore della Commissione salute della Conferenza delle Regioni, quindi quella Commissione che regolarmente si confronta con tutti gli assessori alla sanità, al welfare di tutte le Regioni italiane che è un ruolo fondamentale da questo punto di vista e come coordinamento e come indirizzo alla Conferenza dei Presidenti. Ma le amministrazioni regionali oggi possono dire di avere adempiuto a tutto quanto i loro cittadini ci aspettano sulla sanità? C’è un problema, come dire di rapporti con lo Stato un po’ centralista o meno, anche alla luce dell’esperienza Covid, per la quale non si poteva fare diversamente. A che punto è il PNNR delle regioni? C’è un decreto ministeriale che è il 77 del 2012 che disciplina tutto il modello organizzativo della sanità territoriale. A che punto siamo?

 

Donini.  Allora, intanto, grazie per l’invito a rispondere a queste domande in poco più di dieci minuti è impegnativo. Cercherò di essere sintetico, ma non reticente. Intanto parto dalla lettera che ci ha inviato il ministro con il quale, come Coordinatore della Conferenza delle Regioni per quello che riguarda il tema salute ho occasione spesso di confrontarmi. La cosa un po’ strana è che quando noi ci confrontiamo dentro la commissione nazionale salute, che comprende tutte le Regioni italiane di diverso orientamento politico, noi usciamo da quell’incontro, da quel confronto, sempre con posizioni unanimi e con una correttezza, una lealtà rispetto ai governi di turno –  ne abbiamo visti tre in questi ultimi anni – che credo sia faccia onore alle al comportamento delle Regioni. Siamo uniti, diciamo le stesse cose, ci fidiamo dello Stato e ci comportiamo in modo responsabile. Poi ognuno di noi torna in sede e dentro alle comunità locali  viene a configurarsi una vivacità di dibattito politico che molto spesso ci amareggia, perché vediamo sulla sanità tanta propaganda politica e poche politiche per la sanità. Questo lo vediamo, come dire con occhi unanimi, con occhi di tutte le Regioni e di tutti gli orientamenti politici. Quindi le sfide che ci pone il ministero sono anche le nostre sfide. Alcune sono, diciamo, alla nostra portata in termini di assunzione di responsabilità regionale, altre necessariamente devono collocarsi in un ambito più vasto a livello nazionale. Andiamo per ordine. Il Ministro pone un problema enorme di sostenibilità finanziaria del sistema sanitario nazionale. Le Regioni lo dicono da un anno e mezzo, quindi lo dicono a questo Ministro e lo dicevano anche al ministro che c’era prima, perché  un anno e mezzo è il periodo in cui le Regioni sostanzialmente adottano documenti che sottolineano l’inadeguatezza del fondo sanitario nazionale rispetto alle spese sostenute dalle Regioni. Faccio un esempio che è comprensibile. Gli aumenti del fondo nazionale, anche l’ultimo aumento,  sono la metà di quanto le Regioni spendono senza poter far nulla affinché si spenda e cioè, per esempio, i contratti del personale che a livello nazionale si chiudono, ma che poi ricadono in termini di costi non coperti nei confronti delle Regioni. I farmaci innovativi che sono la speranza anche per tanti cittadini e per tante patologie che una volta erano mortali e che oggi, grazie a questi farmaci, cominciano a trasformarsi in patologie croniche. Noi stiamo assistendo a dei passi in avanti della scienza, della tecnologia e anche della produzione di farmaci che dà grande speranza ai cittadini italiani e non solo italiani, perché il nostro è un sistema universalistico, però questi farmaci costano e sono di gran lunga superiore i costi rispetto l’aumento del fondo. Poi c’è l’inflazione, che decurta sostanzialmente il potere d’acquisto anche della spesa sanitaria, e infine ci sono i costi energetici perché molte, tante strutture sanitarie non sono certamente improntate al massimo risparmio energetico e per riorientarle in quel senso occorrono anni. Quindi, il Ministro dice occorrono quattro miliardi di euro sul fondo sanitario nazionale per arrivare ad una situazione, diciamo, di sostenibilità. Le Regioni dicono la stessa cosa. In un paese normale, si siede il governo e si siedono le regioni e trovano i quattro miliardi di euro e mettono in sicurezza il Sistema sanitario nazionale, pubblico e universalista. Speriamo che ciò accada, perché mentre le dichiarazioni del Ministro vanno in quel senso, la rassegna stampa di oggi dice esattamente il contrario. Seconda cosa. Ci sono  riforme che non dipendono solo dal budget e occorre farle subito perché incidono fortemente anche sulla motivazione del personale sanitario che oggi se ne va dal sistema sanitario, non solo per una retribuzione inadeguata, per cui il tema delle retribuzioni al personale sanitario è un tema necessario ma non sufficiente per trattenere le professionalità che sono in esso impiegate, ma occorre anche mettere in condizione gli operatori sanitari di lavorare adeguatamente come stile di vita e di lavoro, perché quando uno come me va per esempio a incontrare i medici o gli infermieri che lavorano nei pronti soccorsi  viene fermato e  gli viene detto, guardate, ci potete anche riempire d’oro, ma appena possiamo c’è ne andiamo, perché non sono questi i ritmi di vita, non sono questi gli stili e i ritmi di lavoro con cui vogliamo lavorare. E allora queste riforme competono a noi e alcune Regioni le stanno improntando, per esempio  l’Emilia Romagna ha attivato ha avviato una riorganizzazione radicale dell’emergenza urgenza, cercando di separare da un lato le patologie tempo-dipendenti, quindi l’emergenza il 118 e dall’altro il 70% degli accessi ai pronti soccorsi che sono codici bianchi e codici verdi che non devono essere presi in carico da un medico rianimatore. Devono essere presi in carico nell’ambito della configurazione sanitaria territoriale da un medico che però non necessariamente sia il medico di emergenza-urgenza nel collegamento della rete. Ecco che noi abbiamo attivato i centri di assistenza per le urgenze per gestire un bisogno di salute che il cittadino sente come urgente e quindi è portato ad andare al pronto soccorso, ma poi alla fine si scopre che è un bisogno di salute che non necessita per fortuna di un’attenzione particolare, tempo dipendente. Questa è una riforma che l’Emilia Romagna e altre Regioni hanno cominciato a attivare e che penso sia un tema nazionale per il quale le Regioni possono offrire un contributo importante. E poi c’è, per esempio, la grande sfida, che cita anche il Ministro, dei tempi di attesa delle prestazioni specialistiche, diagnostiche e chirurgiche. Ci siamo dimenticati tutti che cosa è stato il Covid. Il Covid, per esempio, per l’Emilia Romagna, che è stata una delle regioni assieme a Veneto, Lombardia tra le più colpite, ha significato anche decine di migliaia di interventi chirurgici procrastinati negli anni successivi, recuperati, ma nel frattempo il bisogno di salute non sta fermo. Quindi è chiaro che occorre sempre darsi una ottimizzazione di produzione sanitaria tale per cui arrivare nel giro di un congruo termine a recuperare tutto. Però occorre qualificare sicuramente la produzione sanità, occorre rimpostare il rapporto col privato accreditato; il che non significa più o meno, significa che si possa orientare il privato accreditato a cogliere le opportunità che derivano dalle necessità del pubblico, cioè non affidare al privato accreditato una parte delle prestazioni a prescindere, ma collocare in quell’ambito, che è parte integrante del sistema pubblico, ma anche privato accreditato,  le prestazioni che servono al sistema pubblico. Poi occorre coraggiosamente, come ha detto il Ministro, incidere gradualmente progressivamente, ma in maniera sempre più efficace, nell’ambito anche della gestione della domanda, perché la domanda è talmente, in questo momento esorbitante, in termini di richieste, per esempio, di visite specialistiche, in termini di diagnostica che –  in essa poi compare quel tema di inappropriatezza di cui parlava anche il Ministro nell’intervista di oggi -, ma lì bisogna lavorare insieme, ospedale, territorio, con gli strumenti diagnostici e con gli strumenti tecnologici che mettono insieme, per esempio, il massimo conoscitore della specialistica d’organo con il massimo conoscitore della storia clinica del cittadino, cioè il medico di medicina generale con lo specialista. Oggi la telemedicina consente quell’incontro, consente quella comune assunzione di responsabilità dal punto di vista, diciamo, della diagnosi clinica, consente di lavorare insieme, noi dovremo sempre più produrre lavoro comune, una comune assunzione di responsabilità. E poi la prevenzione, perché compito di un sistema sanitario non è soltanto curare in maniera universalistica, ma anche non far ammalare, soprattutto nell’ambito cardiovascolare e oncologico i cittadini e, quindi, screening, ma anche prevenzione primaria di corretti stili di vita, che significano comunicazione, che significano luoghi di incontro, anche associativo. E poi gli investimenti strutturali, il PNNR. Il PNNR è la parte strutturale di quella grande speranza che è stato il D.M. 77 che lei ha citato e che è la Carta costituzionale della sanità territoriale, laddove in sanità viene applicato un principio di sussidiarietà nel quale il cittadino viene curato innanzitutto a casa propria, come primo luogo di cura, quindi attraverso il teleconsulto, il telecontrollo, l’assistenza domiciliare e poi nel territorio, nelle case della comunità, dove deve esserci l’integrazione fra ospedale e territorio, fra sociale e sanitario. E, infine, la rete ospedaliera collegata con Hub e spoke (parola incomprensibile) in un sistema che si tiene, che gestisce la cronicità più vicino a casa e la fase acuta laddove serve, ovviamente anche in termini di specialistici. Ecco, questo è il tema oggi. Questa riforma, il D.M. 77, gli investimenti del PNNR sono coerenti se accompagnati da politiche di sostegno finanziario e di omogeneità territoriale. La sanità ha un senso se, in prospettiva, non si vedrà più la migrazione di tanti cittadini dalle loro Regioni d’origine. In alcune Regioni, faccio il 70% sono in Lombardia, in Emilia Romagna, in Veneto, che vengono a curarsi fuori dalla loro regione. Bisogna rendere il sistema omogeneo. Il Ministro ha identificato una strada, cioè una rimodulazione di quegli interventi che rischierebbero di essere in ritardo rispetto alla tabella di marcia del PNNR. Ci sono Regioni che non sono in ritardo e che vogliono che quei soldi rimangano nel PNNR, come l’Emilia Romagna, ci sono però Regioni che hanno detto: attenzione perché se li si dirotta in altre fonti di finanziamento esistenti, che non siano quelle risorse dirottate in fonti di finanziamento già oggi impegnate per, magari, servizi sanitari o strutture sanitarie già decise a sostegno della sanità ospedaliera e territoriale. Il lavoro è un lavoro enorme; occorre prenderla veramente a 360° in modo unitario. Oggi la sanità dovrebbe unire un paese dopo il Covid e non dividerlo. E ripeto, più politica sanitaria, meno propaganda sulla sanità.

 

Lucchina. Grazie dottor Donini. Direi che  concludiamo qui la serata però con un messaggio anche positivo che tradotto significa che noi avremo centomila  difetti e siamo preoccupatissimi, però le persone non le mandiamo mai fuori, né dagli ospedali né dagli ambulatori quando hanno bisogno. Sono certo che continueremo a farlo anche stavolta.

 

Data

21 Agosto 2023

Ora

19:00

Edizione

2023

Luogo

Sala Ferrovie dello Stato B2
Categoria
Incontri