Chi siamo
San Riccardo Pampuri – “Era necessario che l’eroico diventasse quotidiano e il quotidiano diventasse eroico”
Hanno partecipato: Adriano Rusconi, Medico; Marco Fabello, Consigliere Generale Ordine Ospedaliero San Giovanni di Dio – Fatebenefratelli; Ferdinando Michelini, Architetto; Angelo Beretta, Parroco di Trivolzio.
Presentazione della mostra
Mercoledì 27, ore 11.30
Relatori: Marco Fabello, Ferdinando Michelini,
Adriano Rusconi, Consigliere Generale Ordine Architetto
Medico Ospedaliero San Giovanni di Dio – Angelo Beretta,
Fatebenefratelli Parroco di Trivolzio
Rusconi: Mi è stato detto che più che parlare di Pampuri, devo cercare di imitarlo. Pertanto da come ne parlo spero che sia evidente quello che ha colpito me nella mia vocazione. Infatti io come lui sono cristiano, medico, dedicato a Cristo.
Pampuri nasce il 2 agosto 1897 (siamo infatti nelle celebrazioni del centenario della nascita), decimo di undici figli. Nel 1900 la madre muore di tubercolosi, e prima di morire affida Erminio (che era il bambino più piccolo, l’altro era morto) ai suoi due fratelli, Carlo, che faceva il medico condotto a Trivolzio, e Maria, che teneva la casa e insieme al fratello conduceva anche la fattoria. Il padre e gli altri fratelli vanno a Milano; lui viene allevato da questi zii, che chiamerà mamma e papà. Gli zii sono molto importanti per la crescita di Pampuri perché, essendo due cristiani convinti e maturi, gli danno una educazione cristiana matura, gli insegnano che l’unica maniera per trattare bene cose e persone, l’unico modo per riconoscere con verità le varie circostanze, è quello di trattarle e guardarle come le guarda Cristo che è presente.
Questo giudizio Pampuri l’ha chiaro fin da piccolo. Quando fa la prima comunione chiede poi al parroco di poter andare avanti ad insegnare il catechismo che ha imparato a quelli più piccoli, perché le cose che ha sentito di Cristo sono troppo belle e importanti per la vita.
Fa le prime tre elementari a Trivolzio, la quarta e la quinta a Casorate, e quando si tratta di andare al ginnasio, gli zii lo mandano dai fratelli a Milano (il padre era già morto), e lo iscrivono al Manzoni, un ginnasio vicino all’Università Cattolica. L’ambiente era ben diverso da quello degli zii; anche a scuola le cose non vanno bene, gli danno due esami a settembre. Allora gli zii lo iscrivono al collegio sant’Agostino di Pavia, e frequenta il liceo Ugo Foscolo.
Questo soggiorno dai fratelli è importante perché gli permette di conoscere bene la sorella Maria, che l’anno dopo, sotto il nome di Longina, parte come suora missionaria al Cairo. Con questa sorella mantiene un rapporto epistolare speciale. Di Pampuri ci rimangono circa 160 lettere, ma le più importanti (66) sono quelle che scrive alla sorella (che le ha conservate quasi tutte) perché con lei si confida e si confronta; quindi è possibile cogliere da queste lettere il cammino spirituale di Pampuri. A questa sorella (all’età di quindici anni), scrive una lettera (che non ci è rimasta), esprimendo il suo desiderio di dedicarsi a Dio, e la sorella lo sconsiglia, conoscendo la sua salute.
Al collegio sant’Agostino si rivela un ragazzo studioso, intelligente, disponibile e devoto. Si confessa tutte le sere. Si appassiona ai libri di Salgari ed è un suo compagno che deve dirgli di leggere un po’ meno per non sottrarre troppo tempo allo studio.
Termina il liceo e si iscrive all’università a Pavia, a medicina. L’ambiente universitario, soprattutto a medicina, è fortemente massone. Si iscrive al circolo della FUCI Severino Boezio, e l’assistente spirituale di allora, che poi diventerà vescovo di Pavia, dice che ne ha portati molti di più lui con il suo esempio, che neanche lui vescovo con le sue prediche.
Nell’università pavese c’è un ambiente goliardico abbastanza pesante. Pampuri ogni tanto non condivide le intraprese dei suoi amici. Allora si ritira. Il giorno dopo si ripresenta, dice che cosa secondo lui non è stato giusto quello che hanno fatto, e poi si rimette insieme, cosicché i suoi compagni si sentono da una parte richiamati, dall’altra parte non si sentono tagliati fuori.
Siamo nel 1915, ci sono tumulti fra gli studenti favorevoli all’entrata in guerra dell’Italia e quelli contrari, si sparano e vengono uccisi due studenti. L’unico che può andare a vedere se sono vivi o se sono morti, senza che nessuno spari, è lui. E questo segnala la stima che ne avevano e come era conosciuto.
Intanto la guerra prosegue, e anche Pampuri è chiamato alle armi e destinato a Caporetto, in un ospedale da campo, come infermiere. Mentre accudisce i feriti parla sia con loro che con i superiori, come con i commilitoni, come faceva al liceo e in università. Parla a tutti di Cristo. E tutti capiscono che quando lui parla di Cristo, parla dell’esperienza di Cristo che lui sta facendo, e quindi parla di se stesso.
Caporetto è il luogo dove nel 1917 viene sfondato il fronte italiano, costringendo alla ritirata. Sotto questa pioggia di acqua e bombe Pampuri vede un carro, attacca la mucca e vi carica tutto il materiale sanitario dell’ospedale da campo che era stato precipitosamente abbandonato, e compiendo una marcia di ventiquattro ore riporta al nuovo fronte italiano tutto il materiale. Per questo gli danno la medaglia di bronzo al valore militare, ma prende anche una pleurite che lo condizionerà per tutto il resto della vita.
Finita la guerra, continua gli studi e nel 1921 si laurea in medicina con 110 e lode. Concorre per una condotta e dopo una breve sostituzione a Vernate vince la condotta di Morimondo, paese che sorge intorno ad una abbazia, fondata nel 1200 da san Bernardo. La casa del medico condotto è nella foresteria del convento, ma già da quarant’anni non ci sono più i monaci. Insieme a lui va ad abitare la sorella Rita che gli fa da domestica.
Gli abitanti di Morimondo vedono arrivare questo medico, il quale non solo va a Messa tutte le domeniche, ma va a Messa anche tutti i giorni, e poi fa ogni giorno mezz’ora di adorazione, a mezzogiorno.
Poi si occupa del catechismo, degli uomini di Azione Cattolica, preoccupandosi che vadano a fare gli esercizi a Triuggio, dei giovani della GIAC, del movimento missionario; metterà in piedi anche la banda parrocchiale di Morimondo.
Ma la cosa impressionante è come visitava. Trattava l’ammalato come se fosse Cristo, e l’ammalato si sentiva trattato con una attenzione, una considerazione, una stima, una comprensione incredibili. E lui faceva il suo mestiere. In questa sua azione cerca una compagnia perché, dice alla sorella, “io invece sono pigro e rischio di ridurre Cristo alla mia misura, a quello che riesco a fare. Beata te sorella che hai una compagnia che ti riaddita sempre Cristo così come è”. Cerca questa compagnia dai Gesuiti, che lo fanno visitare dai medici di Milano, la cui diagnosi è “questo è un cadavere ambulante”, quindi per ragioni di salute non lo accettano. Lo stesso fanno anche i Francescani.
Scrive allora alla sorella dicendo che il Signore vuole che lo serva nelle cose che gli mette davanti, e i primi sono i suoi malati. “Prega perché io li tratti come Cristo: lui solo servire, lui solo aiutare”. I suoi colleghi gli dicono: non devi correre a tutte le chiamate, non devi esagerare nell’assistenza, tanto tutti devono morire. Come se fosse uno scrupoloso; in realtà lui li trattava come se fossero Cristo.
Capisce di non essere fatto per il matrimonio; dice di essersi dedicato a Dio, personalmente. Comincia ad ammalarsi: prima si ammala per due mesi, poi ritorna a lavorare, si riammala ancora per quattro mesi e capisce che non può più farcela. Nella condotta in Morimondo c’erano 1200 abitanti, ma sparsi per molti casolari, quindi il lavoro del medico era molto pesante. Allora medita di ritirarsi presso gli zii; tuttavia, occupandosi del movimento missionario, aveva conosciuto il responsabile del movimento di Milano, don Riccardo Beretta, che era diventato il suo padre spirituale. Don Riccardo Beretta era compagno di corso del maestro dei novizi dei Fatebenefratelli, padre Zaccaria Castelletti. Quando padre Zaccaria lo conosce, dice: “costui è già santo, stesse anche un giorno solo nel nostro ordine può fare solo del bene; io lo prendo”.
Così, inaspettatamente, viene preso dai Fatebenefratelli, un ordine laico, fondato da san Giovanni di Dio nel 1495. Tranne alcuni che sono destinati all’ufficio religioso, alla pastorale sanitaria degli ospedali e che sono preti, tutti gli altri sono laici e sono infermieri: infatti l’anno di noviziato comprende anche il corso di infermiere.
Pampuri, che quando inizia il noviziato ha trent’anni anni, chiede assolutamente di fare tutto quello che fanno gli altri; i novizi sono persone di diciotto-vent’anni e Pampuri, che era un tipo che ci sapeva molto fare con i giovani, anche nel noviziato sta attento ai ragazzi, a fare in modo che non si deprimano, che non siano troppo affaticati, che continuamente recuperino il motivo per cui sono lì.
Finito l’anno di noviziato, gli viene chiesto per obbedienza di fare il dentista; adesso il dentista è un cosa nobile, ma allora fare il dentista era solo fare il cavadenti. Comunque accetta questo e si mette a fare il cavadenti, e succede esattamente la stessa cosa di Morimondo: la gente si sente trattata con una stima, con un’attenzione, con una considerazione incredibili.
Si riammala, va a Gorizia dai Fatebenefratelli per riprendersi; torna a lavorare, poi si riammala, va a Torrino dagli zii, torna a lavorare, poi si riammala e capiscono che la questione va verso la fine; lui stesso seguiva cardiologicamente l’andamento della sua pleurite tubercolare. Allora gli zii chiedono il suo avvicinamento a casa e a metà dell’aprile del 1930 viene trasferito al san Giuseppe a Milano; mentre è lì, sono gli ultimi quindici giorni, manda a chiamare tutti i suoi vecchi compagni di corso (la maggioranza dei quali non andava in Chiesa). Dice che sarebbe morto nel mese della Madonna: il 1° maggio del 1930 muore; viene fatto il funerale a Torrino e da Trivolzio a Torrino – tre chilometri – la gente lo segue; mentre il corteo è arrivato a Trivolzio la bara non è ancora partita da Torrino. C’è un afflusso di gente incredibile; anche al cimitero di Trivolzio, dove viene sepolto, non c’è più neanche una zolla di terra, c’è solo il cemento perché la gente va lì a prendere le zolle di terra, le mette nei sacchetti e le tiene come reliquie.
I Fatebenefratelli vanno tutti gli anni a dire la Messa lì; il loro superiore nel 1949 dice che, siccome la fama sta crescendo e la popolazione continuamente lo chiede, si deve aprire la causa di beatificazione; nel 1981 viene dichiarato beato, nel 1989 santo.
Questa è brevemente la storia di san Riccardo Pampuri; da qui volevo fare alcune considerazioni. Anzitutto, come ha fatto a trattare le persone, gli avvenimenti, le circostanze, dicendo che la consistenza è Cristo? Da chi lo ha imparato, chi glielo ha detto? L’ha imparato prima dagli zii e poi dal carisma dei Fatebenefratelli; Pampuri ha chiarissimo che il carisma è la modalità con cui il Signore si fa riconoscere oggi, e lui che non era un tipo ligio e moralista non vuole venire meno alla regola dei Fatebenefratelli proprio perché è la modalità con cui il Signore si fa riconoscere.
La seconda questione riguarda proprio questo carisma. San Giovanni di Dio e san Camillo de Lellis sono i fondatori degli ordini ospedalieri. Tutti e due sono del ‘500; allora c’era la mentalità classicheggiante, il gusto del bello, dell’armonico: la malattia non era né bella né armonica, dunque non era considerata. San Camillo de Lellis si trova a Roma senza neanche la camicia, e per poter vivere va a fare l’unico lavoro che nessuno voleva fare, l’infermiere. Va a farlo nell’ospedale dello Spirito Santo, un ospedale fondato da Innocenzo III e che il Papa regnante di allora aveva risistemato e dove i cardinali andavano a fare la caritativa. San Camillo de Lellis come san Giovanni di Dio riportano le categorie cristiane sull’ammalato, ridanno il giudizio ontologico su chi è l’ammalato: è figlio di Dio.
San Riccardo Pampuri fa parte di una schiera di santi di questo periodo (san Giuseppe Moscati, Pier Giorgio Frassati) che non fondano ordini, che non fanno opere, ma diventano santi perché trascorrono la vita dicendo che il significato di quello che accade è il Signore presente.
Questa è la caratteristica di Pampuri: riconosce non solo che nell’ammalato c’è dentro Cristo, ma negli avvenimenti, nelle circostanze. La consistenza delle cose non è riducibile solo a quello che si vede, ma è quello che le tiene su, che è Cristo.
Fabello: Si sente dire da più parti che la nostra sia un’epoca senza religione e dominata dall’etica dello stordimento: la nuova cultura dell’arricchimento che domina il mondo tende a rendere la persona insensibile ai simboli e ai prodigi. Si dice anche che tutto è ormai secolarizzato e dissacrato e ben pochi sanno dove sia e quale sia la strada da percorrere per camminare nella verità. In questo panorama, che sembra essere quello accreditato dai più, è possibile raggiungere la santità? Non è azzardato rispondere che per chi vuole è possibile e i santi possono rappresentare le nostre vere guide che ci insegnano quali sono i valori veri da seguire: l’amore a Dio e al prossimo, la dedizione all’altro, la coerenza, la bontà… costi quello che costi. Ci vuole coraggio e costanza, è necessario andare controcorrente, occorre “rinnegare se stessi e prendere la propria croce” e camminare sicuri accanto allo Spirito, luce del mondo della nostra vita.
Per questo può essere di aiuto ripercorrere la vita e l’esistenza di san Riccardo Pampuri, non tanto con la pretesa di voler insegnare come si raggiunge la santità quanto per comprendere che forse la strada è più a portata di mano di quanto non si pensi. In particolare, prenderò in considerazione soprattutto il periodo in cui Riccardo entrò nell’ordine ospedaliero Fatebenefratelli.
Personalità umile e quasi “invisibile” egli maturò il senso della sua esistenza nella semplice obbedienza alle circostanze offertegli dalla vita e da Dio, servendo il proprio popolo, e per qualche verso anche precorrendo i tempi.
Dalle testimonianze emerse sembra che la sua vocazione fosse quella di diventare sacerdote, e lo conferma il fatto che chiedesse di entrare nei Gesuiti, ma in quel preciso momento l’autorità dello zio medico condotto – a cui era stato affidato a soli tre anni – e probabilmente anche la riconoscenza nei suoi confronti fu più determinante nella scelta della facoltà universitaria di medicina.
È altresì molto importante per una ricostruzione della sua vita e del suo cammino spirituale, lo scambio epistolare che intrattiene con la sorella suor Longina, missionaria in Egitto.
Nel 1921 consegue la laurea in medicina non senza momenti di crisi, a giudicare da quello che scrive – appunto alla sorella suora – appena un anno prima “…in questo anno, che dovrebbe essere l’ultimo dei miei studi e il primo della mia vita professionale, prega molto, affinché io possa attingere tanta forza dalla nostra fede, così bella e così santa, da potere finalmente uscire da una vita di sterili desideri e di vane aspirazioni per cominciarne una nuova veramente feconda di opere che, rendendo a Dio la dovuta lode e ringraziamento abbia a farmi più lieto e felice nella pace serena della Sua santa amicizia”.
Dopo la laurea diviene terziario francescano: l’appartenere ad un ordine ecclesiale sembra appagare il bisogno di impegnarsi in una vita intensamente religiosa. Per dirla con don Giussani, si presentò come “una proposta che dimostrò come la fede e la vita cristiana fossero capaci di rispondere alle problematiche teoriche ed esistenziali che proprio in età giovanile hanno la base del proprio rigoglio”.
Verso la grande scelta
Qualche mese fa durante la celebrazione per il centenario della sua nascita fra Pasquale Piles – priore generale di Fatebenefratelli – ha definito tutti questi momenti della sua vita “di grandissimo significato e vissuti con molto anticipo sul suo tempo”.
Lo vediamo prima sotto le armi durante la grande guerra e dopo come medico condotto, servitore leale dello Stato ma anche capace di prenderne le distanze, come quando rifiutò l’imposizione di iscriversi al partito fascista e di rifiutare la pensione di guerra attribuitagli per le gravi conseguenze di salute subite durante la ritirata di Caporetto “perché ho già lo stipendio da medico condotto”. Chi, oggi, farebbe una cosa simile?
Ancora una volta però esprime – in una lettera alla sorella suora – il disagio interiore: “… devo raccogliermi una buona volta dalla mia troppa dissipazione, per attendere con più attenzione ed amore e tranquillità allo studio e alla cura dei miei ammalati, poiché essendo questi affidati in modo tutto speciale ed esclusivo a me, per dovere professionale, di questi dovrò rendere conto al Signore” ed anche “… prega affinché la superbia, l’egoismo e qualsiasi altra mala passione non abbiamo ad impedirmi di vedere sempre Gesù sofferente nei miei malati. Lui curare, Lui confortare”.
Di qui a poco tenterà di bussare alla porta dei Francescani poi a quella dei Gesuiti, subendo netti rifiuti; saranno i Fatebenefratelli ad accoglierlo.
Il 6 giugno del 1927 Riccardo stilò la domanda di ammissione all’ordine e informando i parenti della decisione, chiedeva loro “le più sentite scuse per il grave dispiacere recato”. Scrive nella domanda a fra Zaccaria Castelletti: “seguendo il di Lei consiglio e confidando completamente nell’aiuto della Divina Provvidenza mi rivolgo a Lei umilissimamente onde essere ammesso a far parte dell’Ordine di San Giovanni di Dio” e qualche giorno più tardi scrive alla sorella suor Longina “… nonostante la salute un po’ cagionevole e gli esiti di pleurite il Padre provinciale dell’Ordine Ospedaliero dei Fatebenefratelli mi ha detto che ben volentieri mi avrebbe accolto (se ne avevo la vocazione). Da un po’ di tempo come già sai, sentivo il bisogno di una regola per poter continuare in una via buona senza pericolo di troppo gravi cadute, ho accettato la fraterna offerta, ed il giorno 6 ho presentato la domanda di ammissione… I doveri materiali, dovendo anche in questa nuova via svolgersi nel campo medico, stando anche alle spiegazioni e informazioni datemi, certo non riusciranno superiori alle mie forze e probabilmente, con una maggiore regolarità di vita esse potranno sempre meglio stabilirsi: in tutti i modi accetterò volentieri quanto il Signore vorrà mandarmi”.
Sembra a questo punto sempre più chiaro il “piano divino”: i Fatebenefratelli lo accolgono per l’ospitalità (quarto voto che li differenzia dagli altri voti religiosi) “tanto ricevuta quanto poi offerta” e in più è un ordine religioso ospedaliero e quindi in grado di realizzare a pieno le sue potenzialità umane e spirituali. E oltre tutto in pochissimo tempo a disposizione: morirà infatti dopo tre anni.
Il suo essere religioso nei Fatebenefratelli è stata una testimonianza di grande semplicità tanto nell’esercitare la sua professione quanto nel fare le pulizie in corsia o nel rifare il letto ai malati: da frate trova la forma definitiva della sua vocazione battesimale alla santità.
Proporre San Riccardo come un “santo nato” è riduttivo; ha “voluto essere santo”. Nella sua mitezza si è impegnato per la santità in un contesto personale e storico estremamente difficile e non solo nel cercare un istituto religioso che lo accogliesse. Da tutto questo emerge la figura di una persona di una certa fortezza e determinazione.
Scrive don Giussani: “Le figura dei grandi santi sono spesso dominate dall’importanza che nella loro vita spirituale si è data alla forza di volontà. Ed è vero che esse ne sono un esempio impressionante. Ma tutto ciò è come la conseguenza ovvia di ben altro. L’equivoco potrebbe essere nel non capire che la volontà per il santo non è tanto volontà di riuscire, ma è un volere di Dio, il desiderio attivo di un Altro”.
Con i Fatebenefratelli
Scrive ancora don Giussani nell’introduzione al volume Il santo semplice – vita di san Riccardo Pampuri: “San Riccardo Pampuri dei Fatebenefratelli incarna l’ideale della santificazione della vita di ogni giorno e in lui ognuno può trovare un frammento del proprio cammino”.
Scriveva a suor Longina il 23 agosto 1927: “I miei soliti difetti della sventatezza, disordine, pigrizia purtroppo non sono rimasti a Morimondo, ma mi hanno seguito anche sotto il nuovo abito. Siccome però sarebbe troppo grave pericolo ed inconveniente che essi continuassero più a lungo rendendomi un cattivo religioso invece del mediocre secolare di prima io spero, con uno sforzo di buona volontà, sotto la protezione di Gesù crocifisso, di Maria e del nostro fondatore Giovanni di Dio di riuscire gradatamente a liberarmene fino a quel tanto che può essere compatibile con la vita di un buon religioso”.
E qualche mese più tardi da novizio scrive sempre alla sorella suor Longina: “… prega tanto mia buona sorella, perché il Signore dia sempre al nostro caro ordine dei religiosi sempre buoni, osservanti e santi; è tanto bello convivere con dei santi confratelli, e torna così facile, con essi, l’adempimento dei propri doveri”.
Il 24 ottobre 1928 diventa finalmente fra Riccardo e scrive con molta gioia alla sorella: “… eccoci infine più fraternamente uniti nell’amore e nel servizio di Dio, nel comune vincolo dei sacri voti: possiamo così veramente gustare, anche a distanza di tante e tante centinaia di miglia ‘quanto sia dolce e soave l’abitare insieme in quel Cuore divino’ nel Quale solo le anime nostre possono trovare, con la mirabile Comunione dei Santi, la loro perfetta pace e piena felicità…”.
Dopo la professione lo incaricano di tenere dei corsi di aggiornamento, dei corsi di infermiere, e quindi gli affidano la direzione del gabinetto dentistico dell’ospedale di Brescia, a cui ricorrono soprattutto i poveri.
Intanto la sua salute comincia a peggiorare (a suor Longina nel 1929) anche se non trapela in modo chiaro dalle missive: “… alla vigilia di ritornare a Brescia ottimamente rimesso in salute ringrazio di nuovo di tutto cuore te e le tue ottime consorelle di avermi tanto aiutato a riacquistarla con tante fervide preghiere…” ed anche allo zio medico (Brescia 5 settembre 1929) “… io vado sempre migliorando e il processo infiammatorio è in completa via di regressione essendo discesa ormai a 37.4 la temperatura serotina…” e fino agli ultimi giorni della sua vita accennerà solo velatamente ai gravi problemi di salute.
L’epilogo è il coronamento delle sue aspirazioni. Dio è sempre più vicino: una grave caduta di pleurite che lo affliggeva da tempo, degenerata in tubercolosi, gli fa capire che la morte è prossima. Da medico esperto quale egli è, Pampuri si prepara all’appuntamento con serenità, anzi con gioia. Quanti lo hanno visto negli ultimi giorni trascorsi nell’ospedale milanese di san Giuseppe, hanno concordato nel sottolineare il suo stato d’animo: “Pareva uno alla vigilia delle nozze – ha dichiarato il nipote Alessandro durante i processi canonici – l’idea del Paradiso lo affascinava”.
Si spegneva il 1° maggio 1930: era il giorno di sabato dedicato alla vergine Maria, alle ore 22 circa; il Papa lo eleva agli onori dell’altare e il 1° ottobre 1989 lo iscrive nell’albo dei santi.
San Riccardo Pampuri è il secondo santo dell’ordine dei Fatebenefratelli dopo il fondatore san Giovanni di Dio “il pazzo di Dio”. Non è facile trovare tra i due delle caratteristiche comuni – sebbene in qualche recente biografica si parla della loro “fatale malattia ai polmoni contratta dopo eroici gesti” oppure del comune istinto di carità o anche della dedizione per gli infermi – anche per i quasi cinquecento anni che li separa. E forse cercare dei parallelismi non è necessario: la sua breve permanenza nel nostro ordine, atto finale della sua vita, è appunto provvidenziale ed è un privilegio che ci ha concesso il Signore e nello stesso momento è stata, per la Chiesa e per i fedeli, la possibilità di essere conosciuto nel mondo.
Il carisma di San Giovanni di Dio si attualizza in san Riccardo Pampuri attraverso l’anticipazione di quella che oggi chiamiamo “nuova evangelizzazione per una nuova ospitalità”.
Non fece opere clamorose ma la straordinaria partecipazione di popolo ai suoi funerali dimostra quanto egli avesse lavorato tra la sua gente, con quale amore e con quanta dedizione, tanto che la Chiesa di Trivolzio, dove si trovano ora le sue spoglie, è meta sempre più frequentata da fedeli e pellegrini che chiedono le “grazie” per ritrovare la salute fisica e la pace spirituale.
Anche la preghiera, composta da monsignor Giovanni Volta, vescovo di Pavia, traccia il profilo di una figura nata e vissuta nella semplicità della fede e dell’amore: “San Riccardo, hai camminato un tempo per le strade della nostra terra, hai pregato nel silenzio delle nostre chiese, hai servito con amore ed intelligenza gli ammalati nelle nostre case, sei stato accogliente verso ogni persona che ti ha cercato. Oggi, come un tempo i tuoi malati, anch’io cerco e mi rivolgo a te perché tu mi aiuti a guarire nel corpo e nello spirito e mi ottenga dal Signore la tua stessa fede”.
Michelini: Ero malato gravemente; quando mi hanno messo sulla barella per portarmi in sala operatoria, la cosa che ho visto prima di perdere la conoscenza a causa della puntura, è stato, sopra la porta della sala operatoria, un quadro con il ritratto di san Riccardo Pampuri, e naturalmente l’ho pregato. Poi ho perduto la conoscenza per tante ore. Il mio intestino si era rotto e i medici hanno fatto svelto a chiudere l’operazione che avevano fatto, e mi hanno mandato a morire. A un certo punto, invece, mi sono svegliato e vicino a me c’era un frate che mi assisteva, e io ho creduto che fosse san Riccardo, anche perché gli assomigliava molto, e ho chiamato: “Padre Riccardo, la ringrazio perché adesso…”; ma subito non sono stato tranquillo perché non ero sicuro di ciò che dicevo. Intanto quel padre, che mi aveva dato anche l’estrema unzione, e che aspettava solo di assistermi nei miei ultimi momenti, si è spaventato perché parlavo forte. Un ammalato che è stato operato così non ha più voce, invece io gridavo; allora è andato a chiamare i dottori, i quali mi hanno voltato da tutte le parti, increduli; poi è cominciata la notizia che non poteva essere che un miracolo aver subito un’operazione simile e poi guarire immediatamente. Sono stato visitato da tanti medici ma nessuno può dire niente: ci sono le lastre, le radiografie durante la malattia, l’operazione e dopo l’operazione, e non c’è nessuna parola da dire se non “miracolo”.
Beretta: San Riccardo non nasce santo, ma ha voluto diventare santo, si confessava tutti i giorni, e poi pregava. San Riccardo non è un santo fuori dal mondo; certo prega, ma prega per fare, è un santo concreto, vicino a noi. Rifiuta il matrimonio però sa che cosa è il matrimonio; dice a un suo collega medico: “Non è prendere una donna che ci faccia i mestieri o ci faccia da mangiare, non è nemmeno prendere una perché ha i capelli belli. Il matrimonio è un camminare insieme verso Dio”. Il suo impegno in parrocchia è concreto: cerca i reclams per il bollettino parrocchiale, organizza le pesche in parrocchia.
San Riccardo si può definire con due sue frasi: ‘Pensare sempre e solo al Signore e lasciare che il Signore pensi a noi’. Questo è l’essenziale.
Trivolzio è un paese di 1020 abitanti: non c’è sulle carte geografiche: Dio ha scelto questo piccolo paese per essere un richiamo, per dire qualcosa ai cristiani che oggi lo vogliono ascoltare.
La devozione a San Riccardo c’è sempre stata: diventa beato, diventa santo, ci sono i miracoli, di Michelini a Milano, poi un miracolo avvenuto a Gorizia, ed uno di un ragazzo spagnolo per cui diventa santo; i Fatebenefratelli lo fanno conoscere in tutto il mondo, ma la devozione a san Riccardo rimane una devozione locale.
Sono arrivato a Trivolzio nel 1988, l’anno prima che lui diventasse santo; a Trivolzio ci sono tre cose: il canto, l’oratorio e san Riccardo. Quando sono arrivato mi piaceva molto l’oratorio, ero stato vent’anni a far scuola coi ragazzi, e quindi mi sono dato a rinnovare l’oratorio. E l’oratorio è stato, nei primi anni in cui ero a Trivolzio, il centro della mia attenzione. Ma il secondo anno che ero a Trivolzio, San Riccardo diventa santo: con questo c’è stato un rilancio della devozione. Ma è ancora una devozione locale: la domenica eravamo solo noi a Trivolzio, solo il 1° Maggio c’era tantissima gente. Il 9 Dicembre del’88, ho messo un registro vicino all’altare di San Riccardo, in cui la gente avrebbe dovuto mettere le firme, invece la gente incomincia a scrivere, a chiedere: il primo registro dura tre anni, il secondo tre anni; dal ’95 ad adesso ce ne sono ventuno…
La svolta è avvenuta il 1° Gennaio 1995.
Comunione e Liberazione conosce San Riccardo a Coazzano, vicino a Trivolzio, dove c’è una casa di Comunione e Liberazione intitolata a San Riccardo Pampuri già da tempo. Ma io nel 1995 pensavo già al centenario, cercavo di far qualcosa, pensavo di adattare l’oratorio per qualche manifestazione: improvvisamente a un certo punto il Signore, che è imprevedibile, arriva a un qualcosa, qualcosa che non è un disegno di CL, come qualcuno ha anche pensato, o un disegno di altri. Mi chiamano in Chiesa un sabato, era la fine di gennaio, c’era la Chiesa piena: tutti dicono che san Riccardo ha fatto un miracolo. Il dottor Rusconi mi ha chiesto le lettere di san Riccardo; mi mandano la fotocopia di “Trenta Giorni”, con la lettera della Cristina Bologna, che raccontava il miracolo fatto da San Riccardo il 1° Gennaio. Poi esce “Tracce” di febbraio, con la vita di san Riccardo e sempre la testimonianza della Cristina Bologna. A marzo “Tracce” scrive la vita del Moscati di Napoli con tantissimi altri miracoli, eppure la gente di Napoli arriva a Trivolzio.
Ciò che porta la gente a Trivolzio, più di “Tracce” e di qualsiasi altra cosa è l’invito di monsignor Giussani: “Andate da San Riccardo a dire un Gloria”. La gente arrivava, le prime volte magari titubante, con la paura che il parroco li mandasse via… poi vista la disponibilità e l’accoglienza – San Riccardo è stato accogliente – la gente è aumentata, tutte le domeniche c’era la Chiesa piena.
Un’altra svolta è stato il raduno di Gioventù Studentesca nel Giugno del ’95. Arrivano quelli di GS e mi dicono: “Possiamo fare qui il raduno? 1500 o 2000 persone”, ne parlo col sindaco e lui mi dice: “Ma lei è matto! Un paese di 1000 persone, 2000 persone dove le mettiamo?”. Dico: “Lei non si preoccupi”. Mandiamo i pullman in una cascina, dentro l’oratorio avviene tutto, la Messa nella casa… abbiamo fatto quasi 1600 comunioni.
Per me è stata una sorpresa bellissima il vedere i tantissimi giovani arrivare: adesso arrivano specialmente al sabato sera gli studenti di Milano, in Chiesa ci sono quasi duecento giovani. Nei registri chiedono soprattutto la vocazione, di trovare la propria vocazione: san Riccardo aveva chiaro che la sua vocazione non era il matrimonio, però ha tribolato a trovare la vocazione vera.
Non abbiamo chiamato la gente, la gente è arrivata. Quest’anno cerchiamo di fare qualcosa per il centenario, guardiamo al futuro, e certamente non vogliamo rinunciare alla semplicità, la stessa semplicità di san Riccardo.