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SAN CARLO BORROMEO. LA CASA COSTRUITA SULLA ROCCIA
San Carlo Borromeo. La casa costruita sulla roccia
25/08/2011 ore 15.00 Presentazione della mostra. Partecipano: S. Em. Card. Dionigi Tettamanzi, Amministratore Apostolico dell'Arcidiocesi di Milano; Armando Torno, Giornalista de Il Corriere della Sera. Introduce Giuseppe Bolis, Docente di Introduzione alla Teologia all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e curatore della mostra.
Presentazione della mostra. Partecipano: S. Em. Card. Dionigi Tettamanzi, Amministratore Apostolico dell’Arcidiocesi di Milano; Armando Torno, Giornalista de Il Corriere della Sera. Introduce Giuseppe Bolis, Docente di Introduzione alla Teologia all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e curatore della mostra.
GIUSEPPE BOLIS:
Buongiorno a tutti e benvenuti alla presentazione della mostra su san Carlo Borromeo, “La casa costruita sulla roccia”. Il mio compito in questa sede è semplicemente di descrivere quello che ho visto in questi giorni durante la visita della mostra, soprattutto in questa giornata nella quale Sua Eminenza il Cardinal Dionigi Tettamanzi, che salutiamo caldamente, è venuto per la prima volta al Meeting di Rimini, lui che ha voluto fortemente l’anno dedicato a Carlo Borromeo che si sta concludendo e anche questa mostra del Meeting di Rimini. E in secondo luogo, saluto anche, altrettanto caldamente, il dottor Armando Torno, editorialista del Corriere della Sera, che farà da spalla, come ci dicevamo qualche minuto fa, a Sua Eminenza, per descrivere l’attualità e la sfida che Carlo Borromeo, un santo vissuto più di quattrocento anni fa, ha portato e porta. Innanzitutto, io sono rimasto e rimango stupito e colpito da come tante persone che visitano la mostra siano stupiti e colpiti dall’intensità di vita e dalla passione alla realtà che questo uomo, Carlo Borromeo, ha vissuto e dalla certezza che traspare dalla sua esistenza. Una delle guide, a conclusione del lavoro di preparazioni della mostra, una ragazza di 19 anni, matricola di filosofia all’Università Cattolica di Milano, mi ha guardato come solo i ragazzi a questa età sanno fare e mi ha sfidato dicendomi: “va bene, lui ha vissuto così intensamente, ed io? Come posso diventare santa? Devo fare tutto questo?”. E mi è venuto spontaneo – poi quello che ho visto in questi giorni è esattamente questo – mi è venuto spontaneo ripensare all’immagine medioevale di quel bambino sulle spalle di un gigante. Ecco, in questi giorni io sto vedendo questo, noi siamo dei nani, dei bambini, ma su spalle di giganti, che sono i santi come Carlo Borromeo che ci hanno preceduto e continuamente ci sfidano. E allora, è veramente con il cuore colmo di gratitudine, e queste ore vissute con Sua Eminenza qui al Meeting me l’hanno riconfermato, che, non aggiungo altro, lascio subito a lui la parola, per dirci chi è per lui Carlo Borromeo, chi è per lui e chi è per noi, oggi, Carlo Borromeo. A lei la parola, Eminenza.
S. EM. CARD. DIONIGI TETTAMANZI:
Carissimi, dalla bocca e dal cuore mi esce spontanea questa professione di fede, semplicissima e insieme di straordinaria profondità. Tutto è grazia, sì, tutto è grazia. Anche questo nostro incontro. Sento su di me la mano della provvidenza di Dio. E’ questa provvidenza che ha voluto che il mio ultimo anno alla guida pastorale della Diocesi di Milano coincidesse con il IV centenario della canonizzazione di san Carlo Borromeo, avvenuta il 1° novembre 1610 con papa Paolo IV. Sento di ringraziare il Signore perché questo è stato un anno molto intenso, ricco di iniziative di grande significato spirituale, pastorale e culturale per la Chiesa ambrosiana.
Mi permetto di segnalare solo qualche dato, ricordando innanzitutto l’inizio di questo centenario che ha avuto come evento importante la lettera apostolica di Benedetto XVI Lumen caritatis, del 1° novembre 2010, lo stesso giorno anniversario della canonizzazione; evento importante e per me particolarmente gioioso per la possibilità di leggere e presentare la lettera del Papa ai fedeli ambrosiani nella solennità di san Carlo, il 4 novembre scorso. Nella lettera il Santo Padre delinea in sintesi alcuni fondamentali aspetti della santità del Borromeo.
Desidererei richiamarli.
Il primo aspetto rimanda alla sua opera di vescovo riformatore. San Carlo, attuando con sapienza e originalità i decreti del Concilio di Trento, ha riformato quella Chiesa che lui profondamente amava; anzi, proprio perché la amava di un amore sincero, l’ha voluta rinnovare, contribuendo a ridonarle il suo volto più bello, quello della Sposa di Cristo, una sposa senza macchia e senza ruga.
Un secondo aspetto della santità di Carlo Borromeo: è stato uomo di preghiera, di preghiera convinta, intensa, prolungata, innervata e fiorente nella sua vita di pastore. Se san Carlo fu innamorato della Chiesa, lo fu perché prima ancora fu innamorato del Signore Gesù, presente e operante nella Chiesa, nella sua tradizione dottrinale e spirituale, presente nell’Eucaristia, nella Parola di Dio. Soprattutto fu innamorato di Cristo crocifisso, come ci documenta l’iconografia che non a caso ha voluto tramandarci l’immagine di questo santo in contemplazione e in adorazione della Passione e della Croce del Signore.
Infine Carlo Borromeo fu santo – ci ricorda il Papa – perché ha saputo incarnare la figura del pastore zelante e generoso, che per il gregge affidato alle sue cure è pronto a sacrificare tutta la propria vita: san Carlo fu davvero “onnipresente” nella Diocesi di Milano attraverso le visite pastorali, fu attento in maniera profetica e incisiva ai problemi del suo tempo; soprattutto, come i grandi vescovi del Medioevo, fu autenticamente pater pauperum, padre dei più poveri e dei più deboli: basti pensare a quello che seppe realizzare anche dal punto di vista caritativo e assistenziale durante i momenti drammatici delle carestie e della peste del 1576. La lettera del Papa si intitola giustamente Lumen caritatis, perché fa riferimento esplicito alla carità pastorale che quotidianamente e in maniera eroica san Carlo seppe vivere e praticare.
Davvero, a imitazione di Cristo che ha dato la sua vita per la nostra salvezza, san Carlo ha letteralmente “disciolto” la propria vita nella carità pastorale. Da quando divenne vescovo di Milano, in modo programmatico e sistematico egli antepose la causa del Vangelo e il bene della Chiesa a tutto: alle proprie comodità, agli interessi privati e personali, agli interessi della famiglia o della cerchia degli amici, al proprio tempo libero, a tal punto da non aver mai tempo libero per sé, visto che tutto il tempo a disposizione di un vescovo – diceva lo stesso san Carlo – deve essere speso per la salvezza delle anime.
E’ per me una grande gioia che il centenario di san Carlo, iniziato con la parola del Papa, in un certo senso si concluda qui a Rimini, con questa manifestazione che si presenta nel suo duplice volto: culturale e spirituale.
C’è indubbiamente l’aspetto culturale: oggi infatti viene inaugurata una mostra didattica sulla vita e sull’opera pastorale di Carlo Borromeo; vi sono pannelli, didascalie, supporti multimediali; c’è un catalogo con contributi scientifici. Tutto ciò è importante, perché permette di far conoscere sempre meglio, al di là di molte semplificazioni e oltre letture parziali o persino ideologicamente pregiudicate, il vero volto di questo grande vescovo, autentico interprete della riforma tridentina della Chiesa.
Ma personalmente mi preme sottolineare soprattutto l’aspetto spirituale dell’iniziativa, come chiaramente emerge dal titolo che gli organizzatori hanno voluto scegliere per questa mostra: “La casa costruita sulla roccia”. Il riferimento è alla celebre pagina che chiude il Discorso della Montagna, con la parabola dei due uomini che costruiscono la loro casa, il primo sulla sabbia, l’altro sulla roccia. E l’esito è del tutto prevedibile: la casa del primo, davanti alle prime avversità della vita e alle tempeste della storia, crolla inesorabilmente; la casa del secondo, nonostante le difficoltà della vita e gli sconvolgimenti della storia sta in piedi e resiste. E la roccia su cui è costruita la casa è Cristo Signore, è il suo Vangelo di verità e di vita (cfr. Matteo 7,24-27).
Veramente questa parabola può essere riferita in modo particolare a san Carlo e alla sua opera: tutto quello che egli ha fatto e realizzato, lo ha edificato sulla roccia incrollabile che è Cristo, sulla piena coerenza e fedeltà al Vangelo, sull’amore incondizionato per la Chiesa del Signore. Per questo ciò che san Carlo ha edificato è resistito alle tempeste dei suoi tempi; è resistito anche al logorio dei secoli che passano, come testimonia il fatto che ancora oggi molte delle sue intuizioni, molte delle soluzioni pastorali e istituzionali da lui escogitate o prefigurate conservano una loro permanente validità, una loro incisiva attualità, non solo per la Diocesi di Milano, ma anche per l’intera Chiesa latina occidentale.
Non a caso parlo di “attualità”, perché devo confessarvi che più volte, durante questo centenario, mi sono chiesto, passando in rassegna gli aspetti salienti della santità di Carlo Borromeo, se egli è davvero un santo ancor oggi “attuale”: se cioè ha qualcosa di grandemente significativo da dire anche al nostro presente, se ancora per noi oggi – come lo fu quattrocento anni fa – è un modello di vita evangelica non solo da ammirare, ma anche in vario modo da imitare.
È una domanda forse un po’ scontata, cui possiamo senz’altro rispondere positivamente: sì! Anche oggi san Carlo parla a noi, anche oggi per noi è un valido modello di santità. E la lettera del Papa da cui abbiamo preso le mosse, la stessa mostra che qui a Rimini è stata allestita, le iniziative di vario genere che hanno costellato questo anno “carolino”, lo provano in maniera incontrovertibile.
Certamente non possiamo correre il rischio di cadere in qualche anacronismo, perché dobbiamo apertamente riconoscere che non poche cose nella Chiesa e nel mondo d’oggi sono cambiate rispetto alla situazione della Chiesa e della società del tardo Cinquecento. E dobbiamo anche riconoscere che taluni aspetti dell’azione pastorale di san Carlo – così come alcuni aspetti del suo stile di vita (pensiamo soprattutto alla sua rigorosissima ascesi penitenziale) – non sono materialmente e automaticamente riproponibili oggi senza le necessarie e adeguate mediazioni. Ma, nonostante questa ovvia constatazione, che peraltro vale sempre quando ci riferiamo ai personaggi del passato, ci sono alcuni punti salienti della santità di Carlo Borromeo che, nel loro significato più profondo ed evangelico, hanno veramente una valenza perenne. E quindi una valenza anche per la nostra vita di cristiani del terzo millennio, nella misura in cui anche noi, oggi, come lui quattrocento anni fa, vogliamo «costruire la nostra casa sulla roccia», da “uomini saggi”.
E tuttavia, da questo punto di vista, la figura di san Carlo è grandemente provocatoria, perché mette in crisi molti aspetti del modo di pensare e di vivere del mondo attuale. È per questo che durante il centenario, raccogliendo alcune esperienze e ricordi personali del mio accostarmi ed entrare in rapporto con la figura del Borromeo, ho voluto scrivere anch’io un libro dal titolo suggestivo e stimolante: “San Carlo, un riformatore inattuale”.
Mi permetto di soffermarmi un poco su questo aggettivo. “Inattuale” infatti si contrappone immediatamente ad “attuale”. Sono due termini però che solo apparentemente si contrappongono, perché l’uno può facilmente trapassare nell’altro. Così, se ad esempio per “attuale” si intende “secondo la moda del momento”, “secondo la mentalità del tempo presente”, “secondo l’opinione condivisa dai più”, è chiaro che san Carlo è “inattuale”. Lo abbiamo già detto e lo vogliamo sottolineare per una migliore comprensione dell’attualità-inattualità: i tempi del Borromeo non sono i nostri; il suo modo di leggere i problemi e di risolverli non è il nostro; né meccanicamente possiamo prendere talune sue soluzioni e applicarle al nostro mondo, “attuale” appunto.
Viceversa, se per “inattuale” si intende ciò che si radica nei valori fondamentali della tradizione cristiana, se per “inattuale” si intende restare ancorati a quella roccia che è Gesù Cristo e che dà vera solidità all’intera costruzione della casa, se tutto ciò viene giudicato inattuale solo perché non si adegua a ciò che oggi è ritenuto “politicamente corretto”, dovremmo allora chiederci se l’inattualità di san Carlo non si trasformi in una singolare e urgente “attualità” di ripensamento, di rivalutazione dei nostri metri di giudizio, di riforma del nostro modo di vivere e di convivere.
In questa linea, prendendoli dalla biografia di san Carlo, presento tre esempi cercando di applicarli ai nostri tempi “attuali”.
Il primo riguarda la fedeltà al dovere del proprio stato di vita come forma propria dell’identità del cristiano. Il Borromeo ebbe la consapevolezza vivissima di che cosa significasse essere vescovo di una importante Diocesi in tempi difficili di transizione, di riforma e di cambiamento: e proprio per questo cercò sempre di adeguare le sue scelte e le sue azioni a una vera “deontologia”, cui rimase fedele in maniera eroica e davanti alla quale seppe sacrificare tutto il resto. Questo senso del dovere san Carlo lo chiedeva anche ai suoi preti, per gli uffici che essi dovevano svolgere; e lo chiedeva ai fedeli laici, uomini e donne, secondo la loro condizione. Non accettava, lui per primo, le mezze misure e gli accomodamenti, con un facile livellamento verso il basso in nome di una incolore mediocrità. Gli storici ci ricordano che quando era giovane cardinale a Roma, prima della sua cosiddetta “conversione”, aveva vissuto un «cristianesimo senza infamia e senza lode». È proprio il rischio che in ogni tempo corriamo noi cristiani, gli stessi preti e vescovi: accontentarsi di una vita cristiana scialba, in cui si evita giustamente il male “macroscopico” (che potrebbe procurarci infamia), ma che si riduce al minimo indispensabile per mettere a posto la propria coscienza, rapidamente, senza troppi scossoni.
Oggi, quando tutti ci sentiamo già arrivati e non vogliamo sentirci troppo inquietati, parlare di “conversione” parrebbe per l’appunto “inattuale”, o per lo meno inopportuno. Al contrario l’esempio di san Carlo è attualissimo e singolarmente urgente, perché sempre nella Chiesa i cristiani, tutti i cristiani a ogni livello, sono chiamati a “convertirsi” da un cristianesimo “senza infamia e senza lode”, da un cristianesimo incolore e insapore (senza cioè la luce e il sale del Vangelo), a una vita cristiana convinta, lucida e vigilante, all’esercizio fedele del proprio dovere sempre e comunque, alla ricerca di un cammino di perfezione che ci conforma sempre più al modello di ogni perfezione: Cristo Gesù, nostro Signore. È esattamente quanto fece in modo programmatico e sistematico san Carlo: il suo esempio non ci permette scuse o diversivi. Egli è veramente sempre attuale, perché richiama i cristiani di ogni tempo, richiama anche noi cristiani del terzo millennio alla perenne e irrinunciabile necessità di metterci in discussione. In particolare devo dire che dalla lettura degli scritti di san Carlo e delle sue indicazioni pastorali ho avuto chiara l’impressione che egli vivesse con una grande inquietudine la distanza – che peraltro sempre esiste – tra la meta altissima cui il Signore ci chiama (la santità) e la nostra concreta risposta. Se san Carlo si sentiva in difetto – e di qui nasceva la sua inquietudine, il suo non sentirsi tranquillo in coscienza -, che cosa dovremmo dire e fare noi? C’è allora una domanda alla quale non possiamo sottrarci: dove, in quali ambiti della nostra vita, del nostro dovere di stato, dobbiamo ancora “convertirci”, a imitazione di san Carlo, per uscire da una vita cristiana mediocre, “senza infamia e senza lode”?
Carlo Borromeo è attuale anche per un altro aspetto: la formidabile capacità di saper coniugare in modo equilibrato l’azione e la contemplazione. Tutti abbiamo presenti le tante immagini di san Carlo assorto in preghiera, specie davanti al Crocifisso, immerso in vere e proprie esperienze mistiche. Ma la forte dimensione contemplativa che egli seppe imprimere alla propria vita non lo distolse mai dal suo dovere di pastore d’anime. Anzi, possiamo affermare che egli divenne uno dei grandi modelli di vescovo e di pastore precisamente perché la sua attività pastorale era permeata profondamente di preghiera e di contemplazione. San Carlo “fece” molto nella sua vita, molteplici furono le realizzazioni portate a termine; anzi ci chiediamo con meraviglia dove trovasse il tempo e le forze per fare tutto quello che poi ha fatto. Ci verrebbe da dire che tutto quello che fece ha del miracoloso: è proprio così! Veramente ha del miracoloso perché tutto era intriso di preghiera, di colloquio con Dio, permeato dalla contemplazione amorosa dei misteri di salvezza di Cristo, a cominciare dalla sua Passione, Morte e Risurrezione. Questo è il messaggio sempre attuale che ci viene da san Carlo: la comunione con Dio, la preghiera, la contemplazione non ci strappano dalla storia ma in essa ci immergono in profondità, dandoci la forza di fare anche miracoli nel mondo e per il mondo. Invece il nostro è un tempo malato di attivismo, frenetico nel fare, impegnato a produrre beni e servizi se si vuole non sprecarlo. E così il nostro tempo finisce per valutare la persona non per quello che è, ma per quello che fa e produce. In un simile contesto non si deve forse parlare di contemplazione, di meditazione, di preghiera, di silenzio, come di quanto di più “inattuale” il nostro tempo potrebbe sperimentare? La verità però è esattamente il contrario. San Carlo ci sollecita a non lasciarci ingannare da questa specie di droga, ma a riportare ordine nella nostra vita, recuperando il primato di Dio su tutto, nella certezza che il resto verrà di conseguenza. E’ il monito stesso del Signore: “Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta” (Matteo 6,33).
E se c’è un aspetto dell’attività pastorale di san Carlo che più di ogni altro ha impressionato i suoi contemporanei al punto che proprio per questo cominciarono a considerarlo eccezionale, fu la sua attività caritativa. Soprattutto durante la terribile peste del 1576 si spogliò letteralmente di tutto, dei beni di famiglia, dei beni personali, non solo delle cose superflue, ma dello stretto necessario pur di dare un aiuto al popolo di Milano colpito dall’epidemia. E non solo si prodigò nei momenti di emergenza; volle anche che alcune istituzioni caritative perdurassero oltre l’emergenza della peste, consapevole che la povertà, il bisogno, l’emarginazione, il degrado sociale e morale sono un’emergenza di sempre, di ogni momento. E infatti in ogni momento san Carlo brillò come paterno soccorritore dei poveri, di ogni povero, di chiunque tendesse la mano per chiedergli un sostegno. E fu anche – per usare una terminologia della nostra cultura attuale – un “santo sociale”: seppe cioè leggere alla luce del Vangelo i problemi sociali del suo tempo, indicò alcune soluzioni concrete, non ebbe alcuna paura a denunciare le piaghe della società, come la corruzione pubblica, la pratica dell’usura, i privilegi ingiusti di alcune caste, la mancanza di quella che oggi chiameremmo “coscienza civica” o “attenzione al bene comune”.
Ma c’è ancora un altro aspetto della santità del Borromeo che merita di essere richiamato: è la dimensione ascetica della sua vita. Su questo punto egli fu rigorosissimo, fino a suscitare forti critiche e malintesi in chi gli viveva accanto. Fu povero, casto, umile, penitente; praticava con grande serietà il digiuno, prolungava la preghiera nelle ore notturne per non sottrarre il tempo diurno agli impegni pastorali; riduceva al minimo il riposo, anzi tendeva a non riposarsi affatto. Sappiamo che i medici più volte lo rimproverarono di non curarsi a sufficienza, e lui, per tutta risposta, diceva che, se uno dà retta ai medici, non può fare il buon vescovo! La morte, sopravvenuta a soli 46 anni, sigillò una vita che si era letteralmente consumata nelle pratiche ascetiche. E’ un aspetto questo che ci lascia meravigliati, come lo furono i suoi contemporanei, che giustamente si chiedevano se san Carlo fosse imitabile in queste virtù a causa del loro carattere di eroicità. E ce lo chiediamo anche noi oggi, senza però cadere nell’insidia di giudicare eccessivo l’esercizio delle virtù ascetiche così come lo visse san Carlo, giudicarlo cioè “inattuale” secondo i parametri della nostra sensibilità odierna. Un simile giudizio non potrebbe essere un modo tranquillizzante per auto-esimerci dall’imitarlo? Ci è chiesta piuttosto l’onestà di ritrovare in questo un aspetto di grande attualità: oggi infatti parlare di “ascesi”, di “penitenza”, di “rinuncia” ci espone al rischio di essere derisi e giudicati gente fuori dal tempo e dal mondo, appunto appartenenti a un mondo di tanti secoli fa. E invece proprio noi abbiamo bisogno di un richiamo forte a purificare il nostro stile di vita per renderlo più sobrio, a riscoprire l’auto-controllo e il dominio dei sensi, degli istinti e delle passioni incontrollate: come via di una libertà interiore che ci rende padroni di noi stessi e del nostro autentico cammino verso il vero, il bene, il giusto e il bello.
Concludo ritornando a parlare della mostra che oggi viene inaugurata, rimarcandone un tratto originale. Al centro della mostra sono esposte non tre opere d’arte, ma tre autentiche reliquie che in qualche modo rivelano la personalità di san Carlo, sono un’epifania del suo cuore, una manifestazione del suo segreto spirituale.
Troviamo anzitutto l’anello del Borromeo. E l’anello di un vescovo ci parla simbolicamente del suo legame sponsale con la Chiesa che gli è stata affidata. E’ dunque il segno dell’amore pastorale, della fedeltà al ministero, della propria dedizione totale.
Incontriamo poi il bastone pastorale: è il simbolo dell’autorità e del governo del vescovo. Ma, come sappiamo, è in questione un’autorità che non può mai attuarsi come puro esercizio di potere. A imitazione di Cristo – il Buon Pastore per antonomasia – l’esercizio del governo pastorale coincide con l’offerta della propria vita sino alla piena consumazione di sé. Così ha fatto Cristo, così hanno fatto i santi pastori, come Carlo Borromeo.
Infine ci è dato di guardare al suo calice, quello da lui usato per celebrare il sacrificio eucaristico. Esso si pone come testimonianza della vita di preghiera che il vescovo deve avere; come richiamo che, in ultima analisi, è il sacrificio di Cristo sulla croce, sono la sua parola e i suoi sacramenti – in cui è presente ed efficace la sua azione di salvezza – ad edificare la Chiesa, ad illuminarla, animarla e guidarla.
Come dicevo all’inizio, con questo IV centenario della canonizzazione di san Carlo sono giunto al termine del mio mandato pastorale alla Chiesa di Milano. Ebbene vi confesso che questi tre “simboli” esposti (l’anello, il pastorale e il calice di san Carlo) accendono in me una profonda gioia spirituale, al pensiero che come li ho ricevuti dai miei predecessori così tra poco li trasmetterò al mio successore.
È il mistero bellissimo della “traditio”, della tradizione viva della Chiesa, che – come ci ha insegnato san Carlo – veramente è «la casa costruita sulla roccia»! Sì, “cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ma essa non cadde, perché era fondata sulla roccia” (Matteo 7,25). Ciò vale per la Chiesa che ci ha preceduto nel tempo, per la Chiesa che stiamo ora vivendo, per la Chiesa che si apre al futuro: una Chiesa sempre ricolma della grazia e dell’amore del suo Sposo e Signore. E’ allora senz’alcuna paura, ma con l’inalterabile e sovrabbondante fiducia che ci viene da Cristo, che tutti insieme siamo chiamati a proseguire il nostro cammino verso la santità, ascoltando la sua parola e rendendola esperienza quotidiana di vita: “Perciò chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica, sarà simile a un uomo saggio, che ha costruito la sua casa sulla roccia” (Matteo 7,24).
Ci sia di aiuto san Carlo! Grazie.
GIUSEPPE BOLIS:
Grazie Eminenza. Dopo che lei mi ha detto questa cosa a pranzo, io non ho mangiato il dolce, di sicuro, ma nello stesso tempo, ascoltandola, penso che la giovane matricola di filosofia della Cattolica abbia ricevuto la riposta, e quale risposta, alla sua domanda. Come per lei, anche per me, per ciascuno di noi è importantissimo raccogliere questa pro-vocazione di San Carlo, che, permettetemi di dire, proprio in forza di questa traditio è arrivata fino a noi oggi. Perché vedere Sua Eminenza oggi entrare al Meeting, e fermarsi a salutare tutte le persone che lo guardavano e che desideravano anche solo salutarlo, senza neanche conoscerlo magari personalmente, è stato rivedere, nel solco di questa traditio, il San Carlo, cioè la presenza di Cristo buon pastore che conosce le sue pecore una a una. Grazie di cuore, Eminenza, veramente, per la sua testimonianza. Questo applauso è di sicuro per lei. San Carlo, uno potrebbe pensare in questo momento, giustamente anche, è stato un grande santo, una grande figura, un grande padre, un grande pastore, nello stesso tempo dovete sapere che era un uomo, come don Giussani mi ha insegnato, ci ha insegnato, un uomo vero e per questo santo. Il santo è un uomo vero, e l’uomo vero è colui che dove arrivava lascia il segno, da tutti i punti di vista, e qualche punzecchiatura, la chiamo così prudentemente, dottor Torno, San Carlo l’ha lasciata dov’è arrivato, durante una visita pastorale, piuttosto che nel rapporto con il potere politico del tempo. Ora, Armando Torno ci aiuterà proprio su questo aspetto, che è l’altra faccia della stessa medaglia della santità di San Carlo, questo santo così sociale, come accennato da sua Eminenza nella sua presentazione. A lei.
ARMANDO TORNO:
Bene, grazie. Io volevo innanzitutto ringraziare il Cardinale Tettamanzi e il Meeting di Rimini per questa opportunità. Volevo anche dire che chiunque di voi comincerà la visita di quei quadri, di quelle riproduzioni di san Carlo, avrà già una serie di risposte. Quei quadri sono, lo ha detto il cardinal Tettamanzi, di un santo sociale, di un santo che andava tra la gente, è un santo descritto con grandi tele, con grandi momenti, con grandi situazioni. Tuttavia non è un santo che, diciamo così, dopo la sua vita, si ritira nell’ambito della meditazione o in altro, è un santo che continua ad agire. Infatti se si volesse rispondere a un paio di domande, o soprattutto alla domanda “ma cosa dice, a noi oggi san Carlo?”, ci sarebbe una risposta, diciamo così, che serve un po’ a tutto il mondo contemporaneo. Il Cardinal Tettamanzi ha osservato una serie di situazioni, di agganci, di argomenti, io mi permetto di aggiungere che san Carlo è un santo adatto al nostro momento politico, perché San Carlo ha invitato i cristiani, i credenti, a non tacere, ad agire, a essere se stessi in tutte le situazioni. Mi spiego semplicemente con degli esempi. Nel 1994 andarono all’asta da Christie’s sessanta lettere di Carlo Borromeo, che non erano ancora conosciute, tra le migliaia presenti in Ambrosiana, e queste sessanta lettere riguardavano, dato che il raccoglitore le aveva un po’ assemblate in questo modo, le controversie con lo Stato spagnolo. Ci sono dentro controversie di ogni genere: 1579, la questione del carnevale, la Spagna cercava di allungare i tempi delle feste, per farsi benvolere, san Carlo li restringeva, perché doveva rispettare il calendario liturgico: la Spagna ad esempio non voleva che si abolissero alcune parrocchie, San Carlo, quando entra in Milano e diventa operativo, nella sua riforma del clero, cancella sedici parrocchie, ovviamente ne apre altre, adatta la diocesi al Concilio di Trento. San Carlo, ad esempio, voleva esercitare il diritto di visita pastorale, quindi la presenza della Chiesa in ogni costruzione, in ogni comunità, e molte volte c’erano dei privilegi, e quindi queste controversie si sono trascinate nel tempo, si sono trascinate negli anni e sovente c’era un carteggio che partiva da Milano, arrivava a Roma, perché si chiedeva al Papa una dispensa o qualcosa di simile, ripiombava questo carteggio a Madrid, ritornava a Milano, e si può dire che, ogni volta, Carlo ha avuto la possibilità di farcela, anzi ce l’ha quasi sempre fatta. Controversie col potere politico, sempre, comunque, nonostante tutto. Carlo Borromeo è stato un santo che non ha mai taciuto. E forse l’esempio più chiaro si ha in un caso che avviene proprio nel cuore di Milano, e avviene nel convento di Santa Maria alla Scala, il convento, ve lo dirà il nome, che occupava la vecchia area dove ora sorge il Teatro alla Scala. Tutti sanno che l’architetto Piermarini, nel ’700, abbatté questo convento per costruire il teatro, quando appunto prese fuoco il ducale. Ma questo convento aveva una caratteristica, un privilegio, era esentato dalle visite pastorali, era stato costruito nella seconda metà del ’300 e i soldi messi dai Visconti avevano comportato che questa parrocchia fosse legata solo e semplicemente alla municipalità, ai signori di Milano, non alla diocesi. Il nome infatti deriva da una sposa dei Visconti, che era una Scala, quindi Santa Maria alla Scala. Per due secoli, questa chiesa non ha visite pastorali, ma al tempo di Carlo le cose cambiano. Innanzitutto perché inizia una controversia tra Carlo e il governatore spagnolo. Il governatore spagnolo fa appello ai suoi privilegi chiamando Roma, chiama in causa Roma, chiama in causa Madrid e Carlo la spunta. La visita pastorale di Carlo a Santa Maria alla Scala non avverrà tranquillamente, ma non perché Carlo fosse superbo. Per far vedere che era il pastore, entrò a cavallo in Santa Maria alla Scala, fece vedere che il potere politico doveva a un certo punto lasciare il passo al cavallo del pastore e con questo chiuse per un certo periodo le questioni, i dibattiti, che c’erano tra questa chiesa e la curia. Tanto più che nel ’700 si spiega l’abbattimento di questo complesso, proprio per un semplice fatto, perché tutti non ne potevano più per le controversie che erano riprese, e quando si chiese ai conti di Firmian uno spazio nel centro di Milano, questi dissero subito: abbattete quel convento e fate un po’ di spazio, che così avremo anche un po’ di pace. Carlo però, due secoli prima, aveva risolto un po’ tutto. È un insegnamento questo che ci viene da una pratica pastorale, forse è un insegnamento piuttosto forte, è un insegnamento che oggi potremmo anche interpretare con termini diversi, tuttavia io penso che vada interpretato in questo modo: un pastore non può rinunciare alla sua missione, un cristiano non può tacere. Praticamente si deve fare quello che va fatto. E allora questo invito a intervenire, questo invito a parlare, questo invito a visitare, questo invito a essere, è forse ancora la cosa più attuale di Carlo. Carlo poi era, e lo avete visto nei quadri, un santo, un cardinale, una figura eternamente attorniata dall’attenzione della folla, della fede, di tutto. Vedrete le fasi della vita, vedrete anche quando, segretario di Pio IV a Roma, conduce un certo tenore di vita, è un giocatore, sa giocare perfettamente a scacchi, sa giocare perfettamente a carte, sa benissimo tenere un’accademia di cultura, sa benissimo cos’è la buona musica, la buona cucina, poi lentamente, lentamente, quest’uomo diventa un asceta, si macera, si tormenta, si rende conto del momento cruciale che sta vivendo, e allora ecco che arriva a quella dieta che è stata invocata. Io ho ritrovato la dieta di San Carlo, era fatta di quattro sostanze: pane, acqua, legumi, frutta. Non mangiava altro, per mesi, per anni, ha mangiato soltanto questo, e talvolta nel periodo di Quaresima o di Avvento, si privava anche di qualcosa. Ora, un santo di questo genere, forse non ci rendiamo conto oggi di cosa ha suscitato nel suo tempo, ma accanto ai quadri voi potete trovare, è ancora in circolazione, un libro di Cesare Bonino, che è stato riproposto lo scorso anno dal professor Danilo Zardin e da Simonetta Coppa. Questo libro propone una serie di immagini che raccontano, anche per coloro che non sapevano leggere, i fatti della vita di Carlo, quello che realmente è accaduto. Quest’uomo era costantemente tra la gente, tra la folla, tra le persone più semplici, tra coloro che non sapevano leggere e scrivere ma capivano, e allora ecco l’immagine, ad esempio, di un ragazzo che cade nel fiume a Pavia e mentre cade, invoca San Carlo e si salva. Ecco l’immagine di un nobile, Giovangiacomo Lomazzo, che soffre del mal della formica, si reca al sepolcro di san Carlo, guarisce. Ecco l’immagine ad esempio dell’attentato, e qui si ritorna alla vita, il Farina che spara con l’archibugio a san Carlo e buca il rocchetto e la veste all’altezza della colonna vertebrale, ma Carlo rimane immune. Ecco, questi fatti, che dimostrano chiaramente una partecipazione e anche una diffusione di un’immagine, di un santo, di un modello, di una parola, di una testimonianza, non ci devono far dimenticare che in fondo questo è stato uno dei santi più voluti dalla popolazione. Canonizzato nel 1610, ma beatificato otto anni prima, nel 1602, si può dire che quegli otto anni sono un susseguirsi continuo di richieste di canonizzazione da parte della gente. Pensate che nel 1603 a Milano si contano 25 processioni spontanee; la gente si riuniva in processione, andava al sepolcro di Carlo, e poi organizzava qualche cosa di carattere sacro, una processione, chiedeva qualcosa, voleva sfilare per le vie della città a testimonianza di questa visita, di questo fatto. Tenete presente che tra il 1602 e il 1605, la curia di Milano registra 393 atti, diciamo così, di guarigioni miracolose, e a Roma ne registrano altre decine, ma Milano è proprio un’esplosione di attaccamento, di devozione, di vita. E questo santo era talmente penetrato nella comunità milanese, aveva talmente testimoniato la sua fede, aveva talmente testimoniato il Cristo, che le tracce rimangono nei secoli e ancora oggi ci rendiamo conto che di fronte a San Carlo siamo abbastanza senza parole, non riusciamo a spiegare tutti gli atti di quest’uomo che ha vissuto 46 anni e ha fatto quello che molte persone in due, tre vite non riescono a fare. Né dimentichiamoci un altro aspetto di Carlo, questo suo strafare era anche equilibrato da una serie di temperanze che non ci immaginiamo nemmeno. Ricordo che nel 1566 impedisce all’inquisizione spagnola di entrare in Milano, ricordo le regole per il carnevale, per la musica, per i giochi, per gli spettacoli, tutto con una precisione quasi incredibile, ma non era un’ossessione di un credente, era semplicemente il bisogno di un pastore che stava facendo rivivere la Chiesa dopo il trauma della Riforma. Aggiungo anche un altro aspetto che, a mio giudizio, è fondamentale per l’attualità di Carlo. Che cosa ha fatto Carlo nella diocesi di Milano, che cosa ha fatto Carlo Borromeo in quegli anni del suo mandato, al di là dell’esempio che diede durante la peste? Lo ha ricordato il Cardinal Tettamanzi, al di là degli aspetti che ha testimoniato con i miracoli, con la presenza, con altro, in fondo Carlo è stato forse il primo concretizzatore di quella scommessa che Pascal annuncerà cento anni dopo, alla metà del ’600. Se vi ricordate, nei Pensieri di Pascal c’è un passo che è diventato molto noto, nel quale si dice, nel momento di esplosione della ricerca scientifica, della tesi sperimentale della scienza, dopo Bacone, dopo Galileo, si dice: “Credi in Dio. Se non esiste non hai perso nulla, ma se Dio esiste hai guadagnato tutto”. È la tesi della scommessa, è una tesi forte. Carlo questa scommessa l’anticipa di un secolo, e la punta direttamente sulla Chiesa cattolica, la punta sulla realizzazione del Concilio di Trento all’interno delle comunità cristiane. In fondo il compito di Carlo, e lo capisce e lo sentirà anche Federico Borromeo, è quello di ricristianizzare un mondo che aveva perso il suo orientamento. Teniamo presente, che il senso della scommessa è ancora attuale per noi, è ancora vitale, noi non possiamo più permetterci il lusso di fare una scommessa su Dio, non perché Dio non sia un argomento da scommesse, ma perché in fondo è un argomento che abbiamo visto ha già vinto la sua scommessa. Tutte le ideologie del ’900 sono crollate, le religioni che hanno cercato di impostare l’ateismo non ci sono più, quelle religione chiamate comunismo, che mettevano persino nella costituzione l’invito all’ateismo, come fece l’Albania, come cercò di fare l’URSS, istituendo cattedre di ateismo, sono crollate. Quando crollò l’URSS erano 91 le cattedre di ateismo sparse nel territorio sovietico e nei Paesi satelliti. Tutto questo è crollato, eppure il cristianesimo è rimasto e ha continuato a vivere, c’è soltanto una sfida che oggi in fondo attende chi crede, e questa sfida è molto semplice, è quella di puntare nuovamente sulla presenza di Cristo, non perché non ci sia la presenza di Cristo, ma perché il mondo cerca di dimenticarsi, o cerca di mettere da parte tutti coloro che in qualche modo vogliono testimoniare la presenza di Cristo. Ecco, se Carlo dovessimo contestualizzarlo oggi, diremmo semplicemente che la sua è una santità operante, una santità forte, una santità che toccava la gente, non è un dottore della Chiesa, è una persona che faceva, non è un monaco che meditava, è una persona che durante le visite pastorali faceva abbattere i muri, faceva aprir finestre, faceva domande, distribuiva personalmente la comunione. Tra l’altro ho trovato un questionario delle domande che faceva durante le visite pastorali ai maggiorenti della parrocchia, anche di parrocchie piccole. Sono domande oggi che in mano a qualche simpatico storico, che sa trarre conclusioni affrettate, potrebbero prestare il fianco a molte critiche, a me invece hanno fatto particolarmente piacere. Carlo si poneva queste domande, o almeno le poneva, dopo aver ispezionato attentamente tutti gli edifici consacrati al culto, interrogava i notabili del paese. Le domande erano queste: come si comportano in Chiesa i parrocchiani? Assistono con rispetto alle funzioni religiose? Ci sono eretici, usurai, concubine, banditi, criminali? Ci sono seminatori di discordia, parrocchiani che non osservano la quaresima o gli altri giorni di digiuno, i giorni di festa, e i riti della Chiesa? Ci sono di quelli che non si curano di confessarsi o di comunicarsi almeno una volta l’anno e che non danno niente per le opere di carità? I padri di famiglia educano bene i propri figlioli? Non c’è lusso esagerato nel vestire, da parte degli uomini e delle donne? E poi, se c’erano dei monasteri, chiedeva: la clausura vi è osservata seriamente? Se c’erano delle istituzioni di beneficenza o di aiuto sociale, chiedeva sempre chiaramente: sono ben amministrate? C’è qualcuno che ci ricava qualcosa? Queste erano le domande di Carlo, domande pratiche, di una persona che non taceva, di una persona che ha sempre parlato, che ha sempre testimoniato. Allora, morale di questo mio semplicissimo intervento, giustamente definito di spalla e di complemento – spero di non aver detto delle cose sgradevoli rispetto a quelle del cardinal Tettamanzi: i cristiani non devono tacere, devono tranquillamente poter parlare, poter testimoniare la loro fede, soprattutto in materia di vita, in materia sociale, in quelle materie per le quali oggi viene chiesto a chi crede il silenzio, viene chiesto di essere spettatori. San Carlo dice “nessuno di noi deve essere spettatore”. La seconda cosa, san Carlo ci invitava a una scommessa, non una scommessa di una delle tante roulette che girano sul web, ma semplicemente una scommessa sui i valori di cui il cristianesimo è portatore. Senza i valori del cristianesimo, il mondo non potrebbe andare avanti, tutti i valori che sono rimasti oggi sono valori di cui il mondo è debitore al cristianesimo, dalla democrazia, al concetto di libertà, al concetto di giustizia, non c’è niente che non rampolli dal messaggio cristiano. E allora, semplicemente, questa scommessa Carlo ci invita a farla, poi, ovviamente, potremmo essere d’accordo con lui o no nella dieta, potremmo essere d’accordo con lui o no in altre faccende, però su questi due elementi, mi sembra che con lui si debba essere d’accordo.
GIUSEPPE BOLIS:
La sfida che oggi, attraverso la testimonianza di san Carlo, ci raggiunge, è puntare nuovamente sulla presenza di Cristo, sulla roccia che è la presenza di Cristo, come ancora a Madrid il Santo Padre ha detto ai giovani, quindi a tutti i noi. La mia non vuole essere una conclusione, perché non lo è, perché vuole riaprire esattamente questa sfida, che innanzitutto è un dono, come Sua Eminenza ci ha ricordato, perché la presenza di Cristo è un dono innanzitutto, e insieme la sfida alla nostra libertà. Io la rilancio con una frase di San Carlo, che è quella che più ha segnato me in questi mesi e continua a segnarmi: “La candela per fare luce deve consumarsi”. In questo modo, a mio avviso, l’esistenza diventa un immensa certezza. Buon Meeting a tutti.
(Trascrizione non rivista dai relatori)