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ROCK’N’SOUL: STORIE DI MUSICA E SPIRITUALITÀ
Intervista di Massimo Granieri a Noemi Serracini, autrice e conduttrice con esperienza in radio, tv e teatro
Le storie di vita di dieci star della musica si mescolano ai loro percorsi interiori e spirituali. Noemi Serracini racconta quanto e come l’arte sia mezzo di ascolto della dimensione meditativa e spirituale più profonda di ogni uomo. Attraverso le esperienze di Georg Harrison, Patti Smith, Leonard Cohen, Joni Mitchell, Bob Dylan, Tori Amos, Yusuf/Cat Stevens, Sinéad O’Connor, Nick Cave e PJ Harvey.
ROCK’N’SOUL: STORIE DI MUSICA E SPIRITUALITÀ
Giovedì 22 Agosto 2024 ore 18:00
Palco Piscine Ovest Illumia
Intervista di Massimo Granieri a Noemi Serracini, autrice e conduttrice con esperienza in radio, tv e teatro
Granieri. Sempre il punto di riferimento è la fede cristiana. Il tuo punto di partenza qual è?
Serracini. Allora, il mio punto di partenza è una cosa che ci tengo a sottolineare anche in questo contesto: la spiritualità non è necessariamente legata alla religione. La spiritualità ha a che fare con l’interiorità, con i percorsi interiori che le persone scelgono di intraprendere, e che poi naturalmente possono sfociare, come è successo anche per alcuni degli artisti che, per esempio, nomineremo stasera, che sono nel libro, in una vera e propria fede, un vero e proprio credo, anche religioso. Ma non è necessariamente così; la spiritualità è qualcosa che ha a che fare, prima di tutto, con l’interiorità, con il percorso interiore. Il punto di partenza per me è stata proprio questa ricerca e il domandarmi come fossero nate certe opere, come fossero nati certi dischi, certe canzoni di alcuni autori e autrici che riuscivano così tanto a scuotermi, che riuscivano così tanto a commuovermi, a emozionarmi. Mi domandavo da dove fosse arrivata questa potenza, questa forza, questa onda così trascinante della loro vocazione, da dove fosse arrivata anche a loro. E certe volte veramente il processo creativo, in alcuni casi, è più interessante anche dell’opera stessa, perché si scoprono storie incredibili. Andando alla ricerca di questi percorsi e di queste storie, mi sono imbattuta in delle biografie davvero straordinarie e ho scoperto aneddoti ed esperienze che personaggi come Patti Smith, George Harrison, Sinéad O’Connor—che è scomparsa non da tanto—Bob Dylan e Leonard Cohen hanno vissuto, e che hanno avuto delle storie molto forti.
Granieri. A proposito di storie o di episodi che cambiano la vita degli artisti, cosa è accaduto a Patti Smith durante un concerto in Florida nel 1977?
Serracini. Questa è una cosa molto bella, un aneddoto, cioè bello nel senso di forte, brutto per Patti Smith all’epoca, ma poi è stato anche un evento profetico per certi aspetti. Lei è sempre stata una grande appassionata delle Sacre Scritture, della Bibbia, e ha sempre avuto un rapporto molto intenso con la spiritualità e anche con lo studio delle Sacre Scritture. La mamma era una testimone di Geova, e questa cosa ha inciso molto nella sua formazione, nella sua educazione. Ma ha vissuto, come tutte le persone alla ricerca, come tutti gli animi inquieti che si fanno delle domande e che si mettono sulla strada della ricerca, come direbbe anche Cat Stevens, tanti momenti di crisi, di messa in discussione, di messa in gioco. In uno di questi momenti, lei stava facendo un concerto, era in una situazione particolare, stava cantando un pezzo che era “Ain’t It Strange”, e durante questo brano lei fa una specie di danza che la porta a un’estasi quasi mistica perché danza, balla, sembra un derviscio, gira su se stessa. Quando fa questo pezzo, spesso fa questa cosa. In quell’occasione è caduta dal palco e si è fatta molto male. Fortunatamente non ha avuto danni permanenti, quindi si è ripresa, ma ci ha messo tanto tempo per riprendersi, e questa rottura che lei ha vissuto fisicamente è stata una rottura che ha riguardato anche un po’ la sua anima; è stata una rottura fisica ma anche interiore che l’ha portata ad attivare un momento di grande ricerca interiore. Ha dovuto attingere dalle sue risorse e in quel momento si è avvicinata moltissimo alla figura di Gesù, si è avvicinata moltissimo alla Bibbia, alle Sacre Scritture, e ha utilizzato quel momento per riparare se stessa in qualche modo. Da lì è nato un album che è stato un po’ l’album della sua resurrezione, l’album della rinascita, che è “Easter”, e che l’ha consacrata al successo mondiale.
Granieri. Cosa stava cantando in quel momento?
Serracini. Lei è caduta proprio nel momento in cui cantava “Volta di Dio, fai una mossa”. Non abbiamo il video del momento in cui lei cade, anche per rispetto a Patti Smith, ma abbiamo il video di “Ain’t It Strange”, che vi facciamo vedere. È dell’anno prima, però; lei qui si sta esibendo a Tampa, è l’anno prima dell’incidente, ma il pezzo è lo stesso, e anche il modo in cui lei lo interpreta, in cui si muove e balla, è simile. “Ain’t It Strange”. La possiamo vedere insieme.
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Granieri. Rivelo una cosa: forse non tutti lo sanno, abbiamo rischiato l’anno scorso di averla al Meeting. C’è stata tra me e lei una conversazione di 45 minuti al telefono, lei era in Spagna in concerto, era il mese di ottobre. Abbiamo parlato in lungo e in largo della passione che lei ha per la letteratura italiana: Pasolini, Carlo Collodi, Pinocchio. Per un soffio non siamo riusciti ad averla qui al Meeting, ma ci stiamo lavorando.
Serracini. Sarebbe una bellissima presenza tra noi.Tra l’altro, lei ha citato alcuni degli autori italiani che ama. Ricordiamolo, lei è una scrittrice sublime; ha scritto un’opera meravigliosa tra le tante, che è “Just Kids”, in cui racconta il suo percorso di vita, la sua giovinezza newyorkese in modo struggente insieme al suo amico fraterno di una vita, Robert Mapplethorpe, con il quale ha vissuto una storia d’amore nel senso veramente più ampio che possiamo dare a questa parola. Ha iniziato la sua attività musicale come poetessa. È stata ed è una poetessa, una scrittrice straordinaria.
Granieri. Nel libro c’è una pagina carinissima quando loro fanno i chierichetti. È una cosa molto, molto carina. Patti Smith ha avuto il merito di innestare la poesia in un genere come quello punk, che di per sé ha poco di poetico. Parliamo adesso di George Harrison. Come Harrison è riuscito a innestare un po’ di spiritualità nella musica di quei quattro ragazzacci dei Beatles?
Serracini. Lui è stato il primo, per esempio, a portare gli stilemi della musica classica indiana nel rock, nel pop rock, e ha inserito il sitar, le tabla, le classiche percussioni indiane, strumenti che si usano nella musica meditativa, nella meditazione, che è stato un po’ lo strumento principale della ricerca spirituale di George Harrison. Dopo il suo incontro con Ravi Shankar, questo sitarista che lo ha iniziato proprio allo studio del sitar, lui ha capito che quella era la via per connettersi con il divino. Da lì è iniziata la sua ricerca incessante verso l’emancipazione dalla materialità dell’esistenza per abbracciare un mondo sempre più spirituale, che andasse proprio, per stare anche in tema con il Meeting di quest’anno, verso l’essenziale. Perché poi, in realtà, il filo rosso che lega gran parte di queste storie è proprio la ricerca dell’essenziale, che passa per la verità, probabilmente, no? E questa verità che in qualche modo ricerchiamo e che questi autori, queste autrici, hanno ricercato è una verità che non può fare a meno dell’interiorità, che non può fare a meno della ricerca spirituale, e che, per compiersi, necessita di guardare alla vita attraverso una lente privilegiata che è quella dello spirito che ognuno di noi ha dentro di sé, al di là poi di come sceglie di esprimerlo.
Granieri. Senti, tu negli appunti che mi hai dato, c’è questa frase meravigliosa di Harrison che va verso la direzione del disco che poi incise nel ’71. Lui disse: “Voglio diventare cosciente di Dio è la mia ambizione nella vita, tutto il resto è secondario.”
Serracini. Sì, lui a un certo punto è stato il primo tra i Beatles a soffrire di più delle dinamiche di grandi eccessi che c’erano nel gruppo, ma eccessi intesi anche proprio rispetto all’attenzione che il gruppo aveva attirato su di sé. Quindi questa vita fatta di tour, di alberghi, di fan in delirio per lui era sempre più complessa da vivere, e ha capito che aveva bisogno di altro, di qualcos’altro. Quindi è stato il primo ad andare verso questa ricerca e a coinvolgere poi anche gli altri, insomma, perché hanno fatto poi anche diverse esperienze di gruppo. È stato anche quello che, per certi aspetti, ha beneficiato di più dallo scioglimento dei quattro, perché ha ritrovato una sua dimensione interiore, spirituale e musicale. Si è emancipato molto dall’esperienza con i Beatles, dove forse era anche quello un po’ più schiacciato, che soffriva di più delle dinamiche Lennon-McCartney. Quindi, per Harrison, il risveglio spirituale e questa ricerca sono stati veramente una salvezza. “All Things Must Pass”, il suo disco bellissimo del 1971, lo ha un po’ consacrato a questa visione.
Granieri. Io ho un giudizio sui quattro di Liverpool. Dopo l’esperienza beatlesiana, non credi che sia forse il disco più bello dei quattro dopo i Beatles?
Serracini. Penso di sì.
Granieri. C’è un disco meraviglioso, certo, John Lennon e McCartney poi hanno fatto delle cose egregie, ma secondo me il livello artistico e contenutistico di questo disco è veramente enorme.
Serracini. Penso di sì. Oltretutto, c’è stato da poco l’anniversario di questo disco, che è del 1971, e hanno rimesso mano a un video che è il video di “Run of the Mill”, che adesso magari vediamo un pezzettino, ed è un video un po’ inusuale, non so se vi è capitato di vederlo, ma ha un sacco di elementi che riguardano la vita e la ricerca di George Harrison. Lo guardiamo e poi magari ne parliamo.
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Serracini. Qui ci sono un sacco di elementi che ritornano nella filosofia, nella visione poetica di Harrison. Uno in particolare ci terrei a sottolinearlo, che è la presenza di questo verde, della natura di cui lui si è circondato.
Granieri. Sembra un giardino dell’Eden.
Serracini. Sì, esatto, è proprio così, è proprio così, perché è ciò di cui poi lui si è circondato nella sua vita, nella sua residenza di Friar Park. Ha ricercato proprio questo contatto con la natura, capendo che per l’evoluzione dell’essere umano, e della sua per primo, non poteva prescindere dal rispetto della natura e da una vita anche in armonia con la natura. Quindi ha cercato questa unione con l’ambiente circostante, con gli elementi naturali. Addirittura c’è una storia molto bella che lo riguarda: prima della sua morte, George Harrison ha piantato oltre 400 alberi di acero, un po’ a simboleggiare anche la continuità in qualche modo della vita e della sua presenza, del suo passaggio, che ci lascia non soltanto un’eredità artistica ma anche un’eredità dal punto di vista degli alberi, della natura, di quello che lui ha contribuito in qualche maniera a creare.
Granieri. E poi, parlarne negli anni Settanta… insomma, adesso: E poi, parlarne negli anni Settanta… insomma, adesso siamo tutti ambientalisti, però anche lì i Beatles hanno anticipato i tempi. Andiamo avanti nella nostra ricerca. Vi sta piacendo l’incontro? Non so… Datemi un feedback. È bravissima, veramente brava. Poi lei sembra una… un’artista rock, insomma, Noemi mi dà sempre questa impressione, molto rock. Il prossimo che abbiamo è un gigante, una montagna alta da scalare: Leonard Cohen.
Serracini. Una montagna difficile.
Granieri. C’è qualcuno che ama Leonard Cohen?
Serracini. Che vuole venirne a parlare? Va bene, sì, di Cohen si possono dire tante cose. Andiamolo a sintetizzare, a fotografare con un album che è “New Skin for the Old Ceremony”, che è un po’ l’album che racchiude forse la sua visione, perché nella copertina dell’album ci sono due angeli che fanno l’amore, e questa immagine, ripresa da un trattato di alchimia del 1550, ci racconta moltissimo del suo percorso, perché racchiude proprio due aspetti principali della vita e della poetica di Cohen: carnalità e spirito, sessualità e trascendenza, che sono proprio i due binari su cui si è mossa tutta la sua ricerca. È stato un altro artista che ha iniziato come scrittore, come poeta. Piano piano si è avvicinato alla musica, ha avuto anche una storia difficile, complicata, non fatta subito di successo. Anche lui, come molti di questi grandi artisti, ha patito la fame. Prima parlavamo di Patti Smith: Patti Smith ha avuto una vita da barbona a New York nei primi anni della sua vita. Leonard Cohen veniva da una famiglia di ebrei agiata, ma anche lui ha avuto le sue difficoltà durante la sua formazione, durante il suo periodo di studio, e non si è tolto subito delle grandi soddisfazioni artistiche. Piano piano sì, e quando è arrivato a registrare questo disco, era molto dentro un percorso di meditazione, tanto che ha voluto che ci fosse presente alle sessioni di registrazione il suo maestro Zen, Roshi, che sentiva come una presenza necessaria per riuscire a restare concentrato e centrato, per potersi esprimere al meglio del suo essere, del suo estro artistico. C’è un pezzo in particolare che ci racconta tanto di Cohen e del lavoro che lui ha fatto anche di richiamo alle scritture, all’ebraismo, che è “Who by Fire”, pezzo, secondo me, molto bello, di cui vi facciamo ascoltare un pezzettino. Posso leggere un pezzettino della cosa che dice Cohen di questo pezzo? “Who by Fire” deriva in maniera piuttosto diretta da una preghiera che viene cantata il giorno dell’espiazione o la vigilia del giorno dell’espiazione. Nella preghiera sono catalogati tutti i modi in cui si può abbandonare questa valle di lacrime. La melodia, se non del tutto rubata, dice Cohen, è senz’altro derivata dalla melodia che ascoltavo in sinagoga da bambino. Ascoltiamo il pezzo.
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È molto brutto interromperli, però abbiamo solo un’ora, quindi non dipende da noi. È stato molto bello vedere alcuni di voi con gli occhi chiusi ascoltare “Who by Fire”.
Granieri. Infatti pensavo la stessa cosa, perché questo è un luogo anche di passaggio, ma ogni tanto potersi fermare e ascoltare, meditare, è qualcosa di meraviglioso.
Serracini. Essere spirituali significa anche stare in ascolto, e forse uno dei denominatori comuni di questi artisti è proprio questo: ci invitano a stare in ascolto.Bob Dylan diceva che per lui l’essenziale era restare in ascolto del suono del mondo, e questa sua capacità, nello specifico, forse è stata quella che lo ha reso così profetico nel corso della sua storia musicale, della sua vita.
Granieri. Qualcosa di celestiale ce l’abbiamo adesso con un album che penso sia uno dei più belli della storia della musica. Parliamo di “Blue” di Joni Mitchell. Qui abbiamo un’altra montagna altissima da scalare. Però è bello, questa salita è meravigliosa.
Serracini. Sì, stiamo veramente dando, condividendo dei piccoli flash, delle luci, dei bagliori che questi artisti ci hanno portato, ci hanno regalato; delle fotografie che magari possono riaccendere o confermare delle passioni, far venire voglia di andare a scoprirli o riscoprirli. Joni Mitchell è veramente un’artista il cui canto sembra sempre un canto devozionale, perché la sua voce è davvero struggente, ascoltarla è un’esperienza trasformativa. Questo è quello che spesso è stata in grado di fare la musica: trasformarci, farci compiere delle trasformazioni, portarci un po’ più in là. Questo è quello che hanno fatto questi artisti, perché hanno partecipato a delle epoche storiche in cui questo è stato possibile, in cui loro sono stati chiamati a fare qualcosa, in maniera più o meno consapevole, per attivare questi processi di trasformazione. Joni Mitchell con “Blue” ci racconta quanto l’esperienza mistica possa entrare all’interno di un album. “Blue” è proprio un colore, se vuoi, è proprio il colore dell’anima; è un colore che ha un richiamo…
Granieri. Della profondità.
Serracini. Sì, è un colore che ha un richiamo anche spirituale, è il colore che lei cita di più nei suoi pezzi musicali, nelle sue canzoni e, infatti, poi a un certo punto, forse anche per questo, gli ha dedicato un album. C’è una cosa molto interessante che, apparentemente, la prima volta che l’ho letta, mi era sembrata quasi presuntuosa, poi invece ho capito che aveva un senso molto più profondo: dice Joni Mitchell, lei dice che per ascoltare i miei dischi c’è bisogno di emozioni e di profondità. E dire questa cosa, in realtà, significa responsabilizzarci, cioè responsabilizzare noi che ascoltiamo, appunto, la necessità di metterci in gioco. E poi fin dove vogliamo arrivare lo decidiamo noi, lo decide ognuno di noi. Però, effettivamente, questi sono artisti che non si possono ascoltare distrattamente. Si può anche fare, si può fare tutto, ovviamente. Però, per coglierne il senso, per coglierne, appunto, l’essenza profonda di ciò che loro ci hanno voluto, in qualche maniera, testimoniare, come dice Joni Mitchell, c’è bisogno di emozioni e di profondità. E *Blue* è un pezzo, per esempio, oltre che un disco, che ci conferma anche questo.
Granieri. Possiamo dire che Joni Mitchell sovverte un po’ la nostra abitudine di ascoltare musica perché noi cerchiamo emozioni ascoltando musica, invece Joni ci impone l’emozione, cioè quasi una previa preparazione affinché poi l’esperienza di ascolto sia profonda. Proprio cambia l’approccio alla musica. Cosa ci propone di questo disco?
Serracini. Blue, possiamo adesso fare un ascolto collettivo e sperimentare insieme questa cosa.
Granieri. Ok, siamo pronti, l’emozione c’è, ascoltiamo il pezzo.
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Granieri. C’è una frase, un verso che tu hai tradotto di questa canzone: “Tutti dicono che l’inferno è la strada più alla moda da percorrere, ma io non la penso così.”
Serracini. Eh sì, lo canta, lo canta. Questo, diciamo, è un punto di incontro ideale veramente tra vita e arte, e io vi vedo tutti un po’ diversi dopo questo ascolto, vi vedo tutti un po’ trasformati perché… l’ascolto trasformativo, collettivo.
Granieri. Poi credo che una come Joni Mitchell ne nasca una volta ogni mille anni. C’è un’artista così difficile da… C’è qualcuno che si avvicina oggi a Joni Mitchell. Difficile.
Serracini. Io faccio sempre molta fatica a fare paragoni tra questi artisti e gli artisti contemporanei, ma non perché non ci siano degli artisti straordinari, emozionanti e bravissimi, ma perché sono storie diverse. Sono veramente storie diverse, oltretutto. Per esempio, nel caso di Joni Mitchell, lei in gran parte della sua musica, della sua produzione musicale, delle sue opere, ha messo tanto del suo dolore, come tanti altri. E un altro degli aspetti che ricorre nelle vite di questi autori e di queste autrici, di questi cantautori e cantautrici, è proprio l’elemento del dolore e come questo elemento viene trasformato per farsi arte, per farsi bellezza, per farsi altro da sé. Per esempio, Joni Mitchell ha dato in adozione la sua prima figlia, nata negli anni ’60 quando appunto era giovanissima, agli inizi, era una figlia illegittima e in quel periodo era anche complicato da gestire proprio socialmente. Quindi lei si è vista costretta, per le condizioni che viveva in quel momento, a darla in adozione e questo dolore non l’ha mai abbandonata ed è entrato in qualche modo, sotto varie forme, all’interno di tutta la sua produzione musicale. A un certo punto, quando lei, che per anni ha tentato di riappacificarsi con questo episodio della sua esistenza, ha cercato di risolverlo in qualche maniera, ha incontrato la figlia, l’ha conosciuta nel 1997 se non ricordo male. Da quel momento lei racconta che le canzoni hanno smesso di arrivare, come se risolto qualcosa, si fosse spostata poi da un’altra parte. Joni Mitchell, prima di essere una cantautrice, è una musicista pazzesca, perché lei ha inventato proprio dei nuovi accordi, quindi anche musicalmente è stata un’artista importantissima. Cioè, se fosse stata un uomo, Joni Mitchell sarebbe stata famosa tanto quanto Bob Dylan, ma non è arrivata a eguagliare l’importanza di Bob Dylan evidentemente puramente per una questione di genere, perché dal punto di vista musicale è stata importantissima anche proprio per l’innovazione che ha portato nella musica. Ed è stata, ed è anche appunto una pittrice, lo era prima ancora di essere una musicista ed è tornata alla pittura, lasciando comunque una traccia indelebile e meravigliosa anche nel mondo della musica.
Granieri. Hai citato prima Bob Dylan e adesso ci siamo. Bob Dylan cos’è? Un’enciclopedia? Cos’è? Un mondo?
Serracini. Eh sì, ce l’hanno scritta un’enciclopedia infatti su Bob Dylan, esiste proprio un’enciclopedia di Bob Dylan, è proprio così. Bob Dylan, tra l’altro, come scrive appunto uno dei massimi studiosi di Dylan, perché Dylan ha proprio degli studiosi dedicati a lui, uno di questi è Alessandro Carrera, e lui dice: “Bob Dylan è letteralmente attraversato dalla Bibbia.” E qui dovresti intervenire tu.
Granieri. No, infatti io ricordo un incontro che lui fece con i Beatles, lo disse John Lennon in un’intervista, e fu lui a rimproverare i Beatles del fatto che scrivevano testi piuttosto banali, incitando Lennon e McCartney a scrivere qualcosa di più importante. Ha questo merito di aver capito prima degli altri quanto sia importante la letteratura biblica nella costruzione di storie, storie che poi vengono consegnate attraverso la musica. Ha aperto una strada, oggi credo che forse gli eredi che si avvicinano un po’ a Bob Dylan sono gli U2, anche se a volte gli U2 rischiano di essere un po’ stucchevoli, ma Dylan ha insegnato proprio un modo, un metodo per entrare all’interno della sacra scrittura e farlo anche con rispetto, perché a volte si può attingere dalle pagine bibliche sconvolgendo o stravolgendo anche il testo, invece lui con un sacro rispetto ha sempre saputo trattare la cosa biblica così come la chiamiamo noi.
Serracini. Diciamo che sono una presenza proprio pervasiva delle sacre scritture in tutta la sua opera. Ha anche avuto una fase di conversione fortissima, un momento di conversione particolarmente significativo alla fine degli anni ’70.
Granieri. Io ricordo che i nostri colleghi critici musicali in Italia lo massacrarono. Quando uscì *Slow Train Coming*, fu massacrato. Io conservo in archivio degli articoli veramente terribili.
Serracini. Infatti, poi uno dei motivi per cui lui a un certo punto è tornato un po’ sui suoi passi, ha una scrittura un po’ più esoterica, un po’ più difficile anche da interpretare, un po’ più stratificata, diciamo così. Non è stato facile per lui confrontarsi con quel tipo di pubblico che non accettava di vederlo come un predicatore sul palco. E quindi è ritornato poi anche lui sui suoi passi, senza però mai, a mio avviso, far sì che questo in qualche modo rendesse meno interessante il suo processo di scrittura, il suo processo creativo, cioè credo che abbia mantenuto comunque sempre un livello altissimo. Cioè stiamo parlando comunque di un premio Nobel, di un Oscar, forse uno dei pochi in due ad aver vinto un Nobel per la letteratura e un Oscar incarnati nella stessa persona, e lui il Nobel lo ha vinto come portatore di nuove espressioni poetiche all’interno della grande tradizione della canzone americana. Quindi, insomma, una cosa abbastanza significativa. Poi, vabbè, a parte tutta la polemica che c’è stata, lo ritira o non lo ritira, l’ha mai ritirato? Sono belle storie, insomma.
Granieri. Cosa ne pensi a riguardo? A me è piaciuta la sua reazione al Premio Nobel, mandando poi Patti Smith a ritirarlo.
Serracini. A me anche, devo dire. Noi siamo di parte. È Bob Dylan!
Granieri. Esatto, noi siamo di parte. Comunque, tu hai citato *Slow Train Coming*, noi se vuoi, se volete, possiamo ascoltare un pezzettino di *Gotta Serve Somebody*, che è la prima traccia di questo disco del ’79, e qui c’è un aneddoto a proposito della conversione e di quanto lui era dentro questa cosa, perché lui era così preso da questa sua ricerca spirituale e dalla religione. In questo caso c’è un episodio di un tour che lui stava facendo a Tucson e in una camera d’albergo lui racconta di aver avvertito la presenza di Cristo, cioè lui racconta di avere avuto un momento proprio in cui lo ha visto, lo ha sentito. E probabilmente anche questi aneddoti, questi racconti, hanno poi suscitato non poche polemiche, no?
Che poi in realtà è l’esperienza di fede che viviamo tutti, cioè a un certo punto nella nostra vita arriva un momento in cui la presenza di Cristo l’avverti veramente. Sentiamo questo bellissimo pezzo, uno dei miei preferiti, *Gotta Serve Somebody*.
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Serracini. Qui c’è una cosa che dice Nick Cave, che è un’altra delle nostre grandi passioni. La prima volta che ascolta questo brano, Nick Cave dice: “Fu come se una spada mi avesse attraversato il corpo. Mi trovavo in un bar, l’avevo ascoltata al jukebox e mi guardai in giro, domandandomi come mai le vite di tutti i presenti non fossero state immediatamente cambiate da quell’ascolto.”
Granieri. Speriamo che proponendo questa canzone questa sera, qualcuno possa dare una svolta positiva alla sua vita. Nel tuo libro, secondo me, c’è un capitolo preziosissimo che io ho amato quando me lo hai fatto leggere, dedicato a un’artista sfortunata che amiamo tutti ed è Sinead O’Connor. Cosa ci dici di lei? Anima piuttosto travagliata…
Serracini. Anima tormentata, direi, fragile anche. Un’anima molto ribelle, no? Molto dolorosa perché anche lei, appunto, attraversata da un grande disagio, che è stato, diciamo, un po’ l’elemento poi che ha segnato la sua vita, cioè un rapporto complicatissimo con sua madre, un rapporto dal quale probabilmente non è riuscita a liberarsi. Questo legame così doloroso, così difficile, ha segnato un po’ tutto il suo percorso. Intanto anche, come dire, la nascita, la provenienza di questi artisti è sempre importante perché, per esempio, nel caso di Sinead O’Connor, lei nasce in Irlanda, negli anni ’60, un posto anche molto conservatore, un posto chiuso, che può essere opprimente dal punto di vista anche di come venivano vissute certe esperienze, anche di fede. E quindi non è stata facile, intanto, l’educazione per Sinead O’Connor che, a un certo punto, dopo che i genitori riescono a separarsi, sceglie di vivere con il padre. Incontra molto presto la musica e anche lei diventa mamma molto presto. C’è una coincidenza, in realtà, molto bella nel suo percorso artistico per cui lei diventa, nello stesso periodo, genera, diciamo così, dà vita a un figlio e anche al suo primo disco. Nello stesso anno nascono il suo primo figlio e il suo primo disco. Lei aveva circa 20 anni, 21 anni più o meno, e da lì non ha mai smesso di fare musica. Però è un’artista che ha avuto anche un percorso di conversione, che ha avuto un’infanzia difficile e che ha riversato poi in una specie di ansia di ricerca spirituale. Anche lei, a un certo punto, come per esempio Yusuf/Cat Stevens, si è convertita all’Islam. E credo abbia concluso gli ultimi anni della sua vita proprio seguendo questa religione, seguendo questo credo. È un’artista a cui voglio molto bene, che mi ha profondamente commosso, e anche il modo, le circostanze nelle quali lei poi è scomparsa sono state abbastanza tristi. È un’artista però che nella sua produzione musicale ha sempre cercato conforto nella figura di Dio, sotto qualunque forma e a prescindere dai percorsi spirituali che ha intrapreso. Sapeva che la sua consolazione era lì, era proprio in Dio e lei lo diceva. Ed è molto difficile, in qualche modo, raccontare Sinead O’Connor perché lo fanno meglio di tante parole le sue canzoni, perché poi in fondo è lì che lei si esprime, che racconta se stessa, che in qualche modo ripara anche se stessa. E lo ha sempre fatto, fino alla fine, proprio attraverso la sua musica. Uno degli ultimi dischi, per esempio, che mi ha colpito molto è un disco che contiene un pezzo che si chiama *Reason With Me* in cui lei dice una cosa molto tenera, secondo me: “Non voglio sprecare la vita che Dio mi ha dato e non penso sia troppo tardi per salvarmi.” Costantemente alla ricerca di questa salvezza, di questa redenzione. Non sappiamo se fino alla fine poi l’abbia trovata, però attraverso la musica sicuramente ha avuto dei momenti di grande conforto. Questo sicuramente sì.
Granieri. Ascoltiamo il brano di Sinead O’Connor, poi ti faccio una domanda su quella famosa scena della foto di Papa Giovanni Paolo strappata.
Serracini. “Combatti il vero nemico.”
Granieri. Ascoltiamo il pezzo.
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Serracini. Possiamo dire che non è mai troppo tardi per salvarci, prima di tutto da noi stessi.
Granieri. Penso che l’applauso di chi ha ascoltato questa canzone dica tanto perché noi stavamo discutendo della felpa con l’immagine di Gesù. Penso Gesù misericordioso. Pensavo all’inizio che fosse il sacro cuore di Gesù, ma era Gesù misericordioso e penso che comunque, tu hai detto prima, chissà se è riuscita a raggiungere la sua salvezza, io penso proprio di sì, perché siamo figli di un Dio che è misericordia.
Serracini. C’è una piccola cosa che vorrei leggere prima di passare all’ultimo artista di cui parleremo, che ha scritto Antonio Vivaldi, uno scrittore e traduttore che io cito nel libro perché scrive una cosa, secondo me, bellissima e vorrei chiudere con questa. Lui dice: “Nascere il giorno dell’Immacolata Concezione”, perché Sinead O’Connor era nata l’8 dicembre, appunto, e lui dice: “Nascere il giorno dell’Immacolata Concezione e venire battezzata Sinéad Marie Bernadette è anche per chi a certe cose non crede un segno del destino. In quei tre nomi c’è già, infatti, tutta la Sinead O’Connor degli anni a venire: la riaffermazione della diversità gaelica, l’aspirazione a un’impossibile purezza virginale, la trasfigurazione visionaria delle proprie vicende personali.”
Granieri. Non aggiungo altro perché sarebbe veramente inutile. Grazie per avercelo ricordato. Tutto questo è nel libro di Noemi. Per chi ama la musica, per chi vuole scoprire la spiritualità in questa musica, la sua è una guida necessaria. Chiudiamo in realtà, abbiamo saltato qualche cosa, Tori Amos, PJ Harvey, vuol dire che l’anno prossimo tornerai.
Serracini. Cat Stevens.
Granieri. Cat Stevens, è tanto da dire.
Serracini. Va bene, sì. Però ci teniamo a chiudere con un artista.
Granieri. Con, penso, l’artista che piaccia a tutti, secondo me. Ormai simpaticamente, è talmente diventato a me familiare che lo chiamo Nicola. Nicola Caverna. Parliamo di Nick Cave. Possiamo dire che è l’erede naturale di Bob Dylan da questo punto di vista?
Serracini. Eh sì, dicono, sì. Vabbè, facciamolo dire a loro. Non ci prendiamo anche questa responsabilità noi. È comunque insomma, sì, un artista abbastanza unico, un po’ scuro, come lo definisce qualcuno. Eppure, però, in questa sua, come dire, oscurità, io vedo tanta luce, anche perché appunto è un altro che di dolori ne ha attraversati veramente tanti. Insomma, la perdita di un figlio, e in realtà poi due, perché è successo anche qualche tempo fa, insomma, ne ha perso anche un altro sempre in circostanze abbastanza drammatiche, e credo sia l’esperienza più innaturale per un essere umano. E lui è uno di quelli che ha saputo proprio trasformare il dolore in arte, in musica. Anzi, sul dolore ci ha scritto un vero e proprio trattato Nick Cave, perché lui ha un rapporto con il proprio pubblico eccezionale. C’è un sito che lui utilizza per comunicare, dove chi lo ama, chi lo segue, vuole fargli delle domande, lui risponde. A me non ha ancora mai risposto, però risponde.
Granieri. A noi dell’Osservatore Romano ha risposto, è stato molto gentile.
Serracini. Il sito si chiama *Red Hand Files*, che riprende il nome da una sua famosissima canzone, e dove lui racconta tante cose di sé, rispondendo alle domande che gli vengono fatte. Perché ovviamente molto spesso parte dalla sua esperienza, e c’è una cosa sul dolore che lui scrive, che è potentissima e che vorrei condividere con voi perché mi sembra un po’, come dire, la sintesi di quello che ci siamo raccontati rispetto all’esperienza del dolore, a quanto può essere anche catartica e necessaria. Questo non vuol dire che per essere creativi si debba per forza passare da un dolore o da una qualche tragedia, però sicuramente per essere creativi, per esserlo in un modo diverso forse o comunque in un modo incisivo, bisogna passare per la propria interiorità, bisogna capire qual è la necessità che abbiamo di raccontare qualcosa. Nick Cave diche che l’esperienza del dolore crea un vuoto da riempire. Il dolore è un atto creativo, ma prima ancora un atto di sottomissione, al contempo di resistenza. Qualcosa che in certi casi arriva così dentro da diventare una parte integrante dell’individuo. Questa cosa in realtà la dico io. Poi lui dice: “Abbiamo scoperto che il dolore era molto più della semplice disperazione.” Questo dopo la morte di suo figlio, naturalmente. “Abbiamo scoperto che il dolore conteneva molte cose: felicità, empatia, comunanza, dolore, rabbia, gioia, perdono, combattività, gratitudine, stupore e persino una certa pace. Per noi il dolore è diventato un atteggiamento, un sistema di credenze, una dottrina, un abitare consapevole dei nostri sé vulnerabili, protetti e arricchiti dall’essenza di chi amavamo e abbiamo perso. Alla fine il dolore è una totalità.” Io ogni volta che leggo queste parole a parte mi vengono i brividi e poi ovviamente un po’ mi commuovo, no? Perché il dolore che contiene il dolore ma che contiene anche la felicità, anche la pace, anche tutte queste altre cose vuol dire che è un’esperienza davvero totalizzante, no? Se uno riesce a guardarla…
Granieri. Direi quasi necessaria. Cosa che invece non riusciva ad accettare John Lennon, perché c’è una canzone dei Beatles intitolata *Girl* dove lui si interroga proprio sulla necessità: “Ma perché per godere bisogna per forza soffrire?” Nick Cave dà una risposta a questa sua domanda.
Serracini. Sì, e poi per lui in realtà la fede, lui cita tantissimo, anche lui, le sacre scritture, è molto affascinato per esempio dalla figura di Cristo, ma lui non dice mai effettivamente se crede oppure no, cioè non esplicita mai questa cosa, non la dice mai. Perché per lui in realtà la fede non serve per cercare delle risposte, serve per essere interrogata, cioè questa è la cosa che io trovo estremamente affascinante. Per lui la fede serve per contenere le nostre lacerazioni, serve per accompagnarci in qualche modo, no? E quindi rappresenta semmai un punto fermo ma non è lì per darci delle risposte.
Granieri. Assolutamente. Mi collego a quello che tu dici. Due giorni fa c’è stato il cardinale Pizzaballa che ha fatto un incontro molto bello qui al Meeting e diceva proprio la stessa cosa: che di fronte alla tragedia dei bambini che muoiono la fede non dà delle risposte preconfezionate, semplicemente alimenta una domanda che poi con coraggio viene rivolta a Dio, cioè tenere viva la domanda, non cercare delle risposte che poi alla fine nemmeno riescono a soddisfarci. In riguardo all’oscurità che avvolge Nick Cave, ricordo di averlo visto dal vivo qualche tempo fa, lui fa molto riferimento all’autrice cattolica Flannery O’Connor, la cita anche in una canzone, e ho l’impressione che dal vivo lui dia vita a quei personaggi. Lui poi tocca con mano anche il pubblico.
Serracini. Lui è molto fisico, lo vogliamo vedere? C’è uno dei brani di Nick Cave.
Granieri. Lo vediamo. È carnale nel rapporto con il pubblico.
Serracini. Eh sì, lui si concede al pubblico.
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Granieri. Probabilmente, per esempio, io ho dei nipoti molto giovani, hanno conosciuto Nick Cave grazie a questa canzone perché faceva da sigla alla serie *Peaky Blinders*.
Serracini. Questo è il merito anche poi di alcune serie che hanno riportato in auge…
Granieri. Io ho visto quella serie solo per la colonna sonora, che è meravigliosa.
Serracini. La serie non è male.
Granieri. No, no, bellissima. Lui dice in questa canzone, come hai tradotto, “Lui è un fantasma, lui è un dio, lui è un uomo, lui è un guru. Tu sei un microscopico ingranaggio nel suo catastrofico piano progettato e diretto dalla sua mano destra rossa.” È una bella affermazione.
Serracini. E’ un bel modo per ridimensionarci rispetto ai piani più grandi dell’universo. Quindi è giusto che lui ci riporti con i piedi per terra.
Granieri. Sai cos’è il sacro timore di Dio che ci insegnano nel catechismo? Che si è perso a qualche modo.
Serracini. Comunque lui ha questo approccio un po’… sembra anche un po’ che benedica l’audience. Lui ha questo approccio un po’ ritualistico che io trovo estremamente affascinante. Poi una cosa per me stupenda è che lui si concede tantissimo al pubblico, lo fa nei suoi concerti, lo fa rispondendo ai suoi fan su *Red Hand Files*, però non perde mai l’elemento di mistero che lo avvolge. Quindi anche se lui c’è, si apre, condivide e si mostra, però rimane sempre avvolto da questo elemento di mistero che in fondo fa parte di ogni fede e che probabilmente nell’arte si incarna nella creazione. L’opera può essere in questo senso letta proprio come un atto divino.
Granieri. Assolutamente. Noi chiudiamo questo bellissimo incontro con una canzone che tu hai scelto di Nick Cave, *Push the Sky Away*. Ce l’abbiamo o non ce l’abbiamo?
Serracini. Non so se ce l’abbiamo, *Push the Sky Away*, forse no e quindi ci dobbiamo accontentare di quella che abbiamo sentito. Se riusciamo a metterla siamo felici.
Granieri. Così la mettiamo come brano finale.
Serracini. Altrimenti chiudiamo con una frase molto bella che dice Nick Cave, riferendosi a uno dei suoi poeti ispiratori che è anche fonte di ispirazione per Bob Dylan, cioè William Blake
Granieri. Anche per gli U2
Serracini. Nick Cave è molto affascinato da William Blake e dice: “William Blake ha detto ‘Gesù è l’immaginazione’, e queste parole hanno sempre risuonato in me, hanno unito la nozione di Gesù e l’atto creativo e l’hanno elevata alla sfera soprannaturale.”
Granieri. Meraviglioso. E allora è proprio vero quello che dice Noemi, che attraverso la storia di questi grandi cantanti rock’n’roll, non è come dicevano i Rolling Stones, “It’s only rock’n’roll”, no, è solo rock’n’roll, ma in realtà è qualcosa che ti arriva dritto all’anima.
Serracini. É molto di più, Nick Cave lo dice in *Push the Sky Away*, appunto, però potete ascoltarlo appena ne avrete l’occasione a casa vostra.
Granieri. Allora, prima di congedarci ho questo avviso importante che bisogna fare alla fine di ogni incontro. Ognuno di noi può dare un contributo decisivo al Meeting e partecipare attivamente a questa grande avventura umana, la ricerca dell’essenziale. Lungo tutta la fiera si possono trovare le postazioni Dona Ora, caratterizzate dal cuore rosso. Le donazioni dovranno avvenire unicamente ai desk dedicati, dove i volontari indossano la maglietta rossa “Dona Ora”. In questo particolare momento storico, dove sempre più incognite ci fanno chiedere come è possibile costruire dialogo e pace, non potevamo non sentirci provocati e riaccesi da quanto ci ha detto il cardinale Pizzaballa nel suo intervento all’incontro inaugurale. Per questa ragione, il Meeting devolverà parte delle donazioni raccolte nel corso di questa settimana per l’emergenza in Terra Santa. Penso sia una cosa veramente nobile. Grazie Noemi.
Serracini. Grazie Don Massimo Granieri, grazie al Meeting per avermi invitato, grazie a voi per essere stati qui. Vi auguro di mettervi in ascolto di voi stessi e del suono del mondo, come dice Bob Dylan. Grazie ancora a tutte e a tutti.
Granieri. E ci troviamo questa sera alle 21.
Serracini. È vero, questa sera alle 21, appuntamento sempre qui con un concerto dal vivo bellissimo di Ivan Talarico. 21:30, mi dicono dalla regia, 21:30. Ivan Talarico è in concerto qui, non perdetevelo.
Granieri. Che sarebbe il suo compagno, tanto per dire.
Serracini. Non dovevi dirla, questa cosa.
Granieri. È tutto in famiglia.
Serracini. È bravo, non sono di parte, veramente, merita. Poi venitemi a cercare, se no.
Granieri. Grazie a tutti, buonasera, viva il Meeting, viva Noemi Serracini.