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“RITORNA IN TE STESSO” (Agostino). L’uomo nel dialogo con il proprio cuore si apre alla realtà
“Ritorna in te stesso”. (Agostino). L’uomo nel dialogo con il proprio cuore si apre alla realtà
Reading a cura di Zetesis. Partecipano: Moreno Morani, Docente di Glottologia all’Università degli Studi di Genova; Giulia Regoliosi, Direttore Responsabile di Zetesis. Preparazione dei lettori a cura di Adriana Bagnoli, Regista e attrice. Musiche a cura di Luca Ronchi.
MORENO MORANI:
Bene, possiamo incominciare. Ringrazio il pubblico che affolla numeroso questa sala. Questo reading curato da Zetesis e dalla redazione di Zetesis è diventato ormai una bella consuetudine del Meeting. Da diversi anni, ormai, proponiamo letture di testi provenienti dall’antichità sia pagana sia cristiana, con un breve commento per inserirli nel contesto storico in cui sono stati prodotti. Quest’anno ci siamo avvalsi della collaborazione dell’attrice Adriana Bagnoli e del suo gruppo di lavoro e abbiamo la presenza di un musicista, il professor Ronchi, che suonerà il flauto. Il titolo di questo reading si rifà naturalmente al titolo del Meeting e prende spunto dalla domanda sul cuore e sulla mancanza che il cuore sente. Che cosa intendiamo per cuore? Negli anni Settanta del secolo scorso, quando furono eseguiti i primi trapianti di cuore, in un’epoca ancora pionieristica, la stampa profuse una quantità di articoli che andavano dal tono dell’alta divulgazione fino al pezzo di colore in cui cercava di tranquillizzare i lettori, ricordando che il trapianto del cuore non avrebbe avuto influssi sulla personalità della persona sottoposta all’intervento. Dopo secoli e millenni di metafore e di immagini, urgeva riportare il lettore alla nuda realtà delle cose. Il cuore è soltanto un muscolo che ha il compito di pompare il sangue nelle arterie e nelle vene, muscolo essenziale perché la cessazione del suo battito ha riflessi nefasti sulla vita dell’organismo che lo ospita, ma pur sempre un muscolo. Ora, se questo è il cuore dell’anatomia e della scienza, in tutte le culture umane e non solo nel mondo classico, il cuore è qualcosa d’altro e di più. Del resto, non è sensazione comune di tutti noi che il cuore sembri partecipare in modo speciale alle nostre emozioni? Quando un’emozione forte o un sentimento particolarmente intenso ci colpisce, sembra che il cuore partecipi e sottolinei in modo energico l’eccezionalità della situazione. I suoi battiti si fanno più forti, in casi estremi al punto di portare alla morte dell’individuo. Il riequilibrarsi della situazione e il ritorno alla normalità si ha solamente quando l’emozione si placa. E’ una circostanza così normale ed eccezionale insieme da rendere naturale l’impressione che proprio nel cuore sia la sede dei sentimenti e delle emozioni. Da questa constatazione si ha uno sbocciare praticamente inesauribile di immagini poetiche. Leggiamo Eschilo: “Il cuore gli danza in petto per la paura”, “il cuore piange”. “Ha un cuore caldo per ciò che è freddo” dice Sofocle parlando di Antigone e della sua devozione nei confronti dei defunti. E infine “quando sento questo, il cuore mi balza nel petto, molto più delle danze dei Coribanti”, scrive Platone, paragonando il battito del cuore alle danze dei sacerdoti di Cibele, sfrenate e tumultuose, accompagnate da un ossessivo ritmo di tamburi. E nel mondo latino il cuore si cruccia o balza, come leggiamo in testi poetici.
GIULIA REGOLIOSI:
Tale percezione del carattere speciale del cuore si ravvisa nei brani in cui l’uomo antico fa del cuore l’interlocutore di un dialogo serrato. Al cuore ci si rivolge nei momenti del bisogno, quando la situazione non sembra lasciare spazio alla speranza e bisogna pescare nel profondo di se stessi per ritrovare la forza di procedere. Oppure quando è il momento di prendere una decisione, per recuperare una saggezza momentaneamente dimenticata. Accanto a brani di autori arcaici come Omero, Archiloco, Teognide, incontriamo brani di un momento successivo e più recente dell’esperienza greca, come il testo di Filita e l’epigramma dell’antologia palatina. Ma in tutti, nel medesimo ordine di idee, nel momento dell’affanno o della decisione, l’uomo è naturalmente portato a cercare nel profondo di se stesso per recuperare coraggio e capacità di agire. Così Odisseo si è presentato dopo vent’anni di assenza nella propria casa infestata dai pretendenti di Penelope e sotto mentite spoglie, come un viandante che ha bisogno di ospitalità e di assistenza e di notte, nel buio del cortile, assiste al comportamento delle sue ancelle che corrono a giacere con i pretendenti. Odisseo quasi si sdoppia in un dialogo tra sé e il proprio cuore che costituisce il modello di tutti gli autori successivi. Deve tenerlo a bada e moderarlo e il cuore è costretto ad obbedire. Il cuore gli latrava. Come avviene spesso in poesia, l’unione di parole che sembrerebbero prive di legame sul piano semantico e logico, crea un effetto poetico intenso, che viene ad accrescersi nel momento in cui l’immagine del latrare si prolunga e quasi prende corpo nella similitudine della cagna pronta ad attaccare l’uomo che potrebbe costituire un pericolo per i suoi cuccioli.
Musica
LETTORE:
Il cuore gli latrava di dentro come una cagna che ai teneri cuccioli bada se non riconosce l’uomo, latra e si tiene pronta a combattere. Ma comprimendo il petto rimproverava il cuore, sopporta cuore! Più atroce pena subisti il giorno che l’indomabile pazzo ciclope mangiava i miei compagni gagliardi e tu subisti. Finché l’astuzia ti liberò da quell’antro, che già di morire credevi. Così diceva, nel petto rimproverando il cuore. E fermo nell’obbedienza restava il cuore costante, tenacemente.
LETTORE:
Cuore, cuore agitato da mali inesorabili, balza in su! Difenditi opponendo il petto contro gli avversari nelle insidie dei nemici, piantato vicino a loro saldamente e quando vinci non ti vantare apertamente e se sei vinto non piangere buttandoti a terra in casa, ma gioisci delle gioie e affliggiti delle sventure non troppo. Riconosci quale ritmo regola gli uomini.
LETTORE:
Sei attraversato da affanni interminabili, cuore. Né un poco di serenità intravedi. Ma intorno a te nuove pene si accuiscono.
LETTORE:
Mio cuore, abbi verso gli amici un atteggiamento versatile, adeguando il loro carattere a quello di ognuno. Abbi i modi del polipo tortuoso che, attaccato allo scoglio, è a vedersi identico. E anche tu, ora, segui una strada, ma poi sii pronto a cambiare la pelle, la saggezza è migliore di un cuore flessibile.
LETTORE:
Godi, mio cuore! Presto altri prenderanno il nostro posto. E io morto sarò nella terra.
LETTORE:
Ancora insisti? Miserabile cuore. Castelli d’aria erigi sopra le fredde nuvole. Ancora covi, uno sull’altro, sogni di ricchezza impossibile? Nessuna grazia al mondo piove spontanea ai mortali. Cerca i doni delle muse piuttosto, e abbandonale ai pazzi, queste illusioni languide dell’animo.
GIULIA REGOLIOSI:
“La capacità di operare a lui infuse coraggio nel cuore” leggiamo nell’Iliade, ed espressioni simili percorrono tutto l’arco della letteratura greca. “Hai gli occhi di cane e cuore di cerbiatto” urla Achille ad Agamennone per insultarlo. Se nelle situazioni difficili il coraggio viene a mancare, è il cuore che viene meno. “Che fare? Il cuore se ne va”, dice Medea nel dramma di Euripide. E per l’eroe che affronta pericoli e prove il cuore viene ad affiancarsi alla mano, come nel seguente passaggio ancora di Euripide: “O cuore mio e mano che avete tanto sofferto!” Sono parole di Eracle nella tragedia Alcesti. In latino abbiamo parole come de-cordes per indicare i deboli senza coraggio e con-cordes che sono gli amici che condividono sentimenti e passioni. L’astratto, concordia, diventa elemento essenziale della vita pubblica e politica. Anche in italiano l’uso di un verbo come rincuorare nel senso di rassicurare, mostra quanto profondamente si è radicata l’immagine. Così come la stessa parola coraggio. Ad esempio vediamo questo testo di Archiloco: “Non amo un generale di alta statura o che avanza a grandi passi, fiero dei suoi riccioli e ben rasato. Per me va bene uno piccolo e con le gambe storte a vedersi, ma saldamente fermo sui suoi piedi e pieno di cuore”. Spesso però, l’uomo deve fare appello a un’altra parte di sé, l’intelligenza. Accanto al cuore, o in alternativa ad esso, c’è il cervello. E medicina e filosofia greca a lungo dibattono se ad avere il predominio dell’agire umano, ad essere considerato to egemonicon, la parte dell’uomo che prevale e comanda, debba essere il primo o il secondo. Ma vi è un aspetto interessante: molte lingue connettono mente e memoria e lo stesso verbo latino memini è collegato con la radice di mens. E più in generale con un ampio gruppo di parole che indicano il pensiero. Ma la lingua latina trasferisce anche la memoria dalla testa al cuor, e facendo di ricordo il verbo principale di questo ambito. Un verbo a cui la coniugazione media aggiunge un elemento di ancor più forte caratterizzazione: il ricordo come una realtà fortemente partecipata, qualcosa che vive dentro il mio intimo e che mi appartiene totalmente. Tale straordinaria percezione ha lasciato il suo esito anche in italiano e proprio stamattina, vedendo la mostra sui profughi dalmati, abbiamo notato un pannello in cui veniva proprio indicata la parola ricordo come collegata con il cuore. Si arriva fino a proiettarsi nel futuro, come in questo passo di Ovidio in cui Arianna lamenta l’abbandono su un’isola deserta da parte del traditore Teseo: “Ora io non ricordo soltanto i patimenti che mi attendono e tutto ciò che può soffrire una donna abbandonata. Mi si presentano all’animo mille immagini di morte e la morte ha meno dolore dell’attesa di morire”. Con questa passo arriviamo ad un altro aspetto. Se il cuore è la sede del sentimento e delle emozioni, nessun altro sentimento più dell’amore sembra avere in esso la sua sede naturale. Nei tre brani di cui proponiamo la lettura, l’esperienza d’amore è un’esperienza bruciante. Il poeta greco Ibico esalta la potenza cupa e implacabile di questo sentimento, paragonata alla serena bellezza di un panorama primaverile in cui la natura trova ristoro. Nel brano di Virgilio, Didone sente la potenza di un amore a cui non è concesso di avere un futuro positivo, perché i fati hanno disposto diversamente la storia sua e di Enea. La contrapposizione è tra il travaglio che rende inquieto il suo cuore e il silenzio e il riposo della notte. Nel terzo brano di Ovidio la potenza del cuore spinge addirittura oltre il limite della moralità. Medea si sente attratta da uno straniero e questo sentimento che sente nascere e dilatarsi dentro di sé la porta a una situazione di contrasto: “video meliora proboque deteriora sequor” è la conclusione di Medea.
Musica
LETTORE:
A primavera i meli cotogni bagnati dalle correnti dei fiumi dov’è il giardino incontaminato delle dee i fiorellini della vite che crescono protetti dai tralci ombrosi, germogliano. Per me invece Eros non riposa in nessuna stagione, è bruciante per la folgore, come il vento di Tracia. Balzando dal ventre di Cipride con aride follie, cupo, implacabile potentemente dal profondo tiene prigioniero il mio cuore.
LETTORE:
Era notte e i corpi stanchi prendevano un sonno tranquillo sulla terra e i boschi e il mare iracondo si erano acquietati nell’ora in cui le stelle volgono a metà del giro, quando tace ogni campo, le greggi, gli uccelli variopinti che abitano le ampie distese delle acque e le pianure selvagge di spini con passi nel sonno sotto la notte silente. Ma non l’infelice Didone. Mai si abbandona nel sonno e accoglie la notte negli occhi e nel cuore. Crescono le angosce e risorgendo di nuovo imperversa l’amore e ribolle in una grande tempesta di ira. Così sempre insiste e così fra sé ripensa nel cuore: “Che cosa devo fare? Non ho potuto conservare la vita senza nozze, pura da colpa come una fiera e ignorare questi affanni. Non ho serbato la fede, la promessa a un marito perduto”. In tali lamenti prorompeva dal profondo del cuore.
Musica
LETTORE:
Dopo aver combattuto a lungo, poiché non poteva vincere con la ragione, la follia disse fra sé: “Invano lotti, Medea. Un qualche dio si oppone e questo è qualcosa di strano o almeno di simile a ciò che è chiamato amore. Perché gli ordini di mio padre mi sembrano tanto duri e sono davvero troppo duri. Perché? Temo che muoia uno che ho visto la prima volta poco fa. Qual è la causa di tante paura? Scaccia le fiamme nate nel tuo cuore di fanciulla, se puoi, infelice”. Se potessi starei meglio, ma mi trascina contro la mia volontà una nuova forza e ad una cosa mi spinge il desiderio ad un’altra la mente. Vedo e approvo il meglio, ma seguo il peggio.
GIULIA REGOLIOSI:
L’intensificarsi del dialogo con se stesso, porta l’uomo a prendere coscienza del proprio agire. Il cuore diventa così il luogo della coscienza e l’uomo è richiamato al riesame della sua vita per trovare gli errori commessi. E’ una specie di esame di sé che conclude la giornata. Viene indicato con un monito molto severo dal brano tratto dai Versi aurei, un breve carme attribuito tradizionalmente a Pitagora. Questo brano consiglia di non addormentarsi senza prima aver passato in rassegna, più volte, le azioni della giornata, senza sconti e senza dimenticanze. In un linguaggio benevolo e sereno, è invece il richiamo del poeta Orazio, per il quale il maturare dell’età potrà portare a liberarsi da vizi e difetti e soprattutto l’aiuto e il conforto di una persona amica potrà aiutare in quest’ opera di correzione quotidiana. Il testo di Seneca, tratto da un’ampia opera sull’ira e sui suoi deleteri effetti, ha un passaggio che ha tinte persino drammatiche nella sua severità. All’inizio troviamo ancora il richiamo all’esame di coscienza, ma si osserva il cambiamento di tono. Non è più il blando richiamo del filosofo, ma un’intimazione che acquisisce persino il tono di un processo. Alla fine della giornata il cuore è convocato a presentarsi e a rendere conto minutamente del suo operato e di ogni azione della giornata, attraverso un serrato interrogatorio, quasi un terzo grado. Ma il punto più drammatico si annida nella fase finale. Il processo termina con un’assoluzione che è anche promessa di non sbagliare più. Ma è un’autoassoluzione. Questo uomo che perdona se stesso, questa immagine del sapiente che è costretto a trovare dentro di sé le risorse sia per rendersi conto di errori e peccati, sia per ripudiarli attraverso un atto di perdono, frutto sempre della sua coscienza, è un essere solo, isolato, ammirevole nella sua grandezza ma inaccessibile. E’ un uomo che ha eliminato dal proprio orizzonte ogni sensazione e desiderio, in un modo che si presenta con tutta evidenza come innaturale. Esame di coscienza e assoluzione sono il risultato di una sapienza costruita e l’autosufficienza del sapiente produce in sostanza l’impressione di una solitudine cupa e drammatica. Il sapiente pagano è inaccessibile ai mali e ai capricci della sorte, ma questa assoluta inaccessibilità, questa mancanza di bisogni e di desideri tende più alla disumanità che alla valorizzazione dell’umano.
LETTORE:
Forse anche da questi vizi potrà agevolmente liberarmi il crescere dell’età o un amico franco o il mio proposito. Infatti, quando il letto o il portico mi accolgono non vengo meno a me stesso. Questo è più giusto. Così facendo vivrò meglio, così mi renderò caro agli amici. Quel tale non fa una buona azione che io faccia a volte altrettanto? Questo discuto con me stesso, in silenzio.
LETTORE:
Il cuore deve essere convocato ogni giorno a render conto.
LETTORE:
Era un’abitudine di Sestio. Conclusa la giornata, non appena si era ritirato per il riposo notturno, interrogava la sua coscienza. Quale tuo male hai guarito oggi? Contro quale difetto hai lottato? In quale parte ti sei migliorato? Verrà meno l’ira e sarà più moderata quella che saprà di doversi presentare ogni giorno davanti al giudice.
LETTORE:
Ma c’è una consuetudine più bella di questa? Di esaminare un’intera giornata? Che sonno che segue questa inchiesta su se stessi. Quanto tranquillo, quanto profondo e libero, dopo che il cuore è stato lodato o ammonito e da osservatore e censore intimo di se stesso si è reso consapevole della sua condotta.
LETTORE:
Io mi avvalgo di questa facoltà e mi metto sotto processo ogni giorno, quando hanno portato via la lucerna e mia moglie, che conosce la mia abitudine, tace. Io scruto tutta l’intera mia giornata e ricontrollo tutte le mie azioni, niente mi nascondo, niente tralascio.
LETTORE:
Perché dovrei temere uno qualunque dei mie errori se posso dire: “Questo vedi di non farlo più, per questa volta ti perdono!”.
LETTORE:
A sera, non concedere al sonno i tuoi occhi senza aver prima passato tre volte in rassegna ogni gesto del giorno. In che ho peccato? Cosa ho Fatto? Quale dovere non ho assolto? Esamina a cominciare dalla prima delle tue azioni: con le cattive sii severo e censurale, ma sii compiaciuto per le buone, in questo sforzati, a queste tendi, queste ama, sulla via delle virtù saranno proprio queste a collocarti.
GIULIA REGOLIOSI:
In alcuni scrittori e pensatori antichi di formazione stoica, l’esame di sé assume una dimensione più severa. L’andare a fondo di se stessi fa scoprire insieme ricchezze e mancanze. Seneca, che ha vissuto l’esperienza della corte del potere, afferma che è dovere dell’uomo concentrarsi tutto su di sé, eliminare ogni aspetto del mondo esterno che può distrarre da questa tensione a interrogarsi, lasciare da parte gli impegni di una vita frenetica. Il richiamo alla necessità di raggiungere la sapienza percorre ogni pagina di Seneca. La sapienza è al termine di un cammino e deve essere voluta e cercata, anche se in realtà risiede già in noi. In questa strada l’uomo scopre la propria essenza divina. L’uomo che ottiene la sapienza oltrepassa il livello della propria humanitas e raggiunge il livello del divino, non ha più nulla da temere dalla sorte e dal destino, nessuna preoccupazione lo tormenta. Non deve angosciarsi per la perdita dei beni materiali o dei propri cari, procederà felice in ogni occasione della vita. E’ uno spirito libero, che ha lasciato la terra per raggiungere il cielo. Raggiungere il cielo significa ripercorrere a ritroso la strada da cui siamo discesi. Chi ha ottenuto questo livello di sapienza e riscoperto la propria natura divina ha avuto in certo modo l’aiuto del cielo, perché è impossibile, senza l’aiuto divino, raggiungere questi livelli e ottenere una simile, imperturbabile salvezza.
LETTORE:
Scava dentro di te. Dentro è la fonte del bene che può zampillare sempre, se non smetti di scavare.
LETTORE:
Bisogna in ogni caso richiamare l’animo da tutte le sollecitazione esterne a se stesso. Abbia fiducia in sé, gioisca di sé, badi alle proprie cose, si allontani per quanto può da quelle degli altri e si concentri su se stesso. Non soffra per i disagi e interpreti favorevolmente anche le disgrazie.
ALTERNANZA DI LETTORI:
Passa in rassegna tutti, dagli infimi ai più elevati.
Uno chiede a un legale
Un altro lo assiste
Un altro va sotto processo
Uno fa il difensore
Un altro il giudice
Nessuno rivendica a sé il possesso di se stesso. Si consumano a vicenda.
Informati su costoro i cui nomi sono noti. Vedrai che hanno queste caratteristiche.
Uno è del seguito di questo, un altro è di quello. Nessuno appartiene a sé.
Quindi, è del tutto insensata l’indignazione di alcuni. Si lamentano dell’arroganza dei superiori perché non hanno avuto tempo di acconsentire alle loro richieste.
Possiamo lamentarci della superbia di un altro quando non si ha mai tempo per sé.
Eppure quello, sia pure con un volto insolente, ma almeno una volta ha guardato te, chiunque tu sia, ha prestato attenzione alle tue parole, ti ha accolto al suo fianco.
Tu non ti sei mai degnato di guardarti, di ascoltarti. Non è dunque il caso di rimproverare ad un altro i tuoi impegni, perché mentre li svolgevi non volevi stare con un altro, ma non potevi stare con te.
Ma adesso mentre il sangue è caldo e mentre siamo in pieno vigore dobbiamo dedicarci alle cose migliori.
Ma in questo genere di vita ti attendono molte buone attività.
L’amore.
E la pratica delle virtù.
L’oblio delle passioni.
La scienza del vivere e del morire.
Una profonda quiete.
GIULIA REGOLIOSI:
L’aiuto divino non si ottiene con le pratiche del culto tradizionale. Anzi per Seneca sarebbe sciocco pensare che pregare con le mani levate al cielo o avvicinarsi a statue e templi possa ottenere l’aiuto degli dei. Dio è vicino a te, è con te, è dentro di te, proclama Seneca. L’uomo per trovare un ‘tu’ con cui confrontarsi deve guardare dentro di sé e solamente dentro di sé. E’ una conclusione insieme affascinante e triste, perché disegna un essere umano votato in fondo alla solitudine. Consonanti con quelle di Seneca sono le conclusioni di Marco Aurelio, grande filosofo e uomo di stato, autore di un libro dal titolo significativo, A se stesso: il richiamo è nuovamente allo scavare in se stessi, cosa che fa scoprire fonti zampillanti di bene. E anche Marco Aurelio propone la descrizione dell’uomo che ha scoperto dentro di sé la scintilla divina che lo anima, è un uomo che valorizza appieno la propria umanità e riconoscendo la differenza tra ciò che è caduco e ciò che è divino, si erge al di sopra dell’umanità incerta e sofferente. Anche per Marco Aurelio il raggiungimento di questi livelli dipende dalla scelta dell’uomo che deve decidere di percorrere la strada della sapienza, senza rimandare il suo ingresso fra i migliori.
Musica
LETTORE:
Fai una cosa buona e salvifica per te se, come scrivi, continui ad avanzare verso la saggezza. E’ insensato desiderarla, visto che puoi ottenerla, da te.
Non occorre alzare le mani verso il cielo, o scongiurare il sagrestano che ci lascia avvicinare alle orecchie della statua, quasi potessimo trovare più ascolto.
Dio è vicino a te, è con te, è dentro di te, è così ti dico, Lucilio, c’è in noi uno spirito sacro che osserva e sorveglia le nostre azioni, buoni e cattive; a seconda di come noi le trattiamo, lui stesso ci tratta. Nessun uomo è virtuoso senza Dio. Oppure qualcuno può ergersi al di sopra della sorte, senza il suo aiuto? Egli ci ispira concetti nobili ed elevati.
In ogni uomo virtuoso abita un dio, quale non si sa; se vedrai un uomo impavido di fronte ai pericoli, libero dalle passioni, felice nelle avversità, e tranquillo in mezzo alle tempeste, che guarda gli altri uomini dall’alto e gli dei alla pari e non ti pervaderà un senso di rispetto, per lui non dirai: “C’è qualcosa di troppo grande ed eccelso perché possa ritenersi simile al povero corpo che abita, una forza divina è discesa in lui, una potenza celeste stimola questo spirito straordinario, moderato, che passa oltre ogni cosa considerandola di poco conto, che se la ride dei nostri timori e dei nostri desideri: non può un essere così grande e restare saldo senza l’aiuto divino, perciò la parte maggiore di lui è lì da dove discende”.
LETTORE:
L’uomo che non rimanda al suo ingresso tra i migliori in assoluto è come un sacerdote e un Ministro degli dei, in stretto rapporto anche con la divinità che dimora in lui, questo rende l’uomo incontaminato dai piaceri, invulnerabile ad ogni dolore, intatto da ogni sopraffazione, insensibile a qualsiasi malvagità, atleta nella competizione più alta, la lotta per non essere abbattuti da alcuna passione, profondamente permeato di giustizia, pronto ad abbracciare con tutto il cuore ciò che gli accade e che gli viene assegnato in sorte, senza continuare a pensare, se non per una stretta necessità connessa all’utile comune, che cosa mai un altro dica, faccia o pensi.
Quest’uomo, infatti, per il proprio operato si occupa solo delle cose che attengono a lui, e di quelli tra gli eventi dell’universo che si intrecciano con lui, si impegna a mantenere belle le prime ed è certo che le seconde siano buone: infatti il destino assegnato a ciascuno, fa parte del tutto.
GIULIA REGOLIOSI:
Negli scrittori cristiani, sia di poesia sia di prosa, riecheggiano molti dei temi che abbiamo visto nell’esperienza pagana. Il punto di partenza è analogo, anche il cristiano si rende conto del carattere effimero della nostra vita e si rende conto della precarietà dell’uomo, ma almeno due differenze rendono il punto di vista cristiano diverso e più realistico: la percezione del male, insito nella natura umana e la consapevolezza che la sete del cuore può essere colmata da un Altro.
I titoli delle opere prese in esame riaffermano in modo esplicito il tema del dialogo con se stesso ma il modo e soprattutto le conclusioni sono diversi: al tema del dialogo interiore lo scrittore Agostino ha dedicato un’intera opera di ampio respiro, che viene annoverata tra i capolavori della letteratura mondiale: Confessiones.
Il secondo brano, di cui proponiamo la lettura, è anch’esso legato a questa tematica, come già indica il titolo stesso di Soliloquia. La parola chiave del passo che proponiamo è misericordia. Differentemente da quanto asseriscono i grandi della filosofia pagana, l’orientamento del cuore umano è verso una malvagità, che nel brano di Agostino ha in più l’ulteriore aggravante della mancanza di motivazione. Non vi è motivo che porti Agostino al furto, è solo la condizione di una malvagità senza motivo, anche quando non vi è alcuna ragione per essere malvagi. Agostino ruba i frutti di una pianta di pere per il solo gusto di commettere il furto, ma c’è una forza che lo rialzerà da questo abisso di male: non è la ricerca individuale della sapienza, ma è l’aiuto di un altro che ti vuole bene più ancora di quanto tu possa volere a te stesso. Il secondo brano è anch’esso legato a questa tematica, come già indica il titolo stesso, Soliloquia. Agostino può rivolgersi a se stesso ma è la voce di un altro che gli parla dal di dentro e questa voce gli consiglia di chiedere salvezza e aiuto. La misericordia deve essere chiesta e cercata umilmente: “Invoca salvezza e aiuto per giungere al compimento dei tuoi desideri”.
La prospettiva è cambiata, anziché la ricerca dell’autosufficienza condotta con il solo ausilio delle proprie forze, il riconoscimento di un bisogno e l’apertura verso chi può colmare questo bisogno.
I due brani successivi sono di Gregorio di Nazianzo: il dialogo con il cuore porta alla riflessione non solo su se stesso, ma anche sui grandi misteri dell’universo. Riflettere su queste domande diventa quasi un imperativo morale per l’anima cristiana, perché porsi queste domande significa implicitamente meditare su Dio. La risposta a queste domande: chi sono? Chi fui? E chi sarò? Non ottiene necessariamente la chiarezza desiderata ma una certezza almeno può essere affermata come incrollabile: “Tu, o Dio, non mi hai creato invano”.
Musica
LETTORE:
Così è fatto il mio cuore, o Dio, così è fatto il mio cuore di cui hai avuto misericordia mentre era nel fondo dell’abisso. Ora, ecco, il mio cuore ti confesserà cosa andava cercando laggiù tanto da essere malvagio senza motivo, senza che esistesse alcuna ragione per la sua malvagità. Mi appropriai infatti di cose che già possedevo in maggior quantità e molto miglior qualità, né mi spingeva il desiderio di godere ciò che con il furto mi sarei procurato, ma il desiderio del furto e del peccato in se stessi.
Nelle vicinanze della nostra vigna sorgeva una pianta di pere, carica di frutti, dall’aspetto e dal sapore per nulla gradevoli. In piena notte, dopo aver prolungato i nostri giochi sulle piazze, ce ne andammo giovinetti depravatissimi quali eravamo a scuotere la pianta di cui poi asportammo i frutti. Venimmo via con un carico ingente e non già per mangiarne noi stessi, ma per gettarle, addirittura, ai porci. Se alcuno ne gustammo, fu soltanto per il gusto dell’ingiusto. Così è fatto il mio cuore, o Dio, così è fatto il mio cuore di cui hai avuto misericordia, mentre era nel fondo dell’abisso.
LETTORE:
Da molto tempo volgevo tra me e me molti e differenti pensieri e da giorni cercavo ardentemente me stesso, cercavo il mio bene e quale male dovesse evitare quando all’improvviso ero io o un altro di dentro o di fuori? E’ proprio quello che ora mi sforzo attentamente di sapere.
Una voce mi dice: “Invoca salvezza e aiuto per poter giungere al fine dei tuoi desideri e questa stessa preghiera redigila per scritto, questo fatto ti darà più coraggio, poi riassumi brevemente in poche conclusioni il risultato delle tue ricerche senza pensare per ora ad una folta schiera di lettori, queste riflessioni infatti possono mirare solo a pochi fra i tuoi concittadini”. Farò così.
GIULIA REGOLIOSI:
Come si diceva, qualcosa di simile troviamo anche in un grande scrittore e poeta della Cappadocia, Gregorio di Nazianzo, il cui titolo è anche in questo caso Carme di se stesso, una riflessione su di sé che si apre anche al mondo esterno e arriva fino a riconoscere l’importanza del dono di Dio.
LETTORE:
Tu hai un compito anima, e se vuoi importante: esamina te stessa, che cosa tu sia, dove tu vada, da dove provenga e dove è necessario che tu risieda, se la vita che qui vivi ti appartiene o ve ne è un’altra superiore. Hai un compito, anima, quello di purificare in questo modo la tua vita: medita su Dio e i suoi misteri. Che cosa vi era prima dell’universo? Quale relazione con quest’ultimo? Da dove proviene e dove procederà?
Hai un compito, anima, quello di purificare in questo modo la tua vita. in che modo Dio governa e fa muovere l’universo? Perché alcuni aspetti sono stabili mentre altri scorrono e perché specialmente noi ci troviamo in un genere di vita mutevole? Hai un compito, anima, attendi solamente a Dio. Qual è la mia gloria precedente e quale l’attuale ignominia, qual è la mia composizione e qual è il termine della mia vita? Considera tutto questo e arresterai l’inganno della mente.
LETTORE:
Ieri consunto dai miei affanni, lungi dagli altri, sedevo in un ombroso bosco, rodendomi il cuore e infatti questo è il farmaco che in mezzo ai tormenti io prediligo: parlare in silenzio a tu per tu con il mio cuore di queste cose. Delle bellezze di questo luogo, in effetti, non mi curavo, perché la mente quando i dolori le fanno finto velo non vuol saperne di piaceri. Inoltre nell’intelletto che si attorceva in vorticosi ragionamenti, sostenevo questa tensione di parole avversarie: Chi fui? Chi sono? Cosa sarò? Non lo so con chiarezza e non lo sa neppure chi ha saggezza maggiore della mia.
Coperto da una nube, vado errando di qua e di là, senza ottenere neppure in sogno ciò che bramo. Meschini e vagabondi, tutti quelli su cui sta sospesa l’oscura nube della crassa carne. Malattia, povertà, nascite, morti, odi malvagi, fiere del mare e fiere della terra, dolori: tutto questo è la vita. Anima, chi, donde ovvero che cosa sei? Chi ti ha imposto di portare un morto e ti avvinse i lacci odiosi dell’esistenza, facendoti piegare tutta a terra? Come tu, che sei spirito, fosti mescolata alla crassa materia, tu intelletto, alla carne, tu leggera alla gravità? Queste cose, infatti, combattono tra di loro a viso aperto, ora sono un uomo e poi, poi non lo sarò più. Ma polvere, se tu sei di origine celeste, allora chi, donde tu sei? Insegnamelo, lo desidero. Se sei un soffio di Dio e in quanto sua parte tu ne discendi, come tu pensi, rigetta la stolta superbia. Eppure tu sei mescolata allo spirito celeste. Se tu, pur con un tal aiuto, inclini tuttavia verso la terra, ahimè, è proprio schietta la tua funesta malvagità. E se tu non discendi da Dio, qual è la tua natura? Dove mi farai arrivare da qui, o dissennato affanno? Arrestati. Ogni cosa è secondaria, viene dopo Dio. Cedi alla parola. Non invano Dio mi creò, il mio canto io lo ritratto. Dipendeva dalla pochezza della mia mente. Ora le tenebre, ma poi la parola. Capirai ogni cosa, o nella contemplazione di Dio, o nel tormento del fuoco. Quando la mente finì di cantarmi queste cose, cessò il dolore, a ora tarda dal bosco ombroso andai a casa. Ora ridendo del mio delirio, ora invece struggendomi di pena il cuore, perché la mente continuava la tenzone.
GIULIA REGOLIOSI:
Oltre a risentire dell’eredità classica, la letteratura dei cristiani porta con sé l’eredità del linguaggio biblico. In questo punto la lingua della Bibbia presenta una radicale diversità rispetto alla tradizione classica: nel linguaggio semitico, la parola cuore indica non solo il cuore nel senso anatomico del termine ma anche l’uomo nella sua totalità. Se i greci possono discutere circa l’origine e la sede dei sentimenti e delle emozioni, per l’uomo semitico il cuore è sede degli affetti, dell’intendere, del volere. La cosa interessante è che questa visione così integrale dell’essere umano, non viene inficiata dal fatto che la lingua ebraica possieda due termini per indicare il principio spirituale e il principio vitale. Questa situazione si riflette anche nella traduzione greca della Bibbia e per diretta conseguenza nel linguaggio del Nuovo Testamento, che alla Bibbia dei Settanta fa spesso riferimento. Non vi è mai confusione tra kardia e psyché nel greco ella Bibbia. Lo si vede chiaramente dai brani che proponiamo tratti dai Salmi, in cui la fiducia nel Signore dà un intonazione gioiosa a tutto il componimento, in cui la consapevolezza della certezza, della fedeltà del Signore è tipica dell’orante e in cui è il Signore stesso invita il suo popolo a dare ascolto alla sua parola e rimanergli fedele e a portare impresso nel proprio cuore i precetti che gli rivela.
LETTORE:
Ascolta Israele, il Signore Dio nostro è l’unico Dio. Amerai dunque il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutte le tue forze. E questi comandi che oggi ti dono rimangano ben impressi nel tuo cuore e insegnali ai tuoi figli. Parlane loro quando stai a casa e quando cammini per strada, quando ti corichi e quando ti alzi.
LETTORE:
È Dio la mia eredità e la mia parte. Sei tu che sostieni le mie sorti. Su buon terreno è avvenuta la divisione e il mio bene quanto mi è caro. Dio benefico, mi ha dato consiglio e di notte anche il mio cuore mi ammonisce, sempre tengo il Signore dinanzi a me e poiché è alla mia destra non vacillo. Mi allieta il cuore, la mia anima esulta, anche la mia carne riposa sicura. Il Signore è la mia salvezza, di chi avrò timore? Il Signore è a difesa della mia vita, di chi avrò paura? Se contro di me si accampa un esercito, il mio cuore non teme. Se contro di me si scatena una guerra, anche allora ho fiducia. Una cosa ho chiesto al Signore, questa sola io cerco: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita, per contemplare la bellezza del Signore e ammirare il suo Santuario. Ascolta Signore la mia voce, io grido abbi pietà di me, rispondimi! Il mio cuore ripete il tuo invito: cercate il mio volto. È il tuo volto Signore che io cerco.
GIULIA REGOLIOSI:
Il Signore conosce i disegni degli uomini ancora prima che questi nascano. È una frase che incontriamo nei Salmi, che viene spesso riecheggiata nel Nuovo Testamento. E forse a partire da questo motivo che gli scrittori cristiani, diversamente da quanto avviene con gli autori della tradizione pagana, collocano nel cuore la sede anche dell’intelligenza. Cor sapientiae domicilium videtur, il cuore sembra essere domicilio della sapienza, afferma Lattanzio. E ancora più sinteticamente e vigorosamente in corde omnis sollicitudo et scientiae causa manet: nel cuore ha sede ogni sollecitudine e la causa del sapere, afferma nel settimo secolo Isodoro di Siviglia. I discepoli che incontrano Gesù risorto e che dopo aver percorso con lui sessanta stadi della strada che porta da Gerusalemme ad Emmaus, non lo riconoscono, sono definiti da Gesù stesso stolti e duri di cuore. Duri di cuore, non di intelligenza, perché il cuore qui coincide con l’uomo stesso nella sua totalità. E poi quando ripensano a quell’incontro, è ancora il cuore protagonista del loro discorso: “Non è forse vero che il nostro cuore ardeva mentre ci parlava per strada e ci insegnava le Scritture?”. L’idea che il Signore conosca il cuore di tutti è radicata nel Nuovo Testamento. La troviamo per esempio in un passo di Luca: “Voi siete coloro che si mostrano giusti davanti agli uomini, ma Dio conosce i vostri cuori”; e in quel passaggio teologicamente cruciale che è l’ottavo capitolo della Lettera ai Romani: “Colui che scruta i cuori sa quali sono i pensieri e le aspirazioni dello Spirito, perché intercede per i Santi secondo Dio”. Ne scaturisce anche un’innovazione linguistica: la creazione del termine cardiognostes: conoscitore dei cuori, epiteto di Dio. È con questo epiteto che si apre la preghiera che gli apostoli innalzano a Dio, quando si tratta di scegliere chi deve sostituire Giuda per integrare il numero di dodici: “Signore che conosci il cuore di tutti”; non è un modo dire, non è la stanca ripetizione di una formula ripresa dall’Antico Testamento, ma è un modo naturale e semplice di affermare che il Signore ci conosce ancora meglio di quanto noi conosciamo noi stessi. La parola ricorre un’altra volta negli Atti degli Apostoli ed è ancora Pietro a pronunziarla in Gerusalemme, davanti all’assemblea dei farisei. Dopo una vivace discussione, Pietro si alzò e disse loro: “Fratelli, voi sapete che già da molto tempo Dio mi ha scelto tra voi perché per bocca mia i pagani ascoltassero la parola del Vangelo e venissero alla fede. Dio che scruta i cuori ha reso loro testimonianza, dando loro lo Spirito Santo, proprio come a noi”. Nella prima Lettera di Giovanni, veniamo invitati a una fede non formale, che scaturisca dal nostro cuore, fiduciosi del fatto che Dio, il quale conosce i nostri cuori meglio di noi, ha anche una capacità di perdono più grande della nostra ed è incline a venirci incontro e a perdonarci più di quanto siamo in grado di farlo a noi stessi. E questo segna in modo definitivo la distanza tra la ricerca dei filosofi pagani e la Rivelazione cristiana: da un perdono che nasce dalla propria sapienza a un perdono più grande che ci viene accordato da chi ci vuole bene più di quanto noi stessi possiamo volerci.
LETTORE:
Figlioli miei, non amiamo con le parole e con la lingua, ma a fatti e in verità. In questo sapremo che siamo della verità e al suo cospetto convinceremo il nostro cuore e se il nostro cuore ci rimprovera, Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa. Bisogna dunque che uno fra gli uomini che sono stati con noi per tutto il tempo in cui il Signore Gesù è andato e venuto fra noi, cominciando dal battesimo di Giovanni, fino al giorno in cui in mezzo a noi è stato assunto in cielo, sia con noi testimone della sua resurrezione. Ne presentarono due: Giuseppe chiamato Barsabba, soprannominato giusto e Mattia e pregando dissero: “O Signore che conosci i cuori di tutti, mostraci chi hai scelto tra questi due, perché assuma il posto di questo servizio e apostolato che Giuda abbandonò per andare nel posto che gli spetta. Tirarono a sorte e la sorte cadde su Mattia, e fu aggiunto agli undici apostoli.
MORENO MORANI:
L’ansia di capire dei pagani è incessante e il loro sguardo è teso tanto all’intimo dell’uomo, quanto alla realtà esterna. Guardando dentro di sé, riconoscono un legame con una realtà più grande e divina, di cui però vedono in modo soltanto opaco e offuscato qualche contorno. Rivolgendosi al proprio cuore, scoprono che esso è pieno di desiderio e riconoscono una lacuna incolmabile. Solo la Rivelazione cristiana può colmare questa lacuna, ma essa ci chiede di avere la stessa sete, lo stesso sguardo che avevano i pagani nella loro ricerca. Per una sintesi di questo pensiero, poniamo come epigrafe di questa nostra lettura di testi, un testo recente che ci è sembrato molto significativo: un testo del Cardinale Gerhard Ludwig Müller, Seguire Gesù. “Gesù così amabile da raggiungere come nessun altro, il nostro cuore, il nostro povero cuore, così indigente, così sempre alla ricerca di qualcosa, di qualcuno che lo prenda tutto. Perché il nostro cuore vuole tutto, esige tutto, non può fare a meno di chiedere tutto, è la sua natura. È fatto per la totalità, è fatto per Dio. Il nostro cuore cerca sempre qualcuno che lo prenda, che lo afferri totalmente, siamo fatti così. Noi seguiamo Dio, seguiamo Gesù, perché solo lui sa prendere tutto il nostro cuore come nessun altro, nessuno come lui. A volte con discrezione, a volte con forza sa tirare a sé il nostro cuore. Nessuno come te, Gesù, sa prendere il mio cuore, nessuno mi guarda e mi ama come te, Gesù. Questo vuol dirci san Pietro nella sua prima Lettera, quando scrive che Dio dà grazia agli umili. Dio dona i tesori del suo cuore a coloro che attendono di essere presi totalmente. Dio dona tutto se stesso a coloro che hanno fame e sete di qualcuno che sappia afferrare tutto il loro cuore. Dio si concede solo a chi è disposto a farsi prendere tutto. Essere disposti a lasciarsi prendere totalmente, questa è la prima umiltà. Questa è l’umiltà che Dio cerca in ogni uomo. Questo è il cuore che Dio cerca quando ci guarda. Questo cuore egli vuole ritrovare in noi, in ognuno di noi. Egli ha cura di noi – continua san Pietro nella sua Lettera – tutta la cura che Do pone verso la nostra vita mira a generare un cuore così. Dio cerca cuori che attendono di essere presi totalmente e opera perché in noi si generi sempre più un cuore così. Non è mai finita la generazione di un cuore che attende di essere preso tutto. Un cuore così è un cantiere senza fine e Dio stesso ama lavorare in cantieri così. Il cuore stesso di Dio vive come un cantiere senza fine, in cui ogni persona divina si dona, è presa e si riceve totalmente dall’altro. Il cuore stesso di Gesù è generato da un amore così. Un amore che dona, che attende, che è aperto a ricevere senza fine. Il cuore di Gesù opera per generare cuori così. Il cuore di Gesù dona, attende, spera così da ciascuno di noi”.
LETTORE:
Figlioli miei, non amiamo con le parole e con la lingua ma a fatti e in verità. In questo sapremo che siamo dalla verità e al suo cospetto convinceremo il nostro cuore. E se il nostro cuore ci rimprovera, Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa.