Chi siamo
RILANCIARE IL BRAND ITALIA
Partecipa Vincenzo Boccia, Presidente di Confindustria. Introduce Bernhard Scholz, Presidente Compagnia delle Opere.
RILANCIARE IL BRAND ITALIA
BERNHARD SCHOLZ:
Buongiorno a tutti per questo incontro con Vincenzo Boccia, Presidente di Confindustria, al quale do un benvenuto cordiale. Grazie di essere qui con noi. Vincenzo Boccia è stato eletto il 25 maggio come 30° Presidente di Confindustria, è stato già da giovane molto impegnato nell’associazione, è stato esponente dei gruppi di giovani imprenditori, nel 2000 è diventato Vicepresidente nazionale, ha avuto diversi incarichi nell’associazione (uno che mi ricordo in particolare, perché lì ci siamo anche incontrati, quando è stato dal 2009 al 2013 Presidente della Piccola Industria). Durante la presidenza Squinzi, ha avuto la guida del comitato Credito e Finanza. Abbiamo concordato di fare un colloquio questa mattina sui temi che riguardano la vita economica del nostro Paese, però io vorrei cominciare a chiederti come mai la tua impresa, che è la “Boccia Arti Grafiche” a Salerno, che lavora quindi in un settore molto esposto alla competitività (tante imprese di questo settore hanno chiuso, altre sono ancora in gravi situazioni di riscatto), è cresciuta dal 2008 a oggi con un incremento del fatturato del 325%, se non sbaglio, con investimenti di 50 milioni. Qual è la ragione, il motivo, la strategia che sta dietro a questo sviluppo? Dopodiché, a partire dalla tua esperienza, andiamo ad affrontare gli altri temi.
VINCENZO BOCCIA:
Grazie, detto sinteticamente, esprimerò una dimensione di “know how” della nostra impresa. Potrei cavarmela con una frase di Einstein, che poi è un po’ lo spirito degli imprenditori, che diceva: “Un’idea che non sembri assurda ha poche probabilità di essere realizzata”. Un’impresa a Sud, settore maturo, carta stampata: tra l’altro, ho visto i dati di Mediobanca 15 giorni fa e hanno indicato il settore stampa-editoria, cioè il settore in cui siamo presi anche noi, come settore che ha avuto una perdita del 90% di valore aggiunto e del 35% di produttività e mi sono chiesto anch’io perché sopravvivo. In realtà, è esattamente un po’ specchio di quella che è l’industria italiana: non esistono settori innovativi e non, ma esistono industrie innovative e non in settori maturi e non. E quindi, abbiamo fatto una cosa semplice, volendo sintetizzarla: abbiamo trasformato il problema in opportunità. Quale? Con Internet, la quantità di carta stampata nel mondo si contrae – e quindi anche nel mercato domestico, quello italiano – ma la geografia di mercato dell’industria della stampa si allarga, perché oggi tu hai la possibilità di ricevere dati da clienti che sono in un raggio di azione di 2000, 2500 km dal tuo stabilimento (da Parigi, da Londra, dai punti forti in cui esiste un’editoria, compresa Milano), ti mandano dei dati in tempo reale grazie ad Internet e tu li trasformi in carta stampata e li invii in questi Paesi. Quindi, il vincolo Internet, che ha comportato la contrazione di quantità di stampa, determina l’allargamento geografico del mercato grazie alla tecnologia. E avere un’organizzazione degli impianti, prima installazione in Europa, e un’organizzazione che sia all’altezza di sostenere questo livello di competitività – perché come tu puoi arrivare in questi Paesi, gli altri possono arrivare nel nostro, chiaramente – è una grande sfida in un settore maturo come quello della carta stampata, un settore che in realtà può reagire, pur comprendendo questi elementi. E l’altra questione – che poi è la grande questione dell’industria italiana – è aver compreso che bisognava essere eccellenti in ogni funzione aziendale (finanza, marketing e produzione) e non solo in una di queste funzioni, che è la storia dell’industria italiana. La storia dell’industria italiana fino agli anni ’90 ci dice che se eri bravo nella funzione produttiva eri competitivo, oggi devi essere bravo in ogni funzione aziendale, da produttori a impresa-istituzione, che è un passo culturale sostanziale e non semplice, non marginale, ma è la grande sfida che il Paese ha davanti. Per quanto riguarda la politica economica, la visione non più in settori, perché noi dimostriamo che in un settore maturo come la carta stampata si può crescere e quindi, evidentemente, il problema non è la scelta dei settori ma essere innovativi o meno, che è un’altra partita.
BERNHARD SCHOLZ:
Questo fa parte anche del salto culturale, del nuovo stile imprenditoriale che tu hai chiesto in diverse occasioni, anche nel momento della tua nomina all’impresa italiana. In che cosa consiste questo salto? E aggiungo la domanda che riguarda la produttività, perché uno dei temi che gli analisti hanno sempre detto, gli ultimi anni con maggiore forza, è che le imprese italiane hanno un problema serio di produttività: pensiamo che dal 2000 a oggi in Italia è salita dell’1%, mentre nei grandi Paesi europei del 18%. Quindi, questi due temi rispetto alle imprese: la produttività e il salto culturale.
VINCENZO BOCCIA:
La produttività è una delle grandi questioni del Paese, noi l’abbiamo posto sin dalla Assemblea pubblica. Tra l’altro, se pensiamo che negli ultimi 15 anni rispetto alla Germania la produttività in Italia è calata del 30%, il famoso costo di lavoro per l’unità di prodotto era pari a 100 in Italia e 100 in Germania 15 anni fa, oggi è 130 in Italia e 100 in Germania. Questo è un problema attuale e potenzialmente futuro, se non lo risolviamo, e non è una questione solamente industriale, riguarda noi e chiaramente l’affrontiamo ma è un problema perché, a parità di moneta, è come dire che il Paese più forte, la Germania, ha svalutato a danno del Paese più debole e noi abbiamo perso la sfida della produttività che dobbiamo recuperare. Qual è uno dei punti essenziali, guardando il modello tedesco in cui si è recuperata produttività individuando una direzione dell’industria? Cioè, quale industria costruire o quale industria immaginare in un’Europa, in particolare in Germania (ma riguarda anche noi in Occidente)? Un’industria ad alto valore aggiunto, ad alta produttività, ad alta intensità di investimenti, perché dire la politica industriale è dire tutto, il problema poi è capire cosa vogliamo fare, quindi diamo già un’idea di analisi economica. Come la Germania “risolve” la questione produttività, in realtà viene da lontano, viene da Schröder. Schröder inventa lo scambio salario-produttività. Nei famosi contratti di secondo livello aziendale, determina due effetti: uno sostanziale di merito economico, che è appunto l’incremento della produttività nelle fabbriche tedesche, e secondo di metodo, perché con quel modello si passa da un’idea conflittuale all’interno delle fabbriche a un’idea di collaborazione per la competitività. Perché, se tu scambi i salari di produttività e determini il fatto che una parte della ricchezza che viene creata in quella fabbrica viene redistribuita ai lavoratori, è nell’interesse dei lavoratori che quella fabbrica vada molto bene, nell’interesse degli azionisti, nell’interesse degli imprenditori. Quindi, si pone una questione di metodo, grazie ad una linea di politica economica e fiscale in Germania che noi abbiamo, come dire, un po’ evitato in termini di confronto e che oggi diventa la grande priorità Paese. Poi, è chiaro che la produttività di un Paese è la produttività dei fattori e non solo dell’industria, quindi è un’altra questione, però ognuno ci metta il suo, io parlo per quello che riguarda il nostro. Il nostro riguarda due linee, una delle relazioni industriali, quindi noi e il sindacato, che orientino l’industria Italiana a fare scelte rilevanti in termini organizzativi per recuperare la produttività, poi c’è una seconda gamba di recupero di produttività che sono gli investimenti privati: ma questo non significa che l’una dev’essere l’alibi per non fare l’altra. Qualche collega del sindacato ci dice che la produttività è solo investimento, la produttività è investimento ma è anche organizzazione aziendale. Questo significa anche una politica fiscale che orienti certe scelte in un certo modo. Dopo di che, la seconda domanda che tu fai è: cosa devono fare le imprese italiane? Se volessimo sintetizzare un’analisi in un mondo in cui le medie di settore non hanno più significatività, questa è un’altra questione che riguarda anche la rappresentanza. Fatto pari a 100 le aziende di un settore, qualsiasi settore dell’industria italiana, normalmente, mediamente un 20%, 30% va molto bene, un 60% va mediamente bene, mediamente male. Tu devi rappresentare queste tre anime e non è facile, perché a fini contrattuali quelli che vanno molto bene ti dicono: “Chiudi i contratti perché io vado bene e non posso accettare un giorno di sciopero”. Quelli che vanno mediamente bene, mediamente male sono un po’ storditi dalla situazione; quelli che vanno molto male ti dicono: zero aumenti perché noi non andiamo bene, quel 20% va bene perché è innovativo. Qual è la sfida del Paese dal punto di vista macro? Poi torniamo però a quello che devono fare le imprese. La sfida del Paese è fare in modo che quel 60%, 70% che è al centro, si orienti a fare le stesse cose che fa il 20%. E non dire che siccome il 70% non lo fa, non lo facciamo noi, perché quella è constatazione: noi dobbiamo lavorare. Se il 20% fa le cose e le fa bene, quel 20% è innovativo e dà più salari, è lo scambio salari-produttività, per parlare di una delle dimensioni. Evidentemente, è quella la strada che l’industria italiana deve realizzare. Questa determina una doppia dimensione della Confindustria: una pedagogico-formativa e in rapporto all’impresa del futuro, cioè parlare all’industria piccola, media, grande e individuare quali sono le direttrici da seguire. La seconda è di politica economica fiscale: in sostanza, passare da produttori a imprenditori, e quindi ritorniamo al punto di partenza. Se è vero, come è vero, che fare bene un prodotto non è più una variabile di competitività, ma è la pre-condizione per entrare in un mercato, la partita è su altri fronti. E la cultura di complessità nell’editoria delle imprese italiane, riguarda, diciamo, questo percorso che noi abbiamo un po’ sintetizzato da impresa patriarcale a impresa istituzione. Impresa istituzione è un’impresa in cui c’è una differenza di ruoli tra azionisti, manager, lavoratori, c’è una convergenza di risultato, c’è una dimensione di collaborazione per la competitività. Non è facile in un Paese in cui ci hanno raccontato che il conflitto era la soluzione. Si era confuso il metodo con il merito, e si era confuso anche dal punto di vista mediatico: la questione conflittuale. Perché se io oggi dicessi qualche cosa contro i sindacati, contro le banche, i giornalisti domani farebbero una bella prima pagina, mediaticamente abbiamo fatto un capolavoro ma sostanzialmente non abbiamo risolto nulla e io sono per la seconda dimensione, meno mediatica e più sostanziale. Detto da uno stampatore, è un conflitto di interessi rilevante, però lo dovete accettare.
BERNHARD SCHOLZ:
Quindi, responsabilità alle imprese, responsabilità delle parti sociali, responsabilità della politica. Andiamo a spostarci su questo terzo punto. Il Ministro Calenda ieri ha detto che occorre un grande piano industriale, anzi l’ha annunciato, per favorire investimenti in questo Paese. E’ uno dei tanti annunci o diventa qualche cosa che aiuterà veramente una ripresa che in questo momento sta un po’ tentennando?
VINCENZO BOCCIA:
Questo lo devi chiedere a Calenda, io posso dire se condivido o meno, però leggo nell’intervista di Calenda tre aspetti particolarmente interessanti. Il primo: Calenda pone una questione temporale. Dice: attenzione che la torta dobbiamo prima allargarla e poi dividerla, perché se pensiamo di dividere una torta molto piccola, corriamo il rischio di dividerci qualche cosa per fare il solito assalto alla diligenza, però senza una visione di un certo tipo. Condividi il fatto che c’è una priorità per allargare la torta e poi dividerla? Noi lo condividiamo e diciamo come l’avremmo detta noi: prima la crescita, prima la ricchezza, perché quella crescita ti permette di risolvere le due questioni che hai nel Paese o, se vuoi, le tre: crescita, debito e deficit. Riusciamo noi a risolvere la questione del debito e del deficit con l’austerity o forse con la crescita? E quindi, dovremmo essere più coraggiosi perché gli Stati Uniti d’America ci fanno capire che quando c’è convergenza tra la politica economica di un Paese e la politica monetaria – FED è politica anticiclica da un punto di vista economico -, c’è un rimbalzo dell’economia. E crescono il doppio di quanto cresce l’Europa, e l’Italia cresce la metà di quanto cresce l’Europa. Questa è una grande questione. Quindi, quali sono le priorità? E’ molto interessante leggere che un esponente del Governo pone una questione di priorità che puoi condividere o meno, ma la politica è priorità. Una volta mi colpì, in una tavola rotonda, una risposta di Joaquín Navarro-Valls alla domanda della giornalista che era stata: “Che cosa l’ha colpito di più della esperienza che ha avuto con Papa Wojtyla?”. Lui disse: “Che riusciva a distinguere le cose urgenti dalle cose importanti”. Bellissimo! Questa è la politica, non è una questione solo del Papa. Se non riusciamo a distinguere in questo Paese le cose urgenti dalle cose importanti, a dare priorità e a riassumere il primato della politica – perché in questo Paese serve politica e non antipolitica, e servono scelte -, poi ognuno ha la sua visione e chiaramente la pone. Quindi, la prima questione è temporale. La seconda. Calenda dice: attenzione, abbiamo un apparato industriale potente se lo rendiamo competitivo grazie alla politica dell’offerta selettiva. Dobbiamo individuare gli strumenti per rendere quest’industria più competitiva, per recuperare al Paese crescita, e quindi occupazione e quindi domanda. Oggi il dibattito sui giornali è che Calenda dice che sbagliamo perché serve una politica della domanda. Se vuoi arrivare alla politica della domanda, che noi non ignoriamo perché è il fine e perché politica della domanda per noi industriali significa più domanda e quindi più vendita – vedo Snaidero davanti a me che si commuove quando parlo di domanda, perché è attento alla domanda interna del Paese -, come ci arrivi a riattivare la domanda in termini strutturali? Attraverso la politica dell’offerta. Faccio un esempio. Se poniamo la questione premi di produttività, e arriviamo per esempio ad un pezzo di politica fiscale, se arriviamo al punto di detassare, defiscalizzare in maniera rilevante i premi di produzione, grazie alla leva fiscale orienteremo le scelte future di tante nostre imprese. Dicono gli amici della CGIL, attenzione che il 20% delle aziende italiane ha contratti di secondo livello, quindi l’80% non li ha, e allora, domanda: ci fermiamo a questa constatazione e siccome la l’80% non li ha non li facciamo, o forse, guardando a quel 20% che è più competitivo e dà più salari in termini variabili, dobbiamo fare in modo che quell’80% vada verso il 20%? Se riuscissimo a fare questo, e ogni azienda con un contratto di secondo livello elevasse i salari perché si eleva la produttività, aumenterebbero i salari. Ricordiamoci il caso Volkswagen di tre anni fa, dove i lavoratori hanno preso 6 mila euro di premi mentre noi stavamo litigando per 200 euro all’anno. Quella che cos’è? Una politica dell’offerta che rende competitive le imprese grazie ad un salto di produttività e fa arrivare più salario ai lavoratori. Ma in realtà, poi, diventa politica di domanda, perché se tu aumenti i salari grazie ad un incremento di produttività, riattivi la domanda nel Paese, quindi parti dalla politica dell’offerta e arrivi a riattivare la domanda. Se riparti dalla politica della domanda prescindendo dall’offerta, non rendi competitivo il Paese e siccome nel Paese oggi non c’è lo strumento della svalutazione, perché siamo in area Euro e i tedeschi hanno la stessa moneta, dobbiamo costruire una competitività strutturale, dobbiamo fare quello che non abbiamo mai fatto in questo Paese, recuperare la politica dell’offerta. Siccome qualcuno mi ha dato del cretino oggi sul giornale, dicendo che questi di Confindustria non capiscono niente perché vogliono abolire l’offerta, ho spiegato che questo cretino intelligente ha una sua idea di politica economica dell’offerta, e la politica della domanda sarebbe un guaio per questo Paese, sarebbe un flash immediato. Ma se i cittadini di questo Paese non avvertono un superamento dell’ansietà dell’economia, hai voglia a mettere la politica di domanda. Se io ho una dimensione di incertezza e ansietà, la prima cosa che faccio quando guadagno di più, è risparmiare perché ho paura del futuro. Allora dobbiamo rimuovere un’altra importante questione che non è economica ma che impatta sull’economia molto di più di quelle che sono le scelte economiche: si chiama ansietà e nel Mezzogiorno è ancora peggio, si chiama assuefazione. Ansietà e assuefazione sono i grandi problemi che un Paese ha. Da una parte, il rischio dell’incertezza, dall’altra parte, che lo facciamo a fare? Tanto nulla cambierà, e quindi l’assuefazione entra nella testa di un popolo e in quel momento il declino è alle porte. Noi, come industriali italiani, investendo in questo Paese, amandolo, abbiamo il dovere di dare un’idea di politica economica nell’interesse del Paese. L’altra cosa interessante di Calenda, che noi condividiamo totalmente, è stata una rivoluzione del pensiero confindustriale in termini di contesto. Individua nella politica economica dei fattori orizzontali e non di settore, su cui paradossalmente – non è un paradosso ma una provocazione mia – Confindustria è d’accordo. Confindustria dice che non vanno fatte politiche di settore ma politiche di fattori, cioè, tu devi rendere competitivo un Paese e poi chiunque del settore matura farà l’imprenditore e farà bene la sua impresa. Il fatto di individuare politiche di fattori, di solito dice due cose: uno, secondo me una bella chiave di lettura per il futuro del Paese, due, nell’interpretazione di una politica un po’ viziosa che abbiamo subito anche negli anni passati, evita scambi. Perché se oggi il Presidente di Confindustria rappresenta il settore grafico industriale, potrebbe tranquillamente aprire una piattaforma in cui dire che, siccome l’industria è in crisi e ha perso il 90%, è quella più in crisi di tutte, un piano industriale di scelta della libertà di pensiero legata alla stampa italiana riguarda l’industria. Vedete come so fare anche il cattivo, ma non lo sono perché non è nella mia natura e nella mia formazione. Quindi, una Confindustria che individua nella politica dei fattori, con un Ministro che ridice che la politica dei fattori è orizzontale e non verticale, è un elemento secondo me di valore in questo Paese. Qual è il rischio che corriamo? Che da un lato si dice questo e dall’altro si fa un attacco alla diligenza, perché non abbiamo tante risorse, quindi, con poco dobbiamo fare tanto. Se però ognuno, invece di ragionare nella logica Paese ragiona nella logica consociativa, arriva il presidente di Confindustria e dice una cosa giusta che non possiamo fare – io lo so e quindi non lo dirò nelle nostre assemblee -: l’applauso sarebbe facile ma sarebbe un problema, in questo momento. Io dovrei porre la questione che in questo Paese ci sono le patrimoniali sui fattori di produzione, che è una cosa antieconomica: l’IMU è una patrimoniale sui fattori di produzione, un’anomalia di politica economica, quota dieci miliardi di euro. Se voglio partecipare alla ricreazione in atto nel Paese, pongo questa questione. Se invece sono consapevole che il mio Paese ha un debito pubblico rilevante e ha poche risorse su questa legge di stabilità, devo sforzarmi di individuare degli elementi selettivi di politica economica che diano un indirizzo di futuro all’industria del Paese e alla crescita, devo sentirmi, come hai detto tu, corresponsabile. Perché, e chiudo, qui dobbiamo chiarirci. Quando si parla di responsabilità in Italia, è sempre rivolta all’altro e mai a te stesso. Allora, parliamo anche della nostra e accettiamo di prendere il pezzo che riguarda noi, ma pretendiamo la responsabilità di tutti, perché la crescita di un Paese non è solo una questione economica o della politica, è una questione di tutti i cittadini del Paese e anche dei corpi intermedi che, o si sentono corresponsabili di una visione di un certo tipo, oppure fanno un altro mestiere che è rappresentare con uno stile diverso un’idea di Paese che uno può condividere o meno. Questo è un momento delicato, che invece può essere una grande occasione di raccontare un futuro, il futuro di un Paese industriale, che ha grandi potenzialità e un futuro molto bello. Ieri, due amici mi hanno mandato un proverbio cinese che dice: quando piove lo stolto impreca Dio e l’intelligente apre l’ombrello. Ecco, se quando piove, invece che prendercela con gli altri ci guardiamo allo specchio e vediamo che la causa è anche di fronte a noi, forse apriamo l’ombrello invece di prendercela con qualcun altro. E se poi rimaniamo solo noi, il problema si pone e quindi alla fine ci innervosiamo. Vediamo un po’ se qualcuno ci segue a partire da voi qui, se condividiamo un’identità culturale.
BERNHARD SCHOLZ:
Devo dire che ho sempre apprezzato, anche la prima volta che ci siamo visti, questa idea che ognuno debba partire dalla propria responsabilità perché se no un dialogo non è neanche più possibile, perché diventa un alibi reciproco. E’ importante questa espressione che hai coniato, questo capitalismo moderno che va introdotto in Italia. I fattori che hai adesso elencato fanno sicuramente parte di questo concetto di un capitalismo che contribuisce alla crescita di un Paese in un modo inclusivo.
VINCENZO BOCCIA:
Il paradosso è che in Occidente noi parliamo di capitalismo moderno e gli ex-comunisti fanno capitalismo selvaggio. C’è un mondo che ci hanno raccontato in maniera diversa, è esattamente il punto di caduta su cui dobbiamo lavorare. Noi dobbiamo lavorare a un’idea di Paese, di capitalismo moderno, che ha dentro un’idea molto più larga, l’idea di una società aperta, che include. Che cos’è la fabbrica se non una piccola comunità in una grande comunità, Paese o Europa? La fabbrica è una piccola, grande comunità. Se riesci a farle in queste piccole grandi comunità, le rivoluzioni che non vediamo ma che possiamo raccontare, scopri che quel 20% dell’azienda è molto avanti: evidentemente lì c’è il futuro. Quelle comunità di lavoratori, imprenditori, gli attori della fabbrica stanno realizzando una capacità di reazione che noi non vediamo, perché le medie dicono che la gran parte dei settori hanno indici negativi; poi vai a vedere quella media che è fatta da una parte che va molto bene e una parte che va molto male, quella parte mediana che abbiamo raccontato. Quindi, l’idea di capitalismo moderno è determinante per una società che include, determinante per una società aperta, diventa un’idea culturale oltre che economica il cui profitto è uno strumento e non il fine, perché se fosse un fine allora la mafia sarebbe un valore. Capitalismo moderno significa un’idea di società. E dove me ne sono accorto? All’epoca dell’esperienza di Piccola Industria, frequentando i giovani imprenditori. Qualche anno fa, se chiedevi ad un imprenditore, nostro associato, qual è la prima cosa che pensi la mattina, quando entri in azienda, lui ti avrebbe risposto: come sarà la mia impresa fra qualche anno. Oggi, se chiediamo ai nostri colleghi qual è la prima cosa che pensi quando entri in azienda, sai qual è la risposta, nell’80, 90% dei casi? Come sarà il mio Paese fra qualche anno. Significa due cose. La prima, una consapevolezza culturale alta; la seconda, una consapevolezza che questa volta da soli possiamo fare tanto ma non abbastanza. Non c’è solo una questione culturale larga, mettiamola così. C’è una questione economica. Io posso essere fortissimo dentro i cancelli della mia fabbrica ma quando esco, se comincio ad avere dei deficit di competitività, perdo pezzi, e se è un altro Paese rispetto al mio, più avanti di me, evidentemente quei pezzi che perdo hanno un punto di caduta per cui non riesco più a recuperarli. Quindi, l’idea di Paese si collega alla visione economica che loro hanno, ma se noi, come consumistica, li sfruttiamo bene, in senso buono, possiamo costruire una dimensione culturale dell’idea di Paese. Quando qualcuno ci contesta il fatto che Confindustria si occupa di politica, non ho capito cosa dovremmo fare: come diceva qualcuno, smacchiare il leopardo la mattina? Se è compito suo, deve dire qualcosa. E quando noi diciamo politica di offerta e non politica di domanda, esprimiamo un’idea di politica economica ed è giusto che un corpo intermedio dello Stato si occupi di politica economica, magari in modo equidistante dai partiti, che è un’altra questione. La politica, come diceva qualcuno, è una cosa troppo importante per lasciarla solo ai politici. E siccome Confindustria è contro i monopoli, questo monopolio culturale non possiamo accettare che sia solo di qualcuno. Rivendichiamo l’idea di dover dire all’attenzione della politica la nostra idea: poi la politica sceglie, non siamo noi il Governo del Paese. E se qualcuno ha un’idea di politica economica che secondo noi porta il Paese ad avere più problemi che soluzioni, abbiamo il dovere di dirglielo. Mi sembra l’ideale. Il sì al referendum parte dal fatto che se vuoi un Paese che parta da una politica di offerta e abbia una visione di lungo periodo, quella pazienza che citava Mattarella proprio qui, devi avere una dimensione di governabilità e di stabilità che ti permette di avere quella pazienza. Perché se ogni sei mesi sei in campagna elettorale, fai una politica della domanda. Noi partiamo dall’economia e arriviamo alla politica. E’ molto semplice. Salutiamo Snaidero, che poi andiamo a trovare allo stand di Federlegno, successo di critica e di pubblico. Jean Monnet diceva: “I miei obiettivi sono politici, le mie spiegazioni sono economiche”. Confindustria parte da spiegazioni economiche e arriva a scelte che sembrano politiche ma che ribaltano sulle questioni di scelta del Paese. Se è vero, com’è vero, che una politica dell’offerta ha bisogno di pazienza. Che significa pazienza? Significa, per chi fa sindacato e per chi fa politica vera, sapere che non esiste contemporaneità tra causa ed effetto, in economia come in politica: quello che fai oggi lo vedi domani, quello che ha fatto Schröder, la Germania lo vede oggi. Gli effetti della produttività tedesca sono gli effetti di quella scelta di Schröder di 15 anni fa, questa è la pazienza di cui parlava il Presidente Mattarella. Se vuoi tutto e subito, e non hai però gli strumenti per governare nel medio periodo – possono accadere delle cose che chiaramente creano complicazioni e non governano complessità – il problema è evidente, è il motivo per cui all’unanimità il Consiglio Generale di Confindustria, che è fatto da imprenditori di sinistra e di destra, ha deliberato il sì al referendum, perché evidentemente il loro percepito sulla questione economica del Paese è un percepito importante. C’è qualcuno che dice: Confindustria dice sì, dobbiamo fare no. Benissimo, se questo è il Paese siamo alla ricreazione, se gli industriali italiani dicono una cosa, o sono dei pazzi o evidentemente ci ragionano. Noi stiamo argomentando le ragioni del nostro sì e sarebbe bello che invece dei titoli uno dicesse le ragioni del no e le ragioni del sì. Altra cosa è se il Governo cade se si perde il referendum, ma questa la lasciamo ad un’altra puntata. Adesso non voglio mettermi troppo avanti, anche perché io tre cose so, se me le domandi tutte.
BERNHARD SCHOLZ:
Andiamo un attimo ad approfondire un punto specifico del rapporto economia-politica. Tu hai detto che rispetto al Sud – la tua impresa è a Salerno, quindi questo tema lo conosci molto bene – non servono politiche straordinarie, servono politiche più intense ma uguali a quelle necessarie al resto del Paese. Che cosa intendi con questo “più intense”?
VINCENZO BOCCIA:
Ho letto un articolo che ribaltava questa questione ed era esattamente in linea con il nostro pensiero: “Il bene dell’Italia è il bene del Mezzogiorno”. Che cosa vogliamo dire con questo? La prima cosa che vogliamo dire è che, quando uno strumento di politica economica funziona, in gergo tecnico si dice che “tira”. Fai la legge Sabatini per gli investimenti, tira nel senso che gli investimenti ripartono, leggi che da quando è partito questo strumento si sono riattivati investimenti privati d’industria d’Italia. Una delle nostre associazioni, la Ucimu delle macchine utensili, ci segnala che da quando è partita la Sabatini c’è stato un incremento degli investimenti privati: questo significa che è uno strumento selettivo su cui puntare. Prima la logica era: siccome tira molto e quindi funziona, inventiamocene un’altra, perché questa è la fantasia al potere. Così, siccome abbiamo poche risorse, questo funziona. Invece oggi dovresti fare il contrario, prendere quello strumento che funziona e tira e inserire risorse su quell’item. Che c’entra il Mezzogiorno con tutto questo? C’entra se rispondiamo alla domanda: quale industria vogliamo immaginare. Se vogliamo porre all’intenzione del Paese la questione industriale come una delle grandi questioni, e nella questione industriale non vogliamo l’idea di una politica industriale in cui andiamo a scambiare per settori ma per fattori, e quindi un Paese competitivo, tu devi arrivare ad un punto in cui certe scelte di politica economica sono coerenti con un’industria di alta intensità d’investimento, ad alta produttività, ad alto valore aggiunto: quello che serve al Paese serve anche al Mezzogiorno. Se c’è una Sabatini che vale per tutto il Paese, non devi fare altro che prendere ‘sta Sabatini e farla diventare una super Sabatini per il Mezzogiorno. Avere un Mezzogiorno in cui nelle otto regioni, fino a qualche anno fa, c’erano 1200 strumenti di agevolazione, tu capirai che è difficile anche per un italiano e per uno che vive nel Mezzogiorno capire quali sono gli strumenti. Allora, concentrarsi con sintesi e semplicità ma altrettanta determinazione su un’unica linea Paese che diventa maggiormente intensa per le aree cosiddette deboli, in cui ci metti infrastrutture, investimenti privati. La questione produttività è una delle questioni che noi dobbiamo affrontare, altrimenti corri il rischio. E qui ritorni alla questione dell’articolo quinto, che è una delle questioni del referendum, al fatto che, invece di avere un’unica politica economica Paese, o se vuoi un unico indirizzo di politica economica Paese, da cui deriva la direzione di marcia che deve prendere l’industria italiana, tu avrai un’unica politica economica a livello nazionale e ne hai otto, se parliamo delle regioni del Mezzogiorno, a livello locale. E mentre Calenda parla per esempio della politica dell’offerta e dei fattori a livello centrale, qualche Governatore regionale ti fa la politica dei settori. Allora, delle due l’una: o facciamo tutti le politiche di settori o facciamo tutti le politiche di fattori. Avere una convergenza della politica italiana, significa esattamente questo, semplificare cose complesse, non complicare cose semplici. E le cose che hanno funzionato a livello regionale o a livello nazionale, potenziamole, tutto qua. È una cosa semplice. Ma siccome le cose semplici in questo Paese non hanno grande valore, perché hanno valore le cose semplici che hai reso complicate, lì diventi un padre eterno. Tutte queste complicazioni fanno dell’Italia il Paese con il più alto livello di qualità degli imprenditori del mondo. Faccio solo una riflessione e la metto in positivo, perché oggi sto da voi e non voglio essere pessimista. Uso un dato pessimo per arrivare ad un punto di caduta di ottimismo: guardando Marco Gay, potrei definirlo “pessimista delle previsioni e ottimista delle aspettative”. Decodifico: rispetto alla Germania, siamo il secondo Paese industriale d’Europa, ma un’impresa italiana rispetto ad un’impresa tedesca paga il 30% di costi di energia in più, il 20% di global tax in più e dà un costo di lavoro per unità di prodotto per il 30% maggiore della Germania. Se siamo al secondo posto con questi handicap, pensa se ce ne tolgono qualcuno che cosa possiamo diventare. È chiaro che quando noi andiamo all’estero siamo i migliori del mondo. Allora c’è qualche entità che esiste, non voglio adesso esagerare ed entrare nel campo religioso, ma qualcuno ha detto: siccome questi italiani sono molto bravi, mettiamoci qualcuno che gli renda complicata la vita, però te la rendono talmente complicata che quando vai all’estero ti sembrano le scuole elementari. Signori, il mondo è davanti a noi, l’Italia ce la farà! Non lo diciamo troppo alla politica, se no non fanno niente e la politica delle offerte è andata. Però, se partiamo dalle criticità e andiamo sulle potenzialità, ce la possiamo fare. E io ho capito perché siamo bravi, perché siamo secondi con tutti questi handicap, e cosa potremmo essere se ne eliminassimo una parte. E cosa sono questi handicap? Sono i fattori: questione fiscale, questione energetica, questione produttività. E che sono i fattori? Quelli che devi risolvere con la politica dell’offerta. Da dove prendi, prendi, arrivi sempre al punto di caduta, alla faccia dei grandi intelligenti della domanda, su cui siamo aperti ad ogni confronto per spiegare loro che stiamo facendo l’interesse della domanda partendo dall’offerta. Cioè, stiamo facendo il loro gioco e loro non lo sanno, perché devono complicare cose semplici e non semplificare cose complesse. Ma per questo ci siamo noi, ragazzi, quindi non c’è problema.
BERNHARD SCHOLZ:
Quando ho studiato la questione della produttività, ho visto un dato – due anni fa, non so se è ancora così -, per cui le 30, 40 mila imprese italiane migliori hanno produttività superiori alle migliori tedesche. Ma aggiungo una domanda: perché non guardiamo i migliori e cerchiamo di imparare da loro, perché cerchiamo sempre alibi per dire che il mondo non funziona?
VINCENZO BOCCIA:
Esattamente, condivido totalmente. Penso che dobbiamo fare due cose: una interna a Confindustria, far comprendere a tutti i nostri associati cosa hanno fatto quelli che sono avanti. Tra l’altro, hai perfettamente ragione perché se quelle aziende sono competitive rispetto agli handicap del Paese, vuol dire che hanno dei plus di competitività superiori ad altri, perché devono compensare livelli di competitività diversi tra sistemi Paese. È evidente che dobbiamo spiegare, non sempre è facile. Perché vedi, l’imprenditore di prima generazione che negli anni di storia del Paese, dal dopoguerra ad oggi, ha sempre avuto successo facendo un ottimo prodotto, era un produttore: io parlo da figlio di produttori, mio papà che ha costituito l’azienda era uno stampatore, sapeva stampare e si mise a fare il mestiere del tipografo. In un mondo in cui non c’era una sovra capacità di produzione, come c’è oggi, per cui devi essere anche bravo ad intercettare segmenti, il solo fatto di saper produrre era un fattore di competitività. Dopo di che, la seconda generazione ha creato una dimensione che potremmo definire di compresenza tra le tradizioni, l’esperienza di produzione la prima e la complessità che portava la seconda in termini di visione europea di mercato. Raccontare è una cosa, fare è altro. Non sempre sarà facile, alcuni passaggi generazionali saranno di successo, altri no. Dobbiamo augurarci che quelli che non lo saranno, saranno aziende che verranno acquisite da chi riuscirà a farlo. Quindi, non ci preoccupiamo che qualcuno compri un’azienda italiana, viva Dio! Se vogliamo attrarre investimenti nel Paese, la questione deve essere bidirezionale, però questo significa che Confindustria deve raccontare ai propri imprenditori quali sono le linee di futuro per l’industria italiana. E mentre racconta al suo interno che cosa si dovrebbe fare per essere competitivi, se guardiamo ai bilanci delle aziende che hai citato, vediamo che molto negli ultimi anni è diventato investimenti in attività intangibili, rispetto ad un passato in cui gli investimenti erano solo in attività cosiddette tangibili, cioè i macchinari e il capannone. Oggi, il grosso degli investimenti di queste aziende sono il marketing, il brand, l’identity, l’inorganization cioè tutti elementi intangibili. Qui si pone un’altra questione: il rapporto con le banche. Sono le banche italiane in grado di valutare la complessità dei cosiddetti indici intangibili delle nostre imprese? Tu vai in una banca e dici: non voglio essere più subfornitore, vorrei creare un mio brand e ho bisogno di fare una campagna pubblicitaria per fare il salto da subfornitore a impresa. La pubblicità è intangibile. È il sistema finanziario in grado di valutare se quella campagna pubblicitaria sarà di successo o meno, e se quella strategia industriale funziona? Perché se la sbagli, poi non ti resta niente in mano, se non la sbagli, veramente costruisci un’azienda con un brand alto. Questa è un’altra questione, la sfida a fare in modo che quel 60% di azienda che è nella fascia di mezzo faccia il salto. Come lo possiamo fare? Dall’interno, facendo capire ai nostri cosa fanno quelli che vanno molto bene e quindi creando uno spirito imitativo, in senso positivo, culturalmente avanzato. Dall’altra, costruire delle scelte di politica economica ma anche dei rapporti con le istituzioni finanziarie che orientino le scelte di queste imprese verso quella direzione. Noi siamo nel pieno di una fase di transizione dell’industria italiana. Questa è la verità.
BERNHARD SCHOLZ:
Mi sembra che questo sia un nuovo compito per le associazioni, ma forse su questo torneremo. Avevi accennato alle banche, credito, finanza. Le banche hanno evidentemente una necessità grande di erogare credito, perché altrimenti non fanno il loro lavoro e quindi abbassano anche la redditività; al contempo, hanno queste enormi sofferenze, hanno superato lo stress test della BCE quasi in modo virtuoso, almeno alcune banche italiane, al contempo sappiamo che tante imprese nostre sono molto banco-centriche, sono molto indebitate. Qual è la via d’uscita da questi diversi fattori che non sono nel loro insieme ancora molto virtuosi?
VINCENZO BOCCIA:
anche in questo c’è una questione culturale sostanziale. C’è paradossalmente un’opportunità, in questo scenario: uno scenario stranissimo in cui c’è una liquidità rilevante che non arriva all’economia reale, per una serie di motivi. Ne arriva molta a quelle aziende del 20%, ne arriva poca, a un costo medio o medio alto, a quelle che sono di fascia centrale e ne arriva pochissima, se non zero, a quelle che sono in una situazione cosiddetta marginale di mercato. Dopo di che, le banche non guadagnano affatto in dimensione di tassi di interesse pari a zero. Altra questione. Qual è l’opportunità invece che si potrebbe creare, a nostro avviso, che vale sia dal punto di vista prettamente aziendalistico, e quindi da parte dell’impresa, sia dal punto di vista bancario? Secondo noi bisogna fare un secondo salto di qualità, non lavorare più a strumenti di debito perché, se l’obiettivo è consolidare i patrimoni delle nostre aziende che vanno mediamente bene o che vanno benissimo, e quindi crescere senza debito, la sfida non è costruire un mini bond in luogo di un debito, perché agli occhi dell’impresa è sempre debito. Se io sostituisco un mutuo con un leasing, o un leasing con un mini bond, ai fini della banca cambia, perché si crea la disintermediazione con la banca del cosiddetto mini bond rispetto al mutuo, ma ai fini dell’impresa è la stessa cosa. Quindi, qual è la sfida dell’impresa? Aprire i propri capitali, diventare meno impresa familiare in senso stretto, diventare meno patriarcale. Questa è una questione culturale: crescere senza debito. In un mondo che non guadagna più con i depositi, in un mondo in cui le banche non guadagnano più con i titoli di Stato, se riuscissimo a costruire un modello attraverso elementi di governance di qualità nell’impresa, chiaramente italiane, per quello che riguarda noi? C’è un progetto che si chiama Élite di Borsa italiana, a cui abbiamo contribuito non poco come piccole industrie di Confindustria per essere parte attiva di quel progetto. Che dice quel progetto nella sostanza? Prende delle aziende piccole, medie e grandi, e le inserisce in una vetrina; in quella vetrina, le istituzioni finanziarie le attenzionano ed entrano nel capitale di queste imprese. In quel momento, tu non perdi la governance dell’azienda perché cedi una quota di minoranza, evolvi l’azienda, cresci senza debito e costruisci un percorso. E oggi il progetto Elite di Borsa italiana quota circa 300 aziende. L’obiettivo che dobbiamo porci – e qui dobbiamo essere noi iper proattivi come Confindustria – è fare in modo che a un percorso di tale tipologia partecipino migliaia di aziende, non centinaia. Se riuscissero a fare partecipare al progetto Elite mille aziende all’anno e ciascuna di esse attraesse per ipotesi di media 5 milioni di euro, sarebbero 5 miliardi di euro di investimenti in aziende private italiane. E se questi 5 miliardi di euro diventassero investimenti e riuscissimo ad agevolarli tramite una legge selettiva, la Sabatini, sugli ammortamenti, la innovazione cara a Marco Gay, uno degli item di politica industriale, potremmo avere un circolo virtuoso in cui il Paese reagisce grazie alle sue piccole e grandi comunità e imprese, mettendo insieme finanza non innovativa, strategica, nella logica di far crescere le imprese senza debito. Seconda questione: dobbiamo aprire immediatamente, anzi accelerare – perché c’è, ma è un po’ lento – un tavolo con ABI in cui individuare un modello di valutazione delle imprese, in cui le banche riescano a valutare anche i cosiddetti assetti intangibili, perché se il nuovo mondo è quello digitale, quello dell’identity, quello del brand, quello della lean organization, quello della produttività, se non hai un sistema finanziario che ragiona come te, evidentemente è un problema. Però, se tu l’operazione la rimuovi e vai a trovare soci che entrano in azienda, coloro che valutano le aziende in termini di capitale valutano anche queste cose. Noi dovremo arrivare a far valutare le imprese anche per la finanza ordinaria, al pari delle valutazioni che fanno le grandi istituzioni per entrare in società nell’impresa. Questa è una rivoluzione che si può fare, ci sono strumenti che abbiamo, il progetto Elite di Borsa italiana è uno di questi.
BERNHARD SCHOLZ:
Ma quello che dici va sicuramente bene per aziende che sono strutturate con una certa governance, perché tutto quello che dici richiede una governance di un certo livello, altrimenti queste operazioni non le fai, e anche un livello di competenze abbastanza elevato: ma le tante micro, piccole imprese, come si configurano in questo scenario? E quando la liquidità non arriva, non arriva perché le regole sono troppo strette oppure perché le banche sono intimidite o non vogliono rischiare di aumentare le loro sofferenze?
VINCENZO BOCCIA:
Due riflessioni. La prima è che puoi diventare grande restando piccolo. Se il tuo obiettivo è intercettare i mercati relativamente lontani, che possono essere l’Europa o anche Paesi extra europei, è evidente che devi avere una dimensione al di sotto della quale non ce la fai, se questo è l’obiettivo. Se non ce la fai devi crescere: in quanto tempo puoi crescere? O apri il tuo capitale ad altro oppure, se è troppo piccolo, puoi fare un’operazione di contratto di rete, puoi fare un network, una fusione. Devi entrare in una cultura diversa. La cultura della società aperta non riguarda solo la società complessivamente ma proprio le comunità imprese, mettiamola così. E chiaro, è lo stile degli imprenditori. Quindi, la prima questione è quale segmento di mercato vuoi cogliere, quale tipo di mercato in termini geografici. Se vuoi cogliere un mercato o intercettare le rotte dei mercati globali, i nuovi ricchi del mondo, i cinesi che cominciano a diventare ricchi e borghesi, un popolo di consumatori e non più solo di produttori, è evidente che devi avere una dimensione minima tale che ti permetta di avere un ufficio in Cina, un ufficio a Londra, per farla semplice. Questo significa quello che abbiamo detto all’assemblea pubblica, che dal punto di vista prettamente industriale non significa che piccolo non va bene, va bene anche per gli artigiani, lo voglio chiarire. Significa che piccolo è una condizione da superare, non è più bello in chiave industriale, se questa è la linea. Dopo di che, è una delle soluzioni. C’è poi una soluzione interna che sono i piccoli artigiani, che possono usare gli strumenti di Internet, che rompono le barriere in entrata per mandare i loro prodotti in termini selettivi e non quantitativamente rilevanti nel mondo. Anche quella è una cultura, però, che cambia. Terza questione. Sono le banche che non prestano soldi o sono le imprese? Qui c’è una dimensione di ansietà nell’economia, non è solo una questione di regole. Quello che io dico ai miei colleghi: ma tu forniresti a un tuo cliente che secondo te è lì lì a rischio di fallire o lo rifornisci solo per solidarietà economica? Così fallisci anche tu. Ma quando una banca percepisce che c’è una parte di imprese che sono in una dimensione marginale, ovviamente contrae, quello è il punto. Dopo di che, Basilea 3 ci ha messo del suo perché la parte qualitativa non l’ha proprio più calcolata e abbiamo esagerato sui quantitativi. Ci sono delle criticità, non è che non ci sono. Il sistema va un attimo ricomposto e noi possiamo lavorare insieme ad ABI a una proposta italiana, sia in chiave di evoluzione di alcune regole, sia in chiave italiana di evoluzione di un sistema industriale in un mondo paradossale, in un mondo che è pieno di liquidità e che però non arriva, non arriva per questo motivo ma anche per un secondo motivo, una incoerenza totale tra politica monetaria della BCE e politica economica europea e nazionale. Dov’è la discrasia? Che mentre Draghi fa una politica cosiddetta anticiclica, azzera i tassi per far arrivare a flussi di liquidità l’economia reale, le politiche dell’austerity mettono il freno. Quindi, tu hai due politiche antitetiche che in realtà non creano quel salto che invece negli Stati Uniti d’America si realizza perché le due politiche sono coerenti. Le FED fa una politica monetaria espansiva e il governo degli Stati Uniti d’America fa una politica economica espansiva. Le due gambe della politica economica sono coerenti e non c’è un freno dell’una sull’altra. Quindi, ritorniamo al punto di partenza. La crescita in termini di politica economica dà coerenza alla politica monetaria, ma chi fa la politica anticiclica ha dimostrato che cresce più di noi, gli Stati Uniti d’America l’hanno fatto. E’ chiaro: dopo di che, come fai la politica anticiclica la devi fare selettiva, non devi fare operazioni a pioggia, devi individuare quali industrie vuoi realizzare nell’interesse dell’Italia, ma anche della Germania, i due Paesi industriali d’Europa, se non è nell’interesse nostro, è nell’interesse dell’Europa, attenzione. Perché noi viviamo in un’Europa che è il mercato più ricco al mondo e ha il debito aggregato inferiore agli Stati Uniti d’America, nonostante questo, noi subiamo solo shock negativi e non siamo in condizioni di realizzare shock positivi. Allora, io mi auguro, come dicevamo, che l’incontro che si fa a Ventotene dia una visione dell’Europa come la diede Spinelli nel 1940/’41: quando scrissero quelle cose era una cosa impossibile per il contesto dell’epoca. E quando qualche volta anche noi parliamo e diciamo un’Europa federale qualcuno ci risponde: tanto, è inutile che ne parliamo, non è una cosa che si fa oggi. Non lo so, se si farà oggi o meno. Io come Confindustria vorrei stare in una logica anche di visione non breve, immaginare un’Europa federale, ma prima di un’ Europa federale immaginare una politica economica europea che possa determinare uno shock nell’interesse dei cittadini europei, nell’interesse dei cittadini dell’Italia e di un’Europa che può determinare degli shock rilevanti avendo potenzialità incredibili. Perché, vedete, il fatto che molte aziende ritornino in Europa rispetto alla Cina, il fatto che molti guardino al mercato europeo mentre noi, giustamente, guardavamo anche altri mercati, non lo diamo per scontato. Non è che abbiamo sottovalutato che questo è il mercato più ricco del mondo, non abbiamo capito nemmeno dove viviamo. Evidentemente, la questione economica diventa rilevante e quindi ha senso ritornare alla risposta di Jean Monnet: “I miei obiettivi sono politici, le mie spiegazioni sono economiche”. Noi dobbiamo augurarci che Renzi, Merkel e Hollande comincino dalle spiegazioni economiche per realizzare obiettivi politici e non partano da obiettivi politici per realizzare spiegazioni economiche, altrimenti fanno un casino pure loro come quelli della politica della domanda. E diciamo che anche i governanti lo facciano, se non c’è una convergenza di pensiero che può rovinare le notti a chi si occupa di economia. E siccome noi ce ne occupiamo, e siccome se noi facciamo delle scelte sbagliate nelle aziende purtroppo falliamo, nessuno ci recupera, dobbiamo stare particolarmente attenti, ed è il motivo per cui io non dormo la notte. Non lo dico a voi, lo dico a mia moglie che è seduta in prima fila, perché certe volte mi dice: perché non dormi la notte? C’è un motivo che io devo trasferire in termini collettivi.
BERNHARD SCHOLZ:
Purtroppo il tempo è tiranno, avrei avuto anche altre domande. Una domanda finale: da come parli, come ti poni, come ti sei candidato, come ti sei impegnato anche a partire dall’università nelle associazioni, si vede una passione per questa vita associativa, ci credi. Al contempo, notiamo che si parla molto di crisi della rappresentanza. Le associazioni, quasi tutte perdono associati, ci sono tante discussioni interne: tu come interpreti questo momento rispetto ai corpi intermedi in generale? È un momento dove la società si sta disgregando, dove diventiamo sempre più individualistici, dove non si riconosce il valore dell’associarsi, oppure abbiamo un valore da dare a questo Paese?
VINCENZO BOCCIA:
Io penso di sì. Penso innanzitutto che il ruolo lo si conquista, non si dichiara, e quindi è fatto da tanti atti e da tanti elementi che a me hanno insegnato, quando frequentavo i giovani imprenditori – vedo Francesco Delzio, vedo adesso Marco Gay – che bisogna essere coerenti ed esemplari, tra il dire e il fare. E quindi devi poi agire di conseguenza, perché se non lo sei, coloro che ti seguono se ne accorgono. La seconda cosa è che è inutile dichiarare ed è inutile che altri dichiarano se conti o meno. Tanto, non sarà la politica a determinare se il corpo intermedio conta o meno. Non lo dichiariamo mai, cerchiamo di lavorare. Se il ruolo si conquista, devi agire di conseguenza facendo due cose: una sentimentale e una sostanziale. Quella sentimentale è trasformare la rabbia in passione, invece di arrabbiarti quando le cose non vanno bene, ci metti la passione e cerchi di trovare una soluzione; invece di constatare il problema e dare la colpa agli altri, tanto il problema non è mio. Perché non siamo dei turisti, siamo dei cittadini. Io mi arrabbio molto quando ascolto qualche amico che parla degli italiani, come se lui non capisse da quale Paese viene. Però aveva ragione Enzo Biagi, in un bellissimo libro che si intitolava Gli italiani: non è una cittadinanza, è una professione. Questi sono rimasti professionisti, lasciamo stare, vanno combattuti perché sono un problema. Io lavoro per gli italiani cittadini. L’altra questione è la rappresentanza. Cosa significa rappresentare interessi? Adesso la sintetizzo così, quella che è la nostra idea di Confindustria e che vogliamo trasferire all’attenzione dei nostri colleghi: l’abbiamo fatto anche in un confronto che abbiamo avuto all’interno, un confronto serrato ma anche all’attenzione del Paese che chiaramente non si realizza solo con questa frase ma anche con le coerenze che ne derivano, quindi fattori, non settori, ecc. Rappresentare significa per noi essere ponte tra gli interessi delle imprese e del Paese, e non difendere interessi. Cosa significa questo? Significa che prima di portare all’attenzione della politica del Paese, del governo del Paese, anche nel confronto con le parti sociali, la prima domanda cui noi abbiamo il dovere di rispondere è se quelle proposte che immaginiamo siano nell’interesse del Paese. E se lo sono, e riguardano nostre proposte, dobbiamo portarle avanti. Se riguardano solo una questione di interessi, devi uscire da Confindustria perché non sarai rappresentato. Per cui, a noi se esce qualcuno dispiace, però si farà un’altra associazione, saranno bravi, avranno tanti associati, difenderanno interessi. Per chi vuole essere parte di una rappresentanza di interessi nell’interesse del Paese le porte sono aperte, consiglio di iscriversi da voi perché le cose sono complementari e non conflittuali. In questa grande stagione di convergenza di pensiero, noi dobbiamo raccontare al Paese il suo futuro, combattere coloro che difendono interessi e rappresentarli in una idea di futuro. Questo è il bello di fare vita associativa e vita politica in un cui non avverti stanchezza e hai la passione di vivere un momento presente che può diventare futuro per il Paese. E vivere nel futuro, vi assicuro che è la cosa più bella del mondo, e infatti io non vedo l’ora che arrivi domani, perché ho nostalgia del futuro e quindi cerco di capire.
BERNHARD SCHOLZ:
Grazie, Vincenzo Boccia, e buon lavoro a tutti voi.
VINCENZO BOCCIA:
Grazie a voi.