RIFORMARE L’ITALIA: LA RESPONSABILITÀ DELLA SOCIETÀ CIVILE

Riformare l'Italia: la responsabilità della società civile

Riformare l'Italia: la responsabilità della società civile

Partecipa Giorgio Squinzi, Presidente di Confindustria. Introduce Bernhard Scholz, Presidente della Compagnia delle Opere.

 

BERNHARD SCHOLZ:
Buongiorno a tutti, e un benvenuto particolare a Giorgio Squinzi, e un grazie di essere qui con noi questa mattina.
Abbiamo bisogno di crescita, i dati della disoccupazione sono di nuovo aumentati e la grande domanda è: come affrontiamo questi problemi correlati alla crescita? L’Italia è tuttora la seconda nazione esportatrice in Europa, e in questo Meeting abbiamo sentito tante aziende eccellenti, presenti sui mercati internazionali (fra quelli c’è sicuramente anche la Mapei, ma di questo parleremo dopo) che competono virtuosamente, anche se le graduatorie sulla competitività dell’Italia dicono che non siamo fra i primi cinquanta. Abbiamo sentito investitori esteri che dicono che vale la pena investire in Italia perché ci sono bravissimi ingegneri, designer, c’è una grande intelligenza manuale, c’è una capacità creativa, c’è una capacità di flessibilità che in altri Paesi non si trovano; sappiamo però anche che le graduatorie dicono che la capacità di attrarre capitale estero in Italia ci posiziona dopo i primi cinquanta Paesi del mondo. Quindi abbiamo una situazione paradossale: grandi eccellenze, grandi problemi.
Abbiamo bisogno urgentemente di riforme che riguardano un mercato di lavoro ingessato (ieri abbiamo parlato di questo con il Ministro Poletti); abbiamo bisogno di riforme fiscali; abbiamo bisogno che la giustizia civile diventi più veloce, più efficace; e anche il fatto che abbiamo un capitale umano di altissimo livello non deve nascondere che anche il sistema scolastico, il sistema universitario, anche la formazione professionale, hanno bisogno di essere ristrutturati in un modo diverso.
Abbiamo bisogno che anche la società civile si muova. L’anno scorso è stata pubblicata un’indagine del CENSIS che dice che in Italia siamo arrivati a un livello di individualismo che non è più superabile, cioè non possiamo diventare anche più individualisti. C’è una difficoltà a lavorare insieme, c’è una difficoltà a creare squadra, c’è una difficoltà a creare sinergie, che sono un altro fattore importante che manca. Quindi non si tratta solo di aspettare riforme politiche: ognuno di noi in qualche modo è interpellato ad assumersi delle responsabilità per il bene comune, perché il bene comune non può essere decretato dall’alto, deve nascere dal basso, evidentemente sostenuto anche da una politica che gli dà spazio, che libera energie e che valorizza tutte le iniziative che nascono da chi s’impegna per il bene comune – infatti, adesso mentre noi siamo qui c’è un altro incontro sul tema del welfare che a sua volta ha bisogno di una riforma.
Di tutto questo vogliamo parlare con Giorgio Squinzi, che è Amministratore della Mapei, azienda fondata da suo padre nel 1937, e sotto la sua guida diventata uno dei player più importanti italiani nel mondo; anzi, è il maggior produttore mondiale di adesivi e prodotti chimici per l’edilizia. 70 aziende consociate, 64 stabilimenti in 5 continenti e in 31 nazioni e questo a partire dagli anni ’60, quindi una crescita enorme; un fatturato di più di 2 miliardi; 7500 dipendenti, e, di fronte alla continua critica che in Italia non s’investe in ricerca, il 5% del fatturato viene investito in ricerca, di cui il 70% in ricerche che riguardano l’eco-compatibilità dei prodotti. Giorgio Squinzi s’impegna anche nello sport; non solo nel calcio come sappiamo, ma ha una grande tradizione ciclistica, tuttora sponsorizza i mondiali del ciclismo; si è dedicato alla musica, alla cultura, è fondatore permanente della Scala, sostiene una serie di iniziative culturali anche di restauro. Ha avuto varie onorificenze: è Cavaliere di San Gregorio Magno in Vaticano; Cavaliere del Lavoro; ha ricevuto il premio Leonardo Qualità Italia.
Io non faccio questa lista (che potremmo anche allungare) semplicemente a caso, perché la prima domanda che voglio rivolgere a Giorgio Squinzi è: da dove nasce questa intraprendenza nell’impresa stessa, ma anche nella società, nello sport, nella musica, nel sostegno di varie iniziative anche sociali? Qual è il movente di una persona così impegnata, possiamo dire, nell’economia e anche nella società civile?

GIORGIO SQUINZI:
Grazie. Beh, sicuramente tutto quello che Bernhard ha raccontato ha una radice, una matrice che è la matrice familiare che io ho ricevuto; l’eredità di valori e di visioni che ho ereditato da mio padre. Mio padre ha fondato la Mapei nel 1937 partendo dal nulla, con due dipendenti; però tutti questi valori erano presenti, e quindi sicuramente io, che sono nato nel 1943, fin da bambino li ho vissuti – perché la nostra famiglia viveva in maniera totale l’azienda (peraltro per tanti anni ho vissuto anche all’interno dell’azienda). Quindi diciamo che queste visioni, questi valori, sono quelli che io ho assorbito da bambino e che poi ho avuto la possibilità, per un buon numero di anni, di sviluppare con mio padre, e poi sviluppare come leader della nostra impresa.
Però questa non è una cosa, dal mio punto di vista, particolare nostra, era lo spirito che ha permeato il dopoguerra del nostro Paese. Noi non dobbiamo mai dimenticare che, nel giro di 20 anni, ci siamo trasformati da un Paese agricolo di seconda fascia, qual era l’Italia prima della Seconda Guerra Mondiale, in una delle grandi potenze economiche, soprattutto industriali, del mondo; siamo arrivati a essere in alcuni momenti anche la quarta potenza economica del mondo; siamo tuttora in settima/ottava posizione come Paese manifatturiero; siamo un Paese che comunque è capace di esportare 500 miliardi di prodotti manifatturati, in cui c’è tutto l’ingegno degli italiani in tutto il mondo, e così siamo capaci di compensare delle nostre debolezze strutturali che sono la mancanza di materie prime, soprattutto delle materie prime di tipo energetico. Ecco, da questo punto di vista io non mi ritengo un caso particolare: mi ritengo un classico caso di quello che è successo nel nostro Paese nel dopoguerra.
E al centro di tutto questo, dal mio punto di vista, io ho cercato a volte di fare mente locale, cercando di capire come mai l’Italia ha avuto questo salto nel dopoguerra: il fattore principale che io vedo e che vi riporto è la famiglia, perché la famiglia è stata sicuramente al centro di quello che è stato il boom economico del nostro Paese. Ancora oggi la famiglia sta svolgendo una funzione. In un momento in cui non siamo più in crescita ormai da un lungo periodo, la famiglia ha cambiato un po’ il ruolo, sta svolgendo il ruolo di ammortizzatore sociale, però è ancora centrale nella vita economica e sociale del nostro Paese. Nel valore della famiglia io ci ho creduto fortissimamente: mio padre, la sua eredità, e ho cercato di passarla ai miei figli, che sono ultra-quarantenni, e che hanno assunto delle responsabilità molto importanti nel nostro gruppo. Comunque la famiglia, dal mio punto di vista, credo sia stata un fattore fondamentale di competitività del nostro Paese.
Poi tutti dicono: “Mah, le aziende italiane sono piccole, non sono cresciute, non sono state capaci, c’è poca internazionalizzazione”. Va beh, noi come gruppo siamo stati costretti a internazionalizzarci perché i nostri prodotti non si trasportano a lunga distanza per un problema di incidenza del costo di trasporto, quindi, laddove vogliamo avere una quota di mercato significativa, dobbiamo (perlomeno una buona parte) produrre localmente.
Però al di là di questo, abbiamo cercato di mantenere questo modello della visione di medio – lungo termine, legata alla continuità, alla determinazione di una famiglia imprenditoriale di andare avanti. E vorrei ricordare che in Italia (in quello che oggi viene chiamato il “quarto capitalismo”), se voi andate ad analizzare dietro i casi di successo più importanti c’è comunque sempre la famiglia; poi è chiaro che anche noi, dovendo gestire circa 8000 dipendenti nel mondo, 32 Paesi che producono, ecc., evidentemente abbiamo anche una forte struttura manageriale. Però la nostra visione, soprattutto la visione di stabilità che cerchiamo di dare a tutte le nostre attività, è una visione che soprattutto è resa possibile dal fatto che c’è una famiglia che crede in quello che fa, e che vuole continuare a farlo, e che cerca di farlo nel modo migliore; soprattutto cerca di farlo senza cercare delle scorciatoie, che è poi anche uno dei concetti che io ho introdotto, che ho cercato di sviluppare anche nello sport. Noi siamo stati per nove anni la prima squadra di ciclismo al mondo, anche se nel momento peggiore del doping avevamo dovuto rinunciare a competere nei grandi giri – era il periodo di Lance Armstrong tanto per non fare nomi. Quindi ci siamo concentrati sulle corse di un giorno, e quando abbiamo capito che il fenomeno era diventato ormai impossibile da tenere sotto controllo, siamo anche usciti, abbiamo mantenuto una nostra presenza di impegno nella lotta contro coloro che cercano delle scorciatoie. Ecco, io credo che (tra l’altro questo è molto legato anche al discorso della famiglia) nel lavoro, nella vita, nel sociale, nello sport, dappertutto, la grande lezione che mi ha lasciato mio padre è che non bisogna mai cercare delle scorciatoie, perché le scorciatoie magari ti possono dare dei vantaggi nell’immediato, però nel medio – lungo termine alla fine la verità viene fuori, e quindi questa è una cosa in cui credo in maniera totale. Niente scorciatoie, trasparenza, impegno totale, perché poi naturalmente per raggiungere certi risultati è necessario avere un impegno totale. Nella mia vita però non rimpiango assolutamente nulla, non rimpiango decisioni che magari nell’immediato non ci avevano favorito, però nel medio – lungo termine sono personalmente soddisfatto dei risultati che sono stato capace di raggiungere.

BERNHARD SCHOLZ:
Il contesto che hai descritto sulla famiglia, sulla società, sulla cultura molto diffuso nel dopoguerra, non è più quello di oggi. Una volta mi hai detto che manca una tensione morale: cosa intendi con quest’affermazione?

GIORGIO SQUINZI:
Sì, diciamo che è calata la tensione morale, sicuramente nella nostra società e nel nostro Paese. Questo è uno dei motivi per cui noi in questo momento stiamo soffrendo così tanto in termini di capacità di generare crescita, e non possiamo e non dobbiamo dimenticare che la crescita, che è l’unico modo per creare lavoro, non può venire altro che dall’impresa: quindi sull’impresa dobbiamo tornare a credere. Io personalmente non ho mai creduto alla finanza, all’ingegneria finanziaria. Sicuramente bisogna utilizzare tutti gli strumenti possibili, però se non c’è una visione chiara, precisa, se non c’è una capacità di produrre, di essere presenti sui mercati mondiali in maniera competitiva, non esiste uno stratagemma di tipo finanziario che possa darci gli stessi risultati. Quindi da questo punto di vista io credo fortemente nell’impresa, noi dobbiamo tutti credere nell’impresa se vogliamo ritrovare la crescita. E’ uscito pochi minuti fa un dato drammatico: di nuovo, un ulteriore calo dell’occupazione dello 0,3% rispetto al mese di Luglio, quindi siamo ritornati di nuovo ai punti peggiori, siamo a 12,7% di disoccupazione, siamo al 43% di disoccupazione giovanile. Ecco, questo è quello su cui noi dobbiamo riflettere: dobbiamo ritrovare la capacità di creare lavoro, e questo può venire solo dall’impresa.

BERNHARD SCHOLZ:
Dopo parleremo delle riforme, ma che cosa devono cambiare le imprese, dentro le imprese? E poi parliamo anche degli altri fattori.

GIORGIO SQUINZI:
Come tu hai detto, siamo oltre l’80° posto nelle classifiche di attrattività sugli investimenti esteri; siamo effettivamente messi in una situazione molto complicata, quindi sicuramente bisogna fare degli interventi che permettano alle imprese di potersi sviluppare, di potere ritrovare un percorso di crescita. Però al di là di tutto bisogna che le imprese (anche gli imprenditori) credano in quello che fanno, e soprattutto dobbiamo riprendere un percorso di investimento; sicuramente Banca Italia ci dice: “Non investite abbastanza in ricerca, in innovazione”; tutti dati inconfutabili, però noi dobbiamo avere anche un contorno intorno a noi che permetta di credere in quello che facciamo e di potere ripensare a fare degli investimenti. Per fare questo bastano a volte anche cose semplici: uno dei provvedimenti di questo Governo è sicuramente stato quello di avere rivitalizzato la Sabatini: i dati che io ho è che a fronte di un esborso di una dotazione di 80/90 milioni di euro sono state presentate oltre 3000 domande di finanziamento sulla Sabatini, su questa forma di Sabatini, che hanno generato investimenti per oltre un miliardo da parte delle aziende. Quindi a volte si possono fare delle cose molto semplici, anche a costi limitati, che ridanno la fiducia alle imprese; è chiaro che le imprese hanno bisogno di ritrovare una fiducia, le imprese hanno bisogno di avere situazioni gestibili, da “Paese normale” come dico io. Ricordo di avere incontrato recentemente un nostro collega, tra l’altro qui della Romagna, che mi dice: “Sai, io sono il più grande produttore italiano di piadine, produco 400 mila piadine al giorno” – magari è anche in sala. E dice: “Però sa, sono tre anni che io sto cercando di costruire una nuova fabbrica perché alla domanda non riesco più a fare fronte, e non riesco ad avere i permessi”. Io ho vissuto da imprenditore vicende simili per l’ampliamento dello stabilimento di Mediglia: ci abbiamo messo 8 anni a risolvere tutti i nodi che si erano creati, in gran parte artificiosi! Lo stabilimento di Latina: anche questo per un raddoppio abbiamo dovuto aspettare 7 anni che la Regione Lazio estraesse dai suoi cassetti la pratica di incremento delle aree produttive nel consorzio industriale Roma – Latina. Ecco, questi sono i problemi contro cui ci battiamo.
Poi i problemi legati a una giusta protezione dell’ambiente: al nostro stabilimento dei Vinavil di Villadossola noi abbiamo, nel rinnovo dell’AIA (Autorizzazione Integrata Ambientale), abbiamo avuto – che avevamo già peraltro da oltre 10 anni – abbiamo avuto un’imposizione per cui l’acqua che esce dai nostri processi produttivi deve essere 30 volte più pura dell’acqua dell’acquedotto comunale di Villadossola, perché è un’autorizzazione provinciale. A 5 km da noi c’è un altro stabilimento chimico che ha invece un AIA nazionale, e questo può emettere acqua 20 volte più inquinante rispetto all’acquedotto provinciale di Villadossola: queste sono tutte le cose con cui noi imprenditori ci battiamo quotidianamente. Sicuramente c’è il discorso del lavoro, c’è il discorso del fisco, di accesso al credito, però veramente vorrei ricordare che i problemi pratici contro cui noi ci battiamo tutti i giorni sono questi: impossibilità di avere licenze edilizie, di potere operare le nostre attività senza finire nel mirino della magistratura, anche quando si cerca di fare le cose al meglio. Quindi c’è tutta una serie di riforme che vanno fatte nel Paese, che è un lavoro gigantesco; purtroppo non si è fatto nulla negli ultimi 20/30 anni, dobbiamo recuperare un grande ritardo, e questo tra l’altro è un qualche cosa che si può fare a costo praticamente zero. Abbiamo bisogno di investimenti, che vengano favoriti certi investimenti. Perché l’Italia è ferma? Perché è ferma l’edilizia. Per tutti i vari settori produttivi noi abbiamo perso il 25% di produzione dal 2007 a oggi, però nell’edilizia abbiamo perso il 60%, questa è una situazione drammatica. L’edilizia, che rappresenta comunque il 12% del PIL del nostro Paese, deve essere incentivata, sia quella residenziale sia quella infrastrutturale, pubblica.
Abbiamo una necessità fondamentale di rendere il nostro Paese più efficiente dal punto di vista energetico, dobbiamo avere in mente di contrastare il dissesto idro-geologico e sismico di questo Paese. Quindi, di cose da fare ce ne sarebbero tantissime, bisogna darsi questo tipo di priorità sicuramente, perché poi l’edilizia, vorrei ricordare, che è un tipo di attività, tra virgolette, virtuoso perché è a basso contenuto di importazioni, quindi non va a impattare certamente sulla bilancia commerciale del nostro Paese, è ad alto contenuto di manodopera. Quindi dobbiamo avere una visione, dobbiamo avere un progetto per questo Paese, dobbiamo, una volta per tutte, pensare a questo Paese, dire dove vogliamo essere, chi vogliamo essere. C’è una frase che viene ripetuta abbastanza spesso in questi ultimi tempi – la differenza tra i politici che pensano alle prossime elezioni e gli statisti che pensano alle prossime generazioni – il nostro Paese deve cominciare a pensare alle prossime generazioni in una situazione che io, personalmente, sul piano economico, giudico drammatica dall’osservatorio di Confindustria. Ecco, tra l’altro vorrei dire che Confindustria è un corpo rappresentativo cui sono associate 150.000 imprese in Italia, che rappresenta circa 6 milioni di lavoratori; abbiamo una visione piuttosto completa di quello che è l’andamento dell’economia del nostro Paese. Noi dobbiamo essere capaci di far ripartire le imprese perché senza le imprese non può esserci un salto in avanti sia sul piano economico sia soprattutto sul piano sociale del nostro Paese.

BERNHARD SCHOLZ:
Nella prospettiva delle future generazioni, quali sono le riforme in ordine di priorità, quelle più importanti, che bisogna cominciare ad affrontare?

GIORGIO SQUINZI:
Le priorità sono un po’ tutte quelle che ho già citato, comunque sicuramente abbiamo il problema fiscale: il carico fiscale del nostro Paese è il più elevato tra i Paesi dell’OCSE e quindi sicuramente bisogna fare una riflessione e metterci mano in maniera molto precisa. Io non chiedo di avere la flat rate del 19% come in Polonia, però leggevo proprio stamattina, venendo in treno qui a Rimini, che la flat rate del 19% in Polonia, in quindici anni, ha comunque provocato un 50% di incremento del PIL polacco. Noi abbiamo poi un carico fiscale che va sul lavoro, perché noi abbiamo questa iniqua tassazione che si chiama IRAP che è una tassa sul lavoro ed è una cosa unica al mondo. Personalmente ancora una volta faccio la verifica sul mio gruppo: noi abbiamo un tasso medio di incidenza fiscale del 34% a livello mondiale che è la risultante dell’oltre 50% che abbiamo in Italia, dove paghiamo l’IRAP. In Italia noi abbiamo 2000 dipendenti di cui quasi 500, 480/490, fanno ricerca; ecco, noi sui ricercatori che operano in Italia, poiché un pezzo grosso della nostra ricerca è in Italia, noi paghiamo l’IRAP. In tutto il mondo, laddove facciamo ricerca, abbiamo dei vantaggi, delle concessioni, dei ritorni di tipo automatico sugli investimenti che facciamo in ricerca, in Italia veniamo tassati. Quindi sicuramente la riforma del fisco è una cosa importantissima, è uno dei fattori che sta scoraggiando di più le multinazionali, chi ha un’attività minimamente esposta a rapporti di commercio internazionale sa benissimo che il transfer price, i marchi e tutto questo vengono colpiti in maniera imprevedibile e anche spesso in modi non coerenti tra un’azienda e l’altra, quindi con delle difficoltà drammatiche. Quindi riforma fiscale. Sicuramente abbiamo bisogno di una riforma del lavoro, abbiamo bisogno di una riforma della magistratura, perché i tempi della magistratura, sia di tipo civile sia anche di tipo penale, sono lunghissimi.
Poi le responsabilità… io ho sentito: degli amministratori dell’ILVA degli anni ’77-’79 sono stati condannati un mese fa su fatti di allora, in maniera definitiva a distanza di quarant’anni. Quindi abbiamo necessità di avere una certezza del diritto e tempi di applicazione del diritto, sia quello civile sia quello penale, che siano ragionevoli, è una cosa che abbiamo soltanto noi in questo modo. Poi la semplificazione normativo – burocratica del Paese è assolutamente fondamentale, ne abbiamo già parlato e c’è un discorso dal mio punto di vista molto molto importante, che è quello di avere una visione non punitiva verso le imprese, perché nel nostro Paese non possiamo dimenticare che c’è una cultura, un atteggiamento anti-impresa che si è cristallizzato in questi ultimi decenni, che è veramente importante. Proprio in questi giorni, leggevo che il nuovo Ministro dell’Industria francese è andato a parlare agli imprenditori francesi e ha fatto un discorso di apertura totale per le ragioni della impresa e dell’imprenditoria; da noi questo io non lo percepisco ancora; è uno dei punti sul quale bisogna sicuramente lavorare.

BERNHARD SCHOLZ:
Ieri il Ministro Poletto che è stato seduto qui ha detto che il 1° Maggio dovrebbe diventare la festa del lavoro, della impresa. Qual è in questo scenario il ruolo dei sindacati e delle associazioni come per esempio Confindustria?

GIORGIO SQUINZI:
Io penso che ognuno abbia un ruolo. Io ho già ricordato la rappresentanza che Confindustria porta sulle spalle: sono sei milioni di lavoratori, centocinquantamila imprese, è il nocciolo produttivo del nostro Paese. Io credo che noi, anche con le nostre proposte, in modo particolare, già da gennaio dell’anno scorso, 2013, abbiamo preparato questo progetto per l’Italia che può crescere, che deve crescere. Ecco, io credo che un contributo forte lo possiamo sicuramente dare; certo bisogna che chi governa ne tenga conto e ne recepisca le ragioni, questo è il minimo, noi lo auspichiamo e pensiamo veramente di essere in grado di dare un contributo. Io però vorrei ricordare una cosa: il nostro Paese è un Paese che, nella mia visione, negli ultimi vent’anni almeno, sta vivendo al di sopra dei propri mezzi, è un Paese che sta distruggendo ricchezza, è un Paese che ha bisogno di una scossa perché in questo modo noi stiamo progressivamente riducendo il nostro livello di vita. Mi auguro che succeda qualche miracolo adesso nell’ultimo trimestre, ma avremo un altro dato negativo anche quest’anno, magari meno negativo degli anni passati, lo 0,2%, 0,3%, non lo so ma le previsioni ormai di tutti portano in questa direzione. Ma noi dobbiamo fare un salto, bisogna essere capaci di fare dei sacrifici, ci vuole una politica, perché gli italiani sono gente paziente, il carico fiscale che abbiamo sopportato in questi anni è stato drammatico, però non è servito a molto. Io credo che chi ci governa debba prendere quelle decisioni, anche dolorose ma che siano decisioni che ci portino di nuovo verso la crescita.
Noi non eravamo tanto d’accordo con gli 80 euro che sono stati attribuiti; noi pensavamo che un intervento forte sul cuneo fiscale del lavoro sarebbe stato più produttivo in termini di crescita del PIL; ci si può confrontare, però dobbiamo tutti avere l’accortezza che, in questo momento, noi siamo un Paese che sta vivendo al di sopra delle proprie possibilità. Bisogna essere capaci di fare quei tagli e quelle rinunce che vadano nella direzione di ricreare lavoro, perché senza il lavoro non rivedremo un progresso sociale vero in questo Paese, quindi bisogna veramente avere questo problema molto chiaro. Credo che gli italiani siano ancora pronti a fare altri sacrifici, io personalmente sì. Mi dicono “bisogna fare questo tipo di sacrifici”, sono pronto, perché in questo Paese sono nato, cresciuto, ci credo, mi piace, però bisogna che i nostri sacrifici debbano avere una prospettiva, una visione di medio – lungo termine. Noi non ci aspettiamo miracoli per cui ritroveremo una crescita rapida nei prossimi anni, dobbiamo fare dei sacrifici ancora, dal mio punto di vista, per diversi anni, per ritrovare una crescita, uno spirito come quello che ci animava nel primo dopoguerra, per rivedere la crescita economica e sociale di questo Paese. E non prendiamo come scuse il fatto che anche la Germania adesso sta andando a evoluzione di PIL negativo, non è una buona scusa. Vorrei ricordare che sono ormai 15 anni che viaggiamo mediamente da 0,7 a 1% più bassi, in termini di PIL rispetto alla Germania. Quindi il fatto che loro in questo momento stiano soffrendo, anche perché noi stiamo soffrendo, non è una buona scusa, non dobbiamo prenderla come scusa. Noi dobbiamo guardare dentro di noi, essere pronti a fare quei sacrifici che ci permettano comunque di ritrovare una crescita in futuro, che peraltro può essere solo un futuro di medio – lungo termine.

BERNHARD SCHOLZ:
I sacrifici devono essere motivati evidentemente, e quindi una credibilità della proposta è importante. Un grande paradosso dell’Italia è che l’avanzo primario è positivo, uno dei Paesi più virtuosi d’Europa, da questo punto di vista, poi viene tolto il 5% del PIL per pagare l’interesse del debito pubblico. Questo debito pubblico viene sempre portato come scusante o come ragione, a seconda di come uno lo vuole vedere, per non abbassare il peso fiscale. Come usciamo da questo dilemma?

GIORGIO SQUINZI:
Innanzitutto vorrei dire una cosa: tutti in questi giorni sono contenti e siamo contenti di questo calo dello spread rispetto ai titoli di stato tedeschi, però vorrei ricordare che io la vedo un po’ come una cosa temporanea, perché noi siamo calati ma, ad esempio, rimaniamo mediamente 15 punti più vantaggiosi per i bond spagnoli, i bonus spagnoli. Non è tutto merito nostro, di quello che noi stiamo facendo. È la liquidità dei mercati internazionali che ha causato questo calo dello spread, quindi è una situazione temporanea e dobbiamo essere pronti ad aggredire i nostri problemi. Noi dobbiamo sicuramente ridurre il nostro debito pubblico, questo anche perché siamo un’anomalia rispetto all’Europa. L’unico Paese che ha un debito pubblico più alto del nostro è la Grecia, che chiaramente non può essere un modello per noi. Bisogna ridurre il nostro debito pubblico e bisogna prepararsi a fare un po’ di anni di austerità vera, tagliando sulla spesa pubblica, reinvestendo le risorse che si generano, ad esempio, in modo netto, importantissimo sull’infrastruttura. Lo so che Maurizio Lupi è passato da qui in questa settimana e meglio di lui nessuno può raccontare quanto è fondamentale migliorare e completare il nostro patrimonio infrastrutturale come Paese, perché abbiamo accumulato una serie di ritardi drammatici e tutto questo darebbe quella spinta alle attività edilizie di cui si parlava prima. Investimenti sulle infrastrutture e investimenti sulla ricerca credo che dovrebbero essere quel tipo di visione immediata, ma che va perseguita con costanza. Devono essere rese stabili queste visioni, non episodiche. È un problema, peraltro, che ha tutta l’Europa, perché non dimentichiamo che l’Europa pur essendo un singolo mercato di 500 milioni di persone, con i più alti livelli di vita, i più alti livelli di conoscenza, il più alto livello di welfare, è l’unica tra le grandi aree economiche a livello mondiale che sta soffrendo, perché tutti gli altri hanno comunque degli sviluppi, noi ormai da un paio d’anni stiamo vedendo numeri solo negativi in termini di evoluzione del PIL in Europa. Quindi dobbiamo ritornare a fare gli investimenti giusti come Europa, magari con un po’ più di flessibilità rispetto a quello che c’è stato fino a ora. Io ho in mente una cosa che vorrei citare, il Trattato di Lisbona, che ci diceva che l’Europa doveva investire il 3% in ricerca. Non è mai stato fatto, siamo rimasti all’1,6%.

BERNHARD SCHOLZ:
A proposito di questo, l’Europa adesso dice che il manifatturiero deve rientrare in Europa e il PIL europeo deve arrivare ad avere il 20% di prodotto manifatturiero. Questo è realizzabile?

GIORGIO SQUINZI:
Questa è una visione che io condivido al 100%, la comunicazione della Commissione Europea, è una visione che è stata portata avanti con molta determinazione dal commissario Antonio Tajani, è una visione che io condivido al 100%. Certo non credo che sia facilissimo realizzarla in tempi brevi, è uno degli obiettivi che dobbiamo avere in mente e soprattutto lo dobbiamo avere noi come Italia, perché noi siamo, dopo la Germania, il secondo Paese in manifatturiero d’Europa. E dobbiamo mantenerci, essere capaci di mantenere competitive le nostre imprese, perché solo da lì può venire la creazione di lavoro.

BERNHARD SCHOLZ:
Fermiamoci un attimo sull’Europa. Durante le elezioni europee è emersa una sterilissima discussione fra austerity e crescita con tante polemiche, anche verso l’Europa stessa, non sto neanche parlando di chi voleva abolire l’Euro. In che senso l’Europa è un aiuto, in che senso per l’Italia, in che senso l’Italia ha bisogno dell’Europa e dove l’Europa dovrebbe cambiare in qualcosa per sostenere di più la crescita della sua zona?

GIORGIO SQUINZI:
Quello che è mancato all’Europa fino ad oggi è la visione politica. È una determinazione di tipo politico di veramente voler andare avanti in un processo di integrazione. Io personalmente sono un’europeista totale e il mio sogno, e purtroppo non credo che la mia generazione riuscirà a vederlo, è quella degli Stati Uniti d’Europa. Credo che si possano fare dei passi in avanti e questo avrebbe un impatto sicuramente positivo sull’economia e sulla situazione sociale di tutta l’Europa, perché poi il problema della disoccupazione non è solo in Italia. Ci sono Paesi che stanno anche peggio dell’Italia, vedi la Spagna, però bisognerebbe cominciare a mettere insieme qualche punto. Anche da un punto di vista politico, io credo che una banca centrale europea con veri poteri di banca centrale (anche se Mario Draghi sta facendo tante cose che vanno in questa direzione), un coordinamento della politiche fiscali, delle politiche di welfare, delle politiche energetiche e delle politiche di dotazione infrastrutturale che tengono insieme questi cinque punti, credendoci con una volontà politica di andare avanti in questa direzione e sicuramente darebbero dei risultati straordinari.

BERNHARD SCHOLZ:
Essendo la Mapei un’azienda molto innovativa e guardando intorno a noi sappiamo benissimo che l’innovazione è l’unica leva reale che abbiamo per crescere. Rispetto alla formazione dei giovani, sia la formazione professionale, sia dal punto di vista della formazione universitaria, che cosa deve migliorare e cambiare?

GIORGIO SQUINZI:
Io dico sempre che noi abbiamo un vantaggio in Italia, perché non abbiamo materie prime, i nostri problemi li abbiamo tutti; però abbiamo un grande vantaggio, che è la materia grigia che c’è nella testa degli italiani, degli imprenditori italiani, dei loro collaboratori e quindi sicuramente… Poi io, avendo dipendenti in almeno sessanta, settanta, Paesi diversi, posso testimoniare che la qualità delle risorse umane italiane e soprattutto quelle che escono dalle Università e dalle scuole di tipo tecnico-scientifico è elevatissima e si colloca ai vertici a livello mondiale. Ecco, quello su cui noi dobbiamo investire, è sicuramente mantenere più aggiornato il nostro sistema formativo, e poi – e questo tra l’altro io ritengo che sia il grande fattore di vantaggio della Germania – il discorso dell’apprendistato. In passato in Italia si faceva molto anche in questa direzione. La Germania, il punto chiave e vincente della Germania, è proprio questa importanza che viene data all’apprendistato per cui tra la scuola e l’impresa c’è una collaborazione continua che si traduce in una migliore qualità delle risorse umane che poi lasciano la scuola per entrare nel mondo del lavoro. Quindi noi dobbiamo lavorare molto. Il Ministro Poletti so che ci crede moltissimo su questo e ci ha promesso che prenderà delle decisioni in questa direzione. Io personalmente sosterrei al 100% questo tipo di visione.

BERNHARD SCHOLZ:
Noi viviamo in un mondo veramente molto complesso. Tutti i temi di cui abbiamo parlato di per sé sono non facili da comprendere. La relazione fra crescita e abbattimento del debito pubblico, la complessità del mercato di lavoro, la complessità relazioni con l’Europa, i mercati globali, relazione fra economia e finanza. Dovunque uno comincia a entrare in merito, le cose sono molto interdipendenti tra di loro, di per sé già complicati da comprendere. Quindi la domanda che faccio riguarda un po’ il futuro della democrazia, perché di fronte a tutta questa difficoltà e questa complessità, c’è un po’ la tendenza di semplificare riducendo tutto a personalismi, a partitismi, a slogan, a visione un po’ di breve termine. Com’è possibile mantenere una società così complessa, anche a livello della conoscenza, della comprensione, senza cadere nella trappola delle facili soluzioni presentate oggi e sconfessate domani.

GIORGIO SQUINZI:
Sono assolutamente d’accordo su questo tipo di visione. Il problema vero è che noi oggi siamo in una situazione, dobbiamo essere pronti a fare dei sacrifici, però questi sacrifici tocca alla politica indicare quali essi sono e se io posso fare una richiesta alla politica è quella che questi sacrifici debbano essere pensati per ritornare a far crescere le imprese. Perché senza una crescita delle imprese on si troverà lavoro in questo Paese. E senza lavoro non ci sarà tenuta sociale di sistema. Non facciamoci illusioni, noi siamo sopravvissuti fino ad adesso perché la famiglia tra l’altro ha giocato un ruolo di ammortizzatore sociale straordinario perché quando abbiamo il 43% di disoccupazione giovanile, qui signori si sta a galla solo perché le famiglie se ne sono fatte carico, ma è chiaro che è una situazione che non possiamo andare avanti a mantenere per lungo tempo. Bisogna realmente creare una crescita di nuovo in questo Paese, quindi la politica deve prendere quelle decisioni che vanno nella direzione della crescita. Dobbiamo decidere qual è il modello di futuro che noi vediamo per il nostro Paese. Io credo che noi siamo un Paese manifatturiero non possiamo farci illusioni di poter diventare un Paese di servizi, un Paese di comunque altro tipo, noi siamo essenzialmente un Paese manifatturiero. Possiamo anche utilizzare altre opportunità che abbiamo, lo straordinario giacimento culturale, artistico e paesaggistico del nostro Paese con il turismo, possiamo pensare ad altre cose però essenzialmente dobbiamo rendere le nostre imprese competitive, le nostre imprese in grado di crescere e di creare nuovo lavoro. Se non saremo capaci ci fare questo il nostro futuro diventa assolutamente complicato. Quindi io la richiesta che faccio alla politica è questa, bisogna prendere quelle decisioni, credo siano dolorose perché la situazione è difficile, è complicata. Lo stiamo vedendo, tutti gli annunci che vengono fatti, poi si scontrano contro la difficoltà di assicurare i mezzi di finanziamento delle decisioni che si vorrebbero prendere. Quindi noi dobbiamo prepararci a fare dei sacrifici. Il nostro sistema di welfare è un sistema molto avanzato che però in questo momento credo che non possiamo farci l’illusione di poter tener per sempre senza incidere drasticamente su quello che è il tessuto sociale del Paese, sul tessuto sociale, economico e bisogna dare la possibilità alle nostre imprese di ritrovare la crescita.

BERNHARD SCHOLZ:
Un fattore molto accusato appena uno fa una riforma, proponi qualcosa e c’è subito qualcuno che va contro, quindi il famoso corporativismo; appena c’è una qualsiasi prospettiva nuova, c’è sempre un grande impedimento, una leva di scudi, e si ferma di nuovo tutto. È possibile superare questa logica?

GIORGIO SQUINZI:
Secondo me è possibile, io vorrei dire che in questi giorni che il capitalismo è quello dei salotti, io personalmente non ho mai frequentato i salotti buoni della finanza, ho sempre frequentato gli uffici, gli stabilimenti della mia azienda e poi negli ultimi anni ho ritenuto che fosse giusto per me dare anche un contributo alla vita associativa delle nostre imprese. Io vorrei dire questo, che la mia Confindustria, il gruppo che con me guida la Confindustria in questo momento, è gruppo che anche lui non ha frequentato i salotti buoni della finanza, noi siamo pronti a giocare il nostro il nostro ruolo e non faremo nessuna critica di tipo corporativo. Certo, i provvedimenti che dovranno essere presi, dovranno essere provvedimenti che spingono nella direzione di far ripartire le imprese del nostro Paese, se non siamo capaci di far questo, ripeto alla nausea, non saremo capaci di creare occupazione. Il nostro Paese ha bisogno di creare occupazione, anche perché nel frattempo le condizioni sono anche cambiate: abbiamo anche un problema di integrazione di un grande numero di persone che sono venute dal di fuori a vivere nel nostro Paese. Il nostro compito è forse più complicato oggi di quello che poteva essere nel primo Dopoguerra, quando si trattava soltanto di riportare il livello di vita di alcune parti del Paese a livello delle parti più evolute, oggi è un problema più complicato. Però un Paese che si trova con oltre il 40% di disoccupazione giovanile, è un Paese che non ha futuro, dobbiamo assolutamente incidere su questo e dalla mia Confindustria posso garantire che non verrà nessuna critica di tipo corporativo a qualunque provvedimento serio e costruttivo che questo Governo voglia prendere.

BERNHARD SCHOLZ:
Abbiamo bisogno di politiche industriali di definire alcune linee strategiche di investimenti?

GIORGIO SQUINZI:
Sicuramente bisogna avere le idee chiare su dove andiamo.

BERNHARD SCHOLZ:
Da parte del Governo, dove hanno questo compito di dare le linee guida in termine di posizionamento strategico dell’industria del Paese?

GIORGIO SQUINZI:
Certo, noi siamo pronti a dare il nostro contributo su questo, è chiaro che ci sono alcune cose che vanno considerate, noi non possiamo perdere la siderurgia, abbiamo già perso buona parte della chimica, che è quella che io conosco. Non possiamo permetterci di continuare a perdere pezzi del manifatturiero del nostro Paese. Qui abbiamo l’Emilia Romagna che è un caso straordinario di eccellenza, lungo la via Emilia ci sono esportazioni per quasi duecento miliardi sulla meccatronica, il packaging, però non è sufficiente: questi sono casi di eccellenza come la ceramica eccetera, però questi non sono sufficienti, ci vuole un progetto complessivo e non possiamo perdere pezzi nel manifatturiero del Paese come nella siderurgia. Dobbiamo essere capaci di mantenere quello, e possibilmente potenziare quello che è rimasto della chimica, puntando in modo particolare sulla chimica di tipo innovativo, a livello mondiale è uno degli assi di sviluppo per tutta la chimica, abbiamo tante possibilità e siamo abbastanza competitivi su questo. Certo ci vuole anche una visione da parte di chi ci governa, di, chiamiamola politica industriale, però ci vuole una visione per evitare di perdere ulteriori pezzi. Poi, in questo momento, il dibattito sui media è sul perché gli stranieri comprano pezzi delle imprese italiane eccetera. Credo che innanzi tutto gli imprenditori, al di là di qualche difficoltà che ci può essere nei passaggi generazionali etc., gli imprenditori non vendono le loro imprese se possono operare in maniera corretta nel loro Paese. Credo sia fondamentale ricreare quel clima e quell’atteggiamento verso l’impresa che non sia che non sia così ostile come quello avuto degli ultimi anni. Però al di là di tutto, anche l’intervento di capitali dall’estero, io penso che la nazionalità dei capitali poco importa, non è così importante, quello che è importante è la nazionalità di chi pensa il prodotto e delle mani che lo producono. E’ un po’ quello che sta succedendo, per i dati che abbiamo di alcune delle maggiori acquisizioni da parte di capitali esteri per aziende italiane, hanno portato di nuovo a una crescita di queste aziende, l’importante è avere qui il cervello e le mani che operano, la nazionalità del capitale non è così fondamentale. Però, ripeto, bisogna essere capaci di creare il clima positivo per i nostri imprenditori che non si facciano prendere dallo scoramento e che continuino a investire.

BERNHARD SCHOLZ:
A questo vorrei rilanciare un’ultima domanda. Per fare riforme per intraprendere con coraggio, per fare anche sacrifici occorre una grande fiducia. Da che cosa può nascere questa fiducia?

GIORGIO SQUINZI:
Questa è una domanda impegnativa. La fiducia secondo me può venire soltanto dal percepire che la politica ha una visione di futuro, deve dirci dove va questo Paese e dove vuole arrivare, perché se è chiaro questo credo che gli imprenditori italiani e tutti gli italiani possono ritrovare la fiducia, se però questo non è chiaro, sarà difficile.

BERNHARD SCHOLZ:
Mi permetto un’osservazione personale, essendo Giorgio Squinzi una persona molto umile, anche se molto determinata, anche umile, penso che oltre che una politica che dia prospettive affidabili e credibili, penso che anche la testimonianza di persone che dimostrano che è possibile fare impresa nonostante tutte le difficoltà e di lavoratori che si dedicano con grande fervore anche alla ricerca, alla costruzione, alla produzione, anche altri imprenditori che abbiamo sentito in questi giorni, penso che anche questi siano fattori di fiducia, perché l’esempio è importante. Non perché è da imitare, ma perché fa risvegliare nella persona stessa risorse, capacità, energie che prima forse non sapeva di avere in questa misura. Quindi in questo senso vorrei anche ringraziare di cuore Giorgio Squinzi per tutto quello che fa e per il grande esempio che porta anche attraverso la sua azienda, per il suo impegno che fa per questo Paese.
Grazie e buon lavoro a tutti

Data

29 Agosto 2014

Ora

11:15

Edizione

2014

Luogo

Sala Neri CONAI
Categoria
Incontri