Chi siamo
RESPONSABILITÀ SOCIALE: SOLO BENEFICENZA O SOSTEGNO ALLO SVILUPPO?
In collaborazione con Acri. Partecipano: Giuseppe Guzzetti, Presidente Acri; Gabriello Mancini, Presidente Fondazione Monte dei Paschi di Siena; Maurizio Lupi, Vice Presidente Camera dei Deputati; Marco Sala, Amministratore Delegato Lottomatica; Giorgio Vittadini, Presidente Fondazione per la Sussidiarietà. Introduce Antonio Quaglio, Caporedattore de Il Sole 24 Ore.
ANTONIO QUAGLIO:
Possiamo cominciare, anche perché il tavolo è affollato come sempre, ma è affollata anche la sala. Vi ringrazio per l’attenzione che ci riserverete. Questo è un classico del Meeting, è l’incontro con l’avvocato Guzzetti e col mondo delle fondazioni bancarie, e mi diverte quest’anno notare che le fondazioni bancarie non compaiono però nel titolo di questo appuntamento, e secondo me questo è qualcosa comunque di cui l’avvocato Guzzetti però non si deve, e anche il Presidente Mancini, non si devono preoccupare; anzi, penso che possano perfino esserne soddisfatti – sento ancora l’eco, poi, del convegno Acri a Siena di giugno – perché per anni anche all’incontro Meeting con l’Acri, con l’avvocato, con le fondazioni, l’obiettivo era quello di non parlare delle fondazioni in quanto tali, di ripetere che non sono banche, che non sono padroni di banche, ma di occuparsi di quello che fanno, e cioè della sussidiarietà, in particolare dopo le sentenze della Corte Costituzionale del 2003 che hanno finalmente sancito che le fondazioni, ripeto, non sono banche e non sono principalmente investitori istituzionali – lo sono in maniera strumentale per le loro strategie – ma sono organizzatrici dellA libertà sociale e esempio, esempio di questa nuova parola, dell’unica vera riforma istituzionale che è stata fatta fin ora, che ha inserito questa nuova parola che si chiama sussidiarietà, che prima non c’era nella Costituzione. Federalismo non c’è ancora, sussidiarietà c’è già. E quindi credo che segni come quasi sempre questo appuntamento al Meeting, un ulteriore passo avanti nella riflessione culturale su che cosa sono le fondazioni. Le fondazioni quindi sono responsabilità, sono un nuovo modo di far politica, un New Deal abbiamo scritto con Giorgio Vittadini nel Rapporto-sussidiarietà 2006, sono un nuovo modo di coniugare la politica, la società civile e la produzione. Non a caso, seconda novità, poi taccio e faccio parlare i molti oratori, a questo tavolo quest’anno c’è anche un manager di un impresa profit-oriented, e questo secondo me non è assolutamente in contraddizione, non crea confusione a un tavolo in cui il pallino è idealmente in mano al mondo delle fondazioni, delle fondazioni di origina bancaria, o delle fondazioni tout-court, come poi, sono sicuro, ci spiegherà l’avvocato. Cominciamo subito, cominciamo con l’intervento di Giorgio Vittadini, che deve scappare via subito dopo perché oggi il pomeriggio è molto lungo. So che non devo ricordare che Giorgio, con l’avvocato Guazzetti, è stato uno dei padri della dinamica culturale che ha portato allo statuto delle fondazioni, cioè le sentenze della Corte Costituzionale del 2003. Lo lascio parlare, così mi fermo.
GIORGIO VITTADINI:
Mi scuso perché devo andar via, perché poi devo presentare Blair e quindi devo andare subito dopo ad accoglierlo. Intervengo sul tema dicendo che… ha già ricordato Antonio Quaglio il passaggio sulle fondazioni, che sono diventate dopo questa sentenza un soggetto fondamentale sul tema del sostegno allo sviluppo italiano. Ma io oggi voglio fare un passo in più per dire che quella battaglia sembra veramente preistoria, perché in quel momento c’era un’idea complessiva di economia e di società in cui a livello mondiale e anche a livello italiano l’antinomia tra stato e privato sembrava essere in termini politici e in termini economici l’unico fattore di sviluppo. Non che non ci fosse chi – la Dottrina Sociale della Chiesa, certi ambienti più impegnati della sinistra – parlasse di non-profit, di terzo settore, di volontariato, ma appunto era un “terzo settore”. Era l’idea che la grande battaglia per lo sviluppo era basata su Stato e privato, e, se vogliamo, addirittura identificando gli schieramenti in questo tipo di realtà. Chi sosteneva il privato sosteneva a livello mondiale che il mercato, il mercato finanziario, avrebbe portato allo sviluppo, uno sviluppo lasciato semplicemente alle forze di mercato; chi dall’altra parte si opponeva a quest’idea, aveva l’idea che comunque lo stato fosse la garanzia di equità. Ancora due mesi fa abbiamo fatto, abbiamo ospitato in Bicocca l’incontro mondiale del Network della John Hopkins col professor Salamon, e ho visto che la gran parte di questi studenti del non-profit, soprattutto del terzo mondo, vedeva ancora nello stato il fattore più importante. Ora, cos’è successo dal 2003 a oggi? Lo vediamo per esempio nell’Enciclica, lo vediamo in quello che è uscito nella crisi finanziaria, non lo vediamo nella crisi irreversibile dei bilanci statali. L’idea che lo sviluppo sia in questa contrapposizione, se vogliamo in questa alternanza non ha più futuro, perché si capisce che non è il meccanismo finanziario da solo che può assicurare lo sviluppo, neanche lo sviluppo in termini di produzione, tanto meno in termini di Welfare. Non sto a commentare quello che tutti avete sotto gli occhi, questa è una crisi non congiunturale, è una crisi epocale perché è in qualche modo analoga al ’29: è la fine del nuovo mito neoclassico secondo cui le forze di mercato da sole riescono a equilibrare. Veramente i Pontefici da quarant’anni a questa parte – infatti l’Enciclica riparte dalla Populorum Progressio – l’avevano detto, ma sembrava appunto l’appello morale, non un discorso che avesse valore economico. Dall’altra parte vediamo la difficoltà, per esempio, del presidente Obama nel fare la riforma sanitaria basandosi sullo stato, a vedere come, anche quando uno stato voglia dire un aspetto dinamico, non si possono pensare riforme – pensiamo a quella sanitaria negli Stati Uniti – che si basano sull’aumento dei deficit. L’aumento dei deficit pubblici è incompatibile con lo sviluppo di società, come dire, sviluppate, e se è solo lo stato a dover garantire lo sviluppo, dopo la caduta del muro, stiamo parlando di uno stato che è uno stato di paesi del terzo mondo che si associa a dittature. È assolutamente desueta quest’idea. Allora cosa rimane? Non è che rimane la terza via, rimane la necessità, dopo questa crisi, di una sperimentazione globale, di domandarsi cosa possa essere lo sviluppo. Non abbiamo ricette: siamo all’inizio di una nuova era, siamo all’inizio di domande, tipo quelle del ’29, quando nacque il keynesianesimo, ma in questo sta un ripensamento del modello, non due, neanche tre ma l’idea che l’ideale, la considerazione del valore della persona, la necessità di correttivi al semplice meccanismo economico, che non siano semplicemente ritornare allo statalismo, vengano fuori. Da dove… come posso sintetizzare in pochissimo tempo quest’idea? La sintetizzo partendo dal messaggio del Papa al Meeting: il Papa al Meeting dice: non esiste conoscenza se non è una conoscenza affettiva, in cui un soggetto si deve implicare nella conoscenza, il mito moderno di una conoscenza neutrale è una non conoscenza dell’oggetto. L’abbiamo sentito risuonare in questo Meeting persino dai premi Nobel per le Fisica ieri, quindi anche in termini scientifici quest’idea della neutralità del soggetto non esiste. Ma cosa vuol dire nel nostro campo? Vuol dire che anche in termini di sviluppo non è più possibile pensare a uno sviluppo dove i soggetti esistenti e i soggetti ideali, le realtà dinamiche siano estranee ai meccanismi che possono portare allo sviluppo. Quello che è alla base dell’idea di sussidiarietà – quello che è alla base, in Italia, del movimento cattolico, del movimento operaio – ritorna al centro con questo termine “responsabilità sociale, economia sociale”, con la necessità che l’impresa riporti temi valoriali, anche la grande impresa – pensiamo negli anni scorsi cosa ha voluto dire anche per una multinazionale dover tener conto di temi come l’ambiente, temi come lo sviluppo del capitale umano in termini di lavoro, l’idea di conciliare l’interesse privato e l’interesse pubblico. Questo grande tema rientra dentro: non si può fare sviluppo senza questo tipo di intervento. Ora, negli anni scorsi, abbiamo visto il premio Nobel Yunus sul microcredito. Ma noi capiamo che questo, più che essere un punto d’arrivo è un punto di partenza, un esempio, che riporta a galla come per esempio nella nostra economia abbiamo molto più che il microcredito. Forse ci siamo dimenticati: il microcredito è una cosa piccola rispetto all’esperienza delle casse rurali, delle banche popolari, delle casse di risparmio poi diventate fondazioni, dei Cofidi. In questi momenti di crisi si capisce che questa responsabilità sociale e questa presenza di forze ideali… io mi ricordo sempre che il presidente Guzzetti ricorda con giusto orgoglio che ancora adesso la fondazione Cariplo ha come punto centrale non qualcosa che si chiama consiglio d’amministrazione, ma comitato di beneficenza, perché l’idea è che al centro c’è un punto che è di gratuità. Allora, questo tema rientra dentro al tema dello sviluppo e riporta a galla la necessità che insieme si pensi allo sviluppo e alla responsabilità sociale, che un impresa, anche un impresa profit, deve essere responsabile dell’ambiente che ha intorno, del fatto di non sfruttare la gente, e che anzi, possiamo aggiungere, che lo sviluppo stesso è legato a motivazioni, perché in questo momento di fine crisi, l’abbiamo sentito ieri dal governatore che ha parlato di “necessità di coraggio”, questi termini umani ritornano importanti: lui ha parlato di coraggio, dovunque si parla di fiducia. Fiducia, coraggio, capacità imprenditoriale, voglia di intraprendere non sono valori che nascono da un semplice meccanismo di utilità. Nascono da un’idea di utilità che è più vasta, che riporta al centro questi temi ideali. Allora voi capite perché, allora, responsabilità sociale come sostegno allo sviluppo e non beneficenza. Io mi pongo unito di fronte alla società, quando faccio l’imprenditore, quando faccio una banca, addirittura soprattutto quando faccio una fondazione bancaria: guardo nello stesso tempo l’efficienza economica – non posso dimenticarmene, se no faccio parte, divento parte del problema del debito – ma nello stesso tempo penso lo sviluppo come il benessere dei cittadini e la possibilità che si tenga conto della vita nella sua globalità. Nella relazione di ieri del governatore Draghi c’era un altro punto in cui questo veniva fuori con chiarezza, quando ha messo al centro della sua relazione innanzitutto il tema “capitale umano”. La parola “capitale umano”, che fu frutto di premi Nobel vent’anni fa, venticinque anni fa, trent’anni fa, e che poi è stata dimenticata per il premio Nobel sulla finanza, ritorna adesso a galla. Che cosa assicura che un’impresa porti sviluppo? Che ci sia una persona che cresce in qualità, in istruzione, in capacità di lettura della realtà. E allora il governatore parlava della necessità di tutelare e incrementare questo capitale umano. Allora capite perché è centrale questo titolo? Non si può parlare di terzo settore, di non-profit, ma neanche di impresa, ma neanche di banca come fattore economico, e dall’altra parte del volontariato come fattore marginale di fronte a un’economia sviluppata. Bisogna tener insieme le cose. Una banca deve fare efficienza ma nello stesso tempo deve pensare di assicurare al territorio che ha intorno uno sviluppo. È tutto il tema che sentiamo dire, che abbiamo sentito dire anche ieri della necessità che le banche aiutino lo sviluppo delle imprese intorno a loro. Un’impresa, per essere solida, per non fare enormi utili e poi sparire, deve avere in mente che deve tendere allo sviluppo di lungo periodo. Vuol dire che può portare a un’utilità e a un ritorno di reddito più piccolo nel breve periodo, ma nel lungo periodo rende di più. Io cito sempre un dialogo imprenditoriale fatto con Squinzi in cui lui disse: io non quoto la mia impresa se no non potrei dare, investire ogni anno quest’enorme quantità di denaro in ricerca che mi permette di essere stabile nel lungo periodo. Capite? Quindi il tema ricerca. E ancora noi abbiamo capito che la salute personale e ambientale è un fattore che nel lungo periodo permette uno sviluppo. La salute intesa in senso fisico e la salute anche psicologica, la salute mentale, perché nel momento in cui noi non assicuriamo questo, abbiamo il fenomeno per cui i figli degli imprenditori dilapidano il capitale dei padri, perché, non avendo una solidità, una maturità, non hanno, non sono neanche in grado di reggere queste sfide. Potrei andare avanti ma voi capite che allora una fondazione bancaria è oggi un fattore fondamentale per lo sviluppo, perché non interviene solo a pioggia: interviene anche a pioggia, per i piccoli aiuti – infatti lungimirante è stata anche la nascita delle fondazioni di comunità – ma è un fattore che interviene insieme al pubblico a decidere cos’è importante incrementare nella ricerca, cos’è importante incrementare nel welfare, nella sanità e altro. Un’impresa non solo investe e guarda ma anche si assicura un contesto intorno in cui lo sviluppo umano sia fondamentale. Quindi questo pone la centralità del tema e ci chiede di ripensare a schemi che erano un po’ schizofrenici: l’impresa che pensa al profitto, il terzo settore che pensa all’utilità, la fondazione bancaria che deve erogare, la banca che deve guadagnare. Ognuno anche nel micro, anche a livello microeconomico, non solo a livello macroeconomico, deve avere entrambi gli aspetti fondamentali, perché non si dà sviluppo senza questa capacità di tener conto di una responsabilità sociale, e non si dà capacità di aiutare in termini di responsabilità sociale senza pensare anche allo sviluppo, senza fare reddito, tant’è vero che nel momento in cui le banche non possono più distribuire utili anche le fondazioni bancarie non possono più aiutare in questo senso. Questo mi sembra il nuovo panorama culturale, e quindi il dibattito di oggi, come altri, è l’inizio di una nuova era. Nessuno ha modelli, a differenza di quello che si pensava qualche anno fa, ma tutti possono avere sperimentazioni in atto, in cui il nuovo ruolo di ogni soggetto economico diventa assolutamente fondamentale per costruire un nuovo schema che nessuno di noi ha ma che tutti vogliamo costruire.
ANTONIO QUAGLIO:
Bene. Grazie. Grazie a Giorgio Vittadini che salutiamo. Avvocato Guzzetti.
GIUSEPPE GUZZETTI:
Intanto ringrazio per questo incontro che ancora una volta il Meeting offre alle nostre fondazioni per far conoscere la nostra realtà, che appunto siamo nella vita delle nostre fondazioni. Quest’anno mi pare che sia il trentesimo anniversario di un Meeting molto arzillo e molto grintoso e quindi anche opportunamente si colloca il tema che ci è stato affidato oggi.
“Responsabilità sociale: solo beneficenza o sostegno allo sviluppo?”. E’ questo il tema che ci è stato assegnato quest’anno al Meeting di Rimini, giunto con freschezza e grinta alla sua 30ª edizione, e a cui facciamo i migliori auguri per il futuro. Un tema che è stato anche voluto da uno dei padri nobili del Meeting, il professor Giorgio Vittadini, che della sussidiarietà orizzontale è uno dei maggiori, se non il principale teorizzatore che abbiamo in Italia.
Ebbene per le Fondazioni di origine bancaria – che sono soggetti ontologicamente animati dal principio di “responsabilità sociale”, per ragioni sia storiche sia normative – l’interrogativo non è retorico. Spesso, infatti, ci siamo posti il tema di cosa voglia dire affrontare correttamente il nostro ruolo di moderni “mecenati”, come realizzare una filantropia capace di fare davvero beneficenza – cioè fare del bene – attivando iniziative dirette a dare sollievo autentico dai bisogni, soprattutto di carattere sociale e materiale. Ed è proprio su questo piano che beneficenza e sviluppo non possono non incontrarsi, perché non credo che ormai ci possa essere risposta vera ai bisogni se non si innesca un percorso concreto di crescita e, possibilmente, di autosviluppo.
A fare delle Fondazioni un soggetto socialmente responsabile è innanzitutto la loro storia. Esse nascono quali eredi dell’attività che fin dai secoli scorsi svolgevano le Casse di risparmio e le Banche del monte, sorte, soprattutto nell’Ottocento, come istituti voluti dalla collettività per promuovere sia l’economia reale sia la crescita sociale, culturale e civile, tant’è che in esse convivevano due anime: una creditizia e l’altra volta al mecenatismo. Dunque già allora, come vediamo, beneficenza e sviluppo si intrecciavano.
Negli anni Novanta, l’evoluzione normativa del settore trasformò le Casse di Risparmio in vere e proprie imprese bancarie, società per azioni; mentre affidò il ruolo più spiccatamente filantropico alle Fondazioni, cosiddette di origine bancaria.
Esse sono soggetti non profit, privati, che autonomamente scelgono, fra quelli consentiti dalla legge, i settori in cui intervenire con il proprio sostegno, finanziandoli con le risorse derivanti dal buon investimento dei loro patrimoni: complessivamente intorno ai 48 miliardi di euro, che generano oltre un miliardo e mezzo di erogazioni all’anno. Alle Fondazioni, infatti, sono stati assegnati i patrimoni delle Casse originarie; ed esse debbono gestirli sapientemente, in modo che diano frutti: per l’utilizzo filantropico, senz’altro; ma anche per il rafforzamento dei patrimoni stessi, in modo da preservarli per le generazioni future.
Ma le Fondazioni sono socialmente responsabili, oltre che per storia, per legge. Esse sono “persone giuridiche private senza fine di lucro, dotate di piena autonomia statutaria e gestionale” che “perseguono esclusivamente scopi di utilità sociale e di promozione dello sviluppo economico”. Questo è il dettato della Legge Ciampi, che di fatto le ha istituite nella loro attuale identità. Un’identità confermata e arricchita nel 2003 dalle note sentenze 300 e 301 della Corte Costituzionale, che le ha collocate “tra i soggetti dell’organizzazione delle libertà sociali”.
Che cosa vuol dire essere soggetti dell’organizzazione delle libertà sociali? Vuol dire che le nostre Fondazioni devono dare concreta attuazione al principio di sussidiarietà orizzontale, sostenendo e finanziando i progetti dei corpi sociali intermedi (associazioni di volontariato, onlus, cooperative e imprese sociali ….) e, così, rafforzare il sistema democratico, contribuendo a realizzare nei fatti quel pluralismo economico e sociale che allo stato e al mercato affianca un terzo, importante pilastro, che è fatto da tutto quel privato sociale che è capace di aggiungere qualità alla vita di ogni giorno, soprattutto dei cittadini in maggiore difficoltà, della cui assistenza il welfare state non è più in grado di farsi carico da solo. Un privato sociale che al contempo genera risorse, produce occupazione, dà un contributo al Pil del Paese, probabilmente con potenzialità ancora inespresse da noi, se pensiamo che negli Usa il Non profit incide sul Pil per il 6% ed occupa il 7% della forza lavoro.
Il ruolo delle Fondazioni di origine bancaria, dunque, è oggi quello di preziosa “infrastruttura immateriale” di un sistema economico e sociale pluralistico, che non attribuisce esclusivamente all’amministrazione pubblica la responsabilità di perseguire il benessere comune; al contrario, afferma – praticamente – il principio di sussidiarietà e perciò l’opportunità che soggetti diversi – anche utilizzando approcci e filosofie differenti – contribuiscano ad affrontare e a risolvere i problemi di tutti.
In questo senso, la presenza di fondazioni private di dimensioni significative, come sono le Fondazioni di origine bancaria, contribuisce a colmare una lacuna rilevante sia del nostro sistema sociale – completando la struttura di un settore non profit cresciuto rapidamente negli ultimi anni e investito di sempre maggiori responsabilità entro i sistemi culturali, di istruzione e di welfare del nostro Paese – sia del sistema economico.
Peraltro siamo consapevoli che in Italia – dove il ruolo dei corpi intermedi della società è tuttora marginalizzato anche in termini di rappresentazione costituzionale, quantunque l’articolo 118 della Costituzione faccia esplicito riferimento alla sussidiarietà – c’è un ostacolo culturale che rende difficile l’accettazione del fatto che le nostre Fondazioni siano soggetti di natura privata la cui attività è finalizzata al perseguimento di scopi di utilità sociale.
Ci auguriamo che nell’attuale legislatura il Parlamento realizzi l’auspicata riforma della disciplina delle persone giuridiche private, che potrà contribuire a riaffermare i principi della sussidiarietà, e che in quell’occasione le Fondazioni di origine bancaria siano naturalmente ricomprese nel corpo unico proprio degli enti non lucrativi di cui al Titolo II del Libro I del Codice Civile, superando così definitivamente l’attuale specialità giuridica e qualsiasi ambiguità ne possa derivare anche in termini di percepito.
L’esistenza delle nostre Fondazioni, comunque, penso abbia prodotto finora e continui a produrre numerosi vantaggi per l’Italia, grazie a caratteristiche identitarie riassumibili in: senso di responsabilità, attitudine alla sussidiarietà, capacità di gestire la loro autonomia e i loro patrimoni. A conferma di quel che dico, voglio ricordare che una recente verifica condotta dall’Autorità di Vigilanza sulle Fondazioni, il Ministero dell’Economia e delle Finanze, per accertare quale fosse stato l’impatto della crisi finanziaria sui patrimoni delle Fondazioni e come gli amministratori avessero esercitato la loro autonomia ha potuto accertare che la gestione dei patrimoni è avvenuta nel pieno rispetto dei criteri fissati dalla Ciampi: diversificare il rischio, non investire in prodotti speculativi e rischiosi, generare con continuità nel tempo entrate per svolgere la propria missione. Dunque, posso dire che come amministratori abbiamo dato una buona prova di rispetto della legge, di correttezza, di saggezza e di lungimiranza.
Nello sviluppo dell’economia, oggi più che mai, sono fondamentali la lungimiranza, il rispetto dell’uomo e delle leggi, la capacità di farsi carico in termini sussidiari dei temi e dei problemi all’ordine del giorno. Più di ogni altro ce lo ha ricordato, proprio di recente, Sua Santità Benedetto XVI nell’enciclica “Caritas in Veritate”.
Le autorevoli parole del Santo Padre hanno posto l’accento sul fondamentale rapporto che esiste tra responsabilità e sussidiarietà: “La sussidiarietà è prima di tutto un aiuto alla persona, attraverso l’autonomia dei corpi intermedi – scrive il Papa -. Tale aiuto viene offerto quando la persona e i soggetti sociali non riescono a fare da sé e implica sempre finalità emancipatrici, perché favorisce la libertà e la partecipazione in quanto assunzione di responsabilità. La sussidiarietà rispetta la dignità della persona, nella quale vede un soggetto sempre capace di dare qualcosa agli altri. Riconoscendo nella reciprocità l’intima costituzione dell’essere umano, la sussidiarietà è l’antidoto più efficace contro ogni forma di assistenzialismo paternalista. Essa può dar conto sia della molteplice articolazione dei piani e quindi della pluralità dei soggetti, sia di un loro coordinamento. Si tratta quindi di un principio particolarmente adatto a governare la globalizzazione e ad orientarla verso un vero sviluppo umano”.
Che cosa dire di più? Nulla; vorrei prendere ancora qualche minuto solo per raccontare brevemente come operano le Fondazioni di origine bancaria in termini di sussidiarietà sociale per lo sviluppo, sia sul fronte delle erogazioni filantropiche sia su quello dell’investimento del patrimonio.
Le nostre erogazioni vanno a settori importanti per il benessere collettivo. Parlo delle iniziative di conservazione e valorizzazione del patrimonio artistico e culturale, che hanno ricadute positive anche in termini di volano turistico e, dunque, economico. Parlo delle iniziative per trattenere sui territori le risorse umane d’eccellenza, in particolare al Sud, che sono le più importanti per lo sviluppo futuro del Paese: ecco dunque le erogazioni alle università e ai centri di ricerca, quando non la stessa creazione ex novo di strutture per la ricerca avanzata: dal biotech alle nanotecnologie, senza tralasciare l’agroalimentare, a cui più Fondazioni insieme hanno dedicato un programma specifico – il Progetto Ager – agricoltura e ricerca – con l’obiettivo di favorire le produzioni di eccellenza nel nostro Paese.
E’ solo con l’eccellenza, infatti, che si può essere competitivi. Lo ha spesso sottolineato il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che poco prima del nostro Congresso a Siena ci ha fatto l’onore di riceverci al Quirinale. “Un Paese che trascuri le attività di ricerca e formazione non è solamente destinato a fatali ritardi rispetto al mondo socialmente ed economicamente più avanzato, ma rinuncia ad offrire valide prospettive alle generazioni più giovani”, afferma Napolitano.
E’ del tutto vero e condividiamo. Per il contributo che le Fondazioni di origine bancaria danno alla ricerca scientifica più di ogni commento valgono, però, le risorse che negli anni le abbiamo dedicato – oltre 1 miliardo e trecento milioni di euro fino al 2008 – e i settori innovativi che abbiamo finanziato, nonché la metodologia adottata nella selezione dei progetti di ricerca che, anche a livello internazionale, è riconosciuta di eccellenza.
Le Fondazioni di origine bancaria hanno come vocazione quella di aggiungere qualità alla vita dei cittadini, di tutti i cittadini. Quindi oltre al resto, oltre al recupero dei monumenti delle loro città, oltre all’attenzione alle problematiche ambientali, particolare attenzione le Fondazioni dedicano al sostegno delle categorie sociali deboli quali malati, anziani, immigrati: e questo ci auguriamo contribuisca a mantenere quella pace sociale indispensabile per lo sviluppo, premessa stessa per lo sviluppo.
Come ho detto, operiamo soprattutto immettendo risorse in quel circuito ormai fondamentale per il Paese che è il cosiddetto terzo settore (i dati del 2007 ci dicono che circa un terzo dei contributi privati a favore del non profit proviene dalle Fondazioni di origine bancaria); e sul non profit cerchiamo di esercitare anche un ruolo di stimolo, che contribuisce a fargli realizzare l’ormai necessario salto di qualità volto alla razionalizzazione e all’efficienza di quel mondo variegatissimo. Inoltre, operiamo con iniziative nostre, cioè gestite direttamente tramite fondazioni o società strumentali.
La natura privata delle Fondazioni di origine bancaria in tutti questi campi è un grande vantaggio, perché consente di attuare processi decisionali svincolati dall’esigenza del consenso elettorale, che produce necessariamente politiche rispondenti alle preferenze del cosiddetto “elettore mediano”, e dunque di sperimentare linee di intervento innovative, spesso precluse alle amministrazioni pubbliche. Esse possono agire con flessibilità e velocità maggiori della pubblica amministrazione, in quanto svincolate da logiche e procedure burocratiche, e l’essere private tiene le Fondazioni libere dall’obbligo di attuare interventi che interessino obbligatoriamente la totalità dei cittadini. Esse, cioè, possono sperimentare risposte ai bisogni sociali e modalità di intervento innovative di cui sono poi in grado di mettere i “format” di maggiore efficacia a disposizione degli enti pubblici.
La natura di istituzioni private “orientate al perseguimento di finalità di utilità sociale” consente, inoltre, alle Fondazioni di godere di alcuni vantaggi anche rispetto alle imprese private a fine di lucro. Nonostante la loro natura giuridica privata, le Fondazioni di origine bancaria sono, infatti, soggetti che non hanno un proprietario (salvo le loro stesse comunità di riferimento). Non c’è cioè un soggetto a cui spettino i redditi residuali generati dall’attività istituzionale. Unitamente al fatto di poter vivere dei frutti del proprio patrimonio e di non dovere raccogliere annualmente i fondi necessari allo svolgimento dell’attività istituzionale, ciò consente alle Fondazioni di adottare logiche di lungo periodo, sostenendo interventi che – pur socialmente rilevanti – possono mostrare una redditività economica modesta o differita nel tempo: un atteggiamento questo precluso ad ogni istituzione che debba dimostrare giorno per giorno ai proprietari il successo del proprio operato. I loro caratteri peculiari accomunano dunque e differenziano, allo stesso tempo, le Fondazioni di origine bancaria rispetto alle altre istituzioni sociali: pur private esse perseguono finalità di interesse collettivo; pur votate all’interesse della collettività possono agire con la duttilità dell’organizzazione privata.
Inoltre, la ricca dotazione patrimoniale e la natura di “soggetto terzo”, che non persegue finalità proprie, ma mette le proprie risorse (economiche e umane) a disposizione di progetti di sviluppo, consente alle nostre Fondazioni di svolgere un ulteriore ruolo che difficilmente può essere esercitato dalle imprese private, e che la stessa amministrazione pubblica esercita con difficoltà: il ruolo di “catalizzatore” degli attori e delle risorse esistenti in un territorio, nonché di soggetto che contribuisce a “fare sistema” a livello locale.
Come ha autorevolmente attestato Giuseppe De Rita in uno studio del Censis pubblicato un paio di anni fa, le Fondazioni di origine bancaria agiscono come una forza propulsiva che dà una spinta alla crescita del sistema produttivo e al rafforzamento della struttura sociale in ambito locale. Lo studio di De Rita rileva che la capacità delle Fondazioni di origine bancaria di mettere a valore le risorse disponibili, ovvero di determinare veri effetti moltiplicativi per se stesse e per i territori di riferimento, è uno degli elementi caratteristici della loro attività, mostrando in questi anni di aver saputo agire come veri e propri catalizzatori, che generano aggiuntività alle risorse già disponibili messe in campo da altri attori, rispetto ai quali si pongono spesso anche come facilitatori del dialogo.
Le Fondazioni, cioè, cercano di operare secondo uno schema che, oltre a prevedere un supporto finanziario per i progetti, dia un contributo decisivo al sostegno di quella rete, per fortuna imponente in Italia, di associazioni, fondazioni, onlus, cooperative e imprese sociali, che oggi risultano fondamentali per la coesione civile e sociale del Paese.
Un esempio emblematico è la Fondazione per il Sud: un’iniziativa unica nel panorama italiano, realizzata dalle Fondazioni di origine bancaria insieme alle organizzazioni del volontariato e del terzo settore. Essa è in sé un’importante infrastruttura sociale ed è dedicata a favorire proprio l’infrastrutturazione sociale del Mezzogiorno; un Mezzogiorno, purtroppo, dove le Fondazioni di origine bancaria sono poco numerose e con ridotte capacità erogative. I progetti della Fondazione per il Sud operano in contesti territoriali e sociali di per sé complessi e molto spesso critici, dove è fondamentale coltivare una cultura civica della donazione e della sussidiarietà. Anche per questo la Fondazione per il Sud si sta impegnando per favorire la nascita di Fondazioni di comunità nel Mezzogiorno, che, attraverso l’azione di raccolta, valorizzazione e impiego delle risorse in un determinato contesto territoriale di riferimento potranno rappresentare un efficace strumento di sussidiarietà, come sta avvenendo in alcune regioni del Nord Italia, e di presidio di legalità. Sono felice di ricordare che l’impegno profuso in tal senso già comincia a dare i suoi frutti: a Salerno è nata da poco la prima Fondazione di comunità del Sud, e una seconda, importante, se ne sta avviando a nascere a Napoli.
Le Fondazioni di origine bancaria non sono, dunque, casse di accoglienza degli interventi più vari, a volte disarticolati, ma strumento di realizzazione “dell’utilità sociale” nello spirito della legge 153/1999 e delle sentenze della Corte Costituzionale, che le spingono ad andare oltre il sostegno a un vago e diffuso interesse pubblico. La loro logica d’azione è particolarmente coerente con l’esigenza di attuare riforme del sistema italiano di welfare che portino a una stretta integrazione tra l’azione dell’amministrazione pubblica e delle organizzazioni private senza scopo di lucro (il settore non profit) nella direzione di un sistema di welfare sussidiario e comunitario. E ciò è importante non solo e non tanto per ragioni di bilancio, quanto perché il coinvolgimento dei soggetti privati senza fini di lucro entro un nuovo sistema di welfare può aiutare a passare da un welfare “risarcitorio” a un welfare dell’autonomia, che miri a costruire condizioni utili a generare la massima autonomia economica e sociale dei cittadini e dei territori.
Quello che viviamo oggi è un momento critico: il Paese sta attraversando una fase particolarmente impegnativa, che risente della pesante congiuntura internazionale mentre continuano a crescere i bisogni sia sul fronte del welfare sia su quello dello sviluppo. Tutti i protagonisti della vita politica, economica e sociale sono chiamati a dare una risposta conforme alle propria missione e al proprio ruolo: le Fondazioni per prime. Credo di poter ribadire che stiamo facendo e faremo la nostra parte, non ultimo con lo sforzo fatto per il rafforzamento patrimoniale delle banche partecipate. Le nostre Fondazioni sono soggetti filantropici, ma anche importanti investitori istituzionali. E come tali risentono della crisi dei mercati finanziari, tanto da rinunciare, in alcuni casi, quest’anno, all’assegnazione di dividendi da parte delle banche partecipate, per rafforzarle, come ho appena ricordato.
La saggia politica di costituire fondi per la stabilizzazione delle erogazioni, che abbiamo seguito negli scorsi anni, quando i rendimenti dei nostri investimenti erano particolarmente elevati, ci consente tuttavia di contenere l’impatto di questa congiuntura sulle nostre erogazioni, proprio perché possiamo attingere a queste riserve. Nonostante le difficoltà, stiamo pianificando i nostri progetti in modo da non penalizzare le due linee principali di intervento: le attività di sussidiarietà sociale, fondamentali per dare un contributo al mantenimento della pace sociale, e quelle più direttamente funzionali allo sviluppo economico.
Intendo, da un lato, le iniziative che più di altre hanno possibilità di incidere positivamente sulla vita delle famiglie, come quelle a favore delle categorie sociali più deboli: gli anziani, i giovani, le persone a rischio di esclusione sociale, l’infanzia negata, gli immigrati, i disabili fisici e mentali. Penso, dunque, agli interventi per favorire l’integrazione, anche interculturale: e qui, ovviamente, si parte dai progetti nelle scuole, ma anche dal cominciare a dare risposte a problemi come quello della casa; dagli interventi nelle periferie degradate all’attenzione ai portatori di disabilità, favorendone anche l’inserimento lavorativo, soprattutto tramite il potenziamento del sistema delle cooperative sociali, che garantiscono una forma di inserimento ottimale in quanto, non solo creano nuove postazioni per soggetti svantaggiati con un chiaro inquadramento contrattuale, ma curano al tempo stesso i percorsi personali, favorendo la qualificazione umana e professionale delle persone inserite. Penso, insomma, al sostegno di chi è a rischio di emarginazione sociale: un obiettivo in questo momento prioritario per le nostre Fondazioni.
Penso, perciò, anche ai fondi di solidarietà che stanno nascendo in molte città italiane, spesso ad opera delle Diocesi, a cui le Fondazioni danno il loro sostegno. La Fondazione che io presiedo, la Cariplo, per esempio partecipa al fondo istituito dalla Curia milanese su ispirazione del Cardinal Dionigi Tettamanzi, dedicato alle famiglie in difficoltà, in particolare quelle in cui il capofamiglia ha perso il lavoro. Lo stesso hanno fatto, o stanno facendo, altre Fondazioni, e con il coordinamento dell’Acri, la nostra Associazione, stiamo anche lavorando per una raccolta, presso le nostre Fondazioni, che possa essere versata nel fondo lanciato in giugno dalla Conferenza Episcopale Italiana.
Ci sono, poi, iniziative straordinarie volte al sostegno alle popolazioni colpite dal terremoto in Abruzzo, per le quali l’Acri ha raccolto, fino ad oggi, presso le Fondazioni associate, oltre sette milioni di euro. O i progetti per i paesi terzi, che ormai cominciano ad essere numerosi e che si propongono soprattutto di contribuire a creare condizioni per l’autosviluppo. Pur non trascurando gli interventi in apparenza più tradizionali – che vanno dal finanziamento alla creazione di ospedali e centri chirurgici specializzati, all’acquisto di apparecchiature mediche e ambulanze, dal sostegno a progetti di vaccinazione di massa della popolazione infantile a quello per la costruzione di case d’accoglienza per orfani e minori abbandonati o di scuole per l’infanzia, fino alla realizzazione di pozzi per l’acqua potabile e l’irrigazione – il metodo di impostazione degli interventi delle Fondazioni è, infatti, quello che vede come obiettivo finale l’auto-sviluppo, anche attraverso la formazione professionale e a volte il microcredito. Parlando della Fondazione Cariplo, che ho l’onore di presiedere, posso dire che queste sono le basi su cui abbiamo impostato sia il nostro progetto per limitare il contagio da Aids in Malawi e per favorire lo sviluppo economico e sociale del Paese, sia il piano che stiamo realizzando insieme ad altre tre Fondazioni – Cariparma, Monte dei Paschi di Siena e Compagnia di San Paolo – per sostenere lo sviluppo per gli sfollati che rientrano nel loro Paese, il Nord Uganda, e per le popolazioni rurali nel Senegal.
Fra le attività delle nostre Fondazioni, ha infine da poco cominciato a farsi strada lo strumento del microcredito. Alcune Fondazioni hanno dato vita a specifici fondi di garanzia grazie ai quali cittadini – famiglie, piccole imprese, immigrati intenzionati ad avviare una propria attività d’impresa – non in grado di fornire garanzie personali alle banche, possono accedere comunque a un finanziamento da restituire a condizioni vantaggiose. L’erogazione del prestito avviene da parte di una banca partnership dell’iniziativa e la restituzione progressiva dei finanziamenti consente ai fondi di autoalimentarsi ampliando, conseguentemente, il numero dei potenziali beneficiari. Posso citare in merito un esempio che conosco da vicino perché promosso dalla Fondazione Cariplo. Nei mesi scorsi abbiamo lanciato il Progetto In.Vo.Lo.: 3 milioni e 6mila euro sono stati stanziati per favorire l’accesso al credito delle organizzazioni di volontariato della Lombardia. L’iniziativa è stata sviluppata in partnership con Banca Prossima – istituto partecipato da Intesa Sanpaolo e dalla stessa Fondazione Cariplo.
L’altro fronte di particolare attenzione è quello più funzionale allo sviluppo economico in senso stretto. In questi anni, mentre definivamo meglio l’attività erogativa, abbiamo anche pensato a come si potesse utilizzare una parte dei nostri patrimoni per investimenti che sostenessero lo sviluppo economico e sociale del Paese.
Grazie a una normativa introdotta dal Ministro Giulio Tremonti nel 2001, le Fondazioni hanno la possibilità di utilizzare il proprio patrimonio per investimenti coerenti con quelle stesse finalità sociali e civili – come il welfare, la ricerca, la cultura, l’ambiente, lo sviluppo economico – a cui destinano le erogazioni filantropiche, così da poter mettere a disposizione di questi settori risorse ben più ampie, quantunque in questo caso non donate, bensì investite. Così, negli investimenti i nostri obiettivi sono senz’altro di remunerazione e di mantenimento dell’equilibrio economico, ma sempre più spesso anche di promozione dello sviluppo a livello locale e nazionale; e l’orizzonte temporale può essere di medio-lungo termine.
Dunque un investimento, per esempio, nelle infrastrutture – essenziali per il rilancio dell’economia – è compatibile con la missione e con le attività delle Fondazioni di origine bancaria, oltre che con la normativa che le riguarda. Perciò le nostre Fondazioni intervengono sia per la promozione dell’economia locale (spesso a fianco degli Enti locali, nelle public utility) sia a livello nazionale e in modo coordinato, come è avvenuto con l’acquisto del 30% del capitale della Cassa Depositi e Prestiti Spa da parte di 66 Fondazioni. Un investimento, questo, che è stato un atto di fiducia nelle potenzialità di Cdp per il rilancio dello sviluppo del Paese, creando contemporaneamente valore per i suoi azionisti. Nonostante nel passato queste potenzialità siano troppo spesso rimaste tali, senza riuscire ad esprimersi pienamente al di là della pur importante erogazione del credito agli enti locali, posso dire che oggi – per quanto riguarda la Cdp – cose importanti stanno nascendo, grazie a una profonda revisione della governance e alle recenti riforme varate dal Parlamento (art. 30 del D.L. 112 del luglio scorso e art. 22 del D.L. 185/2008, convertiti dal Parlamento nelle leggi, rispettivamente, n. 133/2008 e n. 2/2009), grazie alle quali le cospicue risorse del risparmio postale si potranno utilizzare – peraltro senza assolutamente metterle a rischio – per la realizzazione di infrastrutture sui territori, importante ausilio per la competitività delle imprese italiane, e di un vasto piano di housing sociale, essenziale per la pace sociale, oltre che volano per l’occupazione.
Sempre più numerosi, inoltre, sono gli esempi di investimenti delle Fondazioni in fondi a forte valenza di sviluppo sociale e civile, oltre che economico, e di altre iniziative stabili per il perseguimento dei fini istituzionali, come la creazione di apposite società strumentali, che tra l’altro spesso danno lavoro a risorse umane d’eccellenza sui territori, o l’ingresso in società terze che operino nei settori di interesse istituzionale delle Fondazioni.
Parlo dei fondi per le infrastrutture; di quelli per irrobustire la dotazione di capitale di rischio dei partenariati pubblico-privati; o di quelli di private equity a sostegno delle piccole e medie imprese; o di quelli per l’housing sociale; e ultimo, ma non certo meno importante, del fondo per il trasferimento dei risultati della ricerca tecnologica dalle università alle imprese, quale è TTVenture, promosso da diverse Fondazioni e dalla Camera di Commercio di Milano, con l’obiettivo di favorire lo start up di imprese innovative.
Questi investimenti danno il senso di un nuovo percorso nella gestione del patrimonio che è anche funzionale alla cosiddetta missione istituzionale delle Fondazioni di origine bancaria.
Insomma, sia che operino come investitori istituzionali in un contesto di mercato, sia che operino come soggetti filantropici, le Fondazioni cercano di mettere in atto cambiamenti positivi e durevoli per le loro comunità di riferimento favorendone la coesione sociale e lo sviluppo, secondo quello spirito della Costituzione che ha volto il nostro Paese verso orizzonti di libertà e di uguaglianza, di modernizzazione e di solidarietà, imprescindibili per riuscire a realizzare una nuova fase di crescita, solida e autentica.
ANTONIO QUAGLIO:
Grazie. Tra gli 88 fiori dell’ACRI c’è anche la fondazione Monte Paschi che è molto grande, è plurisecolare, diciamo, è plurisecolare la tradizione socio-economica da cui viene ed è molto concentrata, molto territoriale e molto concentrata come cooperatività. Ci racconti, ci racconti.
GABRIELLO MANCINI:
Innanzitutto ringrazio anch’io l’onorevole Lupi e tutti gli amici di CL, gli organizzatori del Meeting di Rimini ai quali rinnovo veramente le mie felicitazioni per le grandi capacità organizzative ma anche la soddisfazione per la collaborazione che da sempre è in atto tra loro e la nostra fondazione. Io non voglio ripetere quello che già il presidente Guazzetti ha detto sempre con grande sapienza e con grande precisione e neanche limitarmi a portare quella che è l’esperienza della fondazione Monte dei Paschi di Siena, che indubbiamente fa parte di questi 88 petali con una storia molto lontana ma che cerca di interpretare al meglio possibile quello che è il suo DNA, quello che è nella sua storia e quello che prevede anche il nostro statuto. Innanzitutto la fondazione è il risultato di una storia lunga che parte dal 1472 e che ci profondamente legati al nostro territorio e legati in tutti i sensi ovviamente. E quindi questa storia che continua, che nasce successivamente, che prosegue questa forte legame, direi questa simbiosi che esiste praticamente tra Siena e la sua banca. Ma perché? Io credo che sia poi anche il tema della nostra tavola rotonda e dell’incontro di oggi. Lo dicevo, nel nostro statuto e nella nostra storia c’è un DNA preciso e c’è un compito, una responsabilità precisa, che anche noi come fondazione abbiamo. La nostra fondazione e tutte le fondazioni operano per lo sviluppo complessivo del territorio di riferimento. Questo è un po’ il nostro obiettivo, il nostro scopo. Noi operiamo e lavoriamo per questo. In questo appunto noi ci ricolleghiamo a quanto è stato fatto nei secoli per lo sviluppo del territorio di Siena. E allora rispondere a questo, direi, mandato un dovere da parte di tutti gli amministratori delle fondazioni, proprio per fare in modo che la nostra azione complessivamente intesa tenda sempre al perseguimento di questo obiettivo, che a enunciare non ci vuol niente, è bellissimo e brevissimo; il più difficile è raggiungerlo con dei risultati che devono essere appunto inequivocabili, perché appunto arrivarci a parole è semplice, il più difficile è arrivarci con le azioni concrete e con le scelte concrete. Allora venendo un po’ al tema di oggi, mi ritrovo perfettamente con quanto Guazzetti e anche Vittadini hanno detto, quando molto correttamente hanno parlato di fattori fondamentali di sviluppo e di tenere insieme le due cose: beneficenza e sviluppo. Io non vedo un dato di contraddizione tra quella che può essere l’azione tipicamente di beneficenza di una fondazione e quello del perseguimento dell’obiettivo fondamentale, che è quello dello sviluppo. Sono d’accordo col presidente Guzzetti quando giustamente abilita, e lo faccio in una sede che sicuramente so molto attenta a queste parole, sicuramente riabilita anche il concetto di beneficenza. La storia è legata anche a questo concetto e io rivendico quella che è l’attualità anche odierna, oltre che le ragioni di carattere etico e storico di questo termine, perché tutto sommato in questo si riassume l’attenzione verso il prossimo e l’attenzione al tempo stesso verso l’intera società. Quindi innanzitutto a mio giudizio beneficenza è sinonimo di solidarietà. E solidarietà si coniuga ovviamente con sviluppo, si coniuga con responsabilità sociale. Cioè nel discorso della beneficenza troviamo la somma di tutti quei valori cristiani e laici che hanno caratterizzato la nostra storia. Venendo dalla Toscana, Firenze (e lo dice un senese), a Firenze sono nate le misericordie. La Toscana è la culla della pubblica assistenza. Quindi queste forme di volontariato, siano esse di espressione cattolica o laica, sono la somma e una sintesi di qualcosa che è la solidarietà che è di un principio fondamentale. Allora le fondazioni si inseriscono in questo filone ed elargiscono interventi non indifferenti per quanto riguarda il mondo del volontariato. Attraverso quel sostegno, lo ricordava Guzzetti, alle categorie spesso più dimenticate o spesso più lontane, per le quali probabilmente potremmo assistere a degli interruttori che si spengono o a delle porte che chiudono. In quel caso il volontariato c’è e le fondazioni da sempre assistono, sono vicine al volontariato, non solo attraverso l’erogazione, che l’articolo 15 della legge 266 prevede, dei fondi per il volontariato, ma anche attraverso iniziative particolari e iniziative concrete dirette a beneficio del mondo del volontariato. A Siena abbiamo dato vita insieme alla provincia al volontariato della Toscana, alla prima esperienza, che sta partendo proprio in questi giorni, della scuola di alta formazione per il volontariato. Ecco allora, questa premessa a mio giudizio era necessaria. Cioè gli interventi che vengono fatti per la beneficenza non sono in contrasto con quella che è, diciamo, la ragione sociale, con quello che è lo scopo e l’obiettivo di fondo di una fondazione che è quello appunto di concorrere allo sviluppo economico del territorio di riferimento. E quindi, detto questo, l’attività (Guzzetti lo ricordava) che le fondazioni fanno da tempo si rivolge a vari settori. Noi per legge tutti gli anni abbiamo cinque settori, i cosiddetti settori rilevanti, che sono quelli a maggior assorbenza di interventi. In più operiamo con quei progetti che la fondazione finanzia e gestisce direttamente. Ecco io non voglio rubarvi tempo e farvi esempi che sarebbero estremamente interessanti ma anche lunghi. Però gli interventi nel settore dell’arte, nel settore della ricerca, nel settore della salute, dell’educazione e dell’istruzione, sono dei settori che dal punto di vista tecnico non andrebbero catalogati nel settore sviluppo. Ma io sfido chiunque a dimostrare che un restauro di una chiesa, di un ponte, di un palazzo, oppure Siena biotech, oppure gli interventi per le nanotecnologie o gli interventi per dotare gli ospedali di attrezzature scientifiche all’altezza e ridurre le liste d’attesa o gli interventi per mettere in sicurezza le scuole elementari o le scuole di ogni ordine o grado o per acquistare attrezzature informatiche o laboratori scientifiche alle scuole dell’obbligo, alle scuole superiori, sfido chiunque a dimostrare che non siano interventi che portano lo sviluppo. Non solo per la ricaduta. Se tu restauri una cattedrale o un ponte fai un appalto e c’è la ditta che lavora, c’è l’operaio, c’è il capo mastro, c’è il progettista eccetera eccetera. Quindi tutte queste azioni anche se indirettamente portano sviluppo. E poi ci sono le azioni proprie dello sviluppo economico, che è uno dei settori a maggior rilevanza. Per noi, per esempio, assorbe il 38% delle nostre redazioni annue che sono ammontate ultimamente a 165 milioni. Il 38% è rivolto al settore dello sviluppo, che vuol dire in modo particolare interventi per la grandi infrastrutture che hanno una ricaduta, direi, in termini di immagine ma in termini anche di miglioramento dei servizi e di sostegno indiretto alle imprese e all’economia in maniere non indifferente. Ovviamente questo, lo ripeto, è fatto e quindi è un motore di sviluppo. Allora il ruolo che le fondazioni possono e devono avere per adempiere alla propria missione di concorrere allo sviluppo economico, è un ruolo di promozione, di sostegno e un ruolo, direi, di affiancamento. Guardate in questo caso però io credo… e quindi è un ruolo, lo abbiamo detto nel nostro congresso nazionale nel giugno scorso a Siena, abbiamo insistito tutti giustamente sul ruolo non sostitutivo ma sussidiario delle fondazioni. Guardate questo credo che sia un tasto molto importante perché definisce quello che è il compito delle fondazioni proprio per promuovere questo sviluppo, perché tutte le azioni sono rivolte allo sviluppo della comunità. E non solo alla comunità di riferimento, perché poi c’è un’altra favola, o un’altra leggenda metropolitana che va smentita, cioè quella dalla autoreferenzialità delle fondazioni e del fatto che le fondazioni guardino solamente al loro territorio. Certo è un territorio privilegiato, però ormai, grazie anche all’opera dell’ACRI, e ringrazio qui pubblicamente il presidente Guzzetti e credo anche a nome di tanti colleghi che sono qui in sala per l’opera che sta facendo di coordinamento che non è facile, perché siamo 88 soggetti con 88 cervelli e con 88 statuti diversi e con 88 punti di riferimento diversi. Metterci insieme, farci ragionare e fare sintesi evidentemente non è facile. Ma questo si sta facendo e si sta superando anche una visione particolare non illegittima, se volete anche giustificata dalla storia degli statuti, però forse un po’ particolare, che ci ha un po’ caratterizzato in parte nel passato, cioè questa visione nazionale delle fondazioni che viene portata avanti. L’onorevole Lupi ne è testimone, il rapporto che c’è con il parlamento, con il governo, a prescindere dal variare delle maggioranze del governo, il rapporto che abbiamo con tutti gli altri enti locali, che è fondamentale, cioè il rapporto con le istituzioni. Io insisto su questo, quindi questa visione nazionale. Gli interventi sono rivolti, ho anche dei dati ma ve ne faccio grazia, gli interventi sono rivolti anche a quello che si fa a livelli nazionale, casse depositi e prestiti, fondazione per il sud. E questo è già un dato fondamentale. Ma c’è un altro aspetto sul quale vorrei soffermarmi prima di chiudere, perché mi pare che sono anch’io vicino al termine. È quello appunto della concezione delle fondazioni. Io credo che dobbiamo rifiutare nettamente, l’ho detto nella mia città, nella mia provincia, l’idea della fondazione come bancomat. Noi sbaglieremmo, perché dobbiamo, è già stato ricordato, specialmente in un periodo di vacche magre o di difficoltà o di penuria, sicuramente di riduzione dei fondi disponibili, dobbiamo puntare sempre di più alla qualità, dobbiamo puntare sempre più all’eccellenza sia dei progetti di terzi che finanziamo sia dei nostri e quindi dobbiamo fare selezione e dobbiamo respingere l’idea che chiunque possa pensare a qualunque soluzione, a qualunque progetto: vengo in fondazione, metto il mio bancomat, la fondazione ti dà i soldi. Non è così. È una concezione sbagliatissima. Dobbiamo puntare alla qualità e al tempo stesso dobbiamo lavorare veramente. Su questo c’è l’impegno massimo, in sintonia, in piena autonomia ma in piena sintonia, con le istituzioni. Guardate, questo è un altro punto essenziale perché lo sviluppo, cioè le scelte fondamentali che riguardano il territorio, non spettano a noi come fondazione. Spettano ad altri, perché le scelte di fondo, le scelte strategiche spettano a che ha avuto il mandato popolare. E noi siamo nominati e non eletti. Questa distinzione è fondamentale. E quindi non possiamo sovresporci rispetto a quelle che sono le istituzioni a tutti i livelli, dal parlamento in giù. Ma neanche possiamo accettare l’idea della fondazione intesa come un bancomat, intesa come un fondo di riserva, intesa come qualcosa a cui si attinge per finanziare qualunque progetto. Ecco allora il ruolo non sostitutivo ma il ruolo sussidiario che le fondazioni possono e devono svolgere. Ed è questo, guardate ve lo posso assicurare, che è veramente su queste linee e con questi obiettivi che le fondazioni stanno operando, consapevoli di poter adempiere veramente al proprio compito, alla propria missione di operare per lo sviluppo. Perché quando riescono a sintonizzarsi con le istituzioni e a compiere scelte, si fanno anche, come dire, si giustificano meglio le scelte che vengono fatte. Perché guardate, a fronte di 1200 domande che noi abbiamo finanziato, ce ne sono state 1800 alle quali abbiamo detto di no. Quindi in teoria abbiamo fatto 1200 contenti e 1800 scontenti. E quindi il conto da un punto di vista dell’immagine forse potrebbe non tornare, se si guardasse questo dato qui. Ma superiamo questo gap, superiamo queste difficoltà, proprio cercando di dare risposte trasparenti, oggettive, risposte da un punto di vista etico non attaccabili e soprattutto anche risposte non attaccabili da un punto di vista di impegno, da un punto di vista di intervento qualitativo e di contributo alla promozione dello sviluppo.
ANTONIO QUAGLIO:
Grazie anche al presidente Mancini, ci avviamo poi velocemente alla conclusione di questo nostro pomeriggio, anche se non tolgo sicuramente i minuti necessari al dottor Sala. Dottor Sala, sia Giorgio Vittadini all’inizio sia poi l’avvocato e anche il presidente Mancini hanno detto che oggi, dopo la crisi, stiamo tutti facendo sviluppo, però è importante che ciascuno rispetti il suo ruolo, anche se tutti devono rispettare il ruolo altrui. Il ruolo dell’impresa profited oriented, quotata in borsa, qual è ai fini della considerazioni che abbiamo fatto oggi?
MARCO SALA:
Beh! Anzitutto ringrazio anch’io dell’invito e soprattutto di essere invitato a questo tavolo estremamente importante e rilevante per l’attività che compie. Io dirò una parola su quello che è la responsabilità sociale e dal nostro punto di vista per l’azienda privata e per l’azienda industriale. Ora Lottomatica è un’azienda che opera nel mondo dei giochi, è un’azienda internazionale, italiana ma con una estensione internazionale, fattura 2 miliardi, è quotata un borsa, è presente in 50 paesi e quindi ha, come dire, una visibilità piuttosto estesa in questo mondo dei giochi. Il mondo dei giochi pubblico, tanto per essere chiari, in Italia gestisce in esclusiva il gioco del Lotto, il Grattaevinci insieme ad altri operatori, è presente nelle scommesse sportive ed è presente negli apparecchi da intrattenimento. Quindi è piuttosto interessante parlare della responsabilità sociale di un’azienda che ha, come dire, questo tipo di settore. Occorre ora dare una piccola definizione di che cos’è per un’azienda con degli azionisti rispetto ai quali bisogna creare il valore, che cos’è la responsabilità sociale. Io penso che quello su cui si è lavorato a livello di comunità europea come definizione della responsabilità sociale in azienda sia molto chiaro, e cioèquando un’azienda su base volontaria decide di farsi in qualche modo carico delle implicazioni sociali del suo operato, sociale, ambientale, in relazione ai vari attori, che per altro sono gli attori di riferimento con i quali l’azienda collabora, interagisce, fa diverse cose. Ora, da questo punto di vista è abbastanza interessante dire cosa succede, cosa significa farsi carico delle implicazioni sociali della propria attività e come si coniuga il farsi carico delle implicazioni sociali della propria attività con la creazione del valore propriamente detto per l’azionista. Incominciamo a fare una serie di esempi perché, quando parliamo degli attori coi quali una azienda interloquisce, noi abbiamo i fornitori, i finanziatori, abbiamo nel nostro caso – siamo un settore regolamentato – le istituzioni, i monopoli. Gli stadi regolatori di tutto il mondo non solo certamente quelli italiani e poi abbiamo i nostri clienti, che possono essere i consumatori finali, come in alcuni casi quando vendiamo semplicemente la tecnologia a degli stati oppure a delle altre imprese, e come tutte le aziende abbiamo una comunità di riferimento. Quando noi abbiamo deciso di occuparci in maniera approfondita, con il pieno accordo e sostegno dei nostri azionisti, della responsabilità sociale, abbiamo definito quali fossero le priorità rispetto ad un’attività così ampia, perché io penso che la responsabilità sociale o comunque le attività relative ad essa sono un divenire, rispetto alle quali uno impara, apprende, focalizza, migliora, e trova anche degli argomenti di ulteriore approfondimento. Certamente il primo punto con il quale noi abbiamo fatto i conti è il tema più ovvio per coloro che si occupano di gioco, ed è l’impatto sociale del gioco. Ora è chiaro che il gioco è un’attività ludica alla quale nessuno si sottrae, ha come dire ottime ragioni per essere considerato un’attività connaturata alle normali attitudini delle persone, va da sé che, quando si superano i livelli di moderazione, si entra in un’area di problematicità nei confronti del gioco stesso. Di qui noi abbiamo deciso di cominciare ad approfondire questi argomenti, di farci carico della comprensione di che cosa significasse gioco problematico e di quali fossero le azioni che l’azienda poteva e doveva intraprendere per cercare di confrontarsi in maniera efficace con questo fenomeno. D’altra parte è evidente che parlando di responsabilità sociale si parla di ambiente, ma noi siamo un’azienda che ha scarse problematiche di tipo ambientale e si parla anche di altri rapporti con altri steckholders. Per brevità, tra gli altri steckholders citerò solo le persone, perché è stato un argomento toccato rispetto al quale anche io vorrei dare un contributo. Parliamo del gioco problematico. Un’azienda come la nostra affronta questo tipo di problema e decide di intraprendere una serie di attività, ma quello che è importante è che decide di intraprenderle e di renderne conto in maniera trasparente alla collettività e quindi attraverso il bilancio sociale abbiamo incominciato a definire qual era il nostro programma di gioco responsabile e quali erano le azioni che ci impegnavamo a fare anno per anno su questi temi. Do degli esempi, perché alla fine la concretezza delle attività deve far perno sulle enunciazioni. Noi ci siamo posti una serie di specifici obiettivi, il primo è stato quello di comprendere, attraverso una ricerca che abbiamo affidato all’Università della Sapienza di Roma, quali fossero gli elementi del gioco problematico, la misurazione degli oggetti che in Italia a qualche titolo correvano il rischio di essere soggetti problematici e abbiamo compreso una serie di elementi sui quali abbiamo cercato di elaborare un nostro comportamento, un nostro codice di autodisciplina, ovviamente questo sempre gestito in collaborazione con l’amministrazione del monopolio di Stato, che ci ha effettivamente sempre supportato in questo tipo di attività, e questo ha comportato che abbiamo incominciato a darci un codice di autodisciplina sulla comunicazione pubblicitaria, abbiamo incominciato a partecipare ad associazioni internazionali che già questo lavoro avevano fatto in altri Paesi, adottandone i criteri e i meccanismi coi quali andare a misurare questi fenomeni, abbiamo deciso di prenderci carico dello sviluppo dei nuovi giochi, di metodologie provate a livello internazionale, che in qualche modo andassero a ridurre gli effetti legati alla problematicità del gioco. Abbiamo fatto un’ampia attività di formazione e informazione nei confronti certamente dei consumatori finali ma soprattutto dei distributori, ovvero i punti vendita, i tabaccai e i bar nei quali il gioco viene erogato, e abbiamo incominciato a misurare questo tipo di attività. Adesso salto qualche passaggio per arrivare all’ultima iniziativa che abbiamo intrapreso, che inizierà nel mese di ottobre ovvero mettere a disposizione dei cittadini italiani uno strumento in base al quale, chiunque sentisse di avere una relazione non completamente serena con il gioco o individuasse all’interno della propria famiglia persone che ritenesse avere problemi con il gioco, possa avere immediatamente, attraverso il gemellaggio che abbiamo fatto con un’associazione, Federserver, un gruppo di persone in grado di dare delle risposte sia telefoniche che ondine, piuttosto che indirizzare a dei centri che possano dare delle risposte a questi tipi di attività. Ora questo è evidentemente un processo, non è qualcosa che si esaurisce, ma rappresenta certamente un elemento con il quale ci vogliamo distinguere nell’attenzione al problema sociale. Ora torniamo un attimo alla domanda: è questo tipo di attività un’attività che nel medio termine riduce il valore, la creazione al livello dell’azienda? È qualcosa rispetto alla quale gli azionisti possano ritenere di dovere rinunciare ad un pezzo del valore? E la nostra risposta è stata no, la nostra risposta è stata che guardare nel medio termine, guardare alla creazione del valore nel medio termine in un settore come il nostro, dove la regolamentazione è fondamentale ma anche dove gli equilibri di relazione tra il giocatore e il portafoglio dei giochi è altrettanto delicato, è un elemento che presidia e mantiene il valore nel medio termine. Non c’è contraddizione tra un tema di responsabilità e un tema di creazione del valore nel medio termine. Può sembrare controintuitivo, uno dice io cerco di dare e strappare nel breve, ma non è la nostra condizione. Non è vero, tanto per aprire una parentesi, che nei momenti di crisi le persone giocano di più. La buona notizia è che non smettono di giocare, quindi effettivamente rispetto ad altri godiamo di un certo beneficio, però è la capacità di costruire da parte degli stati un adeguato portafoglio, di saperlo erogare, nel caso italiano attraverso le imprese private. Anche qui c’è un tema in cui lo stato italiano è stato un po’ precursore della relazione tra lo stato che regola, seleziona i concessionari, li controlla e entità private che poi operano nella attività di tutti i giorni. Nello stesso tempo però bisogna riuscire a creare quelle condizioni di fiducia e trasparenza che sono le condizioni per cui il settore in generale e le aziende in particolare possono andare avanti e creare valore nel tempo. D’altro canto questo porta ad un altro tipo di ragionamento, passo a fare una seconda osservazione, quella della relazione con il nostro regolatore, la relazione con il governo italiano che, in questo senso, ha fatto un’opera di grandissimo sviluppo nel cercare di combattere l’illegalità. Il mondo del gioco è un mondo che si è sviluppato negli ultimi anni in Italia perché si è combattuta l’illegalità, si è fatto un doppio valore, da una parte si è tolta di mano una parte del gioco all’illegalità quando non si parla della criminalità, dall’altra ha sedato un servizio, perché il fatto che il gioco sia regolamentato dallo Stato attraverso delle imprese che si prendono in carico il set dei problemi di cui stiamo parlando, è garanzia per il consumatore finale, cioè protegge il consumatore finale. E’ questo ancora un esempio di come il fatto di intraprendere, di andare, da parte dello stato, attraverso degli imprenditori, a cercare di creare la condizione di legalità e di responsabilità nella gestione del gioco, porta un vantaggio importante anche per lo Stato stesso. L’ultima considerazione che vorrei fare è relativa al tema delle persone. Se noi guardiamo la nostra azienda, è un’azienda in cui se prendo il suo valore aggiunto che è di circa 940 milioni di euro, il 45% è per le persone e se guardo all’Italia in particolare, il 90% è composto da laureati e diplomati. Quindi l’attività che si fa su queste persone, l’ho sentito dire da Vittadini, l’ha ripreso l’avvocato Guazzetti, è fondamentale per la creazione di quelle competenze, di quelle capacità che consentono all’azienda di svilupparsi nel tempo. Ora questo determina il fatto di farsi carico in maniera proattiva rispetto a queste persone, che non diventano semplicemente un costo per l’azienda, diventano una risorsa per l’azienda e di lì ancora una volta però bisogna prendere degli impegni che siano degli impegni misurabili sulla capacità di fare delle cose. Cosa sono degli impegni misurabili? Sono quanto fai di formazione in un anno per il tuo personale, quali sistemi di misurazione delle performance fai, quali sentieri di carriera garantisci alle persone, come gestisci il merito all’interno dell’azienda, sono tutta una serie di criteri che hanno inesorabilmente una capacità educativa che poi diventa patrimonio del sociale. Avendo preso tre riferimenti nei nostri attori di normale interscambio, il cliente finale, e ne abbiamo parlato, le persone, facciamo investimenti piuttosto importanti e continuativi sulle persone, il contributo che diamo al nostro regolatore nella diffusione del gioco legale e nel contrasto all’illegalità, di per sé potrebbero apparire degli elementi che gravano sulla struttura dei costi dell’azienda, in realtà sono, dal nostro punto di vista, i presupposti dello sviluppo e della creazione del valore solido nel tempo dell’azienda stessa.
ANTONIO QUAGLIO:
Grazie, perché era l’unica testimonianza, diciamo, dall’altra parte del mare. Vedevo una scritta che era comparsa sullo schermo, dall’altra parte della barricata e ringrazio molto. Le conclusioni al legislatore.
MAURIZIO LUPI:
Ma anche io ringrazio per questo incontro e per avermi invitato. Sarò brevissimo, anche perché credo che il tema sia stato ampiamente trattato non teoricamente ma attraverso le testimonianze delle fondazioni e devo dire anche dell’azienda privata. C’è poi un incontro importante a cui noi tutti vorremmo partecipare, che è quello delle 5, quindi io ci tengo a dire tre cose ma veramente sintetiche. La prima sul tema della responsabilità sociale. A me è parso evidente, proprio da quello che ho ascoltato e dall’esperienza personale, che la responsabilità sociale per tutti noi, siamo imprenditori, impiegati, operai, bancari, eccetera, non può che essere nell’azione che si fa, legata alla coscienza di dare un proprio contributo alla costruzione di un bene comune. È nella natura dell’azione dell’uomo, qualunque sviluppo essa abbia, la responsabilità sociale; non esiste se non la coscienza che stai dando il tuo contributo alla costruzione della comunità sociale, altrimenti staremmo parlando di individui. Ed è per questo che ha ragione Guzzetti quando, citando le grandi battaglie legate al riconoscimento delle fondazioni (2002 famosa finanziaria, articolo di Vittadini), parla di una battaglia vinta nel senso innanzitutto culturale, perché è il riconoscimento che il protagonista dell’azione di una società è la persona nella sua azione libera e nel suo desiderio di aggregarsi, in tutti i settori, non in un settore piuttosto che in un altro. Abbiamo bisogno oggi di distinguere tra beneficenza o sostegno allo sviluppo, perché la condizione culturale di cui siamo figli relega l’idea della beneficenza, cioè della responsabilità sociale, alle emarginazioni e non ad un fattore sostanziale di sviluppo della società, mentre è un investimento, mentre la storia, lo ha ricordato Guzzetti ma anche l’amico presidente Mancini, dimostra che il fattore di sviluppo di una società è esattamente un uomo che vive con questa coscienza, che è protagonista di sé, della propria capacità, dei propri talenti, ma che nell’essere protagonista dà il proprio contributo alla costruzione comune. È la grande contraddizione e contrapposizione culturale e filosofica dell’uomo economico, che per anni è stato il pilastro di una società ma che poi non tiene, perché se affidiamo tutto alla finanza, all’arricchimento che deriva non dal frutto della propria azione ma dal derivato di una azione che è all’enne, vediamo che prima o poi questa cosa crolla e l’uomo è solo e non sappiamo da dove riniziare. Il mio amico Toccafondi mi ha appena ricordato che, come ha accennato il presidente Mancini, la nascita delle Misericordie è del 1244. Nel 1244 l’uomo si è unito ad un altro uomo e l’unità nasce proprio nella coscienza dell’affronto del bisogno. Per arrivare all’unità d’Italia dobbiamo arrivare al 1861 e la celebreremo…siamo quasi arrivati alle famose discussioni. Secondo passaggio, che mi interessa sottolineare, vado velocissimo, passaggio anche qui fondamentale, quando Guzzetti ha detto che proprio questa concezione è l’antidoto più efficace contro ogni forma di assistenzialismo. Qui c’è, ed è ciò che accomuna pubblico e privato, fondazioni, imprese non-profit, qui c’è esattamente una differenza radicale tra l’assistenzialismo, il mettersi a posto la coscienza andando come a un bancomat – per cui tu vai, hai prelevato e non sai neanche chi ha prelevato e qual è il suo bisogno ma ti sei messo a posto la coscienza – e l’attuazione del principio di sussidiarietà, che è quello che, mettendo al centro la persona sia nella risposta allo scopo sia nella genesi dell’azione, ha l’unica preoccupazione che la persona sia protagonista e non che la persona rimanga sempre bisognosa ma che nell’azione di aiuto, di misericordia, di beneficenza, quella persona che sto aiutando sia messa nelle condizioni di essere sempre più se stessa, di essere sempre più protagonista. È la grande differenza tra l’assistenzialismo ed il concetto di beneficenza storica, di carità. Perché la carità è sempre mossa da un’azione gratuita, cioè da una concezione che siccome io ho tanto ricevuto, posso anche dare. Ma se non parto da me, mi serve che tu rimani nel bisogno, perché avrai sempre bisogno di me. E questo è un elemento non da poco e non indifferente. L’ultima osservazione che faccio è che proprio questo momento di crisi – ne abbiamo discusso in questi giorni al Meeting di Rimini, e ha fatto bene Guzzetti a citarlo perché ne abbiamo avuto un esempio impressionante attraverso l’enciclica del Papa – ci può permettere di ricostruire la casa su fondamenta più solide, e per avere fondamenta più solide abbiamo bisogno di esempi, di testimonianze, di azioni, nelle imprese, nel settore bancario, nella politica come nel lavoro quotidiano, di persone che ripartano esattamente dalla concezione a cui il Papa ci richiama: il principio di sussidiarietà, l’abbiamo detto anche ieri con Draghi, carità e verità. Perché carità e verità possono essere il punto di partenza dell’economia, e lo possono essere anche laicamente – vedrete che domani ci sarà molta discussione da un punto di vista politico su alcuni interventi del mio Presidente della camera sul tema laicità. La laicità non è il problema che un cattolico non può essere laico, la laicità è ciò che mette al centro la persona, la sua capacità di libertà, di responsabilità e di ragione, perché questo può accadere e la legge lo deve riconoscere e non può sostituirsi, perché l’unico motore di sviluppo è la persona, non esiste sviluppo se non nello sviluppo dell’io e della persona, e anche lo sviluppo della società e della comunità avviene attraverso questo. Le fondazioni sono esattamente questo esempio, perché riportano alla natura esatta per cui anche le banche sono nate, perché le banche sono nate esattamente per questo aiuto reciproco. Alla faccia dei laici e di coloro che oggi ci vogliono insegnare queste cose, perché le banche nascono esattamente come banche di mutuo soccorso, come capacità di aiutarsi vicendevolmente proprio per una concezione di un uomo così. Ecco, io vi ringrazio e tra l’altro permettetemi, anche come Intergruppo parlamentare per la sussidiarietà, di ringraziare il presidente Guzzetti e il presidente Mancini, perché a proposito di aiuto alla responsabilità e allo sviluppo di una cultura anche noi dell’Intergruppo parlamentare per la sussidiarietà, utilizziamo piccole risorse per sviluppare la nostra attività di lavoro nel Parlamento, per approfondire e confrontarci su cosa vuol dire nella legislazione e facendo i parlamentari e facendo le leggi, applicare il principio della sussidiarietà.
(Trascrizione non rivista dai relatori)