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RAGIONE E LIBERTÀ: LA GENERAZIONE DI UN SOGGETTO
Ragione e libertà: la generazione di un soggetto
Partecipano: Eddo Rigotti, Professore Emerito allo IALS (Istituto di argomentazione, linguistica e semiotica) dell’Università della Svizzera italiana; Carlo Wolfsgruber, Rettore della Fondazione V. Grossman di Milano. Introduce Giorgio Vittadini, Presidente Fondazione per la Sussidiarietà.
GIORGIO VITTADINI:
Buongiorno, benvenuti a questo incontro dal titolo: “Ragione e libertà: la generazione di un soggetto”. Parlavo adesso con un giornalista che mi chiedeva del tema Meeting e io gli dicevo che il tema del Meeting è quello di una mancanza dell’uomo che se non è guardata in faccia crea un vuoto, da cui nascono tutti i mali dell’uomo. Ma stare di fronte a questa mancanza vuol dire educarci a starci, non è immediato. Oggi, il tema della generazione di un soggetto, dell’educazione di soggetto, è cruciale e non per niente incontri come questi sono più seguiti del Meeting. Cosa vuol dire in particolare l’incontro di oggi? Tratta della consapevolezza che l’uomo ha di sé, che tutto è troppo piccolo per lui. C’è una bellissima vignetta di Charlie Brown in cui Mafalda dice: “Io soffro di claustrofobia nel mondo”. Tutto è troppo piccolo. Ma come, impariamo, ci educhiamo a questa apertura? L’apertura alla realtà è un percorso della ragione. L’educazione ha a che fare con un percorso della ragione. Per noi parlare di istruzione, di parità, di autonomia, ha a che fare con un percorso della ragione, aperta alla realtà. I nostri interlocutori di oggi, che adesso presento, ci parleranno di cosa vuol dire questa apertura della ragione, questa argomentazione. E sembra strano, ma è così, quando uno non ragiona così, allora non è educato ad essere aperto. Allora non sta di fronte a questa mancanza, allora non si accorge di quel che capita nella realtà. Quindi capite che il tema di oggi è fondamentale, perché ci dà il metodo attraverso cui si sta di fronte al titolo del Meeting. E infatti abbiamo due maestri da questo punto di vista, Eddo Rigotti, Professore emerito allo IASL, Istituto di argomentazione, linguistica e semiotica, dell’Università della Svizzera italiana e Carlo Wolfsgruber, che oltre alle sue numerosissime cariche, è anche Rettore della Fondazione Grossman di Milano. Allora do la parola a Carlo Wolfsgruber.
CARLO WOLFSGRUBER:
L’intento del professor Rigotti e mio oggi quello di condividere l’esperienza di un gruppo di persone impegnate in un lavoro educativo che abbiamo intitolato “Accademia”.
Il focus di questo lavoro è costituito proprio dalle parole che danno il titolo al presente incontro: ragione e libertà. La stima della ragione e della libertà è necessaria a quel costituirsi del soggetto a cui il nostro titolo allude.
Il soggetto, che è il nostro obiettivo, è una persona capace di giudizio: l’educazione è perciò una questione centrale per ogni comunità che non voglia rimanere sostanzialmente – al di là di tutte le dichiarate buone intenzioni – insignificante.
Per far capire le origini del progetto di Accademia mi piace far riferimento alla mia vicenda personale. Da giovane sono cresciuto in un contesto culturale – gli anni ’50 del secolo scorso – solidamente borghese, cioè contrassegnato da un razionalismo tanto sicuro di sé nell’operatività spicciola quanto in balia del potere sulle questioni essenziali ed ultime. È stato quindi per me sorprendente e affascinante sentirmi proporre da don Giussani, sui banchi del mio liceo, una ben diversa ragione: «coscienza della realtà secondo la totalità dei suoi fattori». Tale ragione può rimanere adeguatamente spalancata alla realtà stessa solo se costantemente viene agita dal soggetto la «categoria della possibilità», fin quando cioè si è consapevoli con Amleto che: «Ci son più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne contempli la tua filosofia».
Non è questo il luogo per spiegare la novità della citata definizione; mi preme solo ricordare che, a distanza di quasi sessant’anni dal momento in cui l’ho sentita per la prima volta e considerando tutte le vicende della mia vita, devo testimoniare che una ragione così intesa è talmente irriducibile da non essere mai ovvia, mai in realtà del tutto capita, anche se tante volte usata come slogan.
Anche per questo ci è insopportabile quella specie di “intuizionismo” che parla continuamente di “stupore” relegandolo ad un livello extra-razionale o sentimentale e perciò, di fatto, non contenuto di vera esperienza. A quella ragione, invece, appartiene l’esperienza dell’ingruente stupore di fronte all’essere, fino alla sorpresa di sé e della propria presenza nell’essere stesso.
Solo essa ha anche la potenzialità di essere pienamente affettiva, in grado cioè di coinvolgere l’io intero. Quante volte invece mi è capitato di sentirmi dire: “Hai ragione, capisco, ma il mio cuore è da un’altra parte”, e così il cuore, invece che pietra di paragone, punto di responsabilità del nesso tra la totalità dell’essere e la totalità del soggetto razionale, viene ridotto al territorio della variabilità sentimentale. Con il risultato che la persona è inesorabilmente scissa in se stessa, come appare evidente a chiunque si renda conto della precarietà di tutti i rapporti umani nella società attuale.
La difesa della ragione non può non essere contemporaneamente anche difesa della libertà, perché «la libertà è il luogo dove il valore della ragione si attua, si sente, è vissuto» (don Giussani). La libertà può sempre dire: “No”, anche alle ragioni più chiare, ma ogni volta che lo fa, fa violenza a se stessa; comunque, anche in questo caso, la libertà va sempre affermata perché senza di essa non ci sarebbe adesione umana.
La contemporanea difesa della ragione e della libertà, propria e altrui, ci sembra che sia il valore più affascinante ed educativo di un reale sforzo argomentativo.
La mia prima esperienza d’insegnamento risale al ’68 nei corsi serali di un famoso istituto tecnico milanese (di giorno ero ricercatore del CNR al Politecnico) e sto concludendo il mio contributo con la responsabilità di un complesso di scuole dalla materna ai licei, sempre di Milano. Sono quindi testimone di una serie di passaggi che mi ha confermato la percezione della centralità del problema educativo. Quello che c’è in gioco nella scuola non è in effetti il variare di formule che presto si rivelano come inutili tentativi di rianimare un cadavere, perché la scuola come luogo di puro travaso di saperi non è interessante nemmeno per una generazione che, figlia di un certo tipo di padri, vede progressivamente diminuire il proprio interesse alla vita.
Già Péguy nel 1904 profeticamente scriveva: «Le crisi dell’insegnamento non sono crisi dell’insegnamento; esse sono crisi di vita; esse denunciano, rappresentano crisi di vita e sono crisi di vita esse stesse; […] il resto di una società può passare, truccato, imbellettato; l’insegnamento non passa; quando una società non può insegnare, non è che essa manchi accidentalmente di uno strumento o di un’arte [acquistiamo gli iPad o aggiungiamo un’ulteriore certificazione di inglese]; quando una società non può insegnare è che questa società non può insegnare a se stessa; è che essa ha vergogna, è che essa ha paura di insegnare a se stessa; per ogni umanità insegnare, in fondo, è insegnarsi; una società che non insegna è una società che non si ama, che non si stima; e tale è precisamente il caso della società moderna». Le considerazioni sviluppate da Péguy intorno ad “insegnare” e ad “insegnamento” possono essere sicuramente estese ad “educare” e a “educazione”.
Proprio l’amore alla vita e perciò alla sua trasmissione ha motivato in questi anni il nostro impegno educativo.
Non dico amore alla vita degli altri, come se l’educatore fosse chi, presumendo di aver risolto il proprio problema, s’impanca a trasmettitore di soluzioni, a dispensatore di consigli, a novella donna Prassede che sa già perfettamente quale sia il bene degli altri e che aspetta solo che questi le obbediscano. Il vero educatore è innanzitutto interessato alla sua vita e perciò si lascia provocare in una “vulnerabilità” che gli permette di riconquistare ogni volta come esperienza quello che già credeva di sapere come definizioni.
Un giorno chiesi a don Giorgio Pontiggia come mai ogni mattina aspettasse all’ingresso della scuola tutti gli studenti, salutandone personalmente il più possibile. Mi ripose: “Faccio così perché sono essi che mi ridanno quotidianamente la coscienza del mio compito”.
La parola “vita” non l’ho usata in modo generico; vita è una trama di rapporti in cui è implicata la totalità esistenziale e l’irriducibile diversità che ogni persona porta con sé; accogliere e stimare questa diversità come risorsa non è ovvio. Mi è capitato più volte di discutere con genitori che difendevano i loro figli, attribuendo alla scuola le difficoltà da essi incontrate nel percorso formativo; in uno di questi dialoghi, urgendo ad una madre che chiarisse il suo pensiero, mi sono sentito rispondere: “Ma credete forse che a me mia figlia piaccia? Se la sopporto io, perché non dovete farlo anche voi?”. Quella madre credeva sinceramente di difendere sua figlia, ma è evidente che non la investiva di alcuna stima reale; per lei la figlia era una diversità intollerabile. Con queste premesse, tutto quello che la madre può tentare di comunicare alla figlia non avrà mai l’ardore di un fuoco vitale. Se è così in una famiglia, immaginatevi in una scuola!
Rientrato nel mondo della scuola e diventato rettore della Fondazione Grossman dieci anni fa, ho preso progressiva coscienza di essere di fronte ad una alternativa: o perfezionare il sistema già in essere o tentare invece qualcosa del tutto nuovo; ipotesi questa che sentivo più corrispondente al carisma originale da cui le scuole che dirigevo erano sorte. Mi spingeva non la passione per la diversità come tale, ma la convinzione della radicale novità che quel carisma porta in merito alla concezione e all’esperienza di ragione e di libertà, nonché della sua ricaduta in ambito educativo e culturale, fino alla didattica.
Mi sono quindi messo alla ricerca di interlocutori che dessero un giudizio sulla mia intuizione e mi aiutassero eventualmente a svilupparla. Così incontrai il prof. Rigotti e in lui trovai quell’autorevolezza, quell’apertura e quel desiderio di mettersi all’opera di cui sentivo bisogno; il rapporto con lui divenne ben presto una amicizia che, come ogni vera amicizia, è stata subito operativa. Da questi antefatti nacque, nel 2010, Accademia.
EDDO RIGOTTI:
Grazie Carlo. L’intrapresa di Accademia origina da un vivo interesse e un conseguente forte impegno per l’educazione. Intendiamo con educazione né più né meno che il compimento dell’umano.
È quanto propriamente già significava l’espressione latina cultus atque humanitas che indicava qualcosa come cultura o civiltà in quanto coltivazione dell’umano, il far crescere l’umano.
Educare è partecipare una cultura, un sapere, inclusivo di un saper fare, che ci rende capaci di vivere e di convivere da uomini entro una comunità. È ovvio che le comunità dimentiche del compito educativo puntano inevitabilmente alla propria estinzione perché sono fatte di uomini incapaci di vivere in modo umano.
La cultura, e quindi l’educazione, sono il fondamento di ogni realtà sociale messa in piedi dalla comunità, ossia di ogni istituzione. L’istituzione è originariamente un atto educativo: si costituisce e persiste grazie all’educazione.
Vale anche per quell’istituzione che è la comunità dei credenti: praeceptis salutaribus moniti et divina instititione formati audemus dicere proclamiamo con fierezza nel rito della comunione.
In effetti la cultura, e quindi l’educazione che ne è la causa efficiente, sono la risorsa fondamentale di ogni istituzione, anche economico-finanziaria.
È sicuramente una banalità: ma la crisi che ci affligge è largamente un problema di cultura e quindi di educazione.
Abbiamo detto che educare è partecipare una cultura, cioè un sapere e un saper fare che ci rende capaci di vivere e convivere da uomini. Abbiamo anche detto che l’educazione è un compimento dell’umano. Dobbiamo, perciò, subito concludere che il compimento dell’umano avviene attraverso la partecipazione di una cultura, ossia di un sapere e saper fare che ci rende capaci di vivere e convivere da uomini.
In effetti il piccolo dell’uomo è prole inetta; è bisognoso di essere accolto ed educato nel senso originario del termine, cioè allevato. Ha bisogno di essere compiuto. Deve imparare il linguaggio con le sue grammatiche e le sue semantiche, ma, più elementarmente, deve imparare a camminare, a mangiare e bere, a giocare e, forse, anche a ridere. Sorprendentemente, anche i tratti che definiscono l’essere umano nella tradizione filosofica, a ben vedere, non sono innati, ma acquisiti, guadagnati.
Ora, se si tratta di compimento dell’umano, va sottolineato che l’educazione non è un innesto di componenti, né un caricamento di modelli. Fraintendiamo l’educazione ogni volta che la intendiamo come un trasferimento, non importa se di informazioni, competenze, conoscenze o valori, dal docente al discente. L’educazione è un processo in cui tutte queste cose, e altre ancora, sono conquistate dall’allievo che, accompagnato dal maestro, incontra la realtà. Solo se l’educazione è accompagnamento nell’incontro con la realtà – nel cammino dell’autocoscienza, come ben sottolinea Carlo – essa non rischia di essere una manipolazione. Infatti, è, in quanto è totalmente determinata dall’impegno a favorire l’incontro con la realtà che l’educazione è compimento dell’umano. Solo se è favorita l’apertura alla realtà [tutta], se è fatto crescere quel rapporto con la realtà che è lògos – ragione e linguaggio – solo se è aiutata l’autocoscienza di ciò che nell’uomo è più marcatamente umano, c’è compimento dell’umano.
Il compimento non è un’aggiunta che tutt’al più realizza un disegno estrinseco, ma un diventare quello che originariamente ed autenticamente si è: è grazie all’apertura alla realtà tutta volta alla ricerca del proprio significato che il soggetto umano attiva la sua ragione, cioè la differenza che lo contraddistingue.
[Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza (Inf XXVI)]
Educare è aiutare, favorire, non determinare l’apertura alla realtà, nel senso che il lavoro della ragione non opera su comando o per programma. C’è compimento dell’umano se il movimento della ragione scaturisce nel cuore del soggetto, è libero. Quanta ragionevolezza su comando ha preteso di imporsi! Anche in quel compimento supremo di ragionevolezza della ragione che si riconosce bisognosa di un Altro che la soccorra rispondendo alle sue proprie domande ultime – e diventa fede – la libertà è un tratto costitutivo. Dobbiamo per altro non trascurare che il riconoscimento della libertà è un postulato irrinunciabile in ogni forma di dialogo interreligioso.
In che cosa consiste l’accompagnare, l’aiutare? L’idea di educazione come consegna, fornitura di competenze da parte dell’istituzione educativa è una tentazione persistente di chi coltiva l’educazione per assicurare la continuità al potere.
Non si tratta di processi di causazione deterministica. Parole come favorire, aiutare, assecondare alludono a un operare il cui esito è comunque a rischio, se non altro in quanto dipende dalla libertà dell’altro.
Non posso imporre, ma proporre: se l’atto educativo avviene è perché la mia ipotesi è diventata la sua ipotesi.
Insomma egli scopre che la mia proposta risponde, corrisponde alla sua attesa vera. È attivata la dinamica della persuasione, in cui si incontra l’interesse e dunque il desiderio più profondo, la raison d’être.
Essendo la ragione apertura alla realtà, essa è determinata dall’unico principio di aderire alla realtà. La proposta merita obbedienza – è dotata di auctoritas – in quanto si giustifica, cioè sa dare le proprie ragioni (sa provare la sua adaequatio).
Un’educazione vera, cioè un’educazione all’umano, è dunque, oltre che libera, critica.
L’argomentum ex auctoritate, per i medievali infirmissimum (il più debole), gode inaspettatamente nella nostra epoca di un prestigio sorprendente; esso sostituisce gli argomenti appropriati esonerando in molti contesti (giuridico, scientifico, politico, amministrativo) il legittimo decisore dall’argomentare e delegando il verdetto e la sua giustificazione all’esperto di turno.
La nostra epoca rischia di essere marcatamente autoritaria, non solo per questo aspetto.
In un’educazione libera e critica, il compito del dare le ragioni non può essere eluso.
Vorrei dire che una scuola è autenticamente laica, non in quanto si astiene dal proporre un’ipotesi, rinunciando al suo standpoint, ma in quanto sa assumersi il compito della giustificazione, vale a dire si incarica dell’onere della prova.
Se non c’è proposta, non c’è educazione. Quanto più ricca è l’ipotesi, purché sorretta da adeguate ragioni, tanto più adeguata, cioè più umana e più laica è l’educazione. Ma in una scuola così l’autorità del docente sta tutta nella sua capacità di dare le ragioni della sua proposta. Non è poca cosa.
Per farlo non basta che egli trasmetta, magari accuratamente, saperi forniti da altri: deve riappropriarsi dei contenuti del proprio insegnamento.
È per altro soltanto applicando la propria ragione nel vaglio critico della proposta del maestro che anche l’allievo la può fare sua.
Autenticità di un impegno personale e interpersonale e superamento di alcuni falsi miti.
• Una scuola con l’ideale della selettività, che boccia tanto, non è automaticamente una scuola seria, come non è seria un’azienda che fa molti scarti. Non la selettività – come capacità di costruire una graduatoria corretta -, ma l’adeguatezza ai compiti della vita assicura la serietà della scuola. Il primo della mia graduatoria può essere comunque un incapace.
• Si diffonde sempre più il mito della competitività. Non sempre chi vince è il migliore e molti compiti della vita reale, soprattutto i più interessanti (dalla famiglia all’azienda, dalla politica all’amministrazione), non chiedono sempre e soltanto competizione, ma anche, e molto più spesso, interazione e cooperazione.
• C’è una falsa oggettività che punta al puro rispetto delle forme, perché quelle sono “oggettivamente” controllabili (come chi cerca la chiave sotto il lampione anche se sa che è caduta nell’angolo buio del posteggio). Certi insegnanti sono talvolta ossessivi sulla correttezza morfo-sintattica e indifferenti all’incongruità testuale, cioè al venir meno del senso. Gli strumenti sono indispensabili, ma i fini sono comunque più importanti degli strumenti. Questa preferenza per gli aspetti strumentali è di regola dettata dalla paura di venir meno alle proprie incombenze istituzionali.
• C’è spesso una posizione dualista che tiene separati il sapere e i valori, quanto a dire la conoscenza e il suo significato per il soggetto. Ma la conoscenza implica il soggetto: i valori, a ben vedere, dipendono da questa implicazione. L’evento conoscitivo, infatti, non riguarda solo la realtà, ma il soggetto stesso che dalla conoscenza è posizionato rispetto alla realtà. La conoscenza è l’avvenimento di un io che incontra la realtà, entra in familiarità con l’essere e lo attesta. La nostra etica dipende dalla nostra antropologia e questa dalla nostra ontologia. Un sapere indifferente al soggetto è privo di significato e quindi di interesse e impedisce che la conoscenza si realizzi come autocoscienza. I valori, d’altra parte, concepiti, e magari proclamati, senza connessione con la realtà, non ricevono che una giustificazione sentimentale. Il nesso fra il sapere e il suo significato per il soggetto assicura invece la ragionevolezza del giudizio.
• Un rischio molto concreto di approccio educativo inadeguato all’umano dipende dalla frantumazione del sapere. I soggetti coinvolti, sia gli allievi sia i docenti, rischiano di perdere di vista la prospettiva dell’unità della ragione. In Accademia abbiamo perseguito un approccio interdisciplinare che mettesse a confronto I procedimenti delle diverse discipline, superando in particolare la spaccatura fra saperi delle scienze umane e delle scienze esatte.
L’unica vera garanzia di qualità è l’impegno personale e interpersonale dei docenti nel senso che essi rivivono e riverificano la propria esperienza conoscitiva con l’allievo rispettandone e stimandone la libertà e la ragione. Non sarà mai abbastanza sottolineata anche l’importanza della libertà del docente. Ma, come in relazione all’allievo bisogna non dimenticare che la sua libertà diventa possibile solo nella costante sfida alla coerenza ed alla ragionevolezza entro il lavoro condiviso con i docenti, così in relazione al docente la libertà della sua posizione non è arbitrio solipsistico, ma esito della maturazione di un giudizio (non di un’opinione, come ha ben messo a fuoco Carlo) che emerge da uno dialogo rigoroso entro la comunità dei docenti tesa tutta insieme a favorire la maturazione di uomini a loro volta capaci di giudizio. Il solipsismo è irragionevole per almeno tre aspetti: la riflessione sui contenuti può essere affrontata solo entro una dimensione che con Carlo chiameremmo autocoscienza comunitaria della ragione (il soggetto del sapere, l’io del sapere, è, a ben vedere, un Noi); la formazione scolastica vede all’opera non un singolo, magari in rapporto bilaterale con ciascun allievo, ma una comunità di docenti in relazione a una classe; il progetto formativo non può essere che interdisciplinare.
Come si prepara a riferire Carlo Wolfsgruber, in Accademia questi tre punti sono stati notevolmente approfonditi soprattutto nella prima intrapresa di Accademia.
Al tema dell’uso della ragione nell’argomentazione è stata interamente dedicata la seconda nostra intrapresa. Mi limito a una precisazione.
Il nostro interesse per l’argomentazione non nasconde l’intento di aggiungere un’altra disciplina al curriculum scolastico. Come ricorda l’autorevole Aristotele, si tratta di un tipo di ricerca e di una pratica che si estende a tutte le discipline; è comune a tutte senza costituirsi in una disciplina separata: non si impara separatamente ad argomentare. Si è sempre in un contesto. È peraltro l’adozione di un approccio che, come è emerso in una serie di ricerche a cui ho preso parte, apre prospettive notevolmente nuove dalla letteratura al diritto, dall’amministrazione alla gestione aziendale. E non ci si deve meravigliare della sua “facile” applicabilità: in fondo essa è dovuta all’unità ultima della ragione.
Ma tutto sarà ben detto con ben altro vigore da Carlo Wolfsgruber.
CARLO WOLFSGRUBER:
Così io mi permetto di concludere facendo un po’ la storia di Accademia, perché Accademia ha avuto finora due passi. Il primo passo è stato un progetto di ricerca-azione, che si è configurato come Scuola di alta formazione interdisciplinare per docenti dei licei.
Il progetto ha avuto il suo inizio con un Corso residenziale di quasi tre giorni interi svoltosi nel luglio del 2011 e intitolato: “Conoscenza e compimento di sé. Formazione interdisciplinare in Matematica, Scrittura, Storia, Dante”.
Al Corso inaugurale hanno partecipato un centinaio di docenti di Scuole Medie Superiori, che hanno formato ventiquattro team di quattro insegnanti delle quattro discipline scelte come paradigmatiche.
Il Corso si è strutturato in due parti: la prima, in seduta plenaria, dedicata alla spiegazione del titolo e alle forme del ragionare nelle quattro discipline; la seconda divisa per aree disciplinari. Le relazioni del Corso sono pubblicate in un volume della Fondazione per la Sussidiarietà, in collaborazione con la Fondazione Grossman.
Il lavoro dei team, ragionevolmente paragonabile ad un master universitario, è proseguito nell’arco dell’anno successivo con l’elaborazione di dissertazioni composte da una parte comune (macrotema) e dai quattro approfondimenti disciplinari – frutto di studio personale e di verifica in aula – del macrotema stesso (temi d’area). Quindici team hanno portato a termine le dissertazioni, che sono state valutate da altrettante commissioni di esperti; alcune hanno ricevuto la dignità di stampa. Particolare attenzione è stata dedicata alla pratica didattica, evidenziando sia problematiche che emergono in aula, sia risultati conseguiti grazie al lavoro svolto.
La domanda da cui questo primo passo di Accademia è partito si potrebbe formulare così: il mio agire di insegnante è in grado di sfidare gli studenti fino a mobilitarne la ragione? O, in altri termini, è in grado di non deludere le attese della ragione degli studenti?
Per rispondere a queste domande non abbiamo offerto riflessioni in generale sulla ragione o sull’attività didattica; attraverso una certa pratica dell’interdisciplinarietà, abbiamo voluto mettere le condizioni per rintracciare l’unica ragione all’opera nelle diverse discipline.
La parte comune (che abbiamo appunto chiamato macrotema) delle dissertazioni portate a termine rappresenta una documentazione esplicativa della risposta alla provocazione ricevuta. Ricordo alcuni titoli in se stessi significativi:
– la domanda: l’origine del testo;
– la categoria come domanda alla realtà;
– la ragione nel rapporto con il maestro;
– quando brillano le idee: momenti euristici nella dinamica della conoscenza;
– il valore conoscitivo del dialogo;
– quella mossa della ragione che si chiama inferenza;
– l’interessante nelle discipline, ecc.
Ancora per esemplificare, ricordo che in quest’ultima dissertazione – pubblicata on line nel sito web della Fondazione per la Sussidiarietà; altre lo saranno a breve – il team ha lavorato sul passaggio dall’accostamento occasionale del soggetto all’oggetto all’incontro in cui il soggetto scopre l’oggetto nel suo significato e nella rilevanza che assume per la propria persona e per la propria azione; è un approccio al tema dell’interesse [ci si lamenta spesso che i giovani d’oggi non sono interessati a nulla] ben lontano da riduzioni psicologiche o strumentali.
Tra le acquisizioni che questa prima intrapresa ci ha offerto, vorrei sottolineare quella che riguarda la scuola come opera comunitaria. In altre parole, una scuola non nasce né dura semplicemente perché gli insegnanti di quella scuola formano un gruppo, ancorché guidato e accomunato da un logo e da un’organizzazione adeguata. Occorre che gli insegnanti condividano ed elaborino un progetto; perciò è necessario che identifichino, riconoscendolo, un “punto” responsabile che si faccia carico «di una proposta sintetica; ma i docenti devono riviverla, riappropriarsene, farla loro, ridiscuterla profondamente. Altrimenti non si realizza» (Rigotti).
Immaginiamo un consiglio di classe in cui si discuta di programmazione. Ogni docente sarà portato a pensare che si tratti semplicemente di confrontare le diverse opinioni per raggiungere un compromesso praticabile. Però, in realtà, ognuno di essi è portatore – magari inconsapevole – di una visione complessiva della scuola, del suo scopo e dei metodi per raggiungerlo. È decisivo che tale scopo emerga con chiarezza: solo così la discussione approderà al suo livello reale. Ciò è reso possibile dal fatto che qualcuno, che sarebbe giusto chiamare “maestro”, sia in grado di proporre un’ipotesi che si collochi a livello delle concezioni e non dei pareri. Qui avviene il salto di qualità, solo a questo punto il lavoro in quel consiglio di classe diventa autenticamente progettuale e quindi in grado di implicare, valorizzandole, le esperienze di ciascuno.
È evidente del resto che tale dinamica è decisiva anche in tanti altri contesti oltre a quello della scuola.
La seconda intrapresa ha preso avvio nello scorso mese di luglio con un nuovo Corso, anch’esso della durata di quasi tre giorni interi, intitolato: “Argomentare: per un rapporto ragionevole con la realtà”.
L’affluenza al Corso ha superato le nostre aspettative, con oltre trecento iscritti. Circa il 70% dei partecipanti apparteneva al mondo della scuola nella sua interezza: docenti di ogni ordine scolastico (dall’infanzia ai licei), ma anche dirigenti e personale amministrativo. Il restante 30% proveniva da altri contesti: dal mondo universitario a quello aziendale, dalla comunicazione all’ambito giuridico, economico e finanziario.
Il punto centrale è stato la messa a fuoco della ragionevolezza come “virtù” ultima della ragione; in particolare, più specificamente, abbiamo evidenziato l’inferenza come il processo con cui la ragione dialoga con la realtà dei diversi contesti per verificare e dilatare la conoscenza.
Il Corso si è articolato in due parti: una teorico-metodologica di base e l’altra dedicata all’argomentazione nei contesti, attraverso studi di caso. Sono emerse novità e piste di ricerca sorprendenti; ad esempio:
– l’argomentazione nell’infanzia;
– le falsificazioni in storia mediante indebite inferenze che appartengono allo stesso ragionamento (c’è un modo di manipolare che avviene dicendo cose banalmente vere o di falsificare persino denunciando falsi);
– l’interesse per l’oggetto, e non la presunta neutralità, è condizione di buona argomentazione: nessuno argomenta su ciò che è irrilevante;
– l’incidenza dell’argomentazione nei contesti economici e finanziari;
– il peso di antichi temi e antiche polemiche che compromettono il lavoro di chi educa e di chi ricerca, come la falsa opposizione tra saperi umanistici e scientifici, tra ragioni del cervello e ragioni del cuore, tra ragione ed esperienza, tra filologia ed ermeneutica.
Concludendo il Corso, abbiamo detto ai partecipanti – e mi permetto di ridire a voi oggi – che noi amici che abbiamo iniziato Accademia non abbiamo il problema di come proseguire, perché Accademia non è un contenitore da riempire; il nostro continuare vuole rimanere quella opera comunitaria che è fin dall’inizio. In altre parole, ci concepiamo assolutamente strumentali a chi ci chiedesse di lavorare con noi, condividendo con noi la passione per una ragione che, avendo scoperto il gusto di essere usata ragionevolmente, accetta la sfida di entrare con forza argomentativa negli ambiti di interesse di ciascuno e quindi più diversificati.
In questo tipo di disponibilità sento procedere quella scoperta della ragione costitutiva dell’autocoscienza che mi ha entusiasmato come promessa nella mia gioventù. Del resto la vecchiaia non è altro che il realizzarsi dei sogni della giovinezza!
GIORGIO VITTADINI:
Allora siccome siamo in un contesto educativo, è giusto fare anche domande non programmate, per vedere se gli interlocutori sono pronti. Vi faccio per finire una domanda a tre teste, a bruciapelo. Per quello che avete detto, visto che siamo in momento di cambiamento della scuola, quali sono le urgenze più grandi per un insegnante che lavori in un contesto di scuola pubblica e per uno che lavori in una scuola libera?
CARLO WOLFSGRUBER:
Penso che sia lo stesso problema sia per gli insegnanti della scuola pubblica che per gli Insegnanti della scuola…
GIORGIO VITTADINI:
Anche se la scuola pubblica ha un contesto…
CARLO WOLFSGRUBER:
…ha un contesto diversissimo, ma l’insegnante deve avere una sola preoccupazione, fondamentalmente, la riappropriazione in termini educativi della propria disciplina, della propria materia, del proprio sapere, e, in qualche modo, iniziare, condurre, cercare in tutti i modi che il suo insegnamento sia in dialogo con gli altri docenti.
GIORGIO VITTADINI:
Anche se ha un contesto che non determina lui?
CARLO WOLFSGRUBER:
Anche se ha un contesto che non determina lui. Il riappropriarsi in termini educativi non è un’ ideologia, è un’ esperienza ed è un’ esigenza di ogni docente.
EDDO RIGOTTI:
Non c’è nulla da aggiungere, direi che il non fare questo è un modo per coprire il proprio solipsismo, magari con una scusa di etica. Perché è impensabile realizzare il compito educativo da soli e il primo punto è interrogarsi su quel che si insegna e devo essere io il primo ad essere persuaso di quello che insegno, per questo devo ripensare i miei contenuti, i miei saperi. Proprio alla luce di un forte impegno critico – e questo è già un confrontarsi con la comunità di ricerca del mio campo – devo creare un disegno, un progetto in cui la scuola, con la sua proposta educativa, non importa se scuola pubblica, privata o libera possa realizzarsi e questo comporta un situare la propria disciplina nell’insieme delle alte discipline, ragionando insieme agli altri sul perché di una scelta piuttosto che di un’altra.
GIORGIO VITTADINI:
Anche quando gli altri sono ideologicamente diversi?
EDDO RIGOTTI:
E’ una buona opportunità che è offerta di incontrare l’altro, proprio mettendo alla prova la sua ideologia, quindi costringendolo a confrontarsi con la realtà, costringendolo a confrontarsi con il compito che non può non condividere, perché se c’è una cosa su cui tutti gli insegnanti hanno l’ambizione di essere qualificati, di essere legittimati, è che loro vogliono portare l’allievo a crescere culturalmente. E’ un po’ come i giornalisti, noi possiamo parlarne male, però non ho mai incontrato un giornalista che non avesse l’ambizione di dire come stanno le cose. È una sua prerogativa irrinunciabile, così il docente io lo posso accostare ma anche coinvolgere ed anche provocare nell’inevitabile suo desiderio di rendere un servizio all’allievo, di farlo crescere. Se poi troviamo un contesto di perfidia in cui il tutto è dichiaratamente, ostentatamente volto ad altro, è il caso della pubblica denuncia; ma non direi che sia cosi.
GIORGIO VITTADINI:
Noi di solito, per la generazione di un soggetto, prendiamo tante scuse, si può ma in questo contesto non si può, perché è impossibile, perché le condizioni non sono favorevoli oppure partiamo da condizioni antecedenti o posteriori, dall’organizzazione o, come diceva Rigotti, anziché dall’antropologia dall’etica. Invece lui ha detto: la nostra etica dipende dalla nostra antropologia. Allora, la prima cosa che abbiamo visto oggi è che per generare un soggetto bisogna avere un metodo chiaro e niente ferma questo metodo. Ultimamente don Carrón, Presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione, citando don Giussani, diceva che la difficoltà a generare una adulto è la difficoltà ad avere un metodo. Oggi noi abbiamo visto in positivo cosa vuol dire questo metodo, che è un metodo che parte dall’antropologia, dall’esperienza di essere uomini. Tutta la prima parte di Carlone in difesa della ragione, della nostra libertà, in difesa dell’educazione come amore alla vita, ci ha mostrato questo metodo con il bellissimo esempio di Pontiggia, che aspetta il ragazzo per imparare. Ma questo percorso, mi sembra che si possa sintetizzare nell’altra cosa che ha detto Rigotti: la crisi è un problema di cultura, quindi non è un problema di organizzazione, un problema di crisi economica, un problema di condizioni, di contesto. L’argomentazione come uso della ragione per imparare dalla realtà, in un soggetto libero, che non impone, che non usa il principio di autorità, ma persuade, è un percorso teorico che è possibile per ciascuno di noi. Io posso fare questo ovunque, scuola pubblica, scuola libera, ovunque posso condividere un progetto anche con gente diversa e, come diceva Rigotti, se non lo faccio è perché io manco, sono solipsista. Negli ultimi mesi, qualcuno obiettava: non si può difendere la scuola, bisogna difendere solo la scuola libera. Invece no, bisogna difendere qualunque scuola e bisogna difendere la possibilità che un soggetto si esprima ovunque, in qualunque modo. Questa mi sembra veramente una questione importante, perché ci libera definitivamente dal pensare, anche se tutto il mondo intorno ci dice così, che l’organizzazione e l’economia siano il fattore fondamentale per un cambiamento. Se noi vogliamo, possiamo ricominciare ad usare la ragione ovunque. Non da soli ma in rapporto con altri, imparando con altri, costruendo il progetto con altri. Questo mi sembra un punto in profonda sintonia con questo Meeting, in cui i compagni di viaggio possono essere i più improbabili, gente di altre religioni, gente che non ha una religione ufficialmente, gente che viene da altre ideologie, perché condivide il desiderio di usare la ragione che è al fondamento della nostra Fede, del nostro percorso Ebraico-Cristiano, della nostra civiltà occidentale e di qualunque uomo che voglia essere uomo fino in fondo, all’altezza della mancanza che ha.
Avviso importantissimo: siccome un Meeting deve stare in piedi economicamente, abbiamo pensato che una delle forme di libera contribuzione sia il fundraising. Chi vi aderisce riceverà la card della community Meeting, che permette di avere alcune agevolazioni legate al noleggio delle mostre itineranti ma soprattutto l’agevolazione di aver usato bene la ragione. Grazie!