RACCONTI MINIMI SU ENZO JANNACCI. UN CAFFÈ CON…

Racconti minimi su Enzo Jannacci. Un caffè con...

Andrea Pedrinelli, Giornalista, critico, saggista musicale e teatrale. Introduce Giorgio Vittadini, Presidente Fondazione per la Sussidiarietà.

 

GIORGIO VITTADINI:
Diamo inizio a questo incontro che riprende un tema che già c’era l’anno scorso, quando c’era la mostra su Guareschi e Jannacci. Quest’anno ospitiamo tra noi uno dei più grandi critici musicali, non solo di Jannacci: Andrea Pedrinelli, che è giornalista e storico della canzone. Ha lavorato su Baglioni, Ron, i Pooh, Giorgio Gaber, divulgando anche nelle scuole. Ha pubblicato un libro, Roba minima (mica tanto), che è la più approfondita biografia su Enzo Jannacci. Adesso sta ancora lavorando, uscirà un volume sulla canzone a Milano per Hoepli e un altro su Abbado. E’ un competente amico di Jannacci che potrà quindi farci rivivere un personaggio che è nel cuore del Meeting, perché è nel cuore del titolo dell’anno scorso e di quest’anno: periferie esistenziali e tema della mancanza. Il suo è un lavoro critico ma divertente, non paludoso. Una sorta di introduzione spettacolo.

ANDREA PEDRINELLI:
Era il 2011 quando, ascoltando spesse volte Enzo Jannacci, i suoi dischi di tutte le epoche, a un certo punto mi sono un po’ arrabbiato perché mi sembrava che non fosse considerato come meritava. Secondo me è al livello di quelli che unanimemente consideriamo i padri della canzone d’autore: Fabrizio De Andrè, Giorgio Gaber, per certi versi Francesco De Gregori. Allora mi sono detto: “Fai qualcosa tu per ricordare, se credi veramente che Jannacci meriti un’attenzione diversa”. E così nacque un piccolo spettacolino che ho fatto con Susanna Parigi e che Enzo approvò in vita: era un racconto di quello che mi aveva detto nel corso di tante interviste e del centro del suo pensiero, della sua vita, della sua persona, mescolato con le canzoni che lui considerava le più importanti della sua opera, che non sono quelle famose. Con alcune di quelle famose aveva un rapporto di odio, più che di amore. Passa il tempo, Enzo se ne va e mi sono chiesto come fare per portare avanti la sua memoria. Allora mi è venuto in mente che a Milano c’era un signore che si chiamava Franco Trincale, che era un cantastorie che stava in piazza Duomo e piazza San Babila: attaccava l’amplificatore, prendeva la chitarra e raccontava alla gente le cose che riteneva necessario raccontare. Allora ho detto: “Tu sei giornalista, fai la stessa cosa”. E così è nata questa piccola idea dei racconti minimi che non sono altro che un raccontarvi lo Jannacci che ho conosciuto. Una piccolissima testimonianza, passando per le sue parole e per gli aneddoti dell’esistenza di una persona che si definiva in questo modo: “Io sono matto ma non sono scemo”. Ed è vero. Nel senso che lui era matto, e su questo vi fornirò esempi chiari, ma non era scemo. Anzi. Era molto attento al perché faceva le cose. Mi permetterò qua e là di leggervi dei testi di canzone che vi possono far capire quello che era nel cuore di quest’uomo e perché valga la pena tenerlo vivo come facciamo, magari in automatico, con esponenti della letteratura o di altre arti, mentre la canzone è sempre un po’ purtroppo sottostimata in questo Paese. Jannacci un giorno mi ha detto, e uso questa frase come introduzione: “Vedi, la mia è soltanto la storia di un giovane chirurgo che a un certo punto si è reso conto che non poteva fare a meno delle canzonette, perché c’è bisogno di chi saltimbanco vive, di chi saltimbanco canta, di chi saltimbanco muore”. Era il ’98. E lui era questo, uno che saltimbanco ha vissuto, che saltimbanco ha cantato e saltimbanco è venuto a mancare. Laddove saltimbanco significa artista, quello che si prende l’onere di guardare la realtà per conto nostro e di provare a spiegarcela, raccontarcela tramite la sua arte. Vorrei iniziare leggendovi un testo di una canzone poco nota di Enzo, che è un misto di battute e di emozione, e che la frase che vi ho appena detto ripete in forma poetica. Ma è la stessa cosa, l’esigenza vitale di fare canzoni: “Perché quando sto male mi dici «E’ tutta una ruota che gira?». Perché quando ti dico: «Porta un’amica», arrivi con una che sembra un mirtillo, e per di più se la tira? Perché cerco lavoro, eh, non lo trovo. E non ci ho mai una lira. […] E mi chiami straccione. Forse è per via della sciarpa del Milan che fa poco pendant con una faccia marrone. Forse perché è troppo l’odore che mi porto dietro di uno che non c’ha mai avuto una lira. E con l’aria che tira, però a me piace pensare che quando un musicista ride, depone il suo strumento e ride, non ha paura della semplicità. Quando un musicista ride è perché ha dentro una gioia strana ma vera. Sente che anche la sua angoscia è buona perché è la sua tristezza che suona. E’ come in un concerto: piove all’aperto ma lui sorride ancora e gli viene voglia di cantare”. Questa canzone del ’98 con cui Jannacci è andato a Sanremo, giungendo ultimo, è una sintesi della sua poetica. Jannacci nasce a Milano nel 1935. La madre era comasca, sarta di professione ma in realtà casalinga per tutta la vita. Il papà è una figura particolare, per Enzo molto importante: durante la guerra ha combattuto da aviere anche difendendo i cieli di Milano dai bombardamenti, poi è stato commesso viaggiatore, poi sindaco di Ospedaletti, Paese della Liguria dove è venuto a mancare, e lì ha fatto diverse cose per gli altri. Il problema di Enzo è che lui, essendo nato nel ’35, ha conosciuto la guerra, la miseria, l’emarginazione in prima persona. Un giorno, durante un’intervista, mi ha detto: “Tu devi pensare che io a 12 anni ero piccolo, brutto e terrone. È ovvio che poi ho scritto certe canzoni. L’ho vissuta sulla pelle, l’emarginazione”. Inizia a cercare di esprimersi per uscirne con il jazz. È anche un ottimo pianista jazz. Però, si rende conto subito che il jazz non ha parole, quindi non può esprimere quello che ha dentro. E allora inizia a fare il rockettaro. I primi esperimenti sono lievemente deludenti. A 19 anni fa una tournée in Germania come pianista di una band che accompagnava Adriano Celentano. Celentano nel ’59 era un signor nessuno in Italia, figuratevi in Germania. Il problema però era che gli impresari tedeschi avevano avuto un forfait di un artista che doveva tenere una serie di concerti in Germania e hanno chiamato questo italiano. Peccato che l’artista in questione fosse Elvis Presley. La prima sera si sono trovati davanti venti persone, poi si è sparsa la voce. Il giorno dopo erano in due. A quel punto hanno interrotto la tournée e, con il compenso che gli era stato dato, sono riusciti a raggiungere faticosamente Monaco di Baviera dove il chitarrista della band, Nando De Luca, che poi ha lavorato tanto con Enzo, aveva all’epoca una fidanzatina, e si sono fermati qualche settimana in città. Finché, a un certo punto, si sono stancati e sono tornati tutti a Milano. E lì è finita la prima esperienza. Seconda esperienza: Jannacci aveva conosciuto al liceo un signore che si chiamava Giorgio Gaber. Decidono di fare un duo, perché Nanni Ricordi, grande talent scout dell’epoca, ritiene che siano bravi e allora prova a lanciarli. Si chiamano I Due Corsari e realizzano sei dischi. Come ha detto Gaber, a vederli erano divertentissimi. Ci sono un paio di testimonianze televisive che lo confermano. Il problema è che i loro dischi non si vendevano. Il risultato di vendita di questi sei dischi è stato zero. Fine del secondo esperimento di Enzo Jannacci. Gaber nel frattempo trova la sua strada: entra in Rai, era un po’ più ben educato, perfettino. Jannacci, per sua fortuna, direi oggi, era già il Jannacci che conosciamo. E di conseguenza, Nanni Ricordi prova a produrgli una serie di dischi 45 giri e lo porta al primo provino. Oggi incontreremo tre provini di Enzo: 1961, Jannacci va in Rai davanti a una commissione di esperti e propone una canzone che lui amava tantissimo perché la riteneva una sintesi della denuncia dell’emarginazione. La canzone si intitola Il cane con i capelli e parla di una cane che ha i capelli e di conseguenza è emarginato dagli altri cani, perché ha i capelli, e dagli umani, perché è un cane. Si presenta a voce sola, dicendo di essere diplomato in triangolo al conservatorio. Ha definito la sua canzone “progressista”. “Il cane con i capelli, quando andava per la strada, si molleggiava: se passava davanti a una vetrina, si rimirava, si pettinava i suoi capelli che erano fitti e belli, disperazione dei suoi fratelli: «Non si è mai visto un cane con i capelli». Voleva sembrare un altro, si illudeva di essere diverso perché in strada la gente lo guardava. Lo guardava e gli accarezzava i suoi capelli. Un giorno convinto di essere diverso il cane con i capelli entrò in una tabaccheria e disse: «Tre sigarette, mi dia tre sigarette!». Nessuno rispondeva, non gli davano retta anche se aveva dei bei capelli, non si era mai visto un cane con i capelli”. Qui finiva il brano. Non ci fu una risposta entusiastica nel provino, ci furono dei segnali visivi di tornare a casa in fretta. Poi a casa lui ricevette una lettera che – raccontava poi, non so se fosse vero o se fosse solo una delle sue esagerazioni – aveva mandato nel panico la madre che credeva fosse la cartolina precetto per una delle guerre degli americani. Invece era la Rai che gli scriveva: “Lei è inadatto a fare l’artista”. Il problema è che Nanni Ricordi aveva finito i soldi perché Il cane con i capelli lo aveva pubblicato sul 45 giri ma c’era pure allegato un cane gonfiabile con un parrucchino che costava più del disco. Quindi, non solo il disco non aveva venduto niente ma era stato una perdita terrificante. La famiglia Ricordi aveva detto a Nanni: “Noi ti vogliamo bene ma Jannacci via dai piedi, non ci interessa”. Fortunatamente, era un periodo diverso da quello di oggi: c’erano tante case discografiche e tanti talent scout. Allora Nanni Ricordi alza il telefono e chiama un suo amico che si chiamava Ezio Leoni e aveva lanciato Tony Dallara e una serie di altri personaggi e gli dice: “Senti, questo qui è bravo, tu hai un’etichetta più piccola, prendilo tu”. Ezio Leoni non sapeva niente di Jannacci ma nel frattempo Jannacci aveva fatto il suo secondo provino. E qui dobbiamo ringraziare il fatto che Gaber nei primi dieci anni della sua vita non è stato il Gaber che abbiamo conosciuto ma un artista “commerciale”, perché a Milano c’erano due signori, che si chiamavano Filippo Crivelli e Roberto Leydi, che avevano deciso di creare uno spettacolo teatrale musicale per ripercorrere i primi cento anni della storia di Milano dall’Unità d’Italia, dal 1861 al 1961. Avevano già scritturato il grande attore Tino Carraro, avevano scritturato Millì, grandissima voce di Milano e non solo di Milano, avevano scritturato delle cantanti popolari che venivano dal piccolo teatro di Strehler e volevano un cantante moderno. Chiedono a Gaber ma lui, che ha già successo come chansonnier, ha tutto l’anno impegnato nelle balere. Di conseguenza dice: “Non posso venire, vi mando un mio amico, provate a sentirlo”. Allora Leydi e Crivelli fanno il provino a questo signore di nome Jannacci Enzo che arriva e, mi ha raccontato Crivelli, dice: “Posso farvi sentire una cosa mia, inedita?”. E loro: “Accidenti, è proprio quello che ci serve per completare il percorso dalla ricerca storica alle canzoni di oggi”. E allora Jannacci, con la chitarra sotto il collo perché suonava così, all’inizio, ha attaccato quello che Crivelli ha definito “l’urlo del coyote”, che io non oso proporvi. E’ una sorta di verso straziante acuto, sovracuto, direi anche, che è rimasto come introduzione di Andava a Rogoredo, la canzone che propose a loro e che sembrerebbe la prima canzone che lui ha scritto. Oggi come oggi sarebbe successo quello che è successo in Rai: “lei è matto, vada a casa e trovi un lavoro, non è il caso”. Invece eravamo nel ’61, Crivelli e Leydi si guardano e dicono: “Questo è forte, questo è geniale. È meglio di Gaber perché non è commerciale, non è compromesso con lo star-system. E’ meglio di Dario Fo (l’altro astro nascente del periodo) perché non segue degli schemi mentali rigidi. Lo prendiamo subito”. Lo fanno sentire a Carraro che lo trova bravissimo, a Millì che se ne innamora perdutamente subito ed Enzo Jannacci, sconosciuto, debutta a Milano nello spettacolo Milanin Milanun, che è la storia di Milano per canzoni. Qui lui presenta le canzoni che lo renderanno famoso. Tra il ’62 e il ’63, a teatro lui canta Andava a Rogoredo, M’han ciamà, Ti te se no e La luna è una lampadina che Fo aveva scritto ma non aveva trovato nessuno così pazzo da interpretarla in maniera sensata. E invece Jannacci ci riesce. Canta El purtava i scarp de tennis, L’Armando e diventa un fenomeno. Il suo secondo provino lo supera alla grande. Quando dico fenomeno, dico che Cesare Zavattini disse: “Ecco finalmente il neo-realismo nella canzone italiana”. Luciano Bianciardi, scrittore, s’innamorò di lui a tal punto da scrivere le note di copertina di quello che sarebbe stato il suo primo disco. Umberto Eco dice che è un genio. Fiorenzo Carpi, musicista del Piccolo, gli fa armonizzazioni ed arrangiamenti perché riconosce la sua esagerata bravura. Dario Fo sin da subito lo aveva preso sotto la sua ala, perché aveva riconosciuto un talento “a cui”, vi riporto le parole che ha detto Dario Fo, “non ritengo di avere insegnato niente perché non aveva niente da imparare”. E quindi, Ezio Leoni può produrre il primo 45 giri di Enzo Jannacci che è già la sintesi di Enzo Jannacci. Questa canzone non ve la leggo perché la so a memoria, ve la racconto. C’è il pudore e c’è la malinconia, sicuramente c’è la capacita di leggere la società con una grande pietas, con una grande umanità, con una grande dolcezza, c’è anche la rabbia di denunciare qualcosa che non va bene, ma con pudore. Tanto è vero che la canzone inizia chiedendo scusa se si vuole raccontare qualcosa che la gente magari non ha voglia di sentire.

Recita il testo della canzone: El purtava i scarp de tennis

Questa canzone Jannacci la cantava in maniera che è stata definita schizoide, con una voce straniata, chioccia. Lui cantava benissimo quando voleva, ma aveva capito che cantando alla Bindi, alla Paoli, alla Tenco, cioè tutti i suoi amici e colleghi, non avrebbe trovato uno spazio suo. E allora si costruì un linguaggio che era proprio costruito, cioè in parte era lui e in parte era una scelta ben precisa. Con questo linguaggio, non solo si è trovato la stima della cultura dell’epoca e la scrittura a Milanin Milanun, ma è riuscito anche a portare in televisione, da dove era stato buttato fuori qualche mese prima, delle denunce ancora più forti. Perché El purtava i scarp de tennis è stata portata in televisione senza censure, malgrado parli della morte di un senzatetto nell’indifferenza più totale della gente. Anzi, una censura c’è stata, perché lo costrinsero a cantare che la ragazza era bella e rossa come il bicolore perché non si poteva dire tricolore. Questo va sul conto della storia della Rai. Era così strano che non sembrava che dicesse le cose importanti che stava dicendo. E così Enzo Jannacci diventa Enzo Jannacci. Fa una serie di successi più culturali che commerciali e poi, a un certo punto, anche il buon Ezio Leoni finisce i soldi. Ho avvicinato Tony Verona, l’ultimo discografico che ha prodotto Enzo Jannacci, quando abbiamo presentato il lavoro su di lui al club Tenco, e gli ho detto: “Senta, spero che lei colga che in questo lavoro c’è amore per Enzo, non voglia di speculare, anche perché è nato con Enzo in vita, non con Enzo già morto”. E lui mi ha detto: “No, senti, io sono convintissimo che nel tuo lavoro c’è amore, perché con Enzo non si guadagna una lira”. Se lo diceva lui che aveva prodotto i dischi, insomma… Ezio Leoni a un certo punto è costretto a lasciar stare, però ritorna Nanni Ricordi che nel frattempo si è trasferito a Roma. Qui la RCA sta lanciando tutti quelli che ancora adesso, temo senza grandi eredi, sono i cantautori che abbiamo in giro, da De Gregori al compianto Dalla, da Ron fino a Baglioni, Venditti e Renato Zero. Stava lanciando Mia Martini, avrebbe lanciato di lì a poco gente come Mango. Era una nuova scuola e Nanni Ricordi riesce a farsi dare una piccola etichetta dove produrre quelli che la casa madre giudica i fallimentari, per cui Enzo Jannacci era perfetto. Il problema è che deve fare il suo terzo provino, questa volta a Roma. Enzo Jannacci aveva un difetto: quando vedeva un giovane di talento, soprattutto nelle scene del cabaret, lo aiutava. Senza Jannacci, non avremmo avuto Paolo Rossi, Abatantuono, Faletti, Massimo Boldi, Teo Teocoli e soprattutto Cochi e Renato. Lui li vede ragazzini in un club del milanese, li prende e li porta ad esibirsi con lui. Loro scrivono delle cose tipo La gallina è un animale intelligente e Jannacci dice: “Bella, questa, vi faccio la musica, venite con me a Roma al provino per la RCA”. Voi immaginate questi sciamannati nel ’67, sulle macchine d’allora, che fanno Milano-Roma, Jannacci, Cochi e Renato. Io non so cosa sia successo nel viaggio, so come è finito. Sono arrivati alla RCA e sono entrati nella sala dove c’erano tutti i grandi discografici della RCA di Roma. Dovevano presentare il pezzo con cui Jannacci avrebbe dovuto debuttare nell’etichetta e già che c’era Jannacci faceva conoscere questi due sconosciuti. Cochi e Renato eseguono La gallina davanti ai funzionari dell’RCA. Mi ha detto Cochi Ponzoni che gli hanno detto che erano due deficienti e che dovevano andare a lavorare, o meglio, tornare a lavorare perché in effetti già lavoravano. Jannacci qui inizia ad arrabbiarsi e dice che avrebbe fatto sentire il pezzo suo. Era una cosa che inizialmente aveva scritto con Dario Fo, però Dario Fo era nel momento del massimo impegno ideologico e l’ideologia è una brutta bestia, a volte non ti fa capire che c’è un limite di buon gusto, per cui c’era una strofa in questa canzone che diceva “Si potrebbe andare tutti quanti in Belgio nelle miniere a bruciare tutti con il grisù”. Jannacci, che aveva visto il lavoro e la fatica di suo padre, era rimasto molto segnato dalle stragi dei nostri migranti nelle miniere e si cambia il testo per conto suo. E Fo mi ha detto che a posteriori è stato bravo, ha avuto ragione lui. La canzone, come avete capito, era Vengo anch’io. No, tu no. Lui la presenta come la conosciamo, quindi senza gli estremismi di Dario Fo. Quelli della RCA lo ascoltano e poi gli dicono: “Lei è deficiente. Viene da El purtava i scarp de tennis, da Sei minuti all’alba sulla Resistenza, non può cantare questa schifezza! Si prenda del tempo e scriva un’altra cosa”. La sfortuna dei dirigenti della RCA è che i tre non tornavano a Milano dopo il provino ma andavano a Napoli, e non per una gita, ma perché Jannacci era ospite d’onore in prima serata Rai di un programma televisivo condotto da Antoine, quello che adesso si fa i viaggi per il mondo, che una volta cantava delle pietre. Per cui, vanno a Napoli, Antoine presenta in diretta televisiva Jannacci e Jannacci attacca un monologo sconclusionato e violentissimo. Tutti vanno in barca: Antoine, i dirigenti presenti, quelli che a Roma stanno trasmettendo. Cosa sta succedendo? È ubriaco. Vanno in barca tutti tranne due categorie di persone: la prima categoria sono Cochi e Renato, che avevano capito che lui stava attaccando le censure avute nel provino in RCA. Ha detto Cochi: “Noi dietro al palco morivamo dal ridere”, perché c’erano continui riferimenti a questi personaggi e a queste cose. La seconda categoria che si accorge sono i dirigenti della RCA, ovviamente, i quali il giorno dopo, sempre per usare le parole di Cochi, per evitare guai maggiori, chiamano Jannacci e dicono: “Senta, Cochi e Renato sono giovani, li capiamo, ne parleremo più avanti. Vengo anch’io. No tu no ce la porti che la incidiamo, così non ci pensiamo più”. Vengo anch’io. No, tu no va in Hit Parade, a dimostrazione che i discografici ci prendono anche molto, tra l’altro. E’ la prima delle due volte nella sua carriera in cui Jannacci è in Hit Parade, la seconda sarà con Ci vuole orecchio. Allora funzionava che un disco non durava due mesi, durava un anno, per cui, a distanza di qualche mese dall’uscita di Vengo anch’io. No, tu no, l’RCA, visto che funziona, manda Jannacci in Rai a partecipare a Canzonissima. E Jannacci si presenta con Vengo anch’io. No, tu no e sbaraglia la concorrenza, stravincendo le prime manche della manifestazione. Si arriva in semifinale e allora Enzo dice: “Adesso ce la posso fare, posso dimostrare che la canzone italiana non è solo compromesso con l’industria, banalizzazione. Attacco”, quello che all’epoca era l’artista emblema di queste cose, si chiamava Gianni Morandi, “lo distruggo e vinco io. Però bisogna cambiare canzone, quindi alzo il tiro e presento Ho visto un re”. Cos’è successo me l’ha raccontato Enzo, una delle poche volte in cui l’ho visto con le lacrime agli occhi, non per la commozione ma per la rabbia. Dovete tenere presente che la Rai, la radio, rigava i dischi di Jannacci (se andate negli archivi, si vede) con segni di biro, sono intrasmettibili. Ho visto un re, che era entrata in Hit Parade, la trasmetteva facendola precedere da un’annunciatrice che diceva: “Questa è la farneticazione di un folle”. Questo era il clima. E lui mi ha detto “Ok, nel ’68 fare una canzone come Ho visto un re il sabato sera in televisione era rischioso: c’erano i moti, poteva scoppiare un grande casino. Però, quando mi hanno censurato, fu un momento di disperazione massima, perché la Democrazia Cristiana mi impediva di cantare una canzone in televisione. E allora ho deciso di piantarla. Ho scelto la medicina, me ne sono andato via e non volevo più essere frainteso”. Vengo anch’io. No, tu no, se ci pensate, ancora oggi è spesso considerata una canzone divertente, mentre invece parla di emarginazione a più livelli. Il divertimento è la chiave per fare arrivare la denuncia a tutti ma la denuncia c’è, quindi Jannacci ripiega su una canzone che – se non la conoscete, vi consiglio di cercarla – si intitola Gli zingari: è bellissima, poetica, struggente. Decenni prima di De André, canta il dramma degli zingari, appunto, che girano da uno Stato all’altro in povertà, eccetera, però quella canzone è troppo difficile, e quindi, ovviamente, Canzonissima la vince Gianni Morandi. E lui fa il medico, ma fa il medico veramente. E qui merita una piccola parentesi. Allora, Jannacci era un medico vero, si era laureato in Chirurgia Generale nel ’67 alla Statale di Milano, e quando decise di lasciare la musica per fare solo il medico, andò in America, dove si specializza in Pronto Soccorso, facendo Pronto Soccorso ad Harlem. Immaginate un immigrato italiano che nel ’72 fa Pronto Soccorso ad Harlem. Poi vi leggerò una cosa che è collegata a questo periodo. Torna in Italia e si specializza anche in Cardiochirurgia infantile e fa il medico per due o tre anni, con l’unico problema (c’è un aneddoto famoso che si è ripetuto in più modi) di trovarsi di fronte ai malati che aprivano gli occhi e dicevano: “Ma sono al Pronto Soccorso o in televisione?”. E lui si arrabbiava perché ci credeva davvero. Ad un certo punto anche i medici iniziano a fargli la fronda. Io, quando ho cercato di testimoniare per il libro Jannacci medico, ci ho messo mesi a trovare un medico, uno solo, che mi abbia raccontato Jannacci medico, perché c’era molta invidia nei suoi confronti, perché lui era bravo. Ad un certo punto la gente lo amava, quindi volevano farsi curare da lui, all’inizio perché era famoso, e quindi lo invidiavano perché era famoso, e poi perché capivano che era bravo. L’unico suo difetto, mi diceva questo medico, questo collega, è che si prendeva troppo a cuore i malati, e questo per un medico può essere un problema. Cioè, lui finiva il turno alle 4 del mattino, andavano a mangiare insieme, a un certo punto questo professor Nervetti, che esercita anche a Milano, vedeva Enzo scattare in piedi. Gli diceva: “Dove vai?”. “Eh, vado in ospedale a controllare il dosaggio della flebo”. “Ma, scusa, abbiamo finito il turno. C’è là un altro”. “Eh no, ma io vado a vedere, perché ci tengo a quel signore lì”. Era un po’ questo, il concetto di Jannacci. E ad un certo punto, siccome lui con la sua fama riusciva anche a ottenere i fondi che gli altri non riuscivano ad ottenere, si stufa delle dicerie che mettono sul suo conto (la più grande l’ha detta qui, davanti a tot persone, era che fosse un ubriacone. Ma quando? Ma non poteva fare il medico, se fosse stato un ubriacone. Assolutamente no. Era un modo per neutralizzarlo) e ritorna a fare le canzoni. Però Jannacci medico merita un paio di aneddoti. Allora, come curava Jannacci i suoi pazienti? C’è lo Jannacci delle corsie, quello che dopo è tornato alle canzoni e ovviamente non può più fare la carriera di medico. Di conseguenza, fa il medico part-time e quindi fa soprattutto Pronto Soccorso, oppure lavora come volontario per gli extracomunitari, per gli immigrati. Ho visto un’intervista televisiva in cui gli chiedevano: “Ma Jannacci, perché lei sta a Milano d’estate in un ambulatorio per nullatenenti e immigrati?”. E lui (chi l’ha conosciuto sa qual è lo sguardo di quando si arrabbiava) guarda la telecamera, a un certo punto, cattivissimo, e dice: “Ma secondo lei, la gente d’estate non si ammala?”. Questo è lo Jannacci medico, serio. Poi c’è lo Jannacci che, quando andava in tour, si portava anche la valigetta del medico. E il problema per i suoi musicisti non era ammalarsi ma ammalarsi con lui in tour, perché loro si ammalavano e lui subito assumeva un’espressione professionale, prendeva la valigetta e andava: “Che sintomi hai?”. E loro gli elencavano i sintomi. “Ah”. Apriva la sua valigetta e, siccome era molto appassionato anche di ricerca farmacologica, prendeva anche tutti i vari farmaci, alcuni magari non ancora sul mercato, che contenevano i principi attivi che avrebbero curato i vari sintomi, li polverizzava in un unico beverone, che alternativamente, a seconda, o iniettava direttamente in vena al malcapitato oppure faceva bere. Paolo Rossi potrebbe raccontarvi un esempio straordinario, in cui pensava di morire. Allora il malcapitato dice: “Enzo, ma sei sicuro?”. “Certo. Cioè, tu soffri di questo, questo, questo e questo. Queste quindici pastiglie messe insieme curano tutto”. “Sì, Enzo. Ma si usa?”. “No, ma la medicina è sperimentazione su basi di conoscenza della chimica, eccetera”. “Sì, ho capito, Enzo, però io sto male”. “Sono un medico, ti rianimo io”. C’è un suo musicista che racconta, con un’espressione secondo me straordinaria, che lui con Jannacci “ha vissuto ed è morto”. Cioè, lui un giorno è stato male, ha bevuto di queste cose, è andato in collasso cardiocircolatorio, Jannacci l’ha rianimato. Comunque sia, a un certo punto Jannacci ritorna a fare l’artista in una maniera diversa, rinunciando alle canzoni troppo ironiche, che potevano essere fraintese. Lui mi ha detto una cosa molto forte, perché il suo ritorno d’artista è una canzone che conoscerete tutti, si intitola Vincenzina e la fabbrica. Io gli ho detto: “Ma perché quando sei tornato hai voluto fare una cosa del genere? Meno male che la gente ti ricordava per una serie di cose diverse”. E lui: “Il problema è questo: la tragedia, quando sei timido, non la capisce nessuno. Quando la gente, invece, ha riso una volta, allora poi tenta sempre di trovare una scusa per ridere ancora. E, quindi, se non fai più il matto, non vai più bene, oppure travisiamo tutto come è successo per Vengo anch’io. No, tu no. E allora io mi sono tolto tutte le maschere, quello che un artista non dovrebbe fare mai. Ho scelto anche l’italiano, perché in milanese era difficile farmi capire. E in una notte – assieme a Beppe Viola, aggiungo io – ho scritto una canzone in cui c’è tutto: ci sono i miei tormenti personali, c’è la fatica che ho visto in mio padre e c’è la società. E quella canzone, Vincenzina, fu la chiave di volta, perché da lì in poi ho iniziato a scrivere delle cose diverse”. Cose che non porteranno Enzo nelle Hit Parade, se non casualmente con Ci vuole orecchio. Lo porteranno, invece, a Sanremo, perché a Sanremo si può andare in molti modi: si può andare da artisti pop nobili a cantare canzoni magnifiche – non so, Perdere l’amore, Uomini soli, eccetera – e si può andare da cantautori a cantare La Paranza. Poi un giorno mi spiegheranno perché fanno certe cose. Oppure si può andare come Enzo Jannacci. “Adesso che è finito tutto, sono andati via, c’è la pioggia che scherza con la saracinesca della lavanderia, ma io, io aspetto. Aspetto che l’acqua magari non se lo lavi via, quel segno del gesso, di quel corpo che han portato via. E tu, maresciallo, che hai continuato a dire «Andate tutti via, andate via che non c’è niente da vedere, non c’è niente da capire». No, io credo, io credo che ti sbagli, perché un morto di soli tredici anni è da vedere. La gente magari fa anche finta, ma le cose è meglio fargliele sapere. Tu guardala, la fotografia. Non sembra neanche un ragazzino, io sono quello col vino e lui è l’unico senza il motorino. Era l’unico a non capire di essere stato sfortunato a nascere in un Paese in cui anche i fiori hanno paura, dove il sole è avvelenato. Lui non sapeva quanto poco fosse un gioco, giocava col destino, il destino col grilletto però, e la sua faccia nel mirino. E adesso che è finita la pioggia e tutto il gesso se l’è portato via, io lo che ti spiace, maresciallo, ma era mio figlio. E forse è tutta colpa mia, perché in certi malgoverni, se in famiglia il padre ruba, anche il figlio a un certo punto vola via. E anche lui non era lì per caso, anche lui sparava. Forse il gioco era già stanco, non si è accorto neanche che moriva. Ma tu guardala, la fotografia. Non sembra neanche un ragazzino, e tutto il resto è facce false, facce della pubbliciteria, tutto il resto è musica brutta, fatta solamente con la batteria. Tutto il resto è guerra, è sporca guerra, in stile mafieria. No, tu guardala, guardala la fotografia”.
E questo brano, che è arrivato non so bene come, ma comunque è stato Premio della Critica, Enzo lo spiegava in una maniera molto chiara. Qualcuno saprà che quando Enzo Jannacci ha fatto i trent’anni di carriera, ha fatto un disco dal vivo in cui compariva facendo il gesto dell’ombrello in copertina per far capire subito, insomma, che era un po’ diverso dai soliti cantautori: si intitolava Trent’anni senza andare fuori tempo. Siccome era matto ma non scemo, senza andare fuori tempo non era solo una battuta, ma lo spiegò in una lettera aperta a un giornale allora molto di moda, Be Bop a Lula, il seguito cartaceo del programma di Red Ronnie che dava spazio agli artisti per scrivere cose in prima persona. Spiegò cosa significava “senza andare fuori tempo”, quindi spiegò la fotografia, quindi la mafia a Sanremo, a cui aveva fatto precedere la droga a Sanremo, salvando poi decine di ragazzi dalla droga, a cui avrebbe fatto seguire I Soliti Accordi su Tangentopoli, sempre a Sanremo. “La gente non si rende conto. Io una volta mi sono trovato negli Stati Uniti in un club di basket, e negli Stati Uniti il basket lo fanno soltanto i neri. E lì sei tu il diverso. Bisognerebbe pensarci a queste cose, raccontarle, denunciarli, trent’anni senza andare fuori tempo è perché andare fuori tempo significa razzisti, essere attenti alle convenzioni, ai soldi – siamo nel 1989 – ma il potere intellettuale è molto più grande del potere economico. Una canzone può creare una rivoluzione perché ti rimane in testa, diventa popolare, però bisogna farle con giudizio”. Quindi, matto ma non scemo, appunto.
Vi racconto un aneddoto divertente, che riguarda I Soliti Accordi. Va con Paolo Rossi a Sanremo a fare I Soliti Accordi, che è contro Tangentopoli. Ultima sera. La regole erano che i cosiddetti Campioni del Festival di Sanremo dovessero dire due parole al microfono prima di esibirsi per l’ultima volta. Quindi, Pippo Baudo chiama Enzo e dice: “Enzo, vieni, dì qualcosa sul pezzo che stai per proporre”. Jannacci disse (la testimonianza è di Paolo Rossi ma c’è anche la registrazione dell’epoca): “Guarda, Pippo, vorrei dedicare questa canzone a tutti coloro che combattono la mafia, di cui tu hai fatto parte”. Ovviamente lui voleva dire che Baudo aveva combattuto la Mafia, però detta così è suonata agghiacciante. Baudo non sapeva cosa rispondere, non capiva se aveva sbagliato o faceva sul serio. Jannacci, cercando di correggere, ha fatto un pasticcio ancora peggiore. Lì però ci fu la prima testimonianza degli artisti che oggi vediamo uscire dai talent, con questa pazzesca aggressività, che salvò la situazione. Il giovane che si era esibito prima di Jannacci e Rossi aveva sputato sul palcoscenico dell’Ariston una cicca. Oggi, se non fai così non vinci un talent, ma all’epoca era una cosa nuova e per fortuna loro Paolo Rossi è rimasto appiccicato a questa cicca. Baudo, appena ha visto che Paolo Rossi non riusciva più a muoversi perché aveva la scarpa attaccata al pavimento, ha dribblato il tentativo di dedica di Jannacci, ha liberato Paolo Rossi e li ha mandati con Dio a fare la loro esibizione. Jannacci ha scritto un giorno una canzone in cui spiegava cosa significava per lui fare canzone, che è appunto non andare fuori tempo. In questa canzone, che si intitola Quando il sipario calerà, si vede un palcoscenico che si smonta e tutta la gente che sale a portare via tutto quello che serve a fare un concerto di cosiddette canzonette. L’elettricista sul palco vede tutta questa gente e dice: “Ma vale tanto, una canzone?”. Io un giorno ho chiesto a Jannacci: “Tu cosa rispondi all’elettricista della tua canzone?”. E lì Enzo mi ha risposto, commuovendosi davvero: “Ti racconto una cosa che sanno in pochi. Io ero a Roma in piazza del Popolo, c’era Vengo anch’io, No tu no al primo posto della Hit Parade. Due bambini da lontano mi guardano e capisco che mi riconoscono. E ti confesso che mi ha fatto piacere, perché non mi riconoscevano già a Milano, che finalmente qualcuno mi riconoscesse. Si sono avvicinati. «Tu sei quello di Vengo anch’io. No tu no?». «Sì, sono io». Uno dei bambini mi guarda in maniera più strana e fa: «La canzone bella non è quella lì. La canzone bella è il lato B, perché io lo ascolto e piango»“. Ecco, il lato B non è una canzone di Jannacci ma una poesia brasiliana di cui si era innamorato: e ha fatto una musica meravigliosa, traducendola in italiano in maniera letterale. Perché è uno dei pochi cantautori che non aveva pudore di dire che quando trovava una cosa scritta meglio da qualcun altro la prendeva, se gli apparteneva. Mi disse: “In quella canzone ci sono io: c’è la mia ironia, c’è la mia disperazione. È cantata in maniera sincera. Ed è così che vale una canzone, perché se ne accorge anche un bambino che non solo l’apprezza ma addirittura si commuove, un bambino, ascoltandola”. Sentite: “Giovanni telegrafista, stazioncina povera. C’erano più alberi uccelli che persone, ma lui, lui aveva il cuore urgente, senza bisogno di nessuna promozione, e batteva, batteva su un tasto solo. Ellittico da buon telegrafista, tagliava fiori e preposizioni, per accorciare parole, per essere più breve nella necessità. Poi conobbe Alba, un’Alba poco alba, neppure mattiniera, anzi, mulatta. Ma un giorno fuggì, l’unico giorno in cui fu mattutina. Per andare ad abitare in città grande, piena luci, gioielli. Inutilità alfabeto Morse in mano a Giovanni telegrafista. Cercare Alba, cercare Alba in ogni luogo provvisto telegrafo, ma quando invecchia com’è dolorosa l’urgenza! Giovanni telegrafista e nulla più. Per le sue mani passò mondo che rese urgente, crittografico, rapido, cifrato, passò prezzo caffè, matrimonio Edoardo VIII, le cavallette in Cina, la bomba volante, passarono molte cose. Passò anche notizia matrimonio Alba con altro. Giovanni telegrafista, quello dal cuore, urgente, non disse parola. Solo tre rondini nere senza la minima intenzione simbolica si fermarono sul singhiozzo telegrafico. Alba, Alba, è urgente”. Ecco, io mi ritengo fortunato ad avere conosciuto Enzo Jannacci, che negli ultimi anni mi ha detto che si sentiva più aggredibile e quindi faceva venire fuori meno la sua timidezza, certe scontrosità del carattere. E mi disse: “Io voglio, finché posso, dare. A Giorgio (Gaber, ndr) piaceva piacere. A me piace dare, provare a dare qualcosa”. Il giorno del funerale di Enzo, a Sant’Ambrogio, a Milano, io non sapevo cosa mi sarei trovato davanti, sapevo solo che volevo esserci. Sono arrivato un’ora prima e c’era la piazza – conoscete Sant’Ambrogio, non è una vera piazza – zeppa di gente, così zeppa che alcuni VIP non sono riusciti a entrare, perché pensavano fosse il solito funerale con i posti riservati. Mentre – e faccio il nome perché ci tengo, perché è un segno di eleganza e di cultura e mi piace ricordarlo – Renzo Arbore era presente un’ora e mezza prima per trovare posto e dare l’addio a Enzo Jannacci. Io ho fatto finta di niente: se mi bloccano dico che sono giornalista, tanto non mi siedo, rimango in piedi, non porto via posto a nessuno. Sono arrivato fino di fianco all’altare. Ho visto chi c’era. C’era la gente. Fuori c’erano i barboni. C’era un barbone con un enorme registratore e continuava a mandare le canzoni di Jannacci. Quando il feretro è partito per il Famedio del Cimitero Monumentale, c’è stata molta gente normale che ha gridato “Ciao! Ciao Enzo!”. Enzo non vendeva dischi. Quando Jannacci faceva le sue trasmissioni televisive, avveniristiche, a volte incomprensibili, le mandavano alle tre del mattino. Jannacci era scomodo, eppure c’era la gente al suo funerale. A me piace salutarvi con una canzone che conoscono in pochi, che fa parte di uno dei suoi ultimi lavori e che secondo me dimostra quanto anche lui sia stato un poeta, come De Andrè, come Gaber, come altri, e come però dentro la sua poesia ci fosse la realtà concreta, quella che ha fatto sì che il suo funerale non sia stato uno spettacolo per la televisione ma un abbraccio della gente comune, anche se quella gente probabilmente non aveva mai comprato un suo disco, visto che non li vendeva.
“Una vita difficile, questa è la mia vita. La nostra vita. Buona per nessuno, come fosse sospesa lassù nel cielo, con due ali di cartone. Ma se una vita è insipida, contrariamente anche a quello che uno desidera, provi con l’indifferenza: no. Provi con la pietà: no. Provi con le bugie, e anche i passeri che ti osservavano sono scappati via. No, una vita difficile è come fosse dipinta negli occhi di un bambino, un bambino bellissimo che chiede l’elemosina sul ciglio di una strada. Questa è la mia vita, la nostra vita. Buona per nessuno, questa è la mia vita”. E questa è la vita di Enzo Jannacci, che avrebbe voluto come epigrafe “medico, fantasista”.

Data

21 Agosto 2015

Ora

13:45

Edizione

2015

Luogo

Sala Poste Italiane C2
Categoria
Incontri