Chi siamo
QUI E ORA
Presentazione del libro di Luigi Giussani (Ed. BUR, Milano). Partecipano: Giancarlo Cesana, Docente di Igiene all’Università degli Studi di Milano Bicocca; Oscar Giannino, Giornalista. Introduce Emilia Guarnieri, Presidente Fondazione Meeting per l’amicizia fra i popoli.
Il testo dell’incontro è pubblicato nel libro “La conoscenza è sempre un avvenimento”, edizioni Mondadori Università.
EMILIA GUARNIERI:
Buon pomeriggio, benvenuti a questo incontro conclusivo della 30° edizione del Meeting. In questi giorni il gusto di vivere, il gusto di incontrare, lo abbiamo visto in azione, lo abbiamo visto “qui e ora”, come recita il titolo del libro che presentiamo oggi. Abbiamo visto che un umano bello, positivo, desideroso e capace di costruire, esiste. Abbiamo visto che questa possibilità abbraccia i confini del mondo perché mai come quest’anno il Meeting ha confermato e documentato la sua vocazione internazionale. Ma abbiamo visto anche che questa umanità è contagiosa, affascina, incuriosisce, provoca a desiderare cose grandi, fa scoprire di avere un’anima buona, come diceva Miguel Maňara nello spettacolo della prima sera. Anche chi non pensava forse di avere un’anima buona, un’anima capace di desiderare, in questi giorni se n’è accorto. E tutto questo è accaduto non come una magia, non come in un’isola felice, che può durare una settimana per poi svanire nei prossimi giorni, quando cominceranno le prime brume di settembre e ognuno, tornato a casa, ritroverà il grigiore del quotidiano. Perché il quotidiano, il quotidiano di ognuno di noi, non è stato assente neppure in questi giorni. Siamo stati qui, con questo gusto di vivere, di incontrare, con questa percezione di uno spessore grande per la vita. Siamo stati qui portandoci addosso tutto di ciò che siamo, e come noi, tutti quelli che sono venuti, portandoci addosso la fatica, le malattie, il dolore. Ognuno di noi sa quanto di fatica, di malattie, di dolore, di preoccupazioni economiche, di contraddizioni, di fragilità abbiamo condiviso anche in questi giorni. E quindi, tornando a casa, l’esperienza vissuta in questi giorni, poiché è stata un’esperienza vera, un momento di vita reale, non appunto una magia, non sarà una nostalgia, perché il mondo è già un po’ cambiato, perché un po’ cambiati siamo noi e abbiamo visto che è proprio vero, come diceva Giussani, che le forze che cambiano la storia sono le stesse che cambiano il cuore dell’uomo. Credo che non possiamo non avere la percezione, oggi, che la storia è un po’ cambiata, che in questo Meeting sono accadute delle cose che sono un po’ un cambiamento della storia. Ma tutto questo è accaduto perché è cambiato il nostro cuore, è cambiato il cuore delle persone che sono venute. E a partire da ognuno di noi, i famosi tremila volontari, si è generata quella mossa umana, quella tensione ideale che ha coinvolto tutti, per cui chiunque è venuto qui – ospite, visitatore, relatore -, se almeno per un istante è stato leale con ciò che vedeva, cioè con la sua esperienza, non ha potuto fare a meno di riconoscere che quello che si vedeva era un po’ una cosa dell’altro mondo. E allora, se vogliamo essere fino in fondo laici, non possiamo non dare credito a quello che vediamo, non possiamo non dare credito all’esperienza, invece che ai preconcetti o alle ideologie. E se vogliamo essere veramente ragionevoli, non possiamo non cercare di capire quello che abbiamo visto. Questa lealtà e questa ragionevolezza, quando ci sono state, hanno generato l’avvenimento della conoscenza che in questo 30° Meeting abbiamo vissuto.
Il Meeting si conclude anche quest’anno con la presentazione di un testo di don Giussani, questo non è un rito, lo dicevamo anche prima in conferenza stampa, non è un rito ma piuttosto il riconoscimento di una consapevolezza che è la genialità educativa di don Giussani, della sua amicizia, che sono all’origine anche di quella esperienza umana da cui il Meeting è generato. Oggi la presentazione di questo libro, Qui e ora, che è l’ultimo testo uscito delle Equipe, è affidata – non credo che occorrano moltissime presentazioni anche se le facciamo – a due amici e a due volti a tutti noti per il Meeting: Oscar Giannino e Giancarlo Cesana. Oscar Giannino, già ospite del Meeting, già amico di tantissimi di noi, torinese, penna acuta e suggestiva che continuiamo ad amare e a leggere, è stato direttore di Libero Mercato dalla fine del 2007 al marzo del 2009, era stato in precedenza vicedirettore di Finanza e Mercati, vicedirettore del Riformista, responsabile di Economia e Finanza del Foglio, vicedirettore di Libero settimanale, capo redattore di Libero mensile, portavoce, ai tempi, del Partito repubblicano italiano, caporedattore e poi direttore de La Voce repubblicana. Perché Giannino è qui oggi a presentare il libro di Giussani? Non so se avete letto Il Sussidiario di oggi: in un intervento, Giannino dice che un incontro occasionale con don Giussani è stata l’occasione per rimettersi in cammino, guardando in fondo al cuore. Credo che questo sia uno spunto che lui ampiamente svilupperà nel suo intervento, ma che ci fa capire che cosa c’entra Giannino con la presentazione di oggi. Cesana è appena arrivato, mi pare che lo abbiamo accolto come si accoglie uno che desideravamo arrivasse. Ci siamo fatti il Meeting senza Cesana, ci facciamo almeno l’incontro finale con Cesana. Sapete che è reduce da una brutta polmonite. Cesana è professore di Igiene all’università degli studi di Milano Bicocca, dove insegna Medicina del Lavoro e Storia della Medicina, è direttore del Centro Studi di Sanità pubblica presso il San Gerardo di Monza, autore di numerose pubblicazioni scientifiche, recentemente nominato Presidente della fondazione Ospedale Maggiore Policlinico di Milano. La sua biografia ufficiale nel catalogo del Meeting termina con “è di Comunione Liberazione”. E poiché Giancarlo è di Comunione e Liberazione, e non lo è da ieri, ha condiviso con don Giussani anche gli anni dell’esperienza cui il libro si riferisce. È un protagonista del libro che oggi presentiamo. Do ora la parola a Oscar Giannino.
OSCAR GIANNINO:
Consentitemi innanzitutto di chiamarvi con il nome che scelgo di darvi e la promessa che voi dovete aspettarvi uno che si spaccerà per uno di voi. Io faccio molti incontri nel Movimento, molti amici e amiche mi chiamano e ogni volta mi riprendono perché io dico sempre voi e non uso mai il noi. Dopo molti anni che ho iniziato il cammino riguardo al mio cuore, il cuore di chiunque sia vivente su questa terra, il coraggio di dire noi ancora non ce l’ho. Chiedo scusa di questo e vi chiamo all’inizio cari fratelli e care sorelle, ma non userò il nome. Sono dieci i punti che vi ho riservato, parlando un po’ a braccio delle cose che mi hanno colpito di questo libro. Ve ne parlo con la gratitudine di chi fa un cammino grazie a don Giussani, con la gratitudine di chi si abbevera, ogni volta che viene invitato da voi in giro per l’Italia. Ma penso che, in un mondo in cui è fin troppo facile appuntarsi distintivi e medagliette, e menare vanto di parlare di un movimento come questo, del suo fondatore, in un plurale che integra, questo possa avvenire solo il giorno in cui l’ultimo di voi potrà dire noi parlando come me, e non certo il giorno in cui io posso prendermi la libertà di usare il pronome noi. Quindi, sorelle e fratelli, la discrezione deriva dal rispetto, anche perché io conduco una vita pubblica, faccio il giornalista. Sono tutte professioni che oggi metto in un angolo rispetto a quello che dico. In realtà, hanno a che vedere consequenzialmente con il cammino che ho percorso grazie a don Giussani, ma solo consequenzialmente, la radice non è questa, la radice è ciò che porto dentro e ciò che lui mi ha risvegliato e ciò che voi, interagendo con me, risvegliate anno dopo anno. Ebbene, in effetti, di questi dieci punti, i primi due riguardano aspetti puramente personali, prima di arrivare al libro. Il primo punto riguarda mia madre, pensate un po’. Il mio rammarico, insieme al mio stupore, deriva dal fatto che un’unica volta nella vita ho avuto l’occasione personale di incontrare don Giussani. Ed è stato quando, all’inizio degli anni ’90, ho iniziato a cambiare il corso della mia vita. Io sono cresciuto in una cultura, non solo fieramente laica e laicista, ma dichiaratamente ed esplicitamente anticlericale, per chi non lo sapesse. Ho fatto quella scelta quando ero ragazzino: me ne sono andato molto presto da casa, essenzialmente come reazione, tra le tante cose, alla fede di mia madre. Una fede popolare, una fede fatta di recite del rosario continue, di litanie dei santi, una fede che ai miei occhi appariva allora, quando ero nei primissimi anni dell’adolescenza, tutto ciò che io non volevo. Ai miei occhi era la fede dei vinti, il cristianesimo degli schiavi. Io vivevo all’epoca in un quartiere operaio, più del 70% dei voti andava al partito comunista, a 13 anni avevo già una tessera di partito in tasca. Era un’altra Italia, un’Italia che non penso si debba rievocare con nostalgia, un’Italia molto violenta, in cui animammo nei nostri licei scontri durissimi: giravano pistole, si facevano attentati. In quell’Italia io sono cresciuto abbracciando una visione laica, laicista, anticlericale. Facevo campi estivi, pensate, dove si portavano adolescenti, miei coetanei e anche ragazzi più giovani, ad imparare canzoni del repertorio risorgimentale anti-ecclesiastico. Giravamo la notte andando fuori dalle canoniche e insegnando canzoni come: “Bruceremo le chiese e gli altari, bruceremo le ville e le regge, coi budelli dell’ultimo prete impiccheremo il Papa ed il Re”. Ecco, io vengo di là. Devo pregare di non applaudire, perché ci ho messo molti anni a rivedere le mie opinioni, veramente c’è poco da applaudire! Dovete sapere che mia madre si è portata nel cuore per anni – mia madre è ancora viva, spero come tutti che il Signore me la preservi – la convinzione che io fossi una prova che la vita le dava. Perché ho fatto cose abbastanza discutibili, ho finto conversioni per ribellarmi di fronte ad una cresima e mettermi ad urlare di fronte all’arcivescovo che la officiava: insomma, cose sulle quali non vi voglio intrattenere. Però mi colpì questo incontro, l’unico personale con lui, a quattrocchi, che avvenne in Vaticano: al punto 2 capirete perché avvenne in Vaticano. Don Giussani si fermò con me e mi parlò di mia madre. Ho capito dopo che in realtà don Giussani era stato messo sulle mie tracce da amici del movimento, contro i quali io avevo condotto la lotta politica nei miei anni giovanili a Torino. Don Giussani improvvisamente si mise a parlare di mia madre, che si chiama come si chiamava la sua. Mi disse esplicitamente che c’era una cosa che dovevo imparare: mi scusi se mi permetto, da qualche anno la seguo e le voglio dire solo una cosa. C’è una cosa che secondo me lei deve imparare, faccia i conti con la fede di sua madre, qualunque sia la conclusione. Io avevo già iniziato il mio percorso ma quelle parole di don Giussani sono per me obbligatoriamente il primo punto da trattare, per parlare di questo libro, perché, da allora, tutti i giorni che Dio manda in terra io faccio i conti con la fede di madre. Devo ringraziare lei e don Giussani per avermi richiamato a questo, perché per anni la missione di mia madre, di tutte le madri, come molte di voi sono, grazie al cielo, è stata quella non di piegarmi, non di convincermi con la forza, ma di propormi ogni giorno un esempio, ciò che voi sapete benissimo da don Giussani essere la forza vera dell’essere comunità: l’esempio, l’interrogazione. Quindi, scusate se questo primo punto si è esaurito così, nella memoria di mia madre, nel rendere grazie a lei e a don Giussani che seppe vedere che quello era il filo che io dovevo ricondurre. Ma veniamo al punto due – e qui finisce poi ciò che dico sulla mia famiglia -, a mio zio. Perché io stavo in Vaticano? Perché mia madre ha un fratello che, dopo aver percorso per anni, come Nunzio apostolico, il mondo nella carriera diplomatica, sta da un bel po’ di anni nella Segreteria di Stato. Pensate a come era diverso il mondo quando ero impegnato in politica, da adolescente: dalla metà degli anni ’70 in poi, battevo i paesi dell’est come osservatore del Terzo Cesto dell’Atto di Helsinki e andavo a conoscere e a rompere le scatole al comunismo reale. Avevamo l’immunità diplomatica: eppure, quando giravo il mondo toccavo le nunziature, e ai miei occhi l’incolpevole mio zio era l’inveramento di tutto ciò che non mi convinceva della Chiesa istituzione, tutto ciò che – devo usare un verbo forte, mi scuso con voi – mi ripugnava della Chiesa istituzione. Le contraddizioni più patenti, tra la povertà, la miseria, l’oppressione, l’illibertà di tanta parte del mondo all’epoca, e ciò che vedevo delle nunziature, della vita diplomatica, agli occhi di un adolescente invasato della propria cultura erano la conferma della scelta diversa che avevo fatto. Ovviamente, con gli anni, alla luce del mio percorso, il rapporto con mio zio è molto cambiato, anche se gliene ho fatte di tanti colori, di brutti colori, quando ero adolescente. Mi è capitato mesi fa di chiedergli cosa avesse pensato lui di don Giussani. Mio zio mi ha risposto: guarda, tu sai che io economizzo le parole quando si tratta di dare un ruolo alle figure nella chiesa, perché sono molto attento, agli aspetti istituzionali ed al peso che la chiesa istituzione ha per svolgere la sua missione nel mondo – ciò che io non capivo quando ero più giovane -, eppure devo dirti che a mio giudizio don Giussani è stato un profeta, e sai che non uso questa parola leggermente. Vi dirò la verità: avevo appena ricevuto l’anticipazione di stampa del volume di cui ora inizio a parlare, e quando mio zio, di cui conosco e apprezzo l’economia dei toni, usò, a proposito di don Giussani, la parola profeta, ebbi un sussulto, perché subito mi è venuto in mente il passaggio che trovate in questo libro a pagina 364. E’ un passaggio in cui don Giussani interveniva ad una equipe. Sapete che queste sono le trascrizioni delle equipe del 1984 e del 1985. Per me è stato il Giussani più utile, quello delle trascrizioni delle equipe, ve lo devo dire fuori dai denti. So che molti di voi sono abituati a considerare i volumi concepiti come libri da don Giussani come la guida della propria esperienza e del proprio interrogarsi quotidiano. Per me è avvenuto il contrario. Io non faccio altro che anelare che le centinaia, forse migliaia di pagine di inediti che ancora ci sono degli incontri di don Giussani con gli studenti, con gli educatori, trovino presto dignità di stampa, perché per me il don Giussani più utile, per scavare nella pietra che era il mio cuore, è quello delle trascrizioni degli incontri con gli studenti, con gli educatori, con i capi della CLU. E’ l’incalzare dai resoconti con nuove domande, con citazioni delle scritture, con poeti, con filosofi, quello che mi è stato più utile e che continua a essermi più utile, non avendo mai io avuto la fortuna di partecipare ad una di quelle equipe. Quando mio zio ha detto profeta, io sono riandato immediatamente a pag. 364, laddove don Giussani, intervenendo in un equipe, dice: ho adocchiato il testo di un volantone che forse useremo per la prossima Pasqua, un brano di introduzione al cristianesimo di Ratzinger. E dice don Giussani che dopo il Papa – all’epoca Giovanni Paolo II -, Ratzinger è certamente la più grande benedizione di Dio per la Chiesa di oggi. Questo è un brano di venticinque anni fa. Quando mio zio ha detto profeta, io ho pensato a queste parole pronunciate venticinque anni fa. E quel brano di Ratzinger è un brano in cui si pone la domanda centrale intorno alla quale ruota don Giussani nei testi di questa equipe, e tutta l’opera di don Giussani educatore. E’ un brano che inizia con la domanda: chi è, chi è stato Cristo? Questo punto due, che è l’ultima parte delle mie memorie famigliari, si identifica con questa domanda, la domanda dalla quale ha ripreso il mio cammino, che non chiamo di conversione ma di ricerca. Perché io venivo da una cultura nella quale il problema storico di Cristo era un problema aperto. Mi ero formato a una scuola di esegesi biblica, laica, grazie a un grande insegnante di scuola bultmaniana, quindi protestante, per cui per me il Libro era molto noto ma era un testo da ripercorrere alla luce dell’albero delle fonti, più che per ciò che era scritto e rivelato nel libro. E allora la domanda chi è, chi è stato Cristo, è stata per me l’inizio del mio, dapprima faticoso, poi sempre più convinto e sempre più gaio e felice, percorso di riappropriazione dei temi trattati in questo libro. Però, vedete, nei punti che seguono, d’ora in poi, io mi metto in ideale colloquio non con voi ma con il mondo da cui provengo. Se ha un senso che io intervenga di fronte a voi che mi siete maestri di don Giussani, se ha un senso che io lo faccia, ha un senso perché gente come me, nel pieno di un percorso faticoso, possa volgersi indietro e parlare con rispetto, ma anche con grande determinazione, al mondo da cui vengo, al mondo laico, al mondo agnostico, al mondo ateo, non per convertire nessuno – non è il mio mestiere -, ma per porre delle domande a loro che sono le stesse che mi sono posto io. Quindi, tutti gli altri otto punti saranno all’insegna di questo, di un ideale dialogo con un mondo che io ho imparato a non giudicare, a differenza di come quel mondo giudica voi e chi è credente. Mi ha colpito due giorni fa, sul Corriere della sera – il più grande giornale italiano, un giornale che considero storicamente, al di là delle interpretazioni dei diversi direttori, una palestra di equilibrio massimo in questo tempo in cui sui giornali prevalgono gli spaccatutto – come è stato presentato l’intervento di Tony Blair da questa tribuna. C’era un occhiello che diceva: “Ultras del Papa, fede e ragione possono coesistere”. La mia domanda è: vi rendete conto che, per il mondo da cui provengo, dire che fede e ragione possono coesistere, che dovrebbe essere la linea preferenziale seguita dal mondo mio di appartenenza, ex di appartenenza, viene considerato oggi essere ultras papisti? Ecco come vi giudicano. Ma io non giudico loro, vedete: per me, c’è una domanda nuda e aspra attorno a cui gira l’esperienza di questo movimento, tutta la missione di educatore di don Giussani: chi è, chi è stato Cristo? Storicamente, che cos’è il fatto che Cristo porta ogni giorno nell’esperienza quotidiana di vita, di studio, di famiglia, di professione di ciascuno di noi? Io partivo da un presupposto, quello della mia cultura iniziale, che è rimasto per molto tempo e che ho faticato molto a superare. Questo punto ve lo riassumo traendolo da un libro che spero, ne sono sicuro, molti di voi abbiano letto, L’attesa di Dio di Simone Weil. Simone Weil è una figura ardente, molto lontana dal mio integralismo laico iniziale. Eppure, una figura ardente che in questa lettera, scritta a un domenicano che le chiedeva il pieno adempimento di un percorso di conversione che era già perfettamente avvenuto per tanti versi, rispondeva così: “Quanto a me, so che quand’anche un giorno diventassi degna di servire Dio nel vero senso della parola, non potrei mai avere alcun irradiamento a causa della deficienza di tutto ciò che in me è naturale. L’irradiamento sia pur soprannaturale è un fenomeno in parte naturale ma, se anche fossi in grado di ottenerlo, non voglio chiedere a Dio di rimediare alla carenza della mia natura neppure per poterlo seguire. Troverà altri servitori. Non voglio domandargli altro pane se non quello soprannaturale, mi sembrerebbe un’offesa all’amore”. Questa è la dichiarazione di una credente, inequivocabilmente, ma è la dichiarazione di un’impossibilità a riconoscersi in grado di attingere alla perfezione di un vero ingresso nella chiesa. Ancora per anni, dopo che io avevo iniziato il mio cammino, la mia risposta è stata quella di Simone Weil. Poi, c’era un’altra cosa propria del mio mondo che io qui riprendo da un’esperienza che mi è capitata recentemente e ha a che vedere con San Paolo, col fondatore della chiesa, con l’apostolo delle genti, e non solo più del popolo ebraico, di cui ha parlato don Carrón qui, qualche giorno fa, meravigliosamente, molto meglio di me. A me è capitato a lungo, per il restauro di un’opera di Caravaggio che ha fatto una mia amica alla quale devo molto nella vita, anni fa, di interrogarmi su cosa significassero teologicamente le due versioni della Conversione di san Paolo realizzate da Caravaggio. Voi sapete che c’e la versione mostrata al pubblico a piazza del Popolo a Roma, e c’è una versione che oggi è nelle mani della principessa Odescalchi, quindi privata: pochi la possono vedere ma noi siamo riusciti a portare una grande azienda a finanziarne il restauro e a farla vedere al pubblico. 200.000 milanesi hanno potuto vederla, grazie a questa cosa che ci siamo inventati dal basso. Ci sono due versioni, quella nota a tutti, La conversione di Saulo in piazza del Popolo, e un’altra con lo stesso tema, rappresentata in maniera completamente diversa. Non stiamo qui a parlare di storia dell’arte, vado subito al punto che mi interessa. Nella versione nota a tutti, che ogni giorno potete vedere se andate a Roma, san Paolo è a terra, si copre il volto: tutto il taglio dell’illuminazione del quadro è sul ventre del cavallo, da cui rimbalza a terra. Nella versione privata, invece, quella che noi restaurammo e facemmo vedere, c’è un san Paolo che è in attitudine totalmente diversa: si vede il volto, che sembra guardare l’angelo che è raffigurato nel quadro e sembra parlare con lui. Ebbene, queste due ipostasi della conversione di san Paolo, per un laico, pongono un grande problema, perché sono la rappresentazione di due categorie centrali della conversione: nella versione privata c’è il kerygma, c’è l’annuncio, con san Paolo ancora scoperto. Nella versione pubblica, quella che tutti possono vedere c’è la kenosis, c’è lo spogliamento di sé che avviene una volta che uno si invera e dà già una risposta alla domanda posta da Ratzinger e citata venticinque anni fa da don Giussani: chi è, chi è stato il Cristo. Voi capite che, per un laico agnostico, il kerygma, cioè l’annuncio, è un problema di gran lunga inferiore alla kenosis, cioè allo svuotamento di sé all’abbracciare la prospettiva della vita di ogni giorno che è la risposta alla domanda: chi è il Cristo? Perché ho utilizzato questo quadro? Perché concluderò, vedrete poi come, continuando a citare questo tema della bellezza come categoria fondante, non solo di quello che don Giussani in questo libro scrive, ma come sfera attraverso la quale noi tutti approfondiamo ogni giorno la missione del nostro essere parte di questa comunità che vede nell’affezione di sé, nell’affezione alla comunità, nella fedeltà alla comunità, l’adempimento di una grande scelta, che è la scelta di Cristo attraverso la libertà. Ecco il quinto punto che è un problema, per noi laici. Ecco il punto per cui, per chi diventa credente da laico, e ha una forte base razionalista, la libertà diventa oggi l’equivoco del Corriere della Sera, laddove si dice che “fede e ragione convivono” è uguale a papismo: la libertà. Cosa dice, in alcuni passaggi di questo libro, don Giussani sulla libertà? Dice una cosa che, nella mia versione originale, laica e laicista, era ignota: “La libertà” scrive a pag. 82, “come abbiamo avuto occasione tante volte di dire, non è, innanzitutto, scelta, l’essenza della libertà non è la scelta” dice don Giussani, “l’essenza della libertà è l’adesione; tanto è vero che la legge della libertà è l’amare, l’adesione all’Essere, perché aderendo all’Essere il mio io si compie, si realizza, realizza se stesso. Perciò realizzare se stesso o aderire all’Essere è lo stesso. La volontà è strumento di questo”. Quindi, da questa visione della libertà deriva una nozione della fede che è molto diversa da quella che ai laici agnostici è preferita tramandarsi. A pag. 162, don Giussani scrive: “Anche chi sente poco la fede o la sente ancora lontana, confondendo tante volte lo stato d’animo con la fede – la fede è un giudizio, cioè un riconoscimento di realtà a cui la volontà aderisce, non uno stato d’animo -, anche chi si sente più lontano capisce che è una cosa seria e capisce che è quello lì il problema: siamo toccati nel cuore”, si tratta del nostro destino e del nostro cuore, del nostro corpo. Da questa concezione della libertà e della fede – sesto punto del mio dialogo ideale col mio mondo di provenienza -, trovate in questo libro due risposte a due pilastri: dell’illuminismo da una parte razionalista, cioè Kant, e del tragitto ultimo in cui il ’900 si risolve, dopo due secoli di illusione che l’uomo da solo fosse misura di tutto, cioè Nietzche. Qual è la risposta a Kant, rivolta ancora una volta al mio mondo di appartenenza? A pagina 266: “Quanto più sarà profonda la coscienza di appartenenza, tanto più” dice don Giussani “noi ri-usciremo, usciremo di nuovo, usciremo continuamente – da questa profondità di appartenenza – seriamente protesi a tutto, innanzitutto allo studio”…. “Il dovere per il dovere, alla Kant, in ultima analisi non è persuasivo per nessuno e non suscita se non qualche moto provvisorio, perché non suscita una permanente costruzione, costruttività, o, se sembra suscitarla, non ne salva una parzialità ostile a qualche cosa, una faziosità”. Quanti kantiani, teorici della coerenza assoluta, della legge morale deposta esclusivamente nel cuore dell’uomo, sanno che l’incoerenza di questa nozione è l’altro aspetto inevitabile di una medaglia se l’uomo da solo è la misura di tutto? Della risposta a Nietzsche, mi limito ad accennarla, la trovate a pagina 350. La disperazione in cui si risolve l’uomo misura di tutto e la cultura, quindi, che diventa uno scaffale in cui tutte le tendenze, tutte le convinzioni hanno tutte uguale diritto ad essere allineate, presentate da un mondo che non ha più criteri di giudizio: quella è la risposta che don Giussani dà ed è una risposta sempre coerente al superamento della domanda posta da Ratzinger su chi è stato il Cristo, al superamento della kenosis di san Paolo, al superamento della libertà concepita come opposta alla fede, quando invece ne è invece la categoria inverante. E allora veniamo poi a qui punti su cui voi siete abituati a essere misurati. Sono trent’anni che c’è questo Meeting. Sono trent’anni che il dibattito pubblico italiano, la politica, i media, i protagonisti della vita pubblica, i banchieri, gli economisti, i sociologi, i politologi, guardano a questo avvenimento come se si trattasse di un meeting di corrente, qualche cosa che ha a che vedere con la politica, qualche cosa che ha a che vedere con gli equilibri di governo e dell’opposizione. Sapete benissimo che è così. Vedete, anch’io alla terza edizione del Meeting venni a vedere di che si trattava. Son passati tre giorni senza che conoscessi nessuno, perché anch’io all’inizio ero convinto di questo, avevo fortissimo questo sospetto. E allora, a chi ancora oggi guarda a questo movimento, a don Giussani, al Meeting, a don Carrón, a gente come Cesana, ai leader della CdO, a voi che portate avanti questo impegno che è impegno di vita quotidiana nei diversi ambiti, e ancora guarda a voi con quegli occhiali, io invito a riflettere su quello che don Giussani qui dice a pagina 147, proprio a proposito della politica e dell’azione. “Se la domanda è:” dice don Giussani “Che cosa mi è capitato?” – stiamo sempre parlando del problema dell’affezione e della domanda “chi è?, chi è stato Cristo nella storia?”. Se la domanda è questa, dice don Giussani, “il problema tra noi non è un’opinione, come nei partiti, ma è una storia, e la storia è qualche cosa che accade -, ciò che ci è capitato contiene la totalità della propria vita”. Cosa dice don Giussani a pag. 57? Fa una riflessione che io trovo fondamentale per dare una risposta a chi dice: voi occhieggiate alla politica, anche se rifiutate esplicitamente di farla. Dice che c’è una differenza di fondo tra il dare questa risposta – chi è Cristo – e viverla nel movimento, nell’appartenenza a questa comunità di destino. E che questa risposta è inevitabilmente, non solo dialettica, ma conflittuale con il potere. Solo se diventiamo come foglie in balìa del vento, dice a pag. 57, diventiamo facilmente vittime del potere. “Ma un’esperienza diventa storia quando non può essere fermata dal potere”: perché? Per questo io mi ritrovo, in quanto antistatalista convinto, personalista convinto, sussidiarista convinto, liberale e personalista convinto, per questo io credo che don Giussani sia l’inveramento di queste cose che, queste sì, le concepivo da prima. Don Giussani dice: “Ciò che ripugna ad ogni forma di potere è il fatto che la risposta a chi è stato Cristo nella storia significa che Cristo vince il tempo e la storia, ed è con noi e lo sarà per sempre”. Questo fatto di vincere il tempo e la storia è ciò che inevitabilmente ripugna al potere, allo stato, all’uomo politico che tenta di organizzare e di farsi lui fautore di storia sopra le persone, contro le persone, ignorando le persone. Questa è la radice dello strutturalismo che fonda l’uomo come unico criterio e metro di misura. E tanti economisti, tanti banchieri, tanti professori universitari vivono al riparo di questa concezione. Quando si dà questa risposta, nella storia si mette la persona, la sua libera scelta e Cristo al suo fianco: e allora bisogna sapere che si diventa confliggenti con la visione di chi, dall’alto, ci verrà a dire che cosa, pro-tempore, è il bene e il male. Bisogna essere pronti a questo. Vedete, anche a rispondere, ottavo punto! Come vedete, sto andando avanti anche se mi sto prendendo troppo tempo. Voi siete accusati di essere integristi, integralisti. Xxx E’ sempre stata questa la cifra che inevitabilmente il mio mondo vi dice, dopo che un’accezione della radicalità del Cristo che vince la storia è il tempo produce asperità rispetto a chi dice: no, la storia e il tempo cambia perché è l’uomo soggettivamente, hegelianamente, idealisticamente, l’unica lente attraverso la quale si vede e si misura il cambiare il tempo e della storia. E allora l’accusa di essere integristi e integralisti. A pag. 155 c’è una risposta anche su questo. Si parla di San Paolo. A proposito dell’intervento di San Paolo all’Areopago di Atene in cui gli ateniesi lo fanno parlare a lungo. Lui dice: il dio ignoto io ve lo sono venuto ad annunciare, quello a cui voi avete riservato qua un’ara, al dio ignoto. E’ qui, è nella storia. Poi San Paolo, ad un certo punto, inizia a dire: è risorto. E gli ateniesi lo fermano dicendo, va bé, di questo parleremo domani perché hanno l’idea che sia un po’ un pazzo, insomma. E allora, a proposito di questo, Giussani dice a pag. 155: “quello che chiamano integrismo, quando si riferiscono a noi, è la vittoria di Cristo sul tempo e lo spazio, anzi, è la libertà di Cristo sulla libertà mia e tua, di noi che ci riconosciamo pieni di incoerenze al 999 su 1.000 ma il cui principio riconosciuto, addirittura sentito è, due punti, aperte virgolette e spalancate le orecchie, Colui che è tra noi. Io trovo che una risposta come questa a chi accusa il movimento di essere integrista e integralista è la risposta da dare sempre. E lo dico da non membro di questo movimento. E’ semplicemente la confusione di due livelli che non hanno a che vedere con lo stesso piano. Chi vi accusa di essere integristi ed integralisti, chi continua a non capire che non siete un partito, non siete una corrente ma che avete nel cuore il destino di una storia da compiere attraverso la libertà che è Cristo e la sua legge dell’amore. Ottavo punto. Ammettiamo, per ipotesi, che nel mio cammino io sia arrivato a capire tutto questo e che a questo punto una voce dentro mi riconduca verso il basso, come avviene con la forza di gravità, rispetto alle ali del pensiero di don Giussani e mi si ponga il problema di nuovo, in qualche misura nuovo, ma lo stesso, un problema analogo a quello posto dal Simon Weil che ho citato prima, e cioè, che cosa è la perfezione. Perché voi capite che quando ci si sente rispondere che l’appartenenza, l’affezione di sé è una comunità, è un senso del destino per rendersi uguali al Padre, addirittura, di Cristo, che questa è la lezione a cui siamo tenuti, il problema de la perfezione, diventa un problema serio per chi ha una formazione come la mia. A pag. 253 trovo una risposta di don Giussani che mi sembra fantastica per il mondo degli intellettuali, degli opinion maker, degli accademici, dal quale, in qualche misura, provengo. E si parla proprio dell’intellettuale, del suo senso della perfezione. Qual è la posizione del presuntuoso? Don Giussani non ha dubbi nel dare questo giudizio. Lui, in realtà, non ha bisogno di cambiamento, ha bisogno di cambiamento, o meglio, certamente, si, ma citazione latina vale a dire secondo quello che vuole lui. E’ per questo che l’intellettuale difficilissimamente lo vedrete lieto, perché non è libero dai suoi schemi, dalle sue idee, non aspetta un cambiamento da interpretare, decifrare, a cui aderire. E’ difficile che egli segua un avvenimento. L’intellettuale è colui che concepisce, crede di concepire l’avvenimento. Il credente è colui che riconosce l’avvenimento nel farsi di una storia. Questa divisione è la divisione che dà la risposta a cos’è la perfezione. La perfezione non è di coloro che non cadono mai. Solo gli intellettuali possono essere convinti di essere dotati di una tale ferrea coerenza dal realizzarla in vita. La santità, diceva don Giussani, non è di coloro che non cadono mai, ma è di coloro che, avendo ben chiaro dove andare, ogni volta provano a rimettersi in piedi. E allora vedete, io ho comunque…, punto nove, poi concludo, tre domande da rivolgervi. E sono le uniche tre domande, io non ho parlato, avete visto, né di economia, né di impresa, ma sono tre domande che ci tengo a farle, e sono le domande con le quali sono alle prese in questi mesi, da un anno e mezzo a questa parte in questo anno di crisi. Proprio perché è vero per me tutto quello che vi ho detto, tutto quello che ho trovato nel libro di don Giussani, proprio perché mi sforzerò comunque di continuare nel mio cammino e di dialogare con il mio mondo di appartenenza. Eh beh, vedete, questa crisi mi ha profondamente interrogato. E sia pur abbracciando una prospettiva in cui non è il perfettismo degli intellettuali, non è la coerenza assoluta dei facitori di teorie sui cui bisogna misurare il metro del mondo ma è, invece, l’adesione alla comunità, è la scoperta del fatto cristiano, in ogni mia singola molecola, in ogni singolo vostro alito, e allora io tre domande ve le devo consegnare, perché io a queste tre domande le risposte non ce l’ho ancora. Noi viviamo in un Paese che ha una tradizione, che, come riconoscono anche esponenti della Chiesa come mio zio, che don Giussani ha saputo risvegliare. Mio zio dice: ai tempi del Concilio noi eravamo così presi dalle novità liturgiche che credevamo in questo di dare una risposta alle nuove esigenze del popolo di Dio e Giussani, dal basso, seppe arrivare alla liturgia reinterrogandoci e reimmedesimandoci nella vita concreta degli studenti, dei giovani, dei padri, delle madri. Alla luce di questo, parlando di vita concreta, io vi devo chiedere, in coerenza alla tradizione dichiarata di questo Paese cristiano, cattolico, io c’ho tre domande molto semplici, una che riguarda gli economisti cattolici, una che riguarda i banchieri cattolici, una che riguarda i finanzieri cattolici, quelli che si dichiarano tali. No, non sono domande di coerenza, io non li giudico, ma mi chiedo: se siamo tutti d’accordo che questa crisi è l’esplosione di teorie incentrate troppo sulla finanza di corto termine, ne hanno parlato ieri Enrico Letta e Giulio Tremonti. Se siamo d’accordo su questa premessa, allora, prima domanda per l’economista cattolico: che cosa aspettiamo, tutti quanti, mi ci metto anch’io, a elaborare una teoria capace di restituire, all’uomo, alla persona, al capitale umano una centralità piena nell’interpretazione degli scambi di milioni di attori del mercato ogni giorno. Questa cosa non c’è. Ciò che accomuna Keynes e il modello keinesiano e quelli, invece, i modelli di macroeconomia classica che sono i miei, io sono un anti-keinesiano, è considerare che ci sono solo tre attori economici: c’è il governo, ci sono le imprese private, ci sono le famiglie, quest’ultimo spesso dimenticate, ci sono le famiglie. Ma lo scambio, l’organizzazione delle teoria sugli incentivi e disincentivi attraverso cui questi tre attori operano non ha, né per i keinesiani né per gli anti-keinesiani la scelta del capitale umano e dell’arricchimento del capitale umano come elemento fondante. La mia domanda è: li vogliamo incalzare questi economisti cattolici e cristiani a proporcele? Oppure continueremo semplicemente a dire che l’enciclica del Papa è il documento politico è il documento più rilevante per interpretare la crisi? Seconda domanda ai banchieri cattolici, ce ne sono, non li giudico. In concreto, che cosa distingue il banchiere cattolico se pone al centro il capitale umano dalla maniera di organizzare il proprio mestiere dai banchieri non cattolici? Forse che il cattolico lo possiamo giudicare dalla maggior percentuale che rivolge dei suoi utili al finanziamento di spese culturali o magari anche di sostentamento di poveri? Certo è importante ma non è quella la distinzione. La mia domanda ai banchieri cattolici è: ci fate vedere, per favore, una teoria dello sconto praticato dalla banca nel dare capitale alle imprese, nel negare capitale alle imprese che metta davvero il capitale umano come differenziale e li faccia distinguere dal resto dei banchieri che non credono giustamente a questa cosa? Domanda per il finanziere cattolico: ce ne sono, ce ne sono tanti. Io sono cresciuto a una scuola di un grande finanziere che passava per laico ed era cattolicissimo si chiamava Enrico Cuccia, pensate un po’! Allora non c’è solo il banchiere. La finanza oggi nel mondo globalizzato è il grande sistema nervoso attraverso il quale passano o non passano, investimenti, consumi, spese per il futuro, accantonamenti per il futuro, dilapidazioni per il presente o per il passato. Il finanziere cattolico ha una sfida ancora più importante, perché siccome qualunque scelta voi facciate in ogni momento è una scelta economica e non è altro che una tecnica dello sconto che anticipa il valore attuariale, attuale di cose future, allora il problema è per i finanzieri cattolici, quello di immaginare il mondo in cui la teoria dello sconto è fondata sulla persona. E’ troppo chiederlo ai finanzieri? Io sono convinto che le risposte a ciò che si trova nel libro di don Giussani sono risposte che noi dobbiamo sapere elaborare nello sforzo quotidiano di ciò che la professione, la famiglia, la nostra cultura ci ha dato. La mia maniera modesta è di partire dai problemi della libertà, che da laico mi sembrava negata dalla fede, che invece solo attraverso la fede si invera, per sapere proporre un percorso in cui alla fine anche nel fare il mio mestiere, anche nel fare l’economista, anche nel rivolgermi ai finanzieri e ai politici, sappia chiedere loro di farci vedere insieme come si può dare comunità, non dò giudizi, ma certo una maggiore concretezza tra ciò che si dichiara essere la guida, come l’enciclica del Papa, e ciò che davvero si vede, a mio giudizio, non si vede nella realtà di questo Paese. Questo, io credo, abbiamo tutto il diritto di chiederla insieme. E concluso con il decimo punto. Che è punto rivolto a ciò che di questo libro riterrò e che riterrò anche di questa meravigliosa occasione con voi tutti e di ciò che sicuramente Giancarlo oggi mi insegnerà con molta maggior maestria e luce di quanto non abbia saputo darvi io. E un brano che prendo dal Rapporto sulla fede, colloquio con Vittorio Messori, ancora una volta di Ratzinger, un libro del 1984, lo sapete a memoria moltissimi di voi. Mi colpì moltissimo all’epoca, io lo sottolineai, lo sottolineai, mi faceva rabbia, vi dirò la verità, questo è il termine vero che devo usare, mi faceva rabbia. Il brano è questo: l’unica vera apologia del cristianesimo può ridursi a due argomenti: i santi che la Chiesa ha espresso e l’arte, e in questo torno al bello, che ho usato Caravaggio, che è germinata dal suo grembo. Il Signore è reso credibile dalla magnificenza della santità e da quella dell’arte esplosa dentro la comunità credente più che dalle astute scappatoie che l’apologetica ha elaborato per giustificare i lati oscuri di cui purtroppo abbondano le vicende umane della chiesa. Se la chiesa deve continuare a convertire, proseguiva Ratzinger, dunque a umanizzare il mondo, come può rinunciare nella sua liturgia alla bellezza che unita in modo inestricabile all’amore insieme allo splendore della resurrezione no. I cristiani non devono accontentarsi facilmente devono continuare a fare della loro chiesa un focolare del bello dunque del vero senza il quale il mondo diventa il primo girone dell’inferno. La rabbia in me è finita, io vi ringrazio perché per me questo movimento è il focolare del bello che tutti quanti dobbiamo costruire.
EMILIA GUARNIERI:
Dopo questa bella testimonianza di una conoscenza che nasce dall’avvenimento ma soprattutto di una conoscenza che non rinuncia, che non si attesta su dove è arrivata, ma che rilancia continuamente a sé e agli altri la domanda, perché è di questa conoscenza che abbiamo bisogno, dopo questo la parola a Giancarlo Cesana.
GIANCARLO CESANA:
Dato che questo libro si rifà ad eventi del 1984/’85, a 24 anni fa, per cui chi ha 40 anni oggi ne aveva 15 allora, dato che gli eventi di cui parla sono fatti storici e che ormai molte persone non hanno mai incontrato o sentito don Giussani dal vivo, non ci hanno mai parlato insieme, consentitemi di introdurre brevemente cosa sono questi libri. Trenta secondi. Questi libri sono dei rapporti – proprio nel senso di registrazioni – delle equipe del CLU, cioè dei raduni che facevamo come responsabili del CLU – Il CLU è Comunione e Liberazione Università – con don Giussani. Si tenevano tre o quattro volte l’anno, in genere venivamo qui a Rimini. Erano raduni dapprima di 200, poi di 300, 400, 500 e alla fine anche di 600 persone, erano costituiti da un grosso lavoro assembleare e poi dagli interventi, dalle sintesi di don Giussani. Il libro fa parte di questa serie ed è intitolato Qui ed ora. Don Giussani diceva che nella vita ci vogliono quattro o cinque idee, che si vive per quattro o cinque grandi idee. E questa qui era una delle idee per cui lui viveva: se ci viene da domandarci di botto qual è il nostro destino, non domani, non dopodomani o ieri, ma adesso, alle 16 e 5 minuti, nel salone di Rimini, noi sappiamo dire dov’è. Non perché è la risposta a tutti i nostri problemi ma perché è la strada. Don Giussani documenta questo: come lo documenta? Cioè, come dice che la risposta è qui ed ora? Per spiegarlo, mi rifaccio ad una esperienza di tanti anni fa, appunto ai primi tempi in cui don Giussani era venuto a fare l’assistente degli universitari, come diceva lui. Io stavo parlando con lui in termini entusiastici, idealizzati, di una certa persona, non mi ricordo neanche più chi fosse. E a un certo punto lui mi guarda, con i suoi occhi sempre un po’ liquidi, lucidi, come se avesse la febbre, e dice – non perché non fosse d’accordo, probabilmente perché era d’accordo con me – una frase che mi è rimasta dentro e che ripeto spesso perché mi ha veramente colpito. Disse, citando Geremia: “Maledetto sia l’uomo che confida nell’uomo”. Perché l’uomo è un bastardo, un bastardo e un traditore, ha il peccato originale ed è facilissimo che ti fotta: aveva una visione di un realismo spietato, tanto è vero che a me colpì molto e mi insegna ancora adesso. Però tutti quelli che hanno incontrato don Giussani sanno che, quando parlavano con lui – questo era il suo grande fascino – si sentivano al centro del mondo, come se, mancando loro, il mondo mancasse di qualcosa di assolutamente necessario. Questo era il fascino dell’incontro con lui, da cui molte persone hanno ricavato un’idea eccessiva di sé: però, questo non importa. Allora, dicevo, lui in questo libro dice a pag. 123: “Dentro il limite ci imbattiamo nel perfetto”. Cioè, dentro il limite, dentro questo uomo traditore, noi ci imbattiamo nella perfezione. La ragazzina che a casa sua non sposta un bicchiere e viene qua al Meeting a fare le pulizie, è perfetta, dal latino perficio, è strafatta, è sopraffatta, cioè è fatta più di quello che lei può fare. Perché la perfezione non è la mancanza del limite, è la presenza di un compimento che va oltre la capacità di chi lo porta. E questo è il mistero. Per cui don Giussani, con la coscienza realistica che ha dell’animo umano, della struttura umana che dicevo prima, si è legato a questa percezione, si è legato alle persone, ai quattro che al Berchet sono intervenuti dicendo “noi cristiani”. Dice: “Lì ho capito che non potevo più tornare indietro, ero legato a loro”. La grandezza di Giussani è il legame che ha con le persone, è l’affettività, cioè “la speranza nella manifestazione di questa perfezione come segno – dice dopo – di Cristo, come segno della manifestazione di Dio”. Prendere coscienza di questa presenza, cosa vuol dire? Affermare che c’è. Affermare che c’è può essere nominalistico, può essere un nome, la presenza può essere “Gesù, Gesù”, può essere tante preghiere biascicate che non dicono niente, non dicono niente a noi e non dicono niente agli altri. Prendere coscienza, rendersi coscienti, conoscere – il titolo del Meeting di quest’anno – vuole dire partecipare a un fatto: la conoscenza è un avvenimento quando è partecipazione a un fatto, cioè quando è coinvolgimento con un fatto, se no, non è conoscenza, se no, sai le cose, ti sembra di capirle ma non le conosci. La Bibbia chiama conoscenza l’atto sessuale. Partecipare al fatto di una presenza, essere coinvolti in una presenza, rendersi coscienti di una realtà. E poi va avanti e dice: “Essere fedeli, quindi, essere coscienti è essere fedeli, essere fedeli alla compagnia a cui si appartiene”. Ma come si fa a continuare ad essere fedeli? Perché questo qui è proprio il cristianesimo come lo incontrò lui negli anni ’50. Pensate alla noia di una incombente ripetitività dovuta al doverci sempre dire: “Bisogna che cambiamo i rapporti tra di noi, bisogna che in questa vacanza, in questa riunione ci trattiamo con rispetto, bisogna volerci bene come fratelli, bisognerà essere sinceramente amici, bisognerà rispettare l’ordine, bisogna essere coerenti, bisogna fare, bisogna, bisogna…”. Il richiamo dei genitori ai figli, il richiamo continuo. Pensate che noia! Occorre che la fedeltà sia esperienza di quello che è Cristo, un fatto accaduto, come ha detto Giannino prima citando don Giussani, vincitore della storia. Cioè, uno che non è morto, uno che c’è ancora, perché vincitore della storia vuol dire non sottoposto alla legge della storia. La legge della storia è che una cosa comincia e poi finisce: questo non finisce più, è qui ed ora, c’è adesso. Dove? Infatti, Cristo cosa ha chiesto? Ha chiesto la memoria, ha chiesto la memoria di sé, “fate questo in memoria di me”. La memoria non è il ricordo, ma la memoria è quello che sono io, quello che sono io è la memoria che ho di me, la coscienza che ho di me, tutto quello che è accaduto nella mia vita come precipitato adesso: questa è la memoria. “Fate questo in memoria di me”: il luogo dove questa memoria sorge è la comunità viva, la comunità. Comunione e Liberazione, GS è nata come la comunità, parlavano sempre della comunità. Io mi ricordo uno che diceva sempre: “Io sono Emiliano e sono di GS”. Questo scandalo che si è creato per cui il cristianesimo non è la mia fede ma è la comunità, è una unità di persone che si muove in un ambiente, il luogo dove questa memoria sorge è la comunità viva, la compagnia nuova: cioè, uomini che sono insieme perché c’è Cristo. In un’epoca come questa, è letteralmente una cosa dell’altro mondo in questo mondo essere raccolti, sentirsi non estranei, sentirsi amici, e sentirsi amici in modo tale che la vita ne sia mobilitata, cioè che la tua amicizia, la tua vicinanza a me, mi mette in moto, mi coinvolge, mi fa conoscere. Che intenti comuni siano fondati, progetti di vita siano pensati e una volontà di contrattacco al mondo, di attacco al mondo sia alimentata dal fatto che si è toccati nel cuore, così che anche la parola lotta si identifica con la parola amore, con la parola affezione. Questa è la cosa dell’altro mondo in questo mondo. Citando un intervento nel corso di un’assemblea, dice: “Il tuo segno e il tuo nome, cioè il tuo segno, il segno di Dio, il tuo nome, il nome di Dio, sono la stessa cosa”. La famosa frase che ripeteva sempre: “Segno e mistero coincidono”. Perché non ci può essere qui ed ora se non lo si vede, se non c’è, se non è un luogo, se non è identificabile, se non è poter dire: devi andare dietro a quella cosa lì. “Se io non avessi incontrato monsignor Gaetano Corti” dice lui “nella mia prima liceo” – se io non avessi incontrato la mia comunità di Carate – “se non avessi sentito le poche lezioni di italiano di monsignor Giovanni Colombo…”. Se attraverso la frequentazione un po’ sporadica della comunità di Carate, perché anch’io mi sono convertito, anch’io sono di provenienza socialista, i miei avevano il circolo socialista nel ’48 quando sono stati scomunicati, quindi anch’io avevo più o meno quella testa lì. Quindi, se non avessi poi incontrato don Giussani, perché mi hanno portato lì, e non l’avessi sentito… Qui dice: “Se non avessi incontrato monsignor Giovanni Colombo, se io non avessi trovato dei ragazzi che di fronte a quello che io sentivo sbarravano gli occhi, come di fronte a una sorpresa, tanto inconcepita quanto gradita, che tu vedi negli occhi degli altri la verità che porti dentro, e ti sorprendi perché più grande di quello che porti tu. Se io non avessi incominciato a ritrovarmi con loro, mi ricordo sempre” diceva “facevo 18 raggi alla settimana, 18 raggi, cioè 18 incontri alla settimana, insegnando poi regolarmente a scuola religione. Se non avessi cominciato a ritrovarmi con loro e tutti puntuali” – tutti puntuali: quando finisce la puntualità finisce il movimento perché finisce la serietà di quello che si vive. “Se io non avessi trovato sempre più gente che si coinvolgeva con me, se non avessi avuto questa compagnia, Cristo sarebbe stata una parola oggetto di frase teologica oppure, nei casi migliori, richiamo a una affettività pietosa, generica e confusa, che si precisava soltanto nel timore dei peccati, vale a dire in un moralismo”. Perché, o Cristo è qualcosa che c’è, qualcosa che si vede, una proposta alla vita da seguire, concreta, oppure appunto diventa un pensiero. E se diventa un pensiero, diventa una morale, cioè diventa una cosa da fare, cioè si soffoca. Infatti dice: “La moralità è l’appartenenza, non è solo osservare le leggi. La moralità è appartenere a questo avvenimento che coinvolge la vita. La giustizia è un avvenimento, non è una legge. Tanti credono in Dio, ma bisogna aver coraggio a pensare che Dio sia incarnato, che sia legato a me, che sia legato a lei, che è legato a voi, perché bisogna avere il coraggio di affrontare la storia. Il passaggio da una logica di gruppo a una dimensione di coscienza personale è ben lontano dal ridurre o svuotare di contenuto o annacquare il valore della comunità”. E poi c’è una frase che cita anche Carrón nella sua introduzione, riprendendo appunto questa questione: “Come il problema supremo dell’uomo – dice don Giussani – che è l’esistenza di un significato o no”, cioè, c’è un significato o no dentro il mondo, c’è un rapporto tra le cose, “perché il significato è il rapporto” dice “tra le cose, tra le cose tra di loro, e tra le cose con la totalità, con il tutto”. “Cioè, l’esistenza di Dio o no: così il problema della nostra vita è etico, è morale. Il problema di Dio è un’opzione, è una decisione”. Ha fatto un libro: Decisione per l’esistenza. Il problema nostro della vita è un’opzione, è una decisione. La vita è una decisione e l’opzione è l’appartenenza a uno, non l’appartenenza a Cristo astrattamente intesa, come si può sentir dire in qualche seminario. Cristo ti raggiunge attraverso una concreta circostanza, ma poi il problema è il tuo rapporto con Cristo. Immediatamente il rapporto con Cristo, così, diventa il rapporto con la mia idea, invece tutto deve passare attraverso l’umiliazione, l’umiltà del corpo, della circostanza concreta in cui il Signore mi ha raggiunto. Questo, a mio avviso, è il genio della cattolicità, noi siamo cattolici per questo, perché Cristo è di carne: e questo è il genio del movimento. “Ma c’è una giornata nella vostra vita in cui è avvenuto un incontro nel quale è racchiuso tutto il significato, tutto il valore, tutto il desiderabile, tutto il giusto, tutto il bello e tutto l’amabile, perché Dio è diventato uomo per questo. E Dio, diventato uomo, ti raggiunge con mani, con occhi, con bocca, con la realtà fisica di una umanità. Perché, mettiamoci ai tempi di allora”: mi ricordo che don Giussani diceva sempre, leggendo il Vangelo: “Bisogna immaginare quello che è successo”, perché fino a che tu non vedi, quello che senti non lo capisci, non ti coinvolgi. “Non c’era Gesù Cristo per l’aria, non si parlava di Gesù Cristo, Cristo qua, Cristo là… Dio, ecc. ecc., non era un nome diventato abituale, non era il nome delle preghiere. Quello che vedevano era un uomo”: come noi, quando abbiamo visto don Giussani, abbiamo visto un prete, con tutti i pregiudizi che avevamo nei confronti dei preti, e siamo stati conquistati da questa umanità che portava alla perfezione. “Così allora” e qui praticamente conclude e concludo anch’io, “la comunità, l’amicizia è il luogo della continuità dell’avvenimento” cioè l’avvenimento cristiano “viene continuato dalla comunità e dall’amicizia, letteralmente dalla continuità dell’avvenimento di Cristo di 2000 anni fa, cioè da questa realtà dell’altro mondo in questo mondo, quello dell’incontro con la samaritana e dell’incontro con Zaccheo”. Poi, in un’altra parte dice: “Perché dobbiamo seguire?”. Perché dobbiamo seguire questa realtà? Perché dobbiamo appartenere a gente concreta? Perché anche giudicare è appartenere. Il giudizio è innanzitutto un luogo, non è un’idea. Perché il giudizio deve essere sicuro, e il giudizio sicuro è innanzitutto un’appartenenza che poi si dettaglia in una ipotesi sulla realtà, la quale si può correggere. Dice: “Perché dobbiamo seguire? Per diventare noi stessi. Tutto questo ci è stato dato per diventare noi stessi”.
Applausi
Comunque, scusate, non applaudiamo molto perché qui non è un teatro, io non sono un attore e questa non è una platea. Questo è un corpo di pietre vive. Per rispondere al mio spirito rivoluzionario, un’unità di popolo.
EMILIA GUARNIERI:
Senza che applaudiamo ancora, però almeno una parola che meriterebbe un applauso – ma non lo facciamo perché hai ragione, perché si applaude a una cosa che è esterna – c’è: la parola che io volevo dire è grazie, grazie ai volontari, grazie a Giancarlo, grazie a Oscar che hanno parlato qui. Non appena perché senza il lavoro di tutti non sarebbe possibile fare il Meeting, ma perché questo lavoro, per la ragione per cui viene fatto, per lo scopo che ha, questo lavoro è la prima evidenza di quello che qua ci diciamo. Quindi, almeno la parola grazie la possiamo dire. Detto questo…
Applauso
… vi do lettura del comunicato della trentesima edizione del Meeting: un percorso della conoscenza lungo trent’anni.
“Il XXX Meeting di Rimini si è svolto nel segno della sfida contenuta nel messaggio di Benedetto XVI: «non il distacco e l’assenza di coinvolgimento sono l’ideale da rincorrere, peraltro invano, nella ricerca di una conoscenza “obiettiva”, bensì un coinvolgimento adeguato con l’oggetto».
Tutti – relatori, ospiti e noi per primi – sono stati conquistati innanzitutto dallo spettacolo di quasi 4.000 volontari, che hanno pagato vitto e alloggio per potere lavorare al Meeting, segno di un desiderio di fare un’esperienza, cioè di vivere ciò che fa crescere, e di condividerla con chiunque. È un autentico “miracolo” che si ripete da trent’anni e che – a detta di tanti – è impossibile trovare altrove, frutto di un’educazione a vivere la gratuità come dimensione di ogni rapporto.
Con le quasi 800.000 presenze – sempre più alto è il numero di coloro che giungono dall’estero – i padiglioni del Meeting sono stati letteralmente saturati da tanti che hanno potuto incontrare personalità internazionali e protagonisti della vita italiana, visitare le mostre e partecipare agli spettacoli in programma. Particolarmente significativi la messa in scena del Miguel Manara di Milosz, uno dei testi più cari al popolo del Meeting, e il concerto di Enzo Jannacci, genio musicale e umano.
I quasi 300 relatori che hanno parlato durante la settimana hanno contribuito al realizzarsi di una conoscenza nuova della realtà e in alcuni momenti sono arrivati fino a comunicare il significato ultimo delle cose. A cominciare da don Julián Carrón: in un Meeting che ha messo a tema la conoscenza difficilmente avremmo potuto trovare un testimone migliore di San Paolo per documentare la verità del titolo scelto. Dall’altra parte, Carmine Di Martino ha mostrato la portata del tema dentro il percorso della modernità.
Per sette giorni le persone hanno potuto vedere che il percorso della conoscenza non è ridestato da discorsi o spiegazioni astratte, ma dall’incontro con persone che conoscono il reale in un modo nuovo e attraente, perché carico di una promessa di verità e di bene.
La settimana riminese è stata un susseguirsi di testimoni, nuovi o noti: Amparito dell’Ecuador, gli amici del Rione Sanità di Napoli e Josè Berdini di Corridonia, padre Aldo Trento del Paraguay, Marcos e Cleuza Zerbini di San Paolo del Brasile, Rose e Vicky di Kampala, i carcerati di Padova.
E ancora, abbiamo ascoltato personalità del mondo culturale come Mary Ann Glendon, che ha introdotto il tema della “esperienza elementare” come radice dei diritti umani.
Filosofi come Rémi Brague e Fabrice Hadjadj, e premi Nobel e scienziati come John Mather, Charles Townes e Yves Coppens hanno mostrato che cosa significhi “allargare la ragione”.
Il Meeting dei trent’anni si è aperto con un evento internazionale eccezionale, favorito dal ministro Frattini: l’incontro di quattro leader di altrettanti Paesi africani, che hanno dialogato di pace e sviluppo. Assolutamente imprevista è stata la testimonianza umana e politica di Tony Blair, che è arrivata fino alla confessione pubblica delle ragioni della sua conversione al cattolicesimo: la scoperta del carattere universale della Chiesa.
Inoltre responsabili delle istituzioni, del governo italiano e dell’opposizione, hanno accettato di confrontarsi coi temi reali della vita di un popolo, dall’educazione al lavoro, dall’economia alla giustizia. È stato il caso di Renato Schifani, Mario Draghi e Giulio Tremonti, di Angelino Alfano, Maurizio Sacconi, Claudio Scajola, Mara Carfagna, Mariastella Gelmini, Roberto Calderoli e Luca Zaia, di Pierluigi Bersani ed Enrico Letta. Allo stesso modo si sono confrontati esponenti dell’economia e della finanza come Corrado Passera, James Murdoch, Fabio Conti e Raffaele Bonanni.
Fedele alla sua tradizione, il Meeting ha proposto momenti di ecumenismo reale con esponenti delle tradizioni ebraica, ortodossa e musulmana, animati da una sincera volontà di dialogo in vista di una convivenza pacifica nella verità e nella diversità. Particolarmente apprezzato l’intervento del cardinale di Madrid sul contributo della Chiesa alla vita sociale e quello del cardinale Caffarra sulla ragionevolezza della fede.
Nell’ultimo libro di don Giussani, Qui e ora, presentato a conclusione del Meeting, si legge che «l’uomo, che agisca con un minimo di autocoscienza, agisce avendo un motivo ultimo».
Per questo, il titolo del Meeting 2010, che si svolgerà a Rimini dal 22 al 28 agosto, è:
«Quella natura che ci spinge a desiderare cose grandi è il cuore».”.
Quindi, arrivederci alla prossima edizione del Meeting. Un avviso, due avvisi: il testo integrale del comunicato verrà distribuito all’uscita e l’uscita è dalle porte alla mia destra, senza rientrare in Fiera, perché noi ci siamo e continuiamo a esserci ma il Meeting sta andando giù e quindi non si può rientrare. Grazie e buon anno.
(Trascrizione non rivista dai relatori)