Chi siamo
QUANDO PACE E UNITÀ SONO POSSIBILI: LA TESTIMONIANZA DEL BEATO JOSÉ GREGORIO HERNÁNDEZ
S.Em. Card. Baltazar E. Porras Cardozo, Arcivescovo metropolita di Caracas, Venezuela; José Manuel “Chema” Colmenarez, Direttore Clinica ONG (Oidos, Nariz y Garganta), Barquisimeto, Venezuela; Chiara Locatelli, Neonatologia Policlinico Sant’Orsola, Bologna; Franco Nembrini, Scrittore ed insegnante. Modera Alejandro Marius, Presidente di Trabajo y Persona, curatore della mostra “Il Medico del popolo. Vita e opera di José Gregorio Hernández”, Venezuela.
Questo evento si concentra sulla possibilità della pace e dell’unità, avendo come ispirazione la vita, le opere e il messaggio del beato José Gregorio Hernández: un medico venezuelano vissuto tra America Latina ed Europa tra fine ‘800 e inizio ‘900, che ha speso la propria vita per i poveri e per la costruzione della pace. L’interesse e la devozione per la figura di questo medico dei poveri sono cresciuti esponenzialmente negli ultimi anni in Venezuela e in tutta l’America Latina. Un modello di ispirazione cui guardare anche oggi, in un tempo in cui la guerra è tornata prepotentemente nel cuore dell’Europa e in tante altre regioni del mondo.
Con il sostegno di Tracce.
QUANDO PACE E UNITÀ SONO POSSIBILI: LA TESTIMONIANZA DEL BEATO JOSÉ GREGORIO HERNÁNDEZ
QUANDO PACE E UNITÀ SONO POSSIBILI: LA TESTIMONIANZA DEL BEATO JOSÉ GREGORIO HERNÁNDEZ
Martedì 22 agosto 2023, ore 19.00
Auditorium isybank D3
Partecipano
S.Em. Card. Baltazar E. Porras Cardozo, Arcivescovo metropolita di Caracas, Venezuela; José Manuel “Chema” Colmenarez, Direttore Clinica ONG (Oidos, Nariz y Garganta), Barquisimeto, Venezuela; Chiara Locatelli, Neonatologia Policlinico Sant’Orsola, Bologna; Franco Nembrini, Scrittore ed insegnante.
Modera
Alejandro Marius, Presidente di Trabajo y Persona, curatore della mostra “Il Medico del popolo. Vita e opera di José Gregorio Hernández”, Venezuela.
Alejandro Marius. Buonasera a tutti. Un cordiale saluto a tutti qua in auditorium. Anche a coloro che di sicuro si stanno collegando da diverse parti, specialmente dal Venezuela. Feliz tarde a todos. “L’esistenza umana è un’amicizia inesauribile”. Il titolo di questo incontro c’entra molto con il tema che vogliamo proporre questa sera con i nostri relatori. Pace e unità sono parole molto importanti e vediamo come su questo José Gregorio ci dà una mano, ci aiuta, la sua vita, la sua esperienza. Per questo abbiamo ospiti di altissimo livello, ma soprattutto amici. Sia dal Venezuela che dall’Italia, e siamo grati per la loro presenza e diamo loro un forte applauso. In primis, su eminenza il Cardinal Vartasar Porras Cardoso, arcivescovo il metropolita di Caracas, Venezuela. Eminenza, vorremmo innanzitutto ringraziarla per la sua presenza al Meeting, perché per noi è molto importante, è un grande segno dopo 40 anni che lei ha aperto le porte del Venezuela per la presenza del Movimento di Comunione e Liberazione; quindi, grazie a lui il Movimento è presente in Venezuela. Una grande amicizia e paternità. Dopo, di fianco a me, il dottor José Manuel Comilares, detto Chema per gli amici, un grande amico conosciuto non solo nella sua regione di Lara e nel suo paese, El Tocuyo, ma in tutta Venezuela per il lavoro che fa come medico al servizio dei più bisognosi e direttore di una clinica che si chiama “orecchio, naso e gola” (detto in italiano), in Barquisimeto e anche presidente della fondazione Stapedium. Benvenuto Chema! La dottoressa Chiara Locatelli – quindi abbiamo due medici qui sul palco – di Bologna. Chiara è neonatologa del Policlinico Sant’Orsola a Bologna. Ha sviluppato il “Percorso Giacomo”. E’ per quello anche io l’ho conosciuta e siamo diventati amici, perché è un percorso per i bambini che nascono con una vita breve, quindi la cura palliativa del neonato. È responsabile di un ambulatorio di malattie rare, in particolare sindrome di Down. Grazie, Chiara, per essere con noi. Alla fine, è difficile presentare Franco Nembrini perché voi lo conoscete, scrittore appassionato della letteratura, della storia, ma soprattutto c’entra molto con questo incontro, perché è un grande amico non solo mio, ma del Venezuela. Grazie Franco.
L’incontro di oggi parla di un’esperienza, per chi è potuto andare a vedere la mostra, molto particolare. Immaginate una città come Roma. Un giorno c’è il funerale di un medico ed improvviso arriva un milione di persone, quindi tre volte Piazza San Pietro, che alla uscita del funerale dice: “Questo medico, José Gregorio, è nostro” e lo porta fino al cimitero. Quindi un uomo che già del giorno della sua morte è stato capace di unire tutto il popolo venezuelano. Caracas in quel momento, 1919, aveva 100.000 abitanti, quindi 30.000 hanno partecipato (quindi gente del popolo, politici, dell’ambito commerciale, tutti). Quindi già dal primo giorno in Paradiso lui è stato capace della unità del popolo venezuelano. Diceva un grande scrittore venezuelano: “Non hanno seppellito un uomo, ma un’ideale umano, che è passato trionfalmente al passaggio del feretro. Tutti abbiamo sperimentato il desiderio di essere buoni”. Anche per me e per tutti quelli che abbiamo visto in questi giorni alla mostra, abbiamo visto con i nostri occhi e sperimentato questo grande desiderio. Una persona che da quel momento, oserei dire, è diventato il più importante fattore di unità di tutto il popolo venezuelano. In modo particolare, vogliamo sapere come la sua vita e la sua opera ci aiutano a capire se la pace e l’unità sono possibili. Una sfida grandissima nel mondo di oggi.
Allora vorrei iniziare e do la parola a sua Eminenza, perché è anche un privilegio ascoltare da parte sua l’esperienza di José Gregorio. Per iniziare l’incontro di oggi vorrei sottolineare l’aspetto che lei sempre mi ha detto. Quindi da un villaggio nelle Ande, in una Venezuela dalla fine dell’Ottocento, che non era nella mappa mondiale, un piccolo paese come è piccola la mostra qua nel padiglione C3, però, che è sempre frequentata. Quindi da quel punto lì è nato José Gregorio. Cosa ci può dire di cosa rappresenta oggi José Gregorio per il Venezuela e anche per il mondo?
Cardozo. Buonasera a tutti, benvenuti. Il mondo di oggi tende a truccare e volti veri, sfigurando l’immagine, vendendoci una caricatura di scarso valore, perché l’autenticità è oscurata. Il lavoro onesto, il servizio, gli altri, soprattutto agli emarginati, il primato dell’amore di Dio come il motore della vita, hanno poca rilevanza. Forse è per questo che quando ci viene proposta la vita e opera di un santo sembra come se fosse qualcosa di poco attraente. Dobbiamo fare la doppia esperienza che fece Ignacio di Loyola, leggendo libri di cavalleria o vita di santi. La prima ti riempie di un entusiasmo passeggero, ma lascia un voto che si ribalta nella seconda lettura che porta pace e tranquillità. La vita di José Gregorio, medico del popolo, scienziato, ricercatore e innovatore della scienza medica, credente di profonda convinzione, preoccupato per la salute di tutti, ma con una speciale predilezione per i più poveri, ci sconvolge. La sua immagine più popolare è la foto che lo ritrae, vestito in abito oscuro, elegante, con un capello alla moda e l’atteggiamento di un uomo serio e introverso. Ugualmente possiamo notare che era una persona allegra, amante della musica e del ballo, che amava i momenti di svago in famiglia e allo stesso tempo puntuale e diligente nell’adempimento della sua missione di medico e ricercatore. È ancora più difficile capire la sua vita sapendo che si tratta di un uomo proveniente da un piccolo villaggio quasi insignificante, sperduto nel mezzo delle montagne andine venezuelane, in un’epoca di guerre, penurie, di ogni genere e senza un orizzonte di miglioramento, in un Paese impantanato nell’arretratezza. Tuttavia, è qui che dobbiamo chiederci se abbiamo a che fare con un uomo fuori del comune, una specie di superuomo o invece con la realtà che le circostanze avverse quando sono fecondate dall’humus trasformante della famiglia e di un ambiente umile, in cui le virtù umane più semplici sono quelle che producono la trasformazione degli esseri umani in persone buone, che con la loro testimonianza trasformano l’ambiente che li circonda. José Gregorio Hernández ha due vite. Il suo ciclo vitale va da quando è nato fino a quando ha incontrato la morte inaspettatamente, quando è stato investito da un’auto mentre attraversava la strada. Questa prima fase della sua esistenza è stata percepita e assunta tranquillamente da coloro che lo circondavano. Dal momento della sua morte fisica, il Jose Gregorio che tutti portiamo dentro di noi, è nato, potremo quasi dire risorto. La bucolica e pacifica Città di Caracas del 1919 si trasformò in una folla in fermento che sentiva spontaneamente che quell’uomo non era solo un altro, ma l’espressione più profonda di quello che tutti noi vorremmo essere: persone buone. Da quel momento nacquero l’ammirazione e la devozione, espresse da amici che professavano idee e convinzioni diverse dalle sue. E la manifestazione più sentita di tutte le classi sociali che scoprirono in lui il desiderio spesso sommerso in mezzo alla vicissitudine della vita quotidiana, la nostalgia di essere migliori che tutti portiamo dentro di noi per emergere. Il suo messaggio ci interpella come se fosse una questione di vita quotidiana, vicina noi. Tutto questo è stato il frutto di un’unità generata dalla fede vissuta da José Gregorio, che è diventata un fattore unificante allora come oggi per tutto il popolo. Siamo di fronte a una persona con l’odore del popolo. Proveniva da un villaggio sperduto nelle Ande dove si è formato con disciplina, serietà e misticismo, trasmessi dai suoi genitori, dal suo maestro e dal sacerdote del villaggio. Una trilogia che ha piantato in lui una fede radicata nelle semplici circostanze della vita di un villaggio. Inviato dal padre nella capitale divenne un grande scienziato e professore di fama nazionale e internazionale che non dimenticò né trascurò mai le sue origini. Il contesto autoritario e anticlericale della sua permanenza in Venezuela è stato il crogiolo per purificare la sua fede, senza rancore o odio, con una perseveranza guidata dalla stessa fede. Una seconda sfaccettatura policroma gli ha permesso di coltivare tutto, dalle cose ed ai mestieri più semplici alle esigenze della sua professione, la sua migliore vocazione di medico, professore universitario e ricercatore pioniere. Fede, scienza e umanità si univano all’amore e alla maestria per la pittura, la sartoria, la danza e la musica. Un figlio del suo tempo si dilettava di scienza, filosofia e letteratura, facendo diverse pubblicazioni che lo testimoniano. Un uomo davvero normale e poliedrico. In terzo luogo, la sua vita fu concepita come una vocazione, che lo portò ad andare oltre il dominio della medicina. Tentò la vita contemplativa e il sacerdozio. Ma poi, la buona stella dell’arcivescovo di Caracas, lo inclinò definitivamente a vedere la volontà di Dio nella sua dedizione, nel suo impegno laico come insegnante, scienziato e servitore del popolo, cosa che la stessa realtà venezuelana che debba a grande voce. E lui ha saputo portarle avanti senza avarizia. Si è confrontato con i migliori scienziati del suo tempo, con i quali ha stretto una sincera amicizia, nonostante le differenze ideologiche. Nel mondo di oggi, dove le differenze sono accentuate, ha coltivato con semplicità l’idea di essere un altro del suo popolo, senza diritto ad avere privilegi, ma piuttosto a servire. Una caratteristica di spicco è il titolo di dottore dei poveri e della pace. In vari passaggi della sua vita è evidente la sua dedizione ai Poveri è l’indigente, sempre con estremo riservo, delicatezza e attenzione per ognuno di loro. Si evince anche il suo distacco e la sua libertà di fronte al potere e la sua chiara opzione per i poveri. Era una coscienza universale, una dimensione della sua vita che trascendeva i confini del suo Paese, immerso nella sua quotidianità senza troppi riferimenti al mondo circostante. Si è concretizzato nell’offerta della sua vita per la pace nel mondo che dice la sua consapevolezza del valore e della dedizione della vita così come la chiarezza della dimensione universale cattolica di ogni gesto con una dimensione di eternità. La dimensione senza confine della sua vita non sorprende. Non è quindi una semplice aggiunta il fatto che Papa Francesco lo abbia nominato co-patrono della cultura di pace dell’Università Lateranense, un chiaro messaggio che la guerra non è la strada giusta per la pace e la convivenza del popolo. Da qui il profondo legame del popolo con la sua persona e come questo abbia generato espressioni diverse. Egli è il catalizzatore della unità in una società come quella venezuelana, in cui lo scontro e le esclusioni dell’altro sono proposti come la via della società. Il suo fascino e le sue devozioni vanno oltre all’esperienza cristiana. Per questo attrae persone di diverse confessioni agnostiche generando importanti conversioni nel campo della convivenza che proclama la fraternità e il servizio come via per il vero progresso materiale e spirituale. Le espressioni artistiche ne fanno un modello da imitare come riferimento culturale presente nella vita quotidiana della gente. Il miracolo nella cultura latino-americana e venezuelana non è un’espressione tangenziale dell’esistenza, il miracolo permanente della fraternità e del servizio diventa il motore della vita che genera una corrente di gratitudine per tutti coloro che vi si avvicinano. Vi invito a visitare la mostra “Il Medico del Popolo”, la prima che si fa fuori dal Venezuela. E voglio in questo momento ringraziare al Meeting nella persona del Presidente Bernard Scholz anche per la mostra dell’architetto Lucia Marriotta, il grafico Paolo Fumagalli, tanti volontari e soprattutto voglio fare menzione di Aurora, medico napoletano, che mi ha fatto la guida della mostra con vera passione per questo medico. Nella mostra potete vedere un modo di vivere la fede che favorisce il bene comune, la riconciliazione e la costruzione della pace sociale. Rendere presente la sua vita e la sua opera al Meeting di Rimini è un inno che ci aiuta a promuovere il dialogo, l’incontro nella diversità dei pensieri e delle posizioni che ci portano all’uguaglianza integrale, l’unica che conduce alla pace. Concludo con le parole incoraggianti di Papa Francesco nel suo messaggio in occasione della beatificazione del medico dei poveri José Gregorio Hernández Cisneros, un evento significativo nel bel mezzo della pandemia che ha colpito il mondo. Cito: “Seguendo l’esempio del dott. José Gregorio, possano essere capaci di riconoscersi come uguali, come fratelli, come figli dello stesso Paese, che siano disponibili a servire e siano abbastanza umili da lasciarsi servire, da aiutare e lasciarsi aiutare, da perdonare e lasciarsi perdonare. Non dimenticate, gli uni verso gli altri, o come diceva la vecchia signora, gli altri verso gli altri, reciprocamente sempre”. Grazie a tutti.
Marius. Grazie mille Eminenza, veramente ha fatto in pochi minuti tutto un percorso di tanti aspetti di José Gregorio, che sono importanti per il mondo di oggi, per ciascuno di noi.
Adesso abbiamo il privilegio di avere due medici José Manuel Chema, del Venezuela, e Chiara, dall’Italia. Perché l’esperienza di José Gregorio, come ha detto sua Eminenza, non è una cosa soltanto del passato, si vive anche oggi. Vorrei iniziare con Chema, perché come medico venezuelano e con un lavoro importantissimo nell’ambito sociale, e che io conosco personalmente perché sono stato anche volontario per dargli una mano nelle giornate che fa nel suo paese del Tocuyo, vorrei chiederti cosa significa per un medico venezuelano oggi coinvolgersi nel lavoro sociale e per i medici venezuelani si riesce a dire anche alla fine due parole, cosa significa José Gregorio oggi?
Colmenarez. Buonasera a tutti. Vorrei esprimere il mio ringraziamento a tutti voi per essere qui presenti e per avermi invitato di nuovo a questo incontro straordinario mondiale, a cui già ero potuto venire nel 2019. Allora, risponderò alla tua domanda da tre punti di vista. Posso farlo da cristiano cattolico credente, posso rispondere anche dal punto di vista di medico e come paziente anche, io stesso. Come cristiano cattolico tutti abbiamo l’obbligo di aiutare il prossimo, i bisognosi, e come medico tutti i medici venezuelani e nel mondo vogliono essere scrittori, vogliono essere scienziati, vogliono saper ballare, conoscere la musica, sapere di filosofia, come ci diceva anche il cardinale, José Gregorio, anche lui fu un eccellente medico e scienziato. Ma anche come paziente posso risponderti perché io sono stato paziente e ho avuto fiducia nei medici però mi sono sempre rivolto a José Gregorio Hernández per la salute mia e della mia famiglia.
Marius. Grazie. Racconta un po’ il lavoro che stai facendo non solo nel Tocuyo ma che è nato nel Tocuyo però che adesso stai girando anche per diverse regioni dal Venezuela. Qui possiamo vedere le belle foto delle giornate che fai al Tocuyo. Racconta perché questo lavoro è molto interessante per capire come un medico si coinvolge nel rapporto con i più bisognosi.
Colmenarez. Due settimane fa stavo con la mia famiglia e parlavo di questo evento che ci riunisce qui oggi e alla fine di questo incontro si avvicina mia mamma e aveva appena compiuto 93 anni e mi dice: “Devi dire alle persone là dove andrai che quando tu avevi 4 o 5 anni, tuo padre ed io ti portavamo al villaggio di Isnotu, nello stato di Trujillo dove era nato José Gregorio Hernández. Partivamo all’alba in macchina, viaggiavamo 4 o 5 ore per chiedere a José Gregorio la grazia per la tua salute, perché avevi sempre infezioni a livello respiratorio e ci rivolgevamo a lui con molta fede, perché eravamo molto preoccupati per la tua malattia e ti avevamo portato da tanti specialisti ma non stavi mai meglio”. E questo è successo più di 50 anni fa e quindi vi potete immaginare che mia madre me l’ha dovuto ricordare perché ero tanto piccolo allora, però è una storia che potrebbe essere raccontata da migliaia e migliaia di famiglie venezuelane al di là della loro condizione sociale o della loro religione. Nel mio paese questo si verifica da più di un secolo, sempre si cerca l’intercessione del beato per diverse questioni di salute. Il popolo in Venezuela chiede con fervore che all’inizio veniva conosciuto come il medico dei poveri per il suo impegno e la sua attenzione verso i più bisognosi. Allo stesso modo vi potrei anche dire che il fatto di essere stato lì con la mia famiglia in qualche modo deve aver influenzato nella mia testolina in formazione e ha avuto un impatto su di me il vedere tanta gente attorno alla figura di José Gregorio e aver cominciato quindi i miei studi di medicina e avere un ideale, un modello da seguire e che cercava l’unione celestiale della scienza, della fede, dell’umiltà e della bontà, dell’apprendimento continuo, della docenza, della carità. Insomma, dell’uomo integrale e del vero cristiano nel senso più ampio. Sono sicuro che molti dei professionisti eccellenti della medicina venezuelana hanno avuto l’ispirazione e il desiderio di essere come lui. Dopo 20 anni circa di questo episodio, nel 1995, stavo tornando dai miei studi postlaurea in otorinolaringoiatria nel mio paesino che si chiamava Tocuyo. Io ero il primo medico specialista di malattie otorinolaringoiatriche e facevo delle visite gratuite nell’ospedale locale per le persone, che non si potevano permettere uno specialista privato. Quel giorno io ero l’unico medico e aspettai lì le persone e vennero alla fine solo due pazienti. Solo due pazienti durante tutto il giorno e io ero contento perché era lo stesso ospedale dove io ero nato ed ero lì con le persone che io volevo aiutare. Poi nel tempo abbiamo continuato a dicembre a svolgere questa giornata senza immaginarci dove potesse arrivare questa iniziativa. A poco a poco si sono andati aggiungendo volontari, medici, infermieri, aziende, fondazioni, istituzioni private anche governative, soprattutto persone o famiglie che erano state aiutate negli anni precedenti. Abbiamo ricevuto il sostegno degli organismi di sicurezza, delle forze armate nazionali e abbiamo finito con una grande opera di grande ampiezza dove non c’era solo un medico. Adesso siamo più di cento e veniamo da diverse regioni del Paese, anche dall’estero. E non c’è solo una specialità medica, ma 26. E non è solo una giornata, sono cinque giornate dove lavoriamo; non sono solo due pazienti, come la prima volta, ma siamo arrivati a 3.000 persone che arrivano lì quel giorno per ricevere assistenza per i loro problemi dove facciamo visite mediche e facciamo anche sale operatorie per svolgere più di 500 interventi chirurgici di diverso tipo. Tutto viene fatto gratuitamente, diamo anche a loro i farmaci, diamo dei giocattoli ai bambini e i nostri figli portano i loro giochi migliori per condividerli con i bambini nell’attesa di essere visitati e nel tempo abbiamo visto che c’era bisogno anche di dare da mangiare a questa grande massa di persone e abbiamo fatto più di 1500 pasti al giorno per tutta quella gente, i pazienti, anche i familiari. E negli ultimi anni vi posso dire che abbiamo ricevuto il sostegno in cucina del gruppo di volontari anche del gruppo capeggiato da Alejandro e quindi voglio proprio ringraziarti per tutto quello che hai fatto per noi. Dalle prime ore del giorno tutti gli abitanti del paesino portano da mangiare e portano da bere per collaborare, si offrono come volontari. Ospitano anche nelle loro case le persone che vengono da altre città; anche i taxisti, nelle loro macchine, nelle loro moto, offrono servizio gratis. Gli alberghi, i ristoranti, le trattorie e tutti i negozi in generale offrono dei prezzi più solidali. Tutti insomma vogliono dare una mano. Il paesino del Tocuyo si riempie di gioia in quel giorno e tutti si uniscono senza differenze di razza, sesso, politica o religione. Sanno che stanno aiutando, che stanno dando il loro piccolo contributo con quello che si conosce adesso come l’equipe chirurgica più grande del Venezuela. L’organizzazione di questa grande giornata avviene grazie a un grande gruppo che lavora sei mesi prima della data. Dobbiamo ovviamente vedere come funzionano tutte le cose intorno all’area dell’ospedale, dobbiamo capire come far funzionare le sale operatorie, le sale d’attesa, cominciamo a fare tutte le valutazioni preoperatorie, si comincia anche ad avere tutte le richieste, le collaborazioni per avere tutte i farmaci e gli strumenti necessari. Siamo contenti però di sapere che alla radice di questo lavoro e pensando alla crisi profonda che c’è nel nostro Paese, altre fondazioni, altre associazioni si sono aggiunte, hanno cominciato a collaborare in diversi paesi e luoghi a tutto il livello nazionale. Ci siamo uniti tutti, il bene comune è contagioso, fiorisce l’amicizia e l’unione di tutti i gruppi della società venezuelana, si rompono le barriere che ci separano tra diversi settori della vita sociale e politica per poter raggiungere l’obiettivo. In questi 20 e oltre anni di esistenza siamo riusciti a realizzare più di 8.000 operazioni e di avere in visita più di 12.000 pazienti. Da oggi ci sono già persone al lavoro perché possiamo ripetere questa iniziativa nel 2023. Vorrei anche raccontarvi che circa un mesetto fa stavo facendo delle operazioni chirurgiche a Caracas come parte dell’attività della nostra fondazione che si chiama Stapedium in onore al muscolo più piccolo del corpo umano, che si trova nell’orecchio medio e che ci protegge dai rumori forti, protegge proprio il nostro apparato uditivo. Questo ospedale è lo stesso dove lavorò e fu seguito José Gregor Fernández dopo il suo incidente nel 1919. Lì si vede che ancora c’è una forte presenza nelle sale dell’attesa, nelle sale operatorie, nei corridoi, in quasi tutte le stanze dei pazienti troviamo delle preghiere o dei santini, delle immagini del beato. I malati, i familiari dicono che lo hanno visto passare qualche volta, camminare per i corridoi, si rivolgono a lui per la loro salute, perché possono riprendersi dalle loro malattie. Ho potuto vedere le madri anche dare queste immagini ai bambini prima di entrare in sala operatoria. Sappiamo che questo avviene non solo in Venezuela, ma anche in altri Paesi vicini, anche più lontani, dove la fede nel dottore José Gregorio Hernández si è moltiplicata. Però adesso tutti aspettiamo che José Gregorio possa mettere in pratica la sua enorme conoscenza e la sua enorme saggezza, che possa fare la sua miglior diagnosi, il suo miglior trattamento, che possa esaminare questo mondo malato e che ci dia un sollievo di fronte alle immagini della guerra, delle disuguaglianze sociali e dei problemi che abbiamo nel nostro Paese e che ci aiuti a combattere quello che Papa Francesco pochi giorni fa ha descritto come la propagazione di una specie di epidemia di inimicizia. Tutti aspettiamo questa ricetta medica da parte del dottor José Gregorio, questa divina prescrizione che ci dia la cura, che ci dia un balsamo per riempirci di fede e di speranza, pastiglie di amicizia profonda e sincera, di solidarietà reciproca e di riconciliazione e con il bisturi della sua santità che possa svolgere la chirurgia definitiva e che possa togliere i mali della nostra esistenza che compromettono il futuro delle nuove generazioni. Vi ringrazio e vi saluto tutti.
Marius. Il bene comune esiste ed è contagioso. Incredibile! E possiamo sperare il miracolo di José Gregorio perché abbiamo la certezza oggi che lui continua a operare, con il suo bisturi, con tutto quello che hai detto in un modo fantastico. Grazie, Chema! Chiara, per me all’inizio è stato un po’ imbarazzante chiederti questo incontro, perché evidentemente era mettere sul palco un medico italiano che prima non sapeva niente, non aveva idea di José Gregorio. Ha letto, ha fatto il compito, ha letto, ha studiato José Gregorio. Però la cosa che mi colpisce di più è il lavoro che hai fatto. Serio, non solo di lettura, di lettura come se fosse una storia, ma anche di fare i conti con la tua esperienza drammatica di neonatologa, di stare di fronte alla vita e alla morte. Quali sono gli aspetti della vita di José Gregorio che ti hanno colpito di più, che ha che fare con quello che stai vivendo come medico nel tuo lavoro?
Locatelli. Grazie, intanto dell’invito, chiaramente sento una grandissima sproporzione rispetto appunto al beato José Gregorio… però stamattina mentre ero al lavoro appunto ero in terapia intensiva, di fianco a una mamma con un bimbo molto grave e ho proprio pensato alla frase del Salmo “Cercate ogni giorno il volto dei santi per trovare riposo nei loro discorsi”. E ho pensato a lui a cosa avrebbe fatto di fianco a questa mamma. Lui che correva sotto la pioggia faceva tanta strada nelle vie del vostro Paese con le intemperie che ci sono per arrivare fino a casa dei suoi pazienti e curarli anche gratuitamente. L’unica cosa era stare, stare avendo in mente appunto questo sguardo. Quello che mi ha colpito del Beato José è proprio questo sguardo di fronte, prima di tutto, alla scienza, perché l’evidenza della sua storia è che c’era un’unione tra scienza e fede, perché la sua fede era proprio il motivo, l’origine della sua capacità di essere un grande ricercatore e di essere un pioniere della medicina in Venezuela e in tutta l’America latina. Questo proprio per una passione alla realtà, una passione alla realtà perché la realtà di Cristo e così di fronte a tutti i suoi pazienti, ma anche il percorso di formazione che è stato tutto un seguire dei maestri. Dai maestri, dai premi Nobel che ha incontrato a Parigi, per quei tempi andare a Parigi dall’America latina penso che non fosse proprio la normalità. Che poi loro stessi riconoscono la grandezza di quest’uomo e lo documentano. Ma anche guardare dai più semplici, c’è un episodio quando torna a casa per tornare nel suo paese per obbedire al padre che gli aveva chiesto di diventare medico per servire il suo popolo e va in questi ospedali del suo paese e rimane colpita da un’infermiera che con dedizione cura le piaghe da decubito di un paziente con la frattura di femore. Rimane colpito come se il suo servizio ai pazienti fosse poi segnato da questa suora infermiera. Questo nella mia professione è lo sguardo che io desidero avere. Ma ancora, guardando la sua storia, che cosa permetteva questo sguardo? Io ho intuito dei rapporti, un’amicizia che arrivava fino ad un giudizio su tutta la vita. Quindi dei rapporti con dei maestri, ma dei rapporti anche con il suo monsignore Juan Battista Castro con cui decide, che appunto lo aiuta anche, lo accompagna nel decidere la sua vocazione. Questa amicizia io la chiamo comunione e penso che sia quella amicizia inesauribile di cui noi parliamo qui al Meeting ed è quello che anche nella mia vita trovo come la possibilità tentativamente di avere quello sguardo. Pensando appunto anche io, immedesimandomi ai maestri che ho avuto, a partire dalla professoressa Paravicini, che ho conosciuto a New York tanti anni fa e che ho avuto l’opportunità di seguire alla Columbia University di New York, ma non solo come professionista, bravissima professionista, ma proprio per la certezza che aveva nello stare di fronte ai bambini e alle famiglie che accompagnava, una certezza di un bene. Un altro amico che sta facendo un percorso di canonizzazione, un grande amico medico, diceva Enzo Piccinini, che il cristiano non è scandalizzato dal limite ma lo abbraccia. Ecco, questo penso che per noi medici sia il punto di partenza nella nostra assistenza. E da questa certezza e da questo abbraccio, anche dove sono, ci sono stati dei frutti, dei frutti che hanno portato a creare dentro l’ospedale un luogo di cura, appunto come raccontavi tu ad esempio, questo “Percorso Giacomo” per i bambini che nascono con delle diagnosi prenatali di inguaribilità e luogo di cura dove questi bambini che forse sarebbero un po’ gli ultimi di José, invece diventano i bambini più preziosi, così come le loro famiglie che hanno detto sì e che per prime hanno abbracciato un limite e dentro questo si è creato, grazie a colleghi ginecologi, ostetriche e infermiere, una possibilità di dedizione e di cura dentro la cura, senza nulla a togliere a quello che già l’ospedale dà. Penso che quindi quello che a noi è dato è la possibilità di vivere questa comunione e di costruire dei luoghi di comunione. Vi dico altri due esempi che mi vengono in mente. Uno è questo appunto, di fronte alla sofferenza che io vedo tutti i giorni e anche nel desiderio di condividere fino in fondo il dolore di questi bambini e di questi pazienti, a volte è veramente faticoso e proprio perché la sofferenza è tanta. Ma esistono dei luoghi, e penso ad esempio a questa associazione di amici che si chiama La Mongolfiera, che sono famiglie con bambini con disabilità, in cui io posso vedere un luogo di speranza e dove questo appunto questo limite è vissuto, abbracciato senza far fuori la domanda di felicità, anzi proprio a partire da questa domanda di felicità ed è per me un luogo di speranza dove io ho bisogno di guardare per poter guardare appunto i miei pazienti. Finisco perché sua Eminenza prima diceva che il miracolo è la fraternità, un modo di vivere la fede che favorisce il bene comune. Diceva che questo è quello che ha portato il Beato José. Un altro esempio, scusate, è questo ambulatorio che dicevamo dei bambini con la sindrome di Down, che è un luogo, anche questo, veramente di bene, che mi è stato regalato da chi l’ha fondato e che è adesso diventato un luogo di bellezza grazie a tanti giovani specializzando e dottorandi che ci stanno aiutando, dedicandosi anche molto ore dopo il tempo del lavoro e anche senza essere particolarmente remunerati. Ma per quanto riguarda il miracolo della fraternità e questo favorire il bene comune, vi racconto questa cosa che mi ha segnato tantissimo. Un paio di anni fa io, come neonatologa, incontro le mamme che aspettano bambini. Ho incontrato questa mamma (e il papà), che era incinta e aspettava un bimbo con la sindrome di Down, con una cardiopatia. Era molto in difficoltà non voleva interrompere la gravidanza, ma pensava di non farcela a tenere questo bimbo e quindi era molto in difficoltà. Io gli ho detto che cosa voleva dire seguire questi bambini e ho detto che ci sarei stata. Dopo un paio di settimane mi ha richiamato, è tornata e mi ha raccontato con un’altra faccia più libera, più lieta, che il suo parroco le aveva dato il gancio – bellissimo questo esempio, penso che dovremmo essere sempre questo gancio – per superare questa difficoltà. Le aveva raccontato di una famiglia che aveva adottato un bimbo con la sindrome di down e che viene appunto nell’ambulatorio dove lavoro e quindi le aveva detto, ma perché tu non fai nascere questo bambino ci sarà qualcuno che lo porterà per te e quindi aveva deciso per questa scelta lieta, ma anche con una grandissima sofferenza. È una cosa che a me ha segnato tantissimo il rapporto con questa mamma in particolare e anche la sua grande sofferenza, ma per me è stato proprio l’esempio di questa fede che favorisce il bene comune e questa fraternità, perché dove uno non può arrivare c’è un altro che può accompagnare e custodire quello che tu non riesci a compiere. Finisco con questa frase di Don Giussani che quando racconta di Ermanno lo Storpio, un altro bambino che la mamma ha lasciato, proprio perché con delle importanti malformazioni, in un monastero. E crescerà con i monaci, crescerà in virtù, scriverà il Salve Regina e l’Alma Redemptoris Mater e insomma segnerà la storia, proprio accompagnato da questi monaci. Giussani dice: “Come mai l’hanno accettato nel convento? Poteva diventare quello che è diventato se non avesse avuto il contesto che ha avuto? È il contesto che molto più che sua madre, con la quale era una cosa sola, è andata a mendicare il soccorso della comunità, il senso profondo di comunione, di unità che era mentalità, popolo di allora faceva percepire questo passaggio, non come sgrupparsi del peso, non come un demandare ad altri una cosa che dà fastidio a me, ma era demandare a un’altra parte di me quello che da solo non sono capace di fare. Una unità profonda, c’era tra il monastero e la comunità tutta dei cristiani, era realmente una cosa sola, anche socialmente parlando, era un’entità sociale unica”. Ecco, quello che ho visto nella storia di José è che ha creato questa comunità, questa comunione solo nell’esserci, nel servire il suo popolo attraverso la sua professione e penso che questo è anche quello che costruisce questo Meeting e che è chiesto a ognuno di noi.
Marius. Grazie mille Chiara. Commovente come un medico può stare con un atteggiamento diverso, come diceva anche Chema, di fronte alla sofferenza, di fronte al dolore e come emerge questa coscienza del bene comune a partire dal vivere in comunione. Questo nuovo concetto di popolo, di comunità che diventa popolo. Su questo voglio chiederti, Franco, perché è già difficile farti una domanda. Però uno degli aspetti di José Gregorio che ci colpisce molto è il tema della vocazione. Allora, se ci puoi aiutare a fare un passaggio molto semplice: dalla vocazione a cosa genera un popolo. Semplice. La domanda si fa all’altezza di chi risponde, vero? Allora, prego.
Nembrini. Devo necessariamente dire perché sono qui, altrimenti molti se lo chiederanno, tra l’altro, cosa ci faccio, tra l’arcivescovo di Caracas, te, due medici. Cosa ci faccio io, che del beato, Jose Gregorio Hernandez, non sapevo niente, proprio non ne conoscevo l’esistenza. E lo dico perché mi pare che c’entri con le testimonianze che abbiamo ascoltato e un po’ anche con la domanda che mi hai fatto. Io ho detto di sì prima di tutto a te, a te e all’amicizia con te, che dura da diversi anni, e anche, devo dire, a una curiosità che mi è rimasta da quando ho fatto il primo viaggio a Caracas a incontrare gli amici di Marius che conoscevo già… Ma c’è stata l’occasione, insomma, di andare a parlare di Dante a Caracas, a Maracay. E lì ho avuto un incontro di cui vi devo raccontare perché mi ha acceso una curiosità rispetto al popolo venezuelano: che gente è, perché sento così in sintonia quella gente con la mia gente, quella terra con la mia terra. Perché, quando sono andato là, mi hanno spiegato, mi hanno raccontato che c’era una donna, una donna delle favelas che era quella che era stata all’origine di tutta questa iniziativa su Dante a Caracas. Aveva bisogno di un piccolo titolo di studio; per avere questo specie di diploma che le permetteva di mettere in piedi un’azienda ha dovuto studiare all’università, le hanno assegnato una piccola tesi e la tesi aveva come argomento Dante Alighieri e lei non sapeva neanche chi fosse. Ha chiesto la carità di cambiare, ma si è beccata Dante. Allora, informandosi dal prete, i figli, credo forse hanno chiesto anche a voi, ha incrociato la lettura di Dante e mia di quegli anni su TV 2000, eccetera. Insomma, si è appassionata a Dante e ha chiesto con molta forza che io andassi a incontrarla e a parlare di Dante a lei e ai suoi amici. E mi ha raccontato questa cosa che mi folgorò e che dice tanto – poi ho letto, anch’io ho fatto un po’ i compiti, non l’hai detto, l’hai detto solo di lei, ma ho studiato, ho letto la vita del beato e mi è proprio venuta in mente la stessa tempra, la stessa stoffa. Questa donna si è così appassionata … io le ho detto: “Ma scusi signora, – adesso perché me l’han fatta conoscere proprio – ma cosa gliene frega di Dante! Siete qui nella miseria”. Era un momento incasinatissimo. Cosa gli importa di Dante? E lei con sorpresa mi dice: “Ma come professore, Dante è importante, Dante parla al nostro cuore proprio in questa situazione”. Cosa vuol dire parla? E dice questa signora: “Io l’ho letto e parla del bene, del male, della fatica, del dolore, aiuta a vivere. Allora quando alle quattro di mattina scendo dalla favela e mi metto in fila per il pane, ore e ore di fila davanti ai negozi del pane per portare a casa – tre pezzi di pane così da dar da mangiare ai figli che muoiono di fame -, io mentre faccio la fila per ore e ore, prendo la Divina Commedia e la leggo alta voce. E le donne, le altre mamme, hanno cominciato ad abituarsi a questa cosa. Scendono dalla favela e chiedono dove è quella di Dante. E insieme, mentre la fila pian piano si avvicina al negozio, leggiamo Dante, perché aiuta a vivere”. Ho esagerato in qualcosa? No, è proprio così.
Alejandro Marius. Hai esagerato un po’, però è così.
Nembrini. No. Vien voglia di alzarsi e andare via, eh? Perché se quello che ti ha invitato non ti dà una mano e ti fa fare la figura, non va bene.
Marius. È stato così, hai dimenticato solo di dire che era una donna che faceva i cioccolatini, ti ricordi?
Nembrini. Sì, certo, aveva bisogno di studiare per aprire l’azienda del cioccolato.
Marius. Questo è importante, perché parlando della realtà, il cacao e il cioccolato venezuelano è il migliore al mondo. Per quello l’ho detto.
Nembrini. Va bene. Allora quando mi hai invitato qui ho detto io devo capire, siccome ci dobbiamo anche tornare, devo capire che razza di gente è. Sono curioso, devo capire che razza di gente è. Leggo la biografia del beato e mi ha veramente colpito una consonanza su diverse cose Le elenco semplicemente perché non c’è il tempo … del resto il ritratto che ne ha fatto sua Eminenza e le cose che abbiamo già ascoltato bastano e avanzano. Io ci aggiungo “per titoli” le suggestioni che mi sono venute ripensando a questa storia e a questo incontro con quella donna, con quelle donne, con la famiglia di Marius e con la gente del Venezuela. E poi c’è qualcosa da capire anche sulla questione dei medici… perché questo incontro di stasera mi prende in un momento particolare della mia vita. In qualche modo, sarà l’età e che gli anni vanno su – qui ci sono quattro giovanotti e io invece sto invecchiando – sarà l’età che avanza, sarà la malattia, sarà quel che sarà che non puoi più fare tante cose che facevi, mi è venuta una specie di… vien quasi da lasciar perdere la salute per occuparsi un po’ più decisamente della salvezza, non so se mi spiego. Cioè, ormai, Talia di Entamat per cus’è? (1.10.02 – è dialetto bergamasco…) Tant’è vero che, come dico a volte, l’ho detto a un congresso di medici, fate un brutto mestiere voialtri, perché è tre o quattro mila anni che provate a salvar la gente, ne fosse scampato uno. Uno! Sono morti tutti! Mi è sembrato di poter considerare che è un lavoro un po’ triste il loro, destinato così clamorosamente e universalmente al fallimento. Insomma, ero sull’onda di queste riflessioni e invece, proprio la vicenda del beato, mi ha costretto all’approfondimento della cosa forse più bella, più interessante, già emersa nei loro interventi e che è la cura, la stima che Cristo ha per la vita dell’uomo, la vita su questa terra, tanto da farsi uomo. Allora, esser medici, la passione perché l’uomo stia bene, perché l’uomo guarisca, perché l’uomo sia felice, perché soffra il meno possibile – e il tuo racconto di prima, Chiara, è clamoroso – è veramente la stessa passione con cui Dio guarda la nostra vita, non fregandosene della sofferenza, non fregandosene se hai il mal di testa. No, gli importa tutto, anche del corpo. I capelli del vostro capo sono contati. I capelli del capo, figuratevi le unghie, figuratevi lo stomaco, figuratevi il cuore. Ha a cuore tutto del nostro corpo. Siamo i grandi materialisti della storia, quelli che veramente hanno il coraggio dall’incarnazione in poi, da Gesù in poi, hanno il coraggio di inginocchiarsi davanti a un pezzo di pane. Ecco che questa storia di questo beato, che questo beato sia un medico e faccia compagnia a tanti medici che la storia della Chiesa abbia beatificato, venerato in questi ultimi duecento anni, mi colpisce molto. Mi colpisce molto perché è come una valorizzazione dopo secoli in cui una certa vena protestante ha attraversato anche la Chiesa cattolica e faceva in qualche modo disprezzare il corpo, continuano a venire su, dall’Ottocento in poi. I primi sono proprio questi (Moscati, Hernandez), continuano a venire su medici santi, che sono santi per come hanno professato la loro professione di medici. A me questo commuove tantissimo, è proprio un inno all’incarnazione, all’unità di corpo e anima che siamo, per cui nulla andrà perduto, neanche i capelli del capo. Allora, uno come il beato Hernandez, che ha passato la vita cercando di alleviare la sofferenza proprio dei più poveri, proprio degli emarginati, con quella gratuità che, tra l’altro, ha caratterizzato generazioni di medici anche nella nostra terra, nella nostra storia, medici che gratuitamente visitavano le famiglie povere di notte, nel momento del bisogno, quel che fa Chiara con i suoi amici a livello professionale adesso. Ecco tutta questa vicenda mi ha veramente colpito tanto, per questa rivalutazione del corpo, della materia. Allora proprio come lui laico, tra l’altro medici e santi laici, tanti. Madri che hanno dato la vita per mettere al mondo un figlio, spose e sposi, coppie addirittura di sposi, cioè sono cent’anni, centocinquant’anni che la Chiesa è come se avesse ritrovato una santità popolare, che non è più necessariamente della monaca di clausura o del santo religioso, prete o frate, ma la santità ordinaria, la santità della vita della famiglia, la santità dell’amore tra un uomo e una donna, la santità di un’amicizia, come ha detto Chiara prima, questo veramente entusiasma. Il beato Hernandez è totalmente su questa scia, di santi laici – guardate – consacrati, cioè che rinunciano, senza diventar prati e suore, frati e suore, rinunciano per esempio a mettere su famiglia come lui, sei degli undici fratelli non mettono su famiglia e scelgono di rimanere celibi per servire, è impressionante. Memores Domini diremmo noi con un linguaggio facile e comprensibile. Gente che nel mondo e vivendo le dimensioni del mondo, santifica sé e santifica il mondo. Allora la tua domanda, Marius, è proprio… certo che Hernandez ha creato un popolo. Ma in modo così significativo, che mi dica se sbaglio Eminenza, io ho capito dal racconto suo di ieri, che la Chiesa era un po’ titubante a beatificare José Gregorio perché lo fanno santo anche i mascalzoni, cioè vai in casa di gente poco raccomandabile, ma guai a toccargli il beato José. Vai da gente che proprio cattolica forse non è, magari pratica sacrifici con le galline nere sgozzate, ma ha lì il ritratto del beato. Allora la Chiesa ha temuto una deriva un po’ spiritualista di questo beato. E invece, anche grazie proprio al pensiero e all’opera di sua Eminenza, la Chiesa ha pensato bene che è il contrario: è così santo che non “va bene a tutti”, ma veramente “tutto il popolo lo può sentire suo”, è suo, è suo del popolo perché è della Chiesa Cattolica Romana, con sicurezza e con certezza, per la fede che viveva. A me questa cosa ha impressionato tanto, perché quando gli ho detto: “Beh anche da noi i santi sono popolari. Adesso, non è che l’avete inventata voi questa storia”. E loro mi hanno detto: “No, no, no, non hai capito: da noi a qualsiasi venezuelano, se gli tocchi il beato José, ti ammazzano di botte tutti eh, credenti e non credenti”. È diventato l’icona di una unità altrimenti impossibile. E questo è il vero miracolo dei santi: che salvano tutti. Il beato José lo ha fatto davvero. Il santo si vede che è santo non solo perché genera la Chiesa, cioè genera il popolo cristiano, ma perché, generando il popolo cristiano, genera quel popolo dove tutta l’umanità potrà essere salva per i meriti del santo e per i meriti dei suoi amici, noi se ci andremo, andremo in Paradiso così come siamo e altri seguiranno per i meriti di Gesù, della Madonna e dei Santi, altri seguiranno che non lo sanno neanche adesso che andranno in Paradiso per i meriti del beato José Gregorio. Questo fa il santo: genera un popolo su questa terra, ma genera il popolo di Dio per il Paradiso. Salva, letteralmente salva la vita degli uomini. Mi pare che la morte di questo beato che il giorno prima di morire, dice, scrive – non so se è scritto o solo detto -: “Voglio dare la vita per la pace nel mondo” e il giorno dopo a Versailles si firma il primo trattato di tregua della fine della Prima Guerra Mondiale, ma quello stesso giorno muore travolto da un’auto. Il giorno dopo che ha detto a Dio “Do la vita per la pace e per il popolo”. Ecco, è l’ultima riflessione, è l’ultima suggestione che voglio dirvi, quest’altra cosa mi ha veramente impressionato. Il santo non è perfetto, ma dà la vita. Il problema è che dà la vita sul serio. Lì Dio, questo gliel’ha promessa, 24 ore dopo se l’è presa. Dar la vita per la pace, dar la vita per l’unità è veramente dar la vita. E allora, anche rispetto all’educazione che ho ricevuto in famiglia, in parrocchia, poi nel movimento di CL, mi pare che possiamo portare a casa una riflessione importante: che la corrispondenza di cui parliamo tante volte, certo inizialmente è una corrispondenza gioiosa, piena di bene, piena di allegria. È la corrispondenza istintiva della vita che va bene, funziona. È la corrispondenza del miracolo di Cana. C’è festa, c’è da mangiare e da bere, e manca il vino, una tragedia. Un Dio che sia serio interviene e infatti ha cambiato l’acqua in vino. Il problema è che poi, nei tre anni successivi, ha insegnato agli stessi amici che non era mica finita lì. Si trattava di cambiare il vino in sangue, ma ci ha impiegato tre anni per insegnarglielo. E il risultato finale è che ha reso sacro tutto, anche il dolore. Ha chiesto che la consegna della vita fosse veramente per tutti fino al sangue, cioè fino al sacrificio della vita, là dove sei, come sei. Il beato José l’ha detto una volta e il Padreterno l’ha preso così sul serio che l’ha fatto subito e questo sacrificio, credo, lo ha reso padre del Venezuela e beato della Chiesa. Non perché fosse perfetto, non lo so che vita… doveva essere in gamba, perché da quel che ho letto veramente, di una coerenza anche morale, di un coraggio, un coraggio a sfidare la mentalità dell’epoca massonica, liberista, illuminista in senso pesante. La stessa, mi viene da raccontare … ho ancora un minuto? Non racconto più niente. Grazie e arrivederci. No, è una cosa che mi ha sempre colpito che noi in Italia badiamo poco. Al mio paese, Trescore Balneario, provincia di Bergamo. Come tutti sanno il mare a Bergamo non c’è, perché si chiama Balneario? Perché ci sono le terme molto famose nell’antichità e anche oggi che funzionano, guariscono un sacco di gente. Nella piazza del paese, una certa cultura ha messo una statua per celebrare Trescore Balneario. Sapete che statua è? La dea Igea. Che non c’è un cane a Trescore, che sappia chi è questa dea Igea, dea greca della salute. Però siccome ci sono le terme e si curano i corpi, hanno ritenuto di mettere una statua alla dea Igea. Ma mia mamma, quando un mio fratellino si ammalava, mi portava a far benedire un fazzolettino con l’acqua santa da mettere sotto il cuscino del mio fratellino, ma non mi mandava dalla dea Igea, mi mandava all’Addolorata, al santuario della Madonna del Castello e lì mi faceva benedire il fazzolettino. C’è tutta una cultura, insomma, che fa pensare alla cura del corpo come a una cosa assolutamente pagana. Invece, la cura del corpo è una cura sola. La cura dell’anima e del corpo è la cura che Dio ha di noi, anima e corpo. E noi si va all’Addolorata, non dalla dea Igea, che la gente chiama Filopue (1.23.29) e Filomena, non sapendo chi siano questi due signori.
Marius. Grazie mille Franco. È veramente commovente vedere come tante persone, non solo voi, tutta la gente che ha partecipato in questi giorni andando alla mostra, ha visto come la fede di José Gregorio ha generato una visione autentica della realtà, con una capacità di dialogo, di costruzione, di una amicizia sociale, basata su una particolarità della vita. Per questo è possibile la pace e l’unità, riferendo al Meeting dell’amicizia fra i popoli, l’amicizia fra i popoli è possibile, si inizia con un’amicizia fra le persone. L’amicizia fra le persone non è possibile se non c’entra con il senso della vita. “Vi chiamerò amici, non servi”: è stata una iniziativa di amicizia di Gesù con noi. Per questo José Gregorio invita ognuno di noi alla responsabilità di vivere una fede, di offrire un percorso di santità con sacrificio, che possa continuare a generare un popolo come l’ha fatto lui. Vorrei solo dirvi che la mostra continua in C3, c’è anche questo bel catalogo della mostra disponibile in libreria. E perché ognuno di noi si assuma la responsabilità del Meeting, costruiamo insieme questa storia. Avete visto il cuore del Meeting con il Dona Ora. Invitiamo tutti di poter continuare a collaborare perché non solo questa mostra, questa iniziativa possano essere possibili e si possa continuare nel Meeting a fare proposte di dialogo, di speranza per noi, per il Venezuela e per tutto il mondo. Grazie mille.