Chi siamo
QUALE PROTAGONISMO NELL’INFORMAZIONE?
Partecipano: Mario Giordano, Direttore de Il Giornale; Antonio Polito, Direttore de Il Nuovo Riformista; Pierluigi Visci, Direttore del Quotidiano Nazionale e de Il Resto del Carlino. Introduce Alberto Savorana, Portavoce di Comunione e Liberazione.
MODERATORE:
Buon pomeriggio, siamo in maniche di camicia in omaggio a Gianni Riotta, che non è tra noi oggi perché è dovuto partire per gli Stati Uniti, per seguire il discorso di Obama, candidato democratico alle Presidenziali USA. Si scusa di non esserci, ma oggi è dovuto partire per questo impegno professionale. È ormai tradizione da alcuni anni che il Meeting dedichi uno dei suoi momenti a un dialogo, che si vuole il più possibile franco, leale con direttori di quotidiani o TV, ma quest’anno c’è una ragione in più che ci ha fatto desiderare questo momento di incontro ed è il titolo stesso del nostro Meeting: “O protagonisti, o nessuno”. Perché evidentemente oggi, nella scena culturale, sociale e politica del nostro paese, persone che hanno la responsabilità di dirigere dei quotidiani, degli organi di informazione, sono, qualcuno può dire per fortuna o per una disgrazia, dei protagonisti autentici. Perché da essi dipende la possibilità di una informazione che possa favorire una conoscenza e quindi la scoperta di fatti, circostanze, notizie che aiutino, in qualche modo, la maturazione, la crescita di quelli che sono tradizionalmente i lettori, piuttosto che il perpetuare e l’aggravare uno stato di confusione o di inganno generale. Alcuni anni fa, parlando ad alcuni giornalisti, don Giussani li paragonò nella nostra società a quelli che sono intesi, indicati come gli educatori per eccellenza, cioè gli insegnanti. E disse che grande era la responsabilità dei giornalisti, proprio nell’essere i nuovi scribi o i provocatori, portentosi provocatori, disse lui, della vita del popolo, della vita della gente. Disse: “Se i giornalisti si rendessero conto della dignità, del valore della loro professione, tremerebbero al pensiero di che razza di responsabilità hanno”. Allora, noi oggi abbiamo invitato tre amici che tali sono e tali li sentiamo in tanti di noi, che dirigono tre quotidiani molto diversi tra loro per natura, struttura, storia… Perché li abbiamo voluti? Perché in qualche modo li sentiamo protagonisti, nel senso dignitoso della parola, e per questo li abbiamo invitati a un dialogo proprio a partire dal titolo. Abbiamo con noi, alla mia destra Pierluigi Visci, che dirige il Quotidiano Nazionale, che comprende Il Resto del Carlino, La Nazione e Il Giorno; Mario Giordano, Direttore de Il Giornale; e Antonio Polito, Direttore de Il Nuovo Riformista. Già in questi primi giorni di Meeting noi ci siamo imbattuti, in tanti incontri, in protagonisti, cioè in persone che in qualche modo abbiamo sentito come esemplari, interessanti. E il tratto comune di questi incontri è che nessuno di quelli che si sono avvicendati in questi giorni, e alcuni di essi anche con una imponenza di presenza, penso ai coniugi Zerbini delle favelas di San Paolo domenica, o ieri Vicky e Rose dall’Uganda, o ieri pomeriggio l’arcivescovo di Mosca Monsignor Pezzi, avevano fatto programma di diventare protagonisti, ma che per il semplice fatto di aver risposto alla realtà, a una serie di circostanze, si sono trovati al centro di una strana dinamica che li ha resi interessanti per migliaia di persone. Allora, la prima domanda che io vi vorrei porre è: come è capitato a voi di diventare protagonisti? Cosa vi è accaduto nella vita che vi ha portato ad avere responsabilità di organi di informazione importanti, quali sono i vostri? Comincerei con Visci, poi potrebbe proseguire Giordano e infine Polito.
PIERLUIGI VISCI:
Ecco, grazie e buon pomeriggio. In effetti, sì, sono cose che capitano, come dire, abbastanza per caso per certi versi, almeno quando in qualche modo si viene scelti e si viene sempre scelti da qualcuno, o da qualcun altro che ti fa la strada perché hai dato qualcosa nel corso degl’anni. Per cui è un arrivare a un certo tipo di posizione, a un certo tipo di ruolo, ad essere appunto protagonista quasi per caso e senza averlo studiato, senza averlo pensato, pensato prima. E visto che è la testimonianza quella che viene chiesta e che reputo giusta… “o protagonisti o nessuno”, io credo che tutti noi siamo in qualche modo protagonisti di qualcosa, anche quando, per esempio nel nostro caso, nella nostra professione, nei nostri giornali, si vive in una condizione di squadra più che di personaggio o di, virgolette, prima donna del giornale. Il giornale è un grandissimo lavoro di squadra, è una squadra che viene fatta tutti i giorni, tutti i momenti da varie persone, da varie intelligenze. E questo lavoro si fa per anni, oscuramente: quante volte troviamo dei titoli belli, dei titoli divertenti sui giornali, non si saprà mai chi li ha fatti, e magari un articolo viene letto proprio perché c’è un bellissimo titolo, un titolo che tira, attira l’attenzione del lettore. Quindi questo è il lavoro che per esempio nella mia esperienza personale per anni e anni ho portato avanti nelle redazioni in cui ho lavorato a Roma, a Bologna e altrove, le quali poi lentamente ti costruiscono come forza anche, come capacità, come esperienza, come tempra, per poi arrivare un giorno, per scelte di altri, per segnalazioni che magari non ti aspetti neanche che siano state fatte, ad essere scelto come numero uno. E numero uno significa appunto, come dicevi tu Savorana, una grandissima responsabilità che, aveva ragione don Giussani, fa tremare i polsi, perché ogni decisione, ogni scelta, in ogni momento della giornata, ti porta a dover fare i conti soprattutto con la tua coscienza. In particolare per giornali come quelli che io rappresento, soprattutto Il Resto del Carlino, che sono giornali che lavorano molto sul territorio e traggono la loro forza dal territorio, e dal territorio noi, come gruppo editoriale, ogni giorno editiamo circa quaranta edizioni locali, ma quaranta edizioni locali significano quaranta giornali diversi da trenta, quaranta pagine ogni giorno. Quindi c’è una moltiplicazione di pagine che escono dalle nostre tipografie, ogni giorno tiri fuori oltre un migliaio di pagine, e ognuna di queste pagine ha un problema, ha un problema di scelta, se dare quella notizia, se non darla, se darla in che modo, quale tipo di sensibilità andare a toccare.
Ed ecco che qui ti aiuta un po’ la coscienza, ti aiutano anche la tua fede, la fede della tua coscienza, della tua onestà, del valore che tenti di portare in questo tuo mestiere. Quante volte ci troviamo davanti a notizie che veramente ti toccano, come un ragazzo che si è tolta la vita e allora lì la decisione se darla, non darla, come tutelare le persone che vivono al centro del paese, della comunità in cui questa tragedia questo dramma si è verificato. Queste sono scelte di ogni momento e sono le scelte più difficili, perché quelle di carattere politico o la titolazione di un fondo politico, di una scelta politica, sicuramente sono le cose che meno ti mettono a confronto con la tua realtà, a differenza dei fatti del tuo territorio, dove vive la gente, la gente che si mette con te in relazione.
MARIO GIORDANO:
A voler essere, come vorrei essere, sincero, devo dire che non si diventa protagonisti per caso, ma perché si vuole diventare protagonisti nel nostro mestiere. In un incontro, qualche tempo fa, come questo, con un po’ meno di gente, ho incontrato la mia vecchia maestra delle elementari, che mi ha ricordato che in seconda elementare feci un pensierino in cui dissi che io da grande volevo fare il giornalista o niente. C’è qualche mio non troppo amico che dice che sono riuscito a fare bene entrambe le cose, ma non so se dargli retta. Questo per dire che uno nasce con la convinzione di volere diventare protagonista; voler diventare protagonista nel giornalismo significa avere la passione delle cose da vedere e da raccontare. Altro conto è fare il direttore, non è che a sette anni ho scritto un pensierino, voglio diventare direttore, ma lo mette in conto, e ci vuole arrivare, perché ovviamente se uno ha la voglia di raccontare è ovvio che lo vuole fare sempre con più mezzi possibili, con tutta l’energia e l’entusiasmo e tutto quello che può usare. Quindi io non credo che si diventi protagonisti per caso, ripeto, protagonisti nell’informazione ci sono migliaia di modi, io per esempio pensavo di fare semplicemente, esclusivamente, il giornalista della carta stampata. Le prime volte che mi invitavano in televisione non ci andavo, perché quando facevo le prove alla scuola di giornalismo, venivano quelli delle radio e televisione e non mi facevano neanche avvicinare al microfono, perché ho tutti i difetti possibili: fischio la esse, raschio la erre, ho la faccia da… La prima volta che sono comparso in Tv e scrivevo già per Il Giornale, un vecchio lettore del Giornale incontrò un mio collega e gli disse: leggo sempre gli articoli di Giordano, mi piacciono, adesso ho visto che si è messo a scrivere i testi per la televisione, ma non capisco perché invece di leggerli lui, manda quel ragazzino di tredici anni a leggerli al posto suo. Non si capacitava che potessi essere io, con quella faccia lì, e quindi io ero terrorizzato dalla televisione. La prima volta, dopo aver fatto un articolo sul Giornale in cui andavo in giro a cercare posti di lavoro e li trovavo, protagonismo anche li, se uno vuole poi si dà da fare, la prima volta venni invitato da Costanzo, e dissi no, rifiutai il primo invito da Costanzo, e poi ahimè, per voi, per le vostre orecchie, invece ci sono andato, e visto che non c’è Riotta, mi permetto anche di fare una parentesi, visto che sono stati sette anni importanti della mia vita, mi permetto di aprire una parentesi: anche la televisione, anche quello ti permette di essere protagonista; come fai a dire voglio comunicare, ho la passione di comunicare, poi non andare in televisione, se la gente è disposta a sopportare questa mia voce e questa mia faccia, io ci vado e ci vado perché ho delle cose da dire, perché ho voglia di comunicare, per lo stesso motivo perché qualcuno di vo,i quando vede una cosa bella, gli viene da telefonare a qualcuno e raccontargliela, tutto qua. Uno vede una cosa che gli piace, che gli interessa, che lo appassiona e gli viene voglia di raccontarla, di raccontarla a tutti, è il motivo che ci spinge a fare questo mestiere, allora più lo fai, più ti accorgi che la televisione è straordinaria, la televisione ti da mezzo per entrare in migliaia di case. Certo, ha dei limiti, no, dei limiti di tempo, della velocità, della superficialità, la televisione è tutta una botta e via, è tutta superficialità, è tutta immagine, è tutto effetto, invece il giornale è la possibilità di entrare nelle stanze importanti, di sederti con i protagonisti della vita politica, economica del paese, cercare di raccontare quello che succede in un altro modo, cercando di andare più a fondo. Ma è la stessa passione: come faccio a dire no, non voglio essere protagonista? Io voglio essere protagonista, perché ho voglia di comunicare, ho voglia di conoscere, di toccare con mano il più vicino possibile, di raggiungere più persone da conoscere. Mi rendo conto che questa è una grande responsabilità per me. Molto tempo fa, dietro la mia scrivania, tenevo un detto che trovo molto bello: “Quel tale sparò ad un giornalista, lo mancò ed uccise un passante, ci dispiace molto per il passante, però le intenzioni erano buone”. Le intenzioni erano buone, perché sparare ad un giornalista rientra nel famoso detto di Norman Neil: “Pretendere la verità da un giornalista, è come pretendere di suonare la nona di Beethoven con l’ocarina”. La stessa cosa quindi, mi rendo conto benissimo delle responsabilità, però io non credo che il compito del giornalista sia quello di educare, anche qua mi permetto di prendere una posizione, il compito del giornalista non è educare, di fatto raccontando la realtà si danno possibilità alle persone di crescere, di formarsi, ma l’obiettivo non è quello, di per sé, dell’educazione, io non mi pongo al mattino nelle scelte o nei titoli che faccio, nei modi di come approccio le notizie, il compito di educare il lettore, cerco di formarlo, di informarlo il più possibile, certo con una differenza, questo forse è il caso di dirlo, perché i tempi poi stanno cambiando, noi oggi siamo subissati dalla quantità di informazioni, bisogna rendersi conto che facciamo i giornalisti in un mondo molto diverso rispetto a quelli di anni fa. Prima Savorana, mentre venivamo qua, diceva che tutti gli anni c’è il giornalista che esordisce dicendo: bisogna che il vero giornalismo separi i fatti dalle opinioni. Dirò una cosa diversa, non bisogna separare i fatti dalle opinioni, secondo me, nel giornalismo di oggi, soprattutto nel giornalismo della carta stampata, non bisogna separarli perché noi siamo subissati da una quantità di notizie, e cerco di spiegarmi perché per il concetto potrei essere radiato dall’Ordine domani mattina. Noi siamo subissati dalle notizie, le notizie ci arrivano in ogni modo, la rivoluzione tecnologica, l’arrivo di Internet e delle televisioni via satellite, via digitale, i telefonini che mandano notizie, la moltiplicazione della Rai, noi siamo subissati dalle informazioni, e allora fare informazione che cosa vuol dire? Vuol dire dare una lettura dei fatti, e per dare una lettura dei fatti occorre avere un’identità forte, è per questo che occorre avere un’identità, una capacità di leggerli i fatti; quella passione, che dicevo all’inizio, di approcciare i fatti non può essere separata dalla propria identità, dal proprio modo di vedere, dichiarato onestamente. La balla dell’obbiettività dei fatti è una balla che ci hanno da sempre raccontato, perché anche se noi usciamo di qua e vediamo un incidente stradale, ognuno di noi lo racconta in un modo diverso, non esiste l’oggettività, se uno ha appena avuto un incidente in macchina, descrive l’incidente in modo diverso da uno che non ce l’ha avuto, banalmente. Ma ancora di più, io vi dico che per leggere la realtà, per leggere la grande quantità, per non rimanere subissati dalla grande quantità di fatti che ci arrivano addosso, è necessaria un’identità forte, è necessaria un’identità chiara, leggibile, dichiarata e forte per sapersi muovere nei fatti. Perché Murdoch nel momento di massima crisi di tutti i quotidiani, di tutta la stampa scritta, spende milioni di dollari per comprare il marchio del Wall Street Journal? Perché evidentemente quello è un marchio che vi dà una lettura chiara dei fatti, è una forma di identificazione precisa, identifica un mondo, in quel mondo lì, tutti quelli che vogliono avere un punto di riferimento per leggere la realtà, si rifanno ad esso. Questa è la cosa. E poi l’ultima cosa, poi mi fermo, perché come dicevo prima ad Alberto, io ho la tendenza a straparlare, quindi cercherò di fermarmi prima che mi tiriate qualcosa addosso, l’altra cosa essenziale è, e ritorniamo al punto di partenza, è la passione per i fatti, per raccontare la realtà com’è, vera. Io trovo anche qui che il difetto nostro sia essere troppo spesso legati a noi stessi, ai nostri circoli di informazione, a quello che accade nei palazzi, invece la vita è tanta, è diversa, non è solo il mondo chiuso delle nostre …., noi ci parliamo addosso, e non siamo più in grado di raccontare la vita. L’altro giorno ho chiamato, ero fuori per un servizio e ho chiamato in redazione ed era caduto l’aereo, e dico: “oh, avete visto che è caduto l’aereo?”; “no!! Stavamo facendo la riunione di redazione”. “Cosa? Fate la riunione di redazione e di cosa parlate? Cosa state facendo?”. Questo vi da l’idea del distacco che molto spesso c’è nelle redazioni chiuse, in cui si respira un’aria che, come dire, è mefitica, perché è sempre quella, chiusa. C’è un circuito chiuso fra le redazioni e i palazzi, palazzi e giornalisti, per cui i giornalisti si mettono a scrivere, il giornalista di politica, pensando a cosa dirà il politico, non a cosa penserà la gente, il giornalista di cinema, pensando a come reagirà l’esperto di cinema e non a come comunicare, a come raccontare la realtà a più gente possibile. Ecco, io credo che sia questo il difetto principale che rende un’informazione che si parla addosso e che non è più in grado di scoprire la bellezza della vita. Andate fuori, andate fuori dalle redazioni, dicevo l’altro giorno, andate a scoprire i vari aspetti e raccontateli, raccontate la vita con la vostra identità, con il vostro modo di vedere. Secondo me questo significa essere protagonisti nell’informazione, casomai ci riuscissimo.
ANTONIO POLITO:
Ma intanto grazie dell’invito, sono molto felice di essere qua. Se permettete io proverò un attimo a demitizzare invece il concetto di protagonismo applicato al nostro lavoro, anche perché sarebbe bene che tutti ricordassimo che siamo comunque, come dire, lavoratori dipendenti, a busta paga. Insomma anche noi, per quanto protagonisti, viviamo in un mondo dove ci sono degli editori, dei mandati che vengono dati ai direttori dei giornali e i redattori rispondono ai direttori. Ci sono, diciamo così, alcuni obblighi, come quello di essere accoglienti per le pubblicità, accoglienti per le aziende che danno la pubblicità, accoglienti per i lettori che devono comprarsi le copie. In alcuni casi, nel giornalismo italiano, siamo onesti, dobbiamo essere accoglienti anche per i politici, perché se qualche politico si arrabbia poi chiama l’editore, insomma ho aperto una piccola parentesi, un piccolo squarcio di luce sul nostro mestiere che è pieno di magagne, come ciascuno di voi credo può capire anche leggendo i giornali italiani e guardando la televisione. La seconda osservazione così demitizzante, se mi permettete il concetto, è sul termine protagonista, perché se concepiamo il termine protagonista in termine triviale, banale, i giornalisti sono tutti protagonisti, non c’è posto al mondo come una redazione dove gli stati di animo di ogni singolo redattore sono quelli di essere l’ombelico del mondo, il centro del mondo. La vicenda mondiale gira in genere intorno a ogni singolo giornalista, c’è un nostro collega, di cui non farò il nome neanche sotto tortura, che veniva soprannominato “buongiorno come sto”, nel senso che lui, quando si presentava, invece di dire la forma di cortesia “buongiorno come stai?”, diceva “buongiorno come sto”. Quindi, diciamo, il protagonismo in senso deteriore non ci manca, non è carente nelle redazioni dei giornali, forse anzi concepito come è come prima donna, primadonnismo, mentre invece voi, che state seguendo da giorni un Meeting costruito intorno a questo termine, sapete benissimo, è inutile che lo ripeta, che in protagonismo c’è la radice agonismo, cioè il protagonista è in qualche modo uno che combatte, che si sforza, che fa una gara, che è agonista, che combatte su un agone. Questa è la ragione fondamentale per cui ci sono giornalisti protagonisti e ci sono giornalisti onestamente meno protagonisti. Io posso esagerare in questo e vi prego di prenderlo con il beneficio di inventario, però, secondo me, quello che uno sente, un lettore, un ascoltatore della radio, un telespettatore, quello che uno sente poi alla fine è se il giornalista si sta ponendo il problema di cercare la verità, o almeno una approssimazione della verità, oppure no. Per me, diciamo, è la differenza fra i protagonisti e i non protagonisti, e mi accorgo sempre più che il pubblico se ne accorge sempre più di questa cosa, cioè se uno sta recitando a soggetto, recitando una parte, arrampicandosi sugli specchi, facendo forza a se stesso, perché poi noi tutti siamo persone intelligenti e quando non diciamo la verità o almeno quando ce ne distacchiamo in maniera radicale, troppo esplicita, soffriamo perché ce ne accorgiamo. Io penso che questo si veda nella scrittura degli articoli, degli editoriali degli editorialisti, nei personaggi televisivi. Alla fine forse questa è la ragione per cui io credo che, diciamo, il compito della comprensione dei fatti e il compito anche della spiegazione del contesto, che sono i veri mestieri del giornalista, perché il mestiere del giornalista non è dare notizie, le notizie arrivano di per sé, sono materia bruta, sono materia rozza, oggi più che mai è evidente come possono, come diceva Mario Giordano prima, pioverci addosso, basta fare un click sulla schermata del video, accendere la televisione, arrivano notizie brute. Il compito del giornalista è un compito di mediazione, cioè un compito di spiegazione del contesto cioè è successo questo, in quale contesto, in che momento della storia di questo paese. Pensate le vicende della Georgia, è chiaro che cosa è successo, sono entrati dei carri armati in Georgia ma di chi è la colpa? Chi lo ha provocato? Quale è il processo politico che è stato innescato, chi ha cominciato eccetera… è tutto un lavoro di spiegazione, di comprensione, di contestualizzazione. Questo è un lavoro di mediazione, è questo il lavoro del giornalista, ed è un lavoro che comporta, io invece su questo sono più d’accordo con il nostro moderatore che con Mario Giordano, è un lavoro che comporta un compito educativo, nel senso anche qui etimologico della parola, nel senso non che noi dobbiamo nei nostri articoli indicare al lettore come è quello che deve pensare o spingerlo ad avere buoni sentimenti, ma nel senso che tutta la trasmissione del pensiero, dell’informazione, delle contestualizzazioni è educazione. Forse in Italia usiamo troppo poco questo concetto, abbiamo sostituito con dei pezzi l’educazione, l’istruzione per esempio, la cultura, l’informazione, l’ educazione invece è proprio la capacità di una società di trasmettere e di selezionare elementi di informazione per le nuove generazioni, per i giovani, eccetera… Quindi, da questo punto di vista, io credo che sia un lavoro educativo. Perché l’ ho fatto, io non lo so. In effetti da ragazzo io non avevo questa ambizione, io ho sempre pensato che il mondo si dividesse tra quelli che fanno e quelli che osservano, a me è sembrato più importante fare che osservare, per cui da ragazzo volevo fare il giudice in realtà, mandare la gente in galera, distinguere il bene dal male, separare i cattivi dai buoni, è una forza terribile questa immagine sulla fantasia di un giovane; oppure anche il generale, perché pure il generale fa, invece poi attraverso la militanza politica, la passione politica, mi sono indirettamente avvicinato alla passione giornalistica, perché ho cominciato a fare. L’obiettivo era cambiare il mondo, poi lungo la strada visto che non si riusciva, anzi peggiorava man mano che la propria azione politica si dispiegava. Mi è parso che si potesse ugualmente condurre una battaglia delle idee, diciamo così, si potesse ugualmente contribuire al cambiamento della società italiana attraverso l’osservazione, osservare invece di fare. Questa è una distinzione che io trovo fondamentale, io credo che se uno si domanda “mia figlia che farà?” – io faccio spesso questo gioco con mia figlia – non puoi dire farà la parrucchiera o farà la badante, o farà la professoressa universitaria, che è difficile quando sono piccoli, però fateci caso, già si capisce se è una che farà o che osserverà. Io per esempio quando mia figlia era bambina, la portavo a Piazza Navona, dove ci sono tutti i giocolieri che fanno i giochi, la gente si mette tutta intorno a cerchio e guarda e gioca, e lei a sette, otto anni era l’unica che stava in mezzo alla piazza, girata verso le persone che guardavano. Invece di guardare il giocoliere, aveva le spalle al giocoliere e guardava la gente. L’ altro giorno, ha 13 anni e mezzo, siamo stati al palio di Siena e lei, in mezzo al palio, guardava la folla invece di guardare la corsa. E’ un tipico comportamento da osservatore secondo me, cioè questa è la grande distinzione fra quelli che fanno le cose e quelli a cui gli piace più osservare, e che fanno poi mestieri come il nostro, che sono mestieri di osservazione, di notare le cose e vederle. Questo è quello che penso.
MODERATORE:
Tutti e tre con termini ed espressioni diverse, avete sottolineato come cifra caratteristica del vostro protagonismo la passione per i fatti, la passione per l’osservazione, per la realtà. Il giornalista è un testimone, ci comunica fatti a cui non abbiamo presenziato. Il problema allora è come rendersi credibili in questa opera di testimonianza. Perché io mi devo fidare di un Visci, di un Giordano e di un Polito, che mi dicono cose di cui io non ho e non avrò mai esperienza diretta, eppure sento di poterle ritenere come vere? Allora in questo gioco di voi, come strumento per conoscere qualcosa o qualcuno della realtà, provate a darci qualche indizio, qualche traccia, qualche documentazione per cui dobbiamo fidarci della vostra parola.
PIERLUIGI VISCI:
Sono assolutamente d’accordo con due termini che sono testimoni, interpreti, mediatori anche tra il fatto e il lettore, l’opinione pubblica. Per questo io ho una visione un po’ diversa dal giornalista protagonista, poi magari mi risponderà ancora Mario e sarà divertente ascoltarlo. Credo che sia chiara, proprio dal modo di affrontare il tema nel primo giro, la diversità del tipo di prodotto giornale che ciascuno di noi fa e realizza tutti i giorni. Giordano diceva: “cadeva l’aereo, i colleghi erano in redazione e non se ne erano accorti”. E’ una forzatura, ovviamente, io lo capisco bene, ma non è così. Le agenzie arrivano ogni 30 secondi, anche meno e ci sono quelli che le portano in sala riunioni, succede da me come presumo succeda anche da te, quindi se ne erano accorti, ovviamente non potevano stare sul luogo dove l’aereo cadeva, magari ci vanno il giorno dopo, due giorni dopo, oppure si lascia stare perché le agenzie coprono. Lui dice “uscire dalle redazioni”, ma dalle redazioni qualcuno esce da parecchio tempo, per esempio nell’esperienza di giornali come il mio, come Il Carlino, che appunto è presentissimo sul territorio, è questa la cosa diversa, non si scrive per Berlusconi o per Prodi o per Veltroni, ma si scrive anche per il Berlusconi, Prodi, Veltroni di casa nostra e quello lo conosciamo noi giornalisti, ma lo conoscono anche i cittadini che leggono il giornale, per cui sanno se è una forzatura scrivere in un certo modo di Prodi, Berlusconi, Veltroni come del sindaco, dell’assessore o del segretario del partito. Questa è la differenza fondamentale, per questo è diverso il modo a proposito della sollecitazione a valutare come fidarsi. Perché fidarsi? Fidarsi del giornalista che interpreta la notizia sul territorio, senza la mediazione dell’agenzia o di fonti strane che arrivano… Io ho lavorato 20 anni a Roma e non mi sono mai accorto, Polito, di quale fosse la fonte di una notizia. Arrivavano delle agenzie, delle veline, delle cose, io non riuscivo mai a capire quale era la vera fonte della notizia, quindi la serietà della notizia. Purtroppo nei giornali italiani che non hanno questa organizzazione territoriale come giornali come il mio, lavoriamo solo su agenzie di cui sono incerte le fonti. Talvolta sono anche incerte le dichiarazioni dei leader politici, è incerto se sono vere o false, o come sono state interpretate dal microfono che gli è stato messo sotto il naso mentre parlava. Per questo c’è un modo diverso di interpretare la questione della fiducia: la fiducia è del giornale, del giornalista, del cronista che è sul territorio e che ti racconta quello che accade ogni giorno, ogni momento, con personaggi che tutti i lettori possono mettere sotto osservazione, perché magari abitano nella porta accanto. Berlusconi lo vediamo in televisione a Macherio, a Villa San Martino o in Sardegna, ma non lo acchiappiamo se non dalle immagini televisive. Il sindaco della mia città, l’assessore della mia città, il segretario del partito della mia città, io lo vedo, ed ecco qui che si verifica la fiducia nel giornale o nel giornalista. Ma perché poi, e questo ci porta a un altro ragionamento, perché i giornali stanno andando male, perché c’è la crisi della carta stampata? E’ vero, c’è stata la televisione, prima ancora c’era la radio, oggi c’è Internet che ci massacra, non c’è nessun paese al mondo in cui la televisione è fonte di informazioni per i cittadini come in Italia, siamo al 92%, cioè il 92% dei cittadini assume informazioni dalla televisione, che è una cosa veramente da terzo mondo, e accade solo in questo paese. In tutti gli altri paesi europei, la Francia e la Germania, è il 60%, in Germania addirittura è la stampa, la carta, che è la fonte primaria di informazioni per l’80% dei cittadini contro il 60 che gli dà la televisione. Questa è una stortura di questa situazione italiana, come è una stortura il mercato pubblicitario che c’è in questo paese, ma poi andremmo molto lontano. Ma in questa crisi della carta stampata, l’esperienza dei giornali di territorio, non parlo più del mio, parlo di giornali come La Gazzetta di Parma, L’Eco di Bergamo che è assolutamente un miracolo nel panorama editoriale italiano, perché ha il rapporto stretto con i cittadini, con il giornale, con il giornalista, lì il cittadino può dire: io mi fido.
MARIO GIORDANO:
Io condivido questa visione dei giornali locali, non a caso i giornali locali vanno meglio proprio perché, come dicevo prima, sono costretti, obbligati a stare sul territorio, mentre invece i giornali nazionali, per colpa loro, si chiudono nelle redazioni, in cui si parlano addosso, poi magari anche se gli portano l’agenzia non la guardano durante la riunione, perché sono impegnati a parlarsi addosso e quindi non si rendono conto di quello che accade, oppure si rendono conto e lo raccontano. Qualche giorno fa, non so se avete sentito, si è acceso un grande dibattito in tutto il paese, perché un ragazzo era stato tolto a sua madre con l’accusa di essere comunista, perché si diceva che il ragazzo a Catania frequentava un circolo comunista. Quindi è uscita la notizia in prima pagina, ripresa poi con editoriali, commenti del tipo: come è possibile togliere un ragazzo a sua madre solo perché la madre è comunista e gli permette di frequentare un circolo comunista? Nel momento stesso in cui questa notizia è uscita sul giornale, un secondo dopo il giudice ha smentito e la sentenza diffusa dimostrava che non c’era nessun riferimento al fatto, che questa cosa non esisteva, per cui siamo andati avanti due giorni a discutere di una cosa che assolutamente non esisteva, con tanto di editoriali, di titoli in prima pagina, commenti indignati, eccetera. Quindi è vero che mentre nella realtà locale il controllo è molto più facile, su quella nazionale e sopranazionale è molto più complicato. E’ vero però anche quello che dicevo prima, che ormai le quantità, i modi per avere le informazioni sono molteplici, quindi è possibile avere se non altro un controllo, un controllo incrociato, una verifica, avere più input da più parti, da confrontare. Non si è più, come dire, appesi ad un solo canale di informazione, quindi la possibilità di confrontare, anche di venire in modo diretto, perché la televisione in questo dà grandissime cose, perché l’undici settembre l’abbiamo vissuto tutti in diretta e abbiamo visto con i nostri occhi le cose che succedevano in presa diretta. Oggi vediamo direttamente molte più cose di quanto accadesse un tempo. Perché, perché ci si deve fidare di me, ammesso che ci si debba fidare di me? Io risponderei perché non ho mai voluto cambiare il mondo, perché non faccio questo mestiere, non ho iniziato a fare questo mestiere perché volevo e voglio cambiare il mondo, ma perché penso che il mondo si cambi se io lo racconto. Mi pongo nella posizione di testimonianza, di racconto, di osservatore. Protagonista nel campo dell’informazione significa secondo me proprio questo, non volere, per ritornare alla distinzione che faceva Antonio Polito, essere uno che modifica, che plasma la realtà ma uno che la racconta. Io non sono un politico e allora mi accontento di raccontarla come testimone e mi piace questa parola come alternativa di protagonista, perché il testimone è quello che osserva. Uno che viene chiamato a testimoniare non viene chiamato a cambiare i fatti, a incidere sui fatti, ma a raccontare come li vede, dal momento che ha la fortuna di averli potuti vedere da vicino, poterci entrare dentro, dedicare il suo tempo per approfondire. Certo ci sono gli editori ma demitizziamo, demitizziamo, lo dico perché me lo ero appuntato poi, per la paura di essere lungo, lo avevo saltato. E’ vero, quando parlavo di identità, prima, è evidente che ogni giornale ha una identità che è definita all’interno di un parametro fissato dall’editore. Noi siamo il giornale di Paolo Berlusconi, la famiglia Berlusconi, questo ci viene ricordato ogni giorno, ogni volta che cito il giornale, allo stesso modo La Repubblica è il giornale dell’ingegner De Benedetti, però normalmente non viene scritto che La Stampa è il giornale della Fiat, il Messaggero è il giornale di Caltagirone, Polito è il giornale degli Angelucci e così via. Ogni giornale ha evidentemente un suo parametro di riferimento, una sua linea editoriale. Io credo che all’interno di questi parametri sia però possibile manifestare un’identità precisa e molto spesso la capacità dei giornali è quella di andare avanti alla politica, al limite a dettare la linea. Io credo che sia possibile e si manifesti anche quotidianamente, tutti i giorni, basta leggere i giornali i nostri e gli altri, per vedere che ci sono posizioni all’interno di limiti precisi. Però non è che c’è il giornale di Berlusconi e poi c’è la stampa libera ed indipendente. Siamo tutti con un editore preciso, ma all’interno di questi parametri io credo che sia possibile manifestare un’identità. Noi abbiamo espresso, nel momento in cui il nostro editore faceva la campagna elettorale sulla base dell’anarchia etica, abbiamo espresso posizioni con editoriali successivi contro l’aborto in modo chiaro, esplicito e diretto. L’altro giorno il nostro direttore decano si è espresso duramente contro il sindaco Alemanno e la giunta di centrodestra. Ci sono i modi e le forme per esprimersi in modo limpido chiaro per prendere posizione e per manifestare un’identità chiara. Poi è chiaro che di protagonismo nel senso di prima donna ce n’è tanto, figuriamoci poi “buongiorno come sto” nelle redazioni dei telegiornali, figuriamoci, in realtà quello che conta è il metterci il faccione e dopo di che, poco importa se lo speaker annuncia che gli USA hanno lanciato i missili sull’Iraq, eccetera eccetera. E’ chiaro che c’è la cosa della prima donna, però io credo che il testimoniare, il testimoniare la realtà dei fatti all’interno dei limiti che sono chiari e che sono dichiarati sia possibile e che la fiducia derivi proprio da questa chiarezza, da questa identità forte. Man mano che aumentano le forme e le possibilità di conoscenza, il manifestare un’identità forte diventa sempre più un motivo per ottenere la fiducia. Io e te ci fidiamo uno dell’altro, io e te abbiamo una stessa visione del mondo, interpretiamo i fatti in questo modo, io li vedo e li racconto, abbiamo una chiara visione dei fatti, ecco questa è l’identità che, secondo me, aiuta ad aumentare e a rinsaldare i legami di fiducia tra i lettori e il giornale. Credo che sia questa anche la strada dei giornali del futuro, della carta stampata, grazie.
ANTONIO POLITO:
Ma se venisse fatta a me, come è stata fatta questa sera, la domanda dammi una buona ragione per fidarmi di te, la mia risposta sarebbe di non fidarti, nel senso che io credo che il rapporto tra giornalista e lettore, almeno sulla carta stampata, poi dirò qualcosa sulla televisione, è fondato, anzi dovrebbe essere fondato, direi addirittura che dovrebbe avere come obiettivo quello di testimoniare l’esercizio dello spirito critico da parte del lettore. Leggere un testo è sempre un notevole esercizio di spirito critico, la stessa ragione per cui certe volte leggiamo un romanzo e ci sembra una bufala, una fesseria e lo lasciamo a metà e altre volte invece leggiamo e diciamo questa è la vita, questo sono io, questa è la mia storia, questa la conosco. Noi siamo un giornale che si preoccupa molto di spiegare i contesti, come dicevo prima, di prevedere quello che può succedere in ragione di quello che è già successo, di dare delle idee, diciamo, di fornire delle idee possibilmente provocatorie, che non siano quelle addomesticate, quelle che già conosciamo perché sono di tutti in giro. E non sono così ossessionato all’idea di ispirare fiducia nel mio lettore, nel senso che la mia gara è questa, il mio agonismo da protagonista, se fosse protagonista, sarebbe questo, cioè convincere di volta in volta il mio interlocutore che sto ragionando su la stessa sua lunghezza d’onda, che stiamo ragionando su la stessa serie di valori e di convinzioni. E’ verissimo quello che dice Visci, che una forma per accrescere questo rapporto fiduciario tra il giornalista ed il lettore è il locale. Anche il localismo però, il più ravvicinato possibile, può giungere all’esasperazione. Per esempio c’è certamente qualcosa di molto di cui fidarsi nella stampa locale degli Stati Uniti, che è un fenomeno straordinario diffusissimo, che è la forza della democrazia di quel paese, che non riguarda poi solo la stampa, ma riguarda anche i club, le organizzazioni civili, sociali cioè quella forma di democrazia radicata proprio nel quartiere, nella polis. Certo, se un giornale parla di cose che succedono nella zona dove vivono 70mila persone che si conoscono tutte, che si frequentano, che si incontrano al supermercato, è certamente più controllabile, quindi è vero quello che dice Visci, è vero anche per le televisioni tra l’altro, che stanno sempre più scoprendo questa dimensione molto leggera. Quello che volevo dire è che comunque quel rapporto sincero, di cui parlavamo prima, è sempre molto più facile e possibile con i rapporti della parola scritta. Io sono d’accordo con Visci quando dice che uno dei problemi più drammatici dell’informazione del nostro paese e in generale del livello educativo del nostro paese, sia legato alla televisione. E c’è una ragione storica precisa. Siccome quando è arrivata la televisione in Italia c’erano ancora gli analfabeti, questa è la ragione fondamentale per cui in Italia si vende oggi lo stesso numero di copie di giornali che si vendevano nel ’48, lo stesso identico numero di copie di giornali; questa è la ragione per cui in Gran Bretagna si vende il doppio delle copie dei giornali che si vendono in Italia, pure essendo paesi della stessa grandezza, dello stesso numero di persone. La ragione fondamentale è che noi siamo arrivati molto dopo rispetto ad altri paesi all’alfabetizzazione di massa, per cui quando è arrivata la televisione c’erano tanti analfabeti che hanno investito la televisione, viva Dio, perché è stato un gran bene per il paese, per l’Italia, hanno investito la televisione della funzione di informarli, di educarli anche di istruirli. L’unico vanto, l’unico merito di cui mi vanto, è che ho cominciato a scrivere e a leggere un anno primo dei mie amici, dei compagni di scuola, dei miei coetanei senza andare a scuola, perché vedevo “Non è mai troppo tardi” del maestro Manzi. Perfino l’italiano ti hanno insegnato, per cui non protesto contro la televisione, ma spiego che c’è una radicale differenza tra l’Italia e gli altri paesi dovuto a questo fatto storico. Ecco, in televisione e qui concludo, sembrerebbe tutto più facile, perché è evidente che è più facile fidarsi di un immagine che di una parola scritta, di un ragionamento che di un articolo, invece non è affatto così. C’è l’esempio dei tabloid inglesi, che sono questi giornali che noi in genere consideriamo dei giornalacci e in parte lo sono anche, i cui articoli per regola non possono arrivare oltre le venti righe, perché altrimenti non sono leggibili, ma comincia ad esserci anche in Italia una stampa diciamo così, analoga, non così scandalistica, per esempio la free press è una stampa fatta chiaramente per chi non ha tempo e voglia di leggere più di qualche secondo, anche lì hanno la regola venti righe eccetera eppure, anche solo leggere la didascalia di una fotografia, mette in moto un processo di connessione e di giudizi e di valori che nell’immagine televisiva non c’è. Guardate che la cosiddetta realtà televisiva nella maggior parte dei casi è fittizia, cioè è una realtà costruita. Faccio due esempi così, esasperati e molto lontani nel tempo: matrimonio di Carlo e di Diana, un bel po’ di tempo fa ormai, ai cavalli vengono date delle pillole in modo che la loro cacca corrisponda ai colori pastello della sfilata e del vestito di lady Diana: non è uno scherzo, è una cosa vera, furono indotti a produrre, diciamo così, degli escrementi che non turbassero cromaticamente la bellezza dello spettacolo. Sembra una esagerazione, ma tre giorni fa è uscita una notizia del tutto analoga, anche se più su grande scala, secondo la quale il tempo atmosferico della cerimonia di chiusura delle Olimpiadi è stato indotto chimicamente, artificialmente dai cinesi, con dei bombardamenti di certe sostanze chimiche sulle nuvole, in modo da avere quel tipo di tempo atmosferico. Quindi stiamo attenti a individuare nell’immagine televisiva una cosa più vera di cui ti puoi fidare di più rispetto alla mediazione giornalistica. Io sono sempre a favore della mediazione giornalistica, sono sempre a favore del fatto che chi è il fruitore dell’informazione si domandi mi devo fidare: ebbene che si domandi se si deve fidare, guai se non se lo domanda più. Con questo concludo. Mi capita qualche volta di andare in televisione e mi capita che la gente mi dica: ti ho visto ieri sera. Quando faccio due cose nella stessa giornata, spesso chiedo: dove? Mi rispondono: Eh adesso dove non mi ricordo, facevo zapping, non lo so. Ma di che cosa parlavo?, incalzo. Mah, di che cosa parlavi non mi ricordo, però avevi quella cravatta gialla con i pallini. Questo vuol dire che il livello di tensione critica è molto basso. Diciamo che quello non si la poneva la domanda, mi devo fidare di Polito mentre sta in televisione, non gliene importava nulla, guardava come mi muovevo, come ero vestito, che cravatta portavo. Meglio la carta stampata.
MODERATORE:
Io avrei un sacco di domande, ne avevo già preparate ma poi, a sentirli parlare, me ne hanno fatto venire altre, però, siccome il tempo stringe, io vorrei fare un’altra domanda personale e sto ancora sul problema della accanita osservazione della realtà, nel senso positivo esposto e anche nel senso critico che Giordano ha documentato rispetto alla riunione di redazione mentre cade l’aereo. A me piacerebbe se provaste a raccontare un episodio in cui vi siete sorpresi in questo agonismo, in questa battaglia, per cui l’accanita osservazione della realtà, di un fatto, di una circostanza entrata nell’orizzonte della vostra conoscenza, vi ha costretto a cambiare, cioè a rivedere, a modificare una posizione, un giudizio, un preconcetto, un’idea che sembrava in voi certa e stabilita, ma che l’accadere di qualcosa vi ha costretto a prendere posizione, a esercitare uno sguardo critico che vi ha fatto essere in questo senso protagonisti a voi stessi, tanto che vi siete stupiti.
PIERLUIGI VISCI:
Si, è assolutamente vero e tra l’altro mi divertiva quello che diceva Antonio Polito prima a proposito di queste due sue apparizioni televisive. Infatti ho sempre considerato che l’importante non è quello che si dice in televisione, tutto sommato anche poi nei convegni, perché dopo dieci minuti magari si è dimenticato ma il fatto di esserci, che è una esperienza della nostra società, soprattutto di questa nostra società dell’immagine. Non riesco adesso a mettere fuoco a ricordare un episodio in particolare, ci sono tante storie che ti vengono, che ti fanno cambiare opinione, ti fanno cambiare idea rispetto al protagonismo di te stesso. A parte che, come ho già detto, credo che come dice per altro Benedetto XVI, prima ancora papa Wojtyla, il protagonismo non è dell’informatore, il protagonismo è dell’informazione. Di questa grande macchina fatta di tecnologie, di mezzi di straordinarie capacità professionali diffuse in tutto il mondo e che quindi non è fatta di una sola persona, anche se poi tutte le cose ovviamente camminano, camminano sulle gambe delle persone. Si potrebbe dire che per esempio la guerra in Iraq, la guerra precedente in Afghanistan, il dopo guerra in Iraq, il dopo guerra in Afghanistan, ti hanno costretto mille volte a cambiare, a cambiare opinione, anche rispetto alle forze in campo, che prima magari stavi a valutare con positività e poi all’improvviso ti accorgi che ti hanno magari tradito rispetto alle premesse e alle promesse. Io credo che il giornalista è un testimone, il giornalista è un mediatore ma è soprattutto uno che riesce a far parlare gli altri, magari se non sono giornalisti. In questo senso penso che più passa il tempo e più i giornali devono fare come Internet, che ha inventato queste nuove figure professionali di giornalista, del citizen journalist che mette in rete tutto. Guardate l’esperienza di You Tube, straordinaria sotto questo aspetto, ed è un’esperienza che la chiesa, prima con papa Wojtyla e poi adesso con papa Benedetto, hanno colto con molto anticipo e con molta modernità anche rispetto alle analisi che ne sono state fatte successivamente. Così come Internet mette in contatto il cittadino direttamente con l’informazione, perché è esso stesso che fa informazione e quindi diventa protagonista, così credo che anche i giornali debbano imparare a diventare un momento di community, cioè non più il giornale passivo che dà informazione ma il giornale che coinvolge su determinate tematiche. Noi facciamo da anni una campagna martellante sul tema della sicurezza stradale, delle stragi del sabato sera, dell’alcool, delle droghe che circolano fuori delle discoteche e questo lavoro ha creato intorno al giornale un gruppo consistente di lettori che seguono e si sentono coinvolti in questo tipo di problema. Ecco, quindi il giornale e il giornalismo cambia e cambia in questo senso, cioè non è più un prodotto da consumare ma è un progetto di interazione, un progetto di integrazione tra il lettore, tra i lettori, tra i gruppi di lettori a seconda degli interessi che hanno e il loro mezzo di informazione. Grazie.
MARIO GIORDANO:
Ma si, innanzitutto è assolutamente vera la cosa sulla televisione, ripeto, avendone fatta per qualche anno ti potrei dire che se la telecamera si potesse spostare noi potremmo fare apparire questa sala, che credo a tutti possa apparire meno che vuota, la potremmo fare apparire vuota. Questo per dire che non intendo che l’immagine di per sé sia veritiera, ha comunque bisogno di una mediazione, dico solo che l’immagine si va ad aggiungere alla molteplicità di notizie. Non possiamo non tener conto, ragionando di informazione, di protagonismo nell’informazione, di questo fatto. Se adesso ci fosse un incidente aereo in Italia – Dio non voglia – cosa succede? Normalmente fino a qualche anno fa un direttore di telegiornale chiamava una troupe e la mandava sul posto, anche adesso c’è chi chiama la troupe ma c’è un passaggio successivo. Da qualche anno si è aggiunta alla troupe la ricerca del filmato amatoriale, quindi si manda la troupe e si cerca il filmato amatoriale. C’è un terzo elemento adesso che è diventato fondamentale e tutti l’hanno capito, è il telefonino. Ormai, voi fateci caso, guardate i telegiornali, non c’è più un evento, dall’aereo che precipita all’incidente stradale, al furto, in cui non ci sia un filmato amatoriale o filmato dal telefonino o girato da una telecamera di controllo. Allora avere questa molteplicità di strumenti non dico che sia un bene o sia un male – poi qui si potrebbero aprire enormi dibattiti sul fatto siamo controllati, siamo spiati, apro un mondo – però ragionando nel nostro campo dell’informazione e di protagonismo dell’informazione, non possiamo non tener conto del fatto delle molteplicità delle fonti di informazioni, che le fonti di informazione sono diventate molte di più, ne abbiamo tante di più, ma tante, tante, tantissime di più, e ci arrivano da tutte le parti, e il problema non è quello di avere fonti di informazioni, ma quello di disciplinarle, di distinguere, di ragionare. E lo tsunami? Lo tsumani noi lo abbiamo raccontato in televisione attraverso i video che ci ha mandato la gente, attraverso i video dei telefonini. Tutte le immagini, se voi chiudete gli occhi e ripensate allo tsunami, tutte, tutte, tutte, tutte le immagini dello tsunami sono immagini fatte dalle persone che erano lì. Una volta non ci sarebbero state, vogliamo tenerne conto o no? I protagonisti nell’informazione oggi sono tantissimi, sono tutti quelli che filmano, tutti quelli che ti mandano la foto, tutti quelli che scrivono sui loro blog, tutti quelli che raccontano…, non so…, quindi si sono moltiplicate le fonti di informazione, questo vuol dire che non è più importante la mediazione? No! Al contrario, ma o ragioniamo sul fatto che la mediazione deve tener conto del fatto che è cambiato quello che ci sta attorno, o se no facciamo un ragionamento vecchio come quello che viene qui a raccontare dei fatti separati dalle opinioni. Oggi le informazioni piombano addosso, sotto forma di immagini, sotto forma di input, sotto forma di gossip, sotto forma di migliaia di blog, di Internet, di mail, siamo bombardati dall’informazione, ne circolano tantissime e tutti, tutti si sentono protagonisti di un loro piccolo pezzo di informazione, tutti vogliono diventare protagonisti dell’informazione. Per questo diventa importante selezionare, diventa importante un rapporto di fiducia fra chi ha un’identità forte ed è capace di selezionare questa grande montagna di notizie che altrimenti rischia di schiacciare. Però se non partiamo da questo presupposto rischiamo di raccontare mondi diversi. Rispondo alla tua domanda. Due cambiamenti, una molto nobile, una un po’ meno, però vera. La parte più nobile del cambiamento della realtà è stata la prima volta che sono andato da giornalista in Africa. Avevo poco più di 20 anni, fui mandato per fare dei reportage e ci arrivai con tutti gli stereotipi che si possono avere legati a quel mondo. Però il prendere contatto diretto, anche in modo un po’ duro, , a cominciare dalla prima accoglienza con l’inevitabile cagarella e tutto quello che ne è conseguito, mi ha fortemente modificato anche il modo di ragionare su una realtà che molto spesso, soprattutto per la formazione che avevo avuto, era molto, come dire, edulcorata e stereotipata. Invece più recente, più legato a un fatto di cronaca un’altra cosa nel contatto diretto mi ha cambiato un po’ il modo di pensare. E’ stata la conoscenza con Anna Maria Franzoni, nel senso che io me ne ero occupato molto a livello di cronaca, sempre convinto della colpevolezza, e continuo a restare razionalmente convinto della colpevolezza di quella donna, ma quando andai a incontrarla, ancora direttore di Studio Aperto, nella sua casa a Monte Acuto, mi trovai di fronte, anche qui ecco la televisione che cambia, una donna completamente diversa rispetto a quella che appariva in televisione. Tutte le cose che io avevo mandato in onda mille volte e che mi davano fastidio, quel pianto irritante, quella vocina che suonava falsa, lì, viste a contatto, nel tinello un po’ povero, col marito di fianco, i bambini che saltavano su e giù, mi apparirono incredibilmente vere. Ecco, a contatto diretto, conoscendola di persona, mi è apparsa una persona completamente diversa, tutte quelle cose che suonavano false lì mi sono sembrate autentiche e mi hanno aperto un dubbio nella mente. Un dubbio, non mi hanno fatto cambiare completamente opinione, perché poi gli atti e i fatti restano e i documenti restano tali, ma sicuramente un dubbio sulla possibilità di un madornale errore di interpretazione in cui la televisione ancora una volta e io che l’avevo mandata tante volte in onda, per primo in onda, tra l’altro, avevamo contribuito a creare.
ANTONIO POLITO:
Certo che se l’informazione può condannare all’ergastolo una persona, il tema della responsabilità, diciamo, di cui parlavamo prima, diventa anche più cruciale. Ci sono dei paesi civili in cui le telecamere non sono ammesse nelle aule giudiziarie proprio per questa ragione cioè vi rendete conto che tocchiamo dei punti delicatissimi insomma di responsabilità dei giornalisti e quindi di necessità della mediazione. A proposito della televisione è verissimo quello che dice Giordano, che se volesse, diciamo da direttore di telegiornale, potrebbe far apparire vuota questa sala, ma c’è stato un caso abbastanza celebre in cui una sala vuota è stata fatta apparire piena, un caso celebre del Tg1, con Berlusconi. Se ho mai cambiato idea, diciamo, se dei fatti mi hanno spinto a cambiare idea, ahimè il mio problema è che io cambio continuamente idea, io sono proprio come quel personaggio di Altan che dice “mi vengono in mente delle idee che non condivido”. Mi succede costantemente, è il mio problema anche professionale, nel senso che veramente è così. Io, come avete capito anche prima quando invitavo i miei lettori a non aver troppa fiducia di me, sono veramente costantemente ansioso, angosciato, diciamo, dalla ricerca sulla verità sulle cose. Le cose cambiano con una rapidità impressionante, diciamo, i postulati del dibattito bioetico sulla bioetica di 10 anni fa sono assolutamente impresentabili oggi, sappiamo cose che cambiano anche i giudizi morali, etici. Posso dire una cosa dove il cambiamento è stato particolarmente drammatico, è stato quasi un rovesciamento, ed è stato molto ristretto nel tempo, quindi è stata un’esperienza abbastanza importante per me? E’ la vicenda, del conflitto israelo-palestinese. Fin da ragazzo io ero sostanzialmente convinto dell’idea che insomma i palestinesi avessero ragione e che Israele usurpasse quella terra. Poi una serie di viaggi in Israele, una serie di osservazioni fisiche mi hanno profondamente, profondamente radicalmente cambiato le idee su quel conflitto. E lì ho notato alcune cose che stanno bene col discorso che facciamo stasera. Nell’ufficio dell’allora Presidente della Repubblica israeliana, che poi poverino, diciamo per sua colpa, ha fatto un po’ di pasticci e si è dovuto dimettere, c’era una foto storica che avrete visto sicuramente tutti sui giornali, perché è una di quelle foto che restano nella storia del giornalismo, solo che era ripresa dall’altra parte. Cioè la foto storica è quel ragazzo che lancia la pietra in un gesto plastico, che dà il via alla prima intifada, l’intifada di pietre; esiste uno scatto di quella stessa cosa, dove si vede il ragazzo, però poi esiste uno scatto, da un altro lato, in cui si vedono 300 fotografi e cine-operatori che riprendono il ragazzo, e che è la dimostrazione che la foto è costruita, la foto è costruita, cioè è stato costruito una foto-opportunity come si dice nei giornali, cioè un’occasione così bella da poter essere presentata sulla stampa mondiale con grande successo, così plastica, così immediata e così via. Gli israeliani non a caso conservano questa foto, perché la usano per contestazioni della veridicità di quella cosa lì. Oppure per esempio, ci sono addirittura dei siti che si occupano regolarmente di queste mistificazioni, c’è un’altra foto del conflitto libanese, avvenuto un paio di anni fa, nell’estate di 2 anni fa, con l’invasione delle forze armate israeliane, c’è una foto anche questa che ha fatto il giro del mondo di una casa distrutta da una bomba, cosparsa per terra di giocattoli per bambini, ed è stato storicamente dimostrato che i giocattoli dei bambini sono stati portati lì per montare una foto che fosse particolarmente drammatica, perché accennasse al fatto che c’era stata la strage dei bambini. Questo è per dire insomma che bisogna muoversi con estrema attenzione, bisogna non fidarsi, come vi dicevo prima, leggere, conoscere etc. E’ vero che le notizie piovono, piovono da ogni dove, però in genere quando piove uno apre l’ombrello, cioè il fatto che le notizie piovono oggigiorno, ci dovrebbe indurre ad uscire con l’ombrello, cioè ad avere un maggiore spirito critico, una maggiore attenzione, e anche investire di maggiore responsabilità il ruolo del giornalista, perché il ruolo del giornalista deve rispondere a certi requisiti di legge, stabiliti per legge. Infine l’ultima cosa, è vero quello che dice Visci, circa la trasformazione prodotta dalle communities, cioè del fatto che le notizie fanno il processo dal basso verso l’alto, invece che dall’alto verso il basso, però se quella è informazione io ho dei dubbi, perché dal basso verso l’alto nelle communities, in You Tube arriva tanta di quella roba che non è informazione, anzi è corruzione. Voglio dire, nelle scuole italiane probabilmente ci si comportava meglio prima che si potesse mandare il filmato a You Tube. Non è che sto dicendo di mettere il dito nella diga per fermare il mare che esce, non sono così sciocco, ma insisto nel segnalare che oggi sull’informazione si combatte una delle battaglie culturali cruciali per l’umanità, perché da lì passa le condanne delle persone o dei popoli, come nel caso che descrivevo prima, e quindi il nostro livello di attenzione e di responsabilità deve crescere, la nostra guardia deve essere più alta non più bassa, abbiamo tutti la testa, lo spirito critico, la capacità di accedere a più fonti e quel grande dono di Dio che abbiamo in questa parte del mondo che si chiama pluralismo, cioè il fatto di avere molti punti di vista da guardare, soppesare e da leggere. Usiamo la testa e difendiamoci dai giornalisti.
MODERATORE:
Io credo che dai tanti input positivi che ci hanno offerto i nostri tre ospiti amici oggi, uno senz’altro che possiamo portare a casa, almeno che io porto con me, è a riguardo della quantità di lealtà che è necessaria a un uomo nel suo rapporto con la realtà, tanto più quanto più questo uomo è protagonista, cioè responsabile, specialmente in un luogo così delicato come è l’informazione. Perché il giornalista che fa inquadrare in questa sala le quattro sedie vuote per fare la notizia sì, potrà fare un po’ di danno al Meeting, ma io sono convinto che fa innanzitutto male a se stesso, perché si preclude la possibilità di conoscere qualcosa della realtà. Ecco il Meeting e la realtà che dà vita al Meeting, non si muove applicando uno schema sul reale, sulla realtà, e in questo senso, la grande lezione che noi abbiamo imparato da don Giussani, è di cambiare frequentemente idea. E don Giussani era uno degli uomini più certi e sicuri che io abbia conosciuto. Ma il cambiare idea è indice di intelligenza, e dice Shakespeare: “Ci sono più cose in terra e in cielo Orazio, di quante ne contenga la tua filosofia!”. E io stimo protagonisti loro tre perché, nell’umile e faticoso lavoro quotidiano, a contatto con la realtà, danno prova, indicano, che si può cambiare idea, che se l’idea non è il modo attraverso cui l’uomo conosce di più il reale, è una fregatura! E io non accetto di essere sottomesso a un’idea che non mi introduca di più alla conoscenza delle cose, dei fatti e delle persone. Il Meeting, che spesso va sui giornali, per tante ragioni e per tanti fatti che vi accadono, un po’ più faticosamente va sui giornali per questo impeto di conoscere, far conoscere, raccontare, come la realtà, che c’è anche se uno non la vuole, produce un di più di possibilità. Noi vogliamo imparare dalla realtà, per questo siamo disposti a cambiare, a correggerci, e a seguire quei punti della realtà che ci dicono che c’è una speranza, come i carcerati della mostra che c’è al Meeting, che sono nel luogo della privazione assoluta della libertà, andate a vedere il video e le lettere che scrivono, sono molto più liberi di me e di tanti di noi. Per cui grazie a Visci, Giordano e Polito per la loro battaglia, io spero che uscendo da qui abbiano guadagnato qualche lettore in più, cosa che auguro. Grazie e buonasera.
(Trascrizione non rivista dia relatori)