QUALE DESTINO PER L’EUROPA?

Quale destino per l'Europa?

27/08/2011 ore 11.15 Partecipano: Gianni Pittella, Vicepresidente del Parlamento Europeo; Mario Mauro, Capogruppo del Popolo della Libertà al Parlamento Europeo; Giulio Tremonti, Ministro dell’Economia e delle Finanze. Introduce Bernhard Scholz, Presidente della Compagnia delle Opere.

Partecipano: Gianni Pittella, Vicepresidente del Parlamento Europeo; Mario Mauro, Capogruppo del Popolo della Libertà al Parlamento Europeo; Giulio Tremonti, Ministro dell’Economia e delle Finanze. Introduce Bernhard Scholz, Presidente della Compagnia delle Opere.

 

BERNHARD SCHOLZ:
Buon giorno a tutti, benvenuti a questo incontro, un saluto particolare e un benvenuto al Ministro dell’Economia e delle Finanze, Giulio Tremonti; all’Onorevole Gianni Pittarella, Vicepresidente del Parlamento Europeo e all’Onorevole Mario Mauro, Capogruppo del PDL al Parlamento Europeo.
Tutti i Paesi Europei si trovano di fronte a un problema, che viene descritto al meglio, come quadratura del cerchio: ridurre la spesa pubblica e sostenere la crescita. Sono due obiettivi che sembrano contraddittori, ma non lo sono, perché senza crescita non ci sarà il gettito necessario per abbattere il debito e senza riduzione della spesa, i sistemi dei Paesi sono a rischio. Quando parliamo di crescita, dobbiamo subito chiarire che vogliamo una crescita che crei occupazione, una crescita dove il profitto non è lo scopo ma lo strumento, e soprattutto una crescita dove la bussola per tutte le decisioni sia il futuro dei nostri figli. E si capisce che una tale sfida non può essere più affrontata da un singolo Paese ma occorre una stretta collaborazione fra tutti i Paesi dell’Unione. Però per affrontare un problema bisogna anche affrontare le cause, e io mi permetto solo due osservazioni a questo proposito. La prima, il debito pubblico e la crisi finanziaria, fra le tante cause che le determinano, hanno una causa in comune: il volere tutto subito a prescindere dalla sostenibilità e a prescindere dalle conseguenze, accontentare tante richieste, trovare facili consensi, senza basarsi sullo sviluppo reale, supportato dagli impegni e dagli inevitabili sacrifici che ogni vero sviluppo richiede. E la questione non è solo l’adeguatezza o l’inadeguatezza di una politica Keynesiana di investimenti pubblici e momenti di stagnazione. Si tratta molto semplicemente, ma molto più drammaticamente, del fatto di distribuire dei soldi che dovranno pagare future generazioni. E tutto questo è stato supportato dalla coltivazione di una attesa salvifica nei confronti della politica, una pretesa assistenzialistica nei confronti dello stato e non può sorprendere che, in un tale clima, la società civile sia rimasta indebolita, facendo anche spesso emergere atteggiamenti di pretese corporative. Così l’Europa, perché questo riguarda l’Europa tutta, non solo l’Italia, si trova di fronte alla necessità di una inversione culturale urgente. I Paesi possono solo crescere e ringiovanire, nel senso letterale del termine, se rinasce quella vita activa civilis, come fu definita da San Bernardino di Siena e che dal punto di vista politico deve essere sostenuta dall’introduzione decisa del principio di sussidiarietà, come lo prevede la Costituzione europea e come lo prevede il titolo quinto della Costituzione Italiana. Ormai è chiaro che non si può raggiungere un bene per sé a prescindere dal bene degli altri, questo vale a livello personale, economico, nazionale. La seconda osservazione: più i problemi causati da una tale impostazione si palesano, più la politica deve entrare in merito a questioni complicate, complesse, aumenta invece il personalismo politico che riduce le difficoltà da affrontare a semplici pro e contro alcuni leader, come se una singola persona fosse in grado di risolvere problemi di queste dimensioni globali. Si tratta invece di affrontare con la maggiore oggettività possibile una crisi che deve essere superata con l’impegno responsabile di ognuno. E io sono certo che la maggioranza delle popolazione in Europa è disponibile ad assumersi questa responsabilità e i sacrifici necessari, se la politica si presenta con delle prospettive lungimiranti, con misure non improvvisate, ma frutto di un disegno complessivo. Prospettive che sostengono le iniziative valide e meritevoli delle imprese profit e non profit, dei professionisti e delle istituzioni e che non fanno pesare i costi dello stato e della politica e, soprattutto, rendono la pubblica amministrazione più efficace. Non possiamo risolvere i problemi che dobbiamo affrontare con ulteriori debiti, ma con una forza di una società civile, con l’impegno di ognuno e chiediamo quindi che la politica sostenga questo. Quindi vogliamo cogliere l’occasione di questo Meeting per parlare delle sfide dell’Europa. Non è possibile che un Paese si concepisca da solo, ma sappiamo anche quanto è difficile che si riconoscano fattivamente, non solo nei discorsi, le interdipendenze fra le diverse nazioni e che si riesca ad utilizzare in modo proficuo l’istituzione che l’Unione si è creata, casomai adeguandoli o rinnovandoli. Ma anche chi riconosce che non è possibile che una nazione possa andare avanti da sola, deve affrontare giorno per giorno le grandi diversità dei sistemi di governance, dei sistemi fiscali, e dei sistemi di Welfare. Qual è allora il destino dell’Europa? Cominciamo con Mario Mauro.

MARIO MAURO:
Grazie Bernhard. Buongiorno a tutti. Se uno sceneggiatore di film apocalittici avesse potuto immaginare e avere le risorse per impostare una scena come quella che si verificherà tra qualche giorno, un uragano grande come la California, pronto ad abbattersi sulle strade prospicienti Wall Street a New York, credo avrebbe in questo modo rappresentato perfettamente il senso della crisi che stiamo vivendo e che peggiora giorno dopo giorno, anziché migliorare. E credo che forse l’imponenza, la forza di questo scenario possa servire a noi per non banalizzare quello che cerchiamo di fare, quello che cerchiamo di fare anche attraverso questo incontro.
Io sono sinceramente sgomento dell’approssimazione con la quale si vive il rapporto con ciò che la politica può fare e ciò che la politica non riesce a fare.
Trovo contemporaneamente, sulla stampa, sui giornali, nelle televisioni di mezzo mondo, una valutazione, per esempio, che mi appare contraddittoria: da un lato saremmo un Paese commissariato dall’Europa e dall’altro, c’è scritto a più riprese e lo pensano molti anche di quelli che sono in sala, che l’Europa non è in grado di fare niente. Ma se l’Europa non è in grado di fare nulla, se l’Europa non ha poteri, se l’Europa non serve a niente, come fa a commissariare un Paese sovrano? E d’altro canto questa strana contraddizione, attraverso la quale viviamo la lettura e la partecipazione di quello che accade sullo scenario globale, ci fa dimenticare la cosa più importante che l’Europa ha prodotto e produce: l’ l’Europa ha prodotto e produce da molti anni, ma in questi anni molto di più, interdipendenza. Cioè finiamo con il dipendere da quello che vivono gli altri.
C’è un esempio che ha fatto proprio il Ministro Tremonti all’inizio di quello che è stato il mettersi in evidenza della crisi greca e di fronte alla riottosità di Paesi come la Germania e la Francia, ricordo che aveva sollecitato questa riflessione: “Se abiti in un quartiere in cui brucia la casa di un vicino, che magari non è il più simpatico del vicinato e magari ti ha anche fatto qualche torto, non di meno ti adoperi per spegnere quell’incendio, altrimenti tutto il quartiere brucia”.
Allora questa logica dell’interdipendenza non è un’altra parola da aggiungere alle parole misteriose del lessico europeo, come la parola, ancora più temuta, armonizzazione, è semplicemente perché ci rendiamo conto di una cosa, che ci siamo messi insieme e ci siamo messi insieme sempre di più e sempre fra tanti più di noi.
530 milioni di persone oggi sono insieme e non hanno alcuna possibilità di venir fuori dal guado cercando soluzioni abborracciate, approssimative, da sole.
Io credo che questa percezione deve condizionare enormemente il nostro modo di partecipare alla vita politica dei nostri Paesi, perché quando mi chiedono di parlare dell’Europa lo faccio volentieri perché non è il mio specifico, è il mio contesto, il nostro contesto. Infatti la sottolineatura che faccio, limitatamente ai problemi della crisi, anche per non dare la sensazione di essere un tuttologo, è rispetto a una vicenda istituzionale che nella questione della crisi può giocare un ruolo. Non tutto la politica può fare nell’adoperarsi per risolvere la crisi, ma qualcosa può fare!
Allora, amici miei, che cos’è importante che l’Europa faccia? Se è vero, venendo fuori dal gioco dalla retorica europeista, che ci ha dato un lascito fatto di pace e di sviluppo – è stato uno sviluppo senza precedenti quello di questi ultimi 40-50 anni, ed è stata una condizione di non conflitto che ci ha permesso ancor più di essere protagonisti decisi del nostro destino e collaboratori di un bene inestimabile, pensiamo solo al saldo del debito che abbiamo fatto con la storia recuperando i Paesi dell’Est europeo a una stagione di democrazia e di libertà – se è vero però tutto questo, oggi che cosa dobbiamo fare? Qual è la difficoltà che viviamo oggi? Cerco di usare delle frasi che siano tanto comprensibili quanto aprano al lavoro, piuttosto che chiudere.
Siamo l’Unione europea e l’Unione europea non basta. Cosa vuol dire che l’Unione europea non basta? Intanto l’Unione europea è un’impostazione istituzionale che risente di molte perplessità, quella degli Stati sovrani nel cedere fino in fondo la propria sovranità e quella di conversioni sulla strada di Damasco. Noi non dobbiamo dimenticare che la più grande famiglia europea, dopo quella popolare, quella socialista qui rappresentata da Gianni, ha avuto un passaggio chiave e cioè il convincimento che quel percorso europeo fosse inestimabile, un bene per tutti dopo la caduta del muro di Berlino, dopo l’89 e prima ha avuto profeti isolati come Altiero Spinelli. Allora in questo percorso di natura epocale, ci stiamo mettendo insieme e ci stiamo mettendo insieme intravedendo, in una condizione che è di crisi di tante cose – compresa quella ideologica -, che ci sono scommesse che dobbiamo assolutamente vincere.
Sentite parlare a più riprese di strumenti, più o meno fantasmagorici, che dovrebbero portarci fuori dal guado. Quegli strumenti noi li condividiamo; li condivide il Ministro Tremonti, li condivide il Vicepresidente Pittella, li condivide Junker, li condivide Jacques Dèlors, che ha guidato la commissione per molti anni. Mi riferisco al tema cosiddetto degli EuroBOND, cioè in tema di interdipendenza dire semplicemente: “abbiamo capito che abbiamo dei debiti e abbiamo capito, siccome esiste una finanza buona e una finanza cattiva, che avere una certa concezione di un livello di debito comune, visto che abbiamo messo in comune le nostre monete, può aiutarci”.
Perché questo diventi un’opportunità e non una iattura, perché questo diventi una chance e non diventi una condanna, ci sono delle condizioni da rispettare:
1. Io non posso utilizzare un percorso di sviluppo, che serve per far crescere l’Europa, per mettere la polvere sotto il tappeto dei miei difetti, della mia incongruenza, della mia tendenza a non essere virtuoso; questo è quello che tanti di noi hanno proposto in termini di garanzia, ad esempio alla signora Merkel e che la signora Merkel con miopia, con miopia ha rigettato, con il rischio di mettere a repentaglio l’intero progetto europeo. E su questo amici miei vorrei fare mie le parole non di un altro meridionale “da accatto”, come il sottoscritto, sempre sospettabile di non essere virtuoso dal punto di vista del rigore, ma di un uomo che qualche merito nella costruzione dell’Europa dovrebbe averla, e cioè Helmut Kohl, che anche quando ci ha incitato a costruire l’Europa dal palco di questo Meeting, ha sempre tenuto fermo un principio, che ha ribadito tre giorni fa alla signora Merkel: se non hai una bussola, se non conosci i valori su cui ti fondi, se non sai ciò in cui credi, non sai dove vai. E per questo sei incapace di leadership. Questo è uno dei grandi misteri del nostro tempo, la convinzione che ci siano i leader e per questo ci sia il contenuto e non la convinzione che ci sia il contenuto e per questo ogni tanto qualche buon leader lo abbracci. Amici miei, io vorrei essere estremamente chiaro a proposito di questo passaggio. Io non entro in polemica né con la Germania né con la Francia, e non ho antipatia né per la Merkel, tantomeno per Sarkozy; dico semplicemente una cosa: che quando li hanno rimproverati di essere poco generosi sul caso della Grecia, io li ho difesi; perché tu devi spiegare, dare ragioni a un operaio tedesco, che va in pensione a 67 anni col 60% dell’ultimo stipendio, perché deve essere solidale con uno greco che va in pensione a 55 coll’88% dell’ultimo stipendio. Allora se è vero questo, è vero però anche che, dentro quella prospettiva, aprire una maggiore convergenza dei nostri sistemi di welfare, dei nostri sistemi fiscali, che cosa vuol dire se non passare dall’Unione europea agli “Stati Uniti d’Europa”? Che cosa vuol dire? Che cosa vuol dire cioè che gli sforzi che oggi, da un punto di vista del profilo istituzionale, ci possiamo permettere per rilanciare questo progetto e contribuire al bene comune, passano attraverso la decisione profonda di accettare le condizioni dell’interdipendenza, di capire che siamo insieme? Chiudo aprendo ad una prospettiva della crisi che secondo me è toccata ma non sufficientemente valorizzata. La crisi – per lo meno per quello che attiene lo scenario europeo – è certo crisi finanziaria ed economica ed è certo crisi finanziaria ed economica legata a crisi globale, che è finanziaria ed economica, ma è una crisi di persona, è una crisi di uomo, è una crisi di approccio e questo vale per l’Europa in termini numerici… Siamo 530 milioni e 75 milioni hanno meno di 25 anni; l’Egitto ha 80 milioni di persone e 60 milioni hanno meno di 25 anni. L’Egitto cioè ha, in termini di investimento naturale in capitale umano, a disposizione i ¾ di quello che ha l’Unione europea. E allora amici miei, chi ha tempo, modo e dovere per mettersi a lavorare sulla crisi, su questo deve ragionare. Deve ragionare cioè su quanto valgono 75 milioni di persone e quindi, se deve fare delle scelte, deve scommettere su quei 75 milioni di persone, ma deve ragionare forse ancor di più su quanto vale una persona. Quando è venuto al Meeting, Giorgio Napolitano ha detto che dobbiamo parlarci con verità. Ma che cos’è la verità? Mi ha sempre colpito quel passaggio di Agostino quando, parafrasando la dizione latina “Quod est veritas?”, dice che è “Vir qui adest”; è come un anagramma che viene riconvertito e dà la risposta: “che cos’è la verità? è un uomo che ti sta davanti”, è un uomo che prende posizione, è un uomo che si mette in discussione, che sa cioè che la crisi non è l’ultima parola sulla sua vita, che il grosso problema della vita non è la gravità della crisi, il grosso problema della vita è la grandezza della nostra vocazione, che facendo politica, economia, cultura, insegnando siamo chiamati a dare una risposta alla crisi. È in un uomo che ti viene incontro la verità, e venendoti incontro ed abbracciandoti può aiutarci a venir fuori da questo guado e a fare il bene per tutti. Vi ringrazio.

BERNHARD SCHOLZ:
La parola a Gianni Pittella.

GIANNI PITTELLA:
Grazie Presidente. Tu hai ringraziato me, ma sono io che devo ringraziare te e devo ringraziare il Meeting, non soltanto per aver voluto la mia presenza in questo dibattito, ma perché qui l’Europa c’è e ha uno spazio e ha una centralità che in altri luoghi di dibattito non ha. Devo dirvi in tutta sincerità che io seguo molto e con grande interesse il vostro lavoro, non soltanto per la grande amicizia e la grande stima che mi lega a Mario Mauro, ma perché voi, non solo testimoniate una visione della società che mi è comune, ma voi testimoniate questa centralità dell’ Europa che è la mia fede. Grazie. Io dirò come la penso sulle questioni che tu hai posto e che sono state riprese in maniera così autorevole dal collega Mario Mauro. Noi siamo confrontati con una miscela che rende il mondo di oggi assolutamente gravido di allarme, di preoccupazioni, di sfide dentro quella cornice nella quale tutto si è evoluto e si è evoluto subito e quella cornice non ha altro nome, almeno io non saprei dare un altro nome, se non quello del turbo-capitalismo: assenza delle regole, la politica sembra in disparte, la statualità e la sopranazionalità statuale sempre più flebile. Dentro quel contesto abbiamo avuto una miscela incredibile, abbiamo avuto l’aumento del prezzo delle comodities e del petrolio, abbiamo avuto le turbolenze del Mediterraneo, abbiamo avuto lo tsunami e il terremoto in Giappone, abbiamo avuto la crisi dell’eurozona e abbiamo avuto il declassamento del rating americano. E abbiamo di fronte, anche grazie a questi fattori, una fotografia che potrei definire con l’acronimo famoso, www uic banche, deboli banche, debole crescita e debole politica e abbiamo una sorte di situazione sociale nella quale la generazione di mezzo, sia intesa come ceto medio, sia intesa come persone che vanno dai 40-60 anni, sta in una sorta di sandwich con il prevalere dei radicalismi in questa società. Dentro tutto questo l’Europa può svolgere un ruolo decisivo se compie quelle azioni coraggiose a cui si riferisce il collega Mauro. L’Europa è stata decisiva per le giovani generazioni, per dare un futuro come tu dici ai giovani, lo è stato da quando è nata la Comunità Europea dalla Comunità del Carbone e dell’Acciaio e poi la Comunità Economica e poi l’Unione. Lo può essere anche oggi se l’ Europa, le istituzioni comunitarie, fanno dei passi in avanti. Io ne indico cinque. Primo: Eurobond, è la chiave per uscire dalla crisi, perché con gli Eurobond possiamo costituire un’agenzia del debito europea e dare garanzie ai debiti sovrani. Perché con gli eurobond possiamo raccogliere 1000 miliardi di euro di investimenti nel mondo e finanziare un grande piano europeo per la ripresa, per la crescita e la coesione, le grandi infrastrutture materiali, le reti; le grandi infrastrutture immateriali: formazione, ricerca, educazione, scuola, politiche per i giovani, un grande Erasmus universale che copra tutti i giovani dai 16 ai 35 anni, a prescindere dal fatto che siano studenti, giovani professionisti, giovani imprenditori, giovani della scuola media superiore, giovani della pubblica amministrazione. Banda larga e ricerca e fonti energetiche alternative. Secondo punto: dobbiamo rafforzare la governance economica, non soltanto puntando ai vincoli; non si esce dalla crisi solo facendo sacrifici, non possiamo ammazzare la società in attesa del risanamento dei conti pubblici, bene il risanamento e il rigore, ma dobbiamo fare anche politiche per la crescita e per la coesione, altrimenti avremo i conti in ordine, ma non avremo più i cittadini. Terzo punto: unione fiscale: non regge l’euro senza una unione fiscale, la crisi dell’eurozona è anche il frutto di questa forbice, abbiamo una moneta, ma non abbiamo un governo economico e non abbiamo un coordinamento delle politiche fiscali. Quarto punto: riforma delle Agenzie di rating. Dobbiamo creare un’Agenzia di rating indipendente in Europa, dobbiamo svincolare il controllo dei debiti sovrani dalla valutazione, spesso opinabile, da cui dipende il destino di generazioni, di governi, di istituzioni, delle attuali 3 o 4 agenzie di rating del mondo. Altro che oligopolio, qui siamo veramente alla dittatura, poche persone decidono sulla sorte, sulla fortuna dei Paesi e delle società. Quinto punto: dobbiamo rafforzare la sorveglianza e la vigilanza sui mercati finanziari, attraverso il potenziamento delle agenzie che abbiamo creato a livello europeo. Chi fa queste cose? Le fa un direttorino, altro che direttorio. E’ vero che nella storia della integrazione europea è stata pesante la mano dell’asse franco-tedesco, condito dall’aiuto decisivo degli italiani, ma allora erano i tempi di Kohl, come ricordava Mauro e di Mitterand, non di Merkel e Sarkozy, che certo non hanno la statura e il coraggio di Kohl e di Mitterand. Dobbiamo dare la parola a chi è eletto dal popolo, e l’unica istituzione eletta dal popolo in Europa si chiama Parlamento Europeo. Dobbiamo rafforzare il ruolo del Parlamento Europeo e dobbiamo rendere il Parlamento Europeo determinante insieme ai governi, ai governi sensibili ed io mi auguro sinceramente, perché non sono un uomo che ha il prosciutto sugli occhi, mi auguro sinceramente che il Governo italiano esca dal club degli euroscettici ed entri nel club degli eurofili, dove siamo stati per tutto il corso della nostra storia democratica, dove siamo stati l’avanguardia dell’integrazione europea. Chi deve farlo sul piano politico questo, chi deve aprire questa nuova fase sul piano politico? Io dico le grandi famiglie politiche europee, la famiglia del popolarismo cattolico e la famiglia del riformismo socialista e liberale. Queste grandi famiglie, che possono avere punti di discordia su tante questioni, possono avere un punto in comune per non lasciare le redini della politica all’estremismo antieuropeo. Il punto che può unire queste grandi famiglie è una nuova visione dell’Europa, un nuovo e più profondo processo di integrazione europea. Col collega Mario Mauro abbiamo lavorato e intendiamo lavorare in questa direzione. Ci chiameranno inciucisti, non ce ne frega niente. Se inciucista significa essere pro-europeo, se significa essere per una politica che riporta l’uomo al centro della scena, noi saremo inciucisti. Grazie.

BERNHARD SCHOLZ:
Grazie, grazie onorevole Pittella. La parola al Ministro Tremonti.

GIULIO TREMONTI:
Io la prendo un po’ alla larga, la prendo dal giro largo della storia europea. E questa non è una tecnica per non farmi capire, all’opposto è una tecnica per farmi capire in un luogo di riflessione come è questo. E vi ringrazio davvero per l’opportunità di fare questa riflessione un po’ noiosa, qui oggi con voi. In ordine logico, non cronologico, girerò per tre luoghi della storia europea. Waterloo, Westfalia e Versailles. Waterloo il luogo della battaglia fatale per Napoleone, Westfalia il luogo del “cuius regio eius religio”, Versailles il luogo delle sanzioni economiche alla Germania.
Waterloo, una domanda: è stata una vittoria o è stata una sconfitta? Certamente è stata una vittoria per l’Inghilterra. E’ stata una vittoria per l’Atlantico. E’ stata una sconfitta, la prima sconfitta della prima globalizzazione per l’Europa. Uno a zero. Una sconfitta inspiegabile, evitabile, beh certamente nelle armate di Napoleone c’era la forza pagana degli eserciti, il paganesimo della forza. Dietro c’era il giacobinismo, dietro ancora l’illuminismo, ma dietro tutto c’era l’umanesimo cristiano. Perfino Voltaire arriva a dire che l’Europa è, può essere una grande repubblica. Nuovissima e vecchissima ma con un comune fondo di religione, di cultura, di principi, di valori, di diritto. Attualizziamo. L’idea dell’Europa come grande repubblica ha ancora un senso, è ancora possibile? Io credo che nella seconda globalizzazione, quella che stiamo vivendo e vedendo, è fondamentale. Perché la globalizzazione fa salire di scala, riduce il ruolo degli stati nazione e ci configura come confronto tra blocchi continentali, tra masse continentali. E’ fondamentale creare una massa, un blocco europeo. Che possibilità abbiamo come Europa di presentarci sulla scena del mondo come un unico blocco, come un’unica massa? E questo ci porta al secondo luogo della storia, a Westfalia, che è luogo del “cuius regio, eius religio”, è il luogo della configurazione dei particolarismi difesi e dei nazionalismi tipici di questo continente. E’ così che arriviamo alla prima stranezza, al primo paradosso. Se guardate in giro, il nazionalismo è scomparso quasi dappertutto in Europa e quasi per tutto. Non c’è più un nazionalismo della cultura, della musica, del costume, nel mercato, non c’è, fateci caso, un nazionalismo neanche sulle automobili. E tuttavia si radicalizza un ultimo tipo di nazionalismo, che è quello relativo ai bilanci pubblici. E vorrei essere chiaro. I bilanci pubblici contengono le virtù e i vizi dei popoli, e sono molto importanti. Ma è curioso il fatto che, in un continente che si unifica quasi su tutto, emerga ancora o resista questa fondamentale differenza identitaria e nazionalistica. Io non credo che il nostro esistente, il nostro passato, il nostro presente, il nostro futuro si concentri e si riduca tutto sul tasso di interesse relativo ai bilanci pubblici, che è molto importante ma non è tutto. E credo che si debba fare una riflessione molto più ampia ed equilibrata rispetto a quella che è stata finora fatta e che in qualche modo ha anche scippato Mao. E arriviamo al terzo luogo della storia, a Versailles, Churchill diceva: non sono state due guerre mondiali ma un’unica guerra seppure interrotta da un lungo armistizio. In mezzo c’è l’idea di proseguire la guerra con altri mezzi, con mezzi economici e non più militari, l’idea delle sanzioni alla Germania. E non credo che sia stata una buona idea, credo che sia stata un’idea ispirata da una combinazione di stupidità e di avidità. Attualizzando, cercherei di evitare una Versailles all’incontrario. E inviterei tutti, anche le vittime delle sanzioni di allora, ad un bilancio più ampio e più equilibrato. Se ci fate caso, nell’Unione europea tutti entrano con una prospettiva, con degli obiettivi, con dei prezzi che pagano. La Germania ottiene l’unificazione ma la scambia con la fine del marco sostituito dall’euro. La Francia prosegue con questa nuova struttura nella sua politica generale e estera, e l’Italia porta il suo debito pubblico nella fortezza di Maastricht, per difenderlo o per difendersi. Bene, è difficile dire adesso chi ci ha guadagnato, chi ci ha perso, forse è opportuno cominciare a fare un calcolo del dare e dell’avere, non per finire, ma per continuare. E credo sia difficile dire che la Germania ci ha perso. Credo che non sia affatto corretto dire che la Germania ha pagato un prezzo per questo processo, forse è stato esattamente il contrario. E comunque non si può distinguere, io credo, tra affari di finanza pubblica e affari di finanza privata, perché la crisi e la gestione della crisi ci hanno dimostrato che alle perdite private può corrispondere un incremento dei debiti pubblici. Non si può pensare di fermare il rischio economico sui confini nazionali. Il rischio economico, come rischio di controparte, passa attraverso i confini nazionali. E quindi la crisi di una società in uno stato può portare alla crisi nel bilancio della società di un altro stato. Non si possono fare bilanci con beneficio d’inventario, chiudo il bilancio, vedo chi ha guadagnato e chi ha perso e non guardo indietro da dove viene quella situazione, e chi ci ha guadagnato prima e come. Molte crisi vedono la crisi in un Paese, in una società ma precedenti vantaggi di altri Paesi, di altre società, che hanno creato quei fattori di crisi, che hanno a volte smistato la droga di una finanza troppo facile. Ed è facile dire incasso e poi sono problemi tuoi, e non è giusto. Non credo che abbia senso estremizzare gli egoismi nazionali, cosa che invece si presenta in Europa, soprattutto nel nord, come lo sport nazionale dell’estrema destra. Faccio un esempio. Crisi in un Paese, supponiamo in Irlanda. La crisi si manifesta su alcuni valori di banche, di finanza. Ebbene un Paese come l’Italia partecipa in ragione dei capitali alla BCE, e non in ragione dell’effettiva entità delle posizioni passive a rischio. L’Italia partecipa con responsabilità e con visione in ragione della quota al capitale della BCE. Altri Paesi, altri partiti direbbero no, noi partecipiamo solo in misura della effettiva esposizione a rischio, molto più bassa. Non è la visione giusta, non è la visione responsabile, non è la visione europea. Non si può parlare di Europa e poi ragionare in questi termini di estremismo dell’estrema destra e di egoismo. Un altro punto. Certo la Grecia ed è stata citata. Come diceva ancora Churchill, da quella parte del mondo, nei Balcani e nella penisola finale dei Balcani, si produce più storia di quella che si riesce a consumare, e per questo si esporta. Certo la crisi della Grecia è una crisi di sistema, è una crisi profonda, ma è limitata al passato. Noi tutti in Europa sappiamo che dove c’è una crisi si cambiano le politiche. E’ difficile cambiare le politiche, è difficile cambiare in modo strutturale tendenze che si sono consolidate nei decenni. Ma tutte le realtà di crisi che abbiamo sono relative al passato. Il futuro non è fatto dalle cause che hanno portato alle crisi del passato. L’impegno comune è un maggior rigore, una maggiore vigilanza, una maggiore disciplina. Come gestire la realtà che ci presenta? Abbiamo il Trattato. E non per caso si chiama Trattato di Unione. Non si chiama trattato di divisione. E se nella lettera del Trattato ci possono essere dei margini di incertezza, nello spirito del Trattato c’è assolutamente la certezza in ordine all’obiettivo che si può e si deve raggiungere. Certo abbiamo difficoltà. Se voi leggete il Trattato capite subito che è scritto in una logica positiva e progressiva. E già nell’incipit vengono fuori parole ottimistiche: benessere, sviluppo sostenibile, economia sociale di mercato, progresso, futuro parallelo. I Trattati internazionali sono come i matrimoni, si contraggono nella buona e nella cattiva sorte. Il Trattato europeo è scritto oggettivamente più nella buona che nella cattiva sorte. Nel Trattato europeo il bene è la regola e il male è l’eccezione.
I Trattati internazionali sono come i matrimoni, si contraggono nella buona e nella cattiva sorte, il trattato europeo è scritto oggettivamente più nella buona che nella cattiva sorte, nel trattato europeo il bene è la regola e il male è l’eccezione. La parola crisi la trovate solo in alcune parti e solo relativa al caso di crisi in un singolo Paese, non la crisi sistemica, eppure abbiamo interpretato il Trattato in modo da gestire, nei limiti del possibile, una crisi che non era nello specifico scritto del Trattato. Cosa fare per gestire è applicare il trattato con questo nuovo spirito che ha una dimensione finora non nota nell’esistente? Beh! Servono la ragione ed il cuore e non per caso le parole ragione e cuore ricorrono con molta frequenza negli scritti di De Gasperi E di Schuman.
Lo stesso linguaggio si trova in Benedetto Croce e in Streseman. Lo spirito non si riduce alla semplicità elementare degli interessi e lo spirito non è nel conflitto alla tedesca, stile Karl Schmitt. Della Germania noi dobbiamo prendere e alla Germania noi dobbiamo prospettare di nuovo lo spirito di Goethe, di Thomas Mann che dopo la seconda guerra scrive il Doctor Faustus, replica la storia di chi scambia la sua anima per la musica perfetta.
Noi non vorremmo che il tedesco perfetto scambi la sua anima con l’export perfetto.
Per inciso, l’export della Germania verso la Cina è stato pari a 53,5 miliardi nel 2010, l’export della Germania verso i poveri Paesi denominati pigs, Portogallo, Irlanda, Grecia è stato 50,9%, quasi come quello verso la Cina, verso l’Italia il 58,4%, più dell’export verso la Cina.
La domanda che dovremmo fare è: volete buttare via tutto questo? O pensate che abbia un valore anche questo, che la visione debba essere d’insieme in partita doppia e non solo limitata ad una dimensione pure importante dell’economia come i bilanci pubblici?
Questa è la domanda che io credo dobbiamo farci e dobbiamo fare. Avendo una visione strategica del tempo: quello che adesso ti può sembrare un beneficio, fra un po’ di tempo può diventare esso stesso un maleficio. Cerco di dirvelo in tedesco. L’inno alla gioia è stato composto da Schiller nel 1786, è stato utilizzato come corale da Beethoven nel 1824, adottato come inno europeo dal Consiglio d’Europa nel 1972. Se si va avanti su un crinale pericoloso, come pare che qualcuno voglia fare, forse bisognerà cambiare musica e passare all’incompiuta di Schubert. L’idea forte che si deve e si può sostenere è quella degli Euro-bond. In politica non esiste il copywrite e tuttavia è un idea formulata alla metà degli anni ’90 dall’allora Presidente della Commissione Europea Jack Delors. In omaggio al Presidente Pittella, noto che nasce come idea di sinistra. E’ stata ripresa molti anni dopo, nel 2003, dalla presidenza italiana dell’Europa, era il programma economico del Governo italiano nel 2003, quindi, a proposito di scetticismo, nel 2003 riprende un idea di Delors, l’idea degli Eurobond. Ricordo che presentando quella idea, presentandola come idea non tecnica, non economica ma politica, ricordo, citando “un grande Paese nascerà con un piccolo debito” di Hamilton, ricordo la reazione tedesca, la sindrome di Weimar: no, non parlare di debito; o la reazione inglese: una buona idea ma evoca troppo il superstato. Quell’idea non passò nel 2003, non passò perché non c’era consenso, non passò perché si opponeva la Commissione Europea, anche se alcuni manifestavano gradimento, ma, come è noto, non esistono idee anticipate o sbagliate, perché anticipate esistono solo idee che aspettano il loro tempo. E quel tempo sta arrivando, progressivamente ma sta arrivando. Con il primo Ministro del Lussemburgo, sul Financial Times, ho scritto nel dicembre dell’anno scorso un articolo che reintroduceva il tema degli Eurobond, poi si sono aggiunti altri contributi, altre forme di consenso, e siamo a oggi. Oggi sento dire che è un idea che non può andare, perché è un idea che conviene ad Italia e Spagna ma all’opposto non conviene alla Germania, quindi è un idea sbagliata per queste ragioni. Io trovo che è un commento non appropriato, la prova di questo carattere strampalato. Perché il mondo anglosassone, perché in Inghilterra il Governo inglese chiede gli Eurobond? Lo fa per sostenere l’Italia, per danneggiare la Germania o perché vede alla fine anche quel mondo negli Eurobond una soluzione di consolidamento fiscale, fondamentale per la moneta comune?
È una idea che sta andando avanti. Devo dire, quando fu proposta da Delors e poi ripresa nel semestre italiano, era l’idea di raccogliere, con titoli pubblici, capitali per fare investimenti pubblici europei; e quindi era un’idea industriale, ma dietro l’idea di investimenti industriali c’era un’idea costitutiva di identità europea. Quando è stata riproposta nel dicembre 2010, l’idea degli Eurobond era un’idea più finanziaria che industriale; era un’idea di emissioni comuni o di organizzazione delle emissioni comuni per evitare che tra i due litiganti ci guadagnasse il terzo litigante e cioè il mercato finanziario.
In un contesto come quello attuale, che alcuni Paesi pagano tanto, altri specularmente pagano molto meno, ma in mezzo chi ci guadagna è il terzo, che ci guadagna sul primo che ci perde.
Io credo che gli Eurobond abbiano un senso nella doppia versione e nella doppia funzione, per organizzare l’emissione di debito nell’emergenza e per finanziare il futuro nella prospettiva della crescita dei prossimi anni per questo continente.
Voglio essere molto chiaro: se uno pensa che lo sviluppo di un continente come l’Europa, ancora la regione più ricca del mondo, possa essere basato solo sulla domanda interna, magari per beni di consumo, si sbaglia, perché c’è una certa quale saturazione di questa roba qua. Se uno pensa che il modello sia solo sull’export, sbaglia; perché è un modello a rischio; ti basta vedere che cosa sta succedendo in Asia o in altre parti del mondo per capire che l’export è importante, è necessario, ma non è sufficiente.
I tavoli stanno su con tre gambe: è fondamentale la gamba costituita dagli investimenti per il bene comune. E gli Eurobond servono, primum vivere, nelle missioni e poi per finanziare lo sviluppo. Ed è l’unico modo per combinare il rigore dei bilanci nazionali con lo sviluppo dell’economia del nostro continente.
Voglio dire un’altra cosa che forse è ancora più chiara. Dal dopoguerra fino a pochi anni fa, lo sviluppo della nostra economia era basato sull’automobile. L’automobile era il driver delle nostre economie. Voleva dire metallo, vetro, gomma, plastica, cemento per le autostrade: uno stile di vita. Noi dobbiamo trovare un nuovo modello, un nuovo driver di sviluppo, che non è nelle forme strumentali della nuova economia – che pure sono fondamentali – è in un nuovo tipo di bene di investimento comune. L’unico modo per investire sul nostro futuro è quello degli Eurobond.
Nel suo discorso fatto qui, il Presidente Napolitano ha citato il discorso del Presidente Roosevelt, il famoso discorso sulla paura. Ed è straordinario. Vorrei andare, però, oltre, prendendo una lezione dalla politica di Roosevelt. Come Roosevelt ha gestito la crisi del ’29? Non ha salvato le banche, ha salvato le famiglie, ha salvato le imprese, ha salvato, delle banche, la parte industriale e commerciale: le banche a servizio delle famiglie e delle industrie e non le banche di speculazione finanziaria.
Io credo, e possiamo dirlo dopo cinque anni dall’avvio della crisi nell’autunno di cinque anni fa ad oggi, che molti errori sono stati commessi. Il primo errore è stato quello di continuare a usare la parola crisi, ma pensando a un vecchio ciclo economico, come se, pur intensa la cascata dei fenomeni che si manifestavano, tuttavia fosse possibile gettare un ponte tra il passato e il futuro scivolando sulla crisi.
È un po’ come la storia di quel re di Francia che si sveglia all’alba e lo informano “hanno preso la Bastiglia”. Il re chiede “è una rivolta?” e il duca gli dice “No, maestà, non è una rivolta, è una rivoluzione”; “Ah, una rivoluzione!”, ma continua a pensare come fosse una rivolta, e per questo gli tagliano la testa. Troppi governanti hanno pensato che questa non fosse una crisi ma solo un ciclo. E hanno magari usato la parola crisi ma hanno pensato in continuo come se fosse alla fine un pur intenso ciclo economico vecchio stile. Non è stato ristrutturato il sistema bancario, anzi, il denaro pubblico è stato utilizzato per salvare le banche, che, essendo sistemiche, contenevano esse stesse la speculazione sistemica per le banche sistemiche; e invece proprio perché sistemiche, le banche vanno salvate quando fanno i finanziamenti alle famiglie e alle industrie, non quando speculano d’azzardo nel casinò della finanza. Non sono state scritte, se non per finta, regole sulla finanza. È stata depistata l’azione dei governi; per tre anni si è fatto finta di fare le regole. Siccome erano complicate, le regole le dovevano scrivere i banchieri, non le dovevano imporre i governi; erano i banchieri che, essendo materia complicata, avrebbero dovuto essi stessi proporre ai governi le regole. Non se ne è vista neanche una di seria, anzi, l’opposto. È stato legittimato il meccanismo di prima. Faccio un esempio – sembra una cosa tecnica, ma è indicativa: su quasi tutte le operazioni finanziarie ci sono degli strumenti assicurativi che si chiamano CDS – Credit Default Swap. Ebbene, ha senso l’assicurazione se io assicuro la Mauro Spa o se Mauro assicura la Scholz Spa; ma non ha senso pensare che tutto il mondo, per tutte le operazioni, si assicura. Che si usano soldi veri per costituire uno strumento che in sé è falso. Ma a voi sembra possibile che esista un sistema che assicura contro il rischio della fine del mondo? Questo è il punto. Eppure i nostri geniali tecnici non ci hanno spiegato che questo sistema è un sistema che non sta in piedi. Ci hanno detto che funzionerà meglio con una piattaforma automatica. Ma se su una piattaforma automatica fate girare la roulette dell’azzardo, sempre è azzardo e non quello che servirebbe, cioè una effettiva assicurazione contro il rischio. Quindi, legittimi la prassi negativa e non la riduci affatto.
La crisi è stata gestita utilizzando, per salvataggio, i debiti pubblici. E questo alla fine ci porta al paradosso per cui, quella che è stata la medicina, è finita per diventare il male in sé. E alla prossima crisi che cosa succede? Forse la parola prossima è sbagliata; una volta ho usato un’immagine: è come essere dentro un videogame, arriva un mostro, lo batti, sei lì che ti rilassi, arriva un altro mostro più grande del primo. A proposito di accuse di eccesso di ottimismo, questa immagine l’ho usata nell’ottobre del 2008 e continuerò ad usarla. Non c’è ancora il game over della crisi; siamo ancora dentro un videogame dove i mostri si avvicendano in sequenza.
Eppure, c’è una prospettiva e una possibilità: io credo che su questa dobbiamo cominciare a impegnarci, forti dell’esperienza che abbiamo visto fare, delle colpe e degli errori che in questi cinque anni hanno fatto gli altri.
Roosevelt parlava ad una generazione che, diceva, è incamminata verso un appuntamento con il destino. E non solo in Europa, la via che ci porta verso questo appuntamento non è la via dei sacerdoti del denaro in perpetua riunione; non è la via dei sepolcri imbiancati; è la via che ci viene indicata dai sacerdoti veri. Benedetto XVI, a Madrid, pochi giorni fa: “si conferma nell’attuale crisi economica quanto è già apparso nella precedente grande crisi. Che la dimensione etica non è una cosa esteriore ai problemi economici, ma una dimensione interiore fondamentale. L’economia non funziona solo con una autoregolamentazione di mercato ma ha bisogno di una ragione etica per funzionare, per l’uomo”.
Permettetemi di finire, a proposito dell’insegnamento e della via indicata da un altro sacerdote. La via indicata da don Giussani: “Le forze che muovono la storia sono le stesse che muovono il cuore dell’uomo”. Grazie.

BERNHARD SCHOLZ:
Grazie, grazie Ministro Tremonti, grazie Mario Mauro, grazie Pittella.
Io penso che abbiamo potuto ascoltare una serie di osservazioni che ci rendono più capaci di comprendere la complessità dei problemi che devono essere affrontati, che però ci hanno dato anche la certezza che ci sono uomini seriamente impegnati per cambiare il destino dell’Europa per – riprendendo le parole di Tremonti – evitare che l’“Inno alla Gioia” rimanga incompiuto. Grazie a tutti e buon Meeting ancora.

(Trascrizione non rivista dai relatori)

Data

27 Agosto 2011

Ora

11:15

Edizione

2011

Luogo

Salone B7
Categoria
Incontri