Chi siamo
PROTAGONISTI NELL’ASSISTENZA
Partecipano: Emanuela D’Anna, Infermiera e Coordinatrice all’itituto Europeo di Oncologia a Milano; Esperanza Gamarra De Urbieta, Capo Sala e Direttrice Esecutiva Clinica Divina Provvidenza San Riccardo Pampuridi Assuncion, Paraguay; Cecilia Sironi, Infermiera, Consigliera Consociazione Nazionale delle Associazioni Infermiere/i. Introduce Marina Negri, Infermiera, Associazione Medicina e Persona.
MODERATORE:
Iniziamo questo incontro dal titolo “Protagonisti nell’assistenza” che prende spunto da una storia che poi vi racconterà Cecilia Sironi. “Protagonisti nell’assistenza” è dunque un incontro su come è possibile vivere e costruire il proprio io, il proprio volto in un lavoro particolare: quello dell’assistenza e, più precisamente, dell’assistenza infermieristica. Noi siamo quattro infermiere, vi presenterò poi più dettagliatamente ciascuno dei relatori. Nell’ordine, Cecilia Sironi, che lavora da tempo nel campo della formazione, Esperanza de Urbieta, che lavora in Paraguay in un hospice, Emanuela D’Anna, che lavora in Italia in un ospedale. Protagonisti dunque nell’assistenza infermieristica, un lavoro molto particolare all’interno delle professioni sanitarie che, da quando è nata, mai si è posta come significato e obiet-tivo la guarigione. Da quando esiste l’assistenza infermieristica lo scopo è quello di essere presenti da uomini, stando accanto ad un altro uomo che soffre, e di esserci fino alla sua morte, fino alla fine del suo percorso terreno. Più concretamente, es-sere vicini alla persona aiutandola in quegli atti quotidiani che ciascuno di noi, in genere, compie senza bisogno d’aiuto, come ad esempio lavarsi, andare in bagno. Questi sono atti che in realtà contano molto per il sentimento di sé e del proprio va-lore nelle persone. Voglio citarvi un modo con cui don Giussani, Mons. Luigi Gius-sani, definì l’assistenza infermieristica in un messaggio che inviò ad uno dei nostri convegni nel duemila. Lo definì come un servizio umile e perfino appassionato alla persona in quanto dipendente dal Mistero che fa tutte le cose, così come si docu-menta nell’esperienza della malattia, del bisogno anche fisico. Per cui il nostro lavo-ro è quello di essere a fianco delle persone nel momento in cui vivono drammati-camente la condizione di dipendenza, che poi è la condizione umana, di cui ragio-nevolmente si potrebbe essere coscienti, ma che in un momento di sofferenza e di malattia drammaticamente si pone davanti ai nostri occhi. Stare accanto ad un uo-mo sempre a questo livello, significa stare davanti a domande come “io che cosa sono, che cosa valgo?”, che la persona fa su di sé, ma che evidentemente fa anche su di noi. Uno dei miei studenti, ricordo, dopo i primi giorni di tirocinio mi diceva: “Io pensavo fosse imbarazzante aiutare le persone a lavarsi, entrare nella loro intimità, ma ciò che è veramente duro è vedere un uomo che piange”. È questo il livello a cui noi siamo ogni giorno sfidate nel nostro lavoro e per tutta la giornata, un impe-gno lungo e prolungato nel tempo. La nostra è una professione – anche questo vorrei puntualizzare – che è stata resa possibile dal cristianesimo, perché nelle civiltà precedenti o nelle culture non influenzate dal cristianesimo l’assistenza è delegata agli schiavi o comunque agli stranieri, sicuramente non è valorizzata. Forse è an-che per questo che oggi, nella nostra società, non è molto valorizzata. L’assistenza infermieristica può nascere in un clima in cui si dà valore al corpo, e non solo allo spirito, cioè si dà valore all’unità della persona e tale valore non è quello misurato dall’efficienza, dalla capacità di compiere alcune azioni, dall’intelligenza o quant’altro, ma il fatto che la persona sia in relazione col Mistero. Se la persona non avesse questo valore, non avrebbe valore neanche il nostro lavoro. Il cristiane-simo, inoltre, valorizza anche la figura della donna, ma non solo, Cristo ha lavato i piedi ai suoi discepoli e gli ha detto di fare lo stesso e, da ultimo, il cristianesimo in-troduce nella realtà umana quella caratteristica divina che è la gratuità, senza la quale non esiste un gesto assistenziale vero perché nessun prezzo, nessun com-penso può pagare un gesto di assistenza.
Ora, se questa è la mia lettura, anche colei che è considerata la fondatrice dell’assistenza infermieristica come professione totalmente laica, colei che diceva di non voler fondare un ordine religioso ma iniziare una professione, cioè Flora, di-ceva: “La vita ospedaliera è una cosa insipida senza un profondo senso religioso. Mi sono fatta la convinzione che nulla vale imparare ad assistere gli infermi se non si impara ad assisterli con il proprio cervello, e con il proprio cuore, e che quindi se non abbiamo una religiosità veramente sentita la vita ospitaliera diventa, senza la religiosità, un insieme di manualità compiute per abitudine che inaridiscono mente e cuore”. O protagonisti o nessuno. Oggi sicuramente l’assistenza infermieristica, non solo in Italia, attraversa anche momenti difficili perché è un lavoro che non ha a livello sociale la stima che meriterebbe. È un lavoro comunque pesante duro e im-pegnativo: si lavora sempre in una condizione faticosa dove però – è quello che vorremmo testimoniare con questo incontro – si può vivere con il proprio volto e co-struendo, anche nel lavoro, il proprio volto nel rapporto con un’altra persona che soffre. Chiediamo ai nostri relatori di dirci come le persone stesse che noi assistia-mo possono vivere, come gli ammalati a loro volta possano essere protagonisti, costruendo e compiendo la loro umanità.
Passerei dunque a presentare i relatori che nell’ordine saranno Emanuela D’Anna, infermiera, ostetrica e capo-sala che è stata prima in un reparto oncologico come infermiera, poi ha lavorato sei anni come ostetrica e attualmente, da diversi anni, svolge la funzione di Infermiere coordinatore capo-sala all’Istituto Europeo di Onco-logia di Milano. Il secondo relatore sarà Esperanza Gamarra De Urbieta, anche lei infermiera che ha lavorato quindici anni in un ospedale e che da due anni è Capo-sala e direttrice operativa all’Hospice della Fondacion San Rafael ad Asunciòn in Paraguay. Infine Cecilia Sironi, infermiera, con Laurea magistrale in scienze infer-mieristiche, che attualmente svolge la funzione di supervisore didattico nel corso di laurea in infermieristica dell’Università dell’Insubria di Varese, ed e qui anche come Consigliere della Consociazione Nazionale delle Associazioni Infermiere/i. Per l’appartenenza ad una associazione infermieristica ha dei titoli di specializzazione acquisiti in Gran Bretagna, lavora dal 1985 nella formazione e si occupa, anche a livello europeo, di relazioni con altre associazioni infermieristiche, soprattutto nell’ambito della ricerca. Lascio immediatamente la parola ad Emanuela D’Anna.
EMANUELA D’ANNA:
Ringrazio gli organizzatori per avermi invitato e soprattutto per lasciarmi parlare per prima. Per iniziare, mi sembra doveroso definire quale sia l’origine da cui deriva il mio approccio nell’assistere. Leggo quanto Mons. Luigi Giussani disse nel 1985 a Varese ad una tre giorni dedicata agli infermieri: “Quello che vogliamo sottolineare questo pomeriggio è l’aspetto per cui la fede determina il lavoro, la vostra profes-sione. Siccome la fede riguarda la considerazione e il contenuto della vostra co-scienza come responsabilità verso il vostro destino, la vostra professione è il modo con cui camminate verso il destino. Se la fede determina il vostro lavoro allora l’unità della vostra persona è salvaguardata”. Per me sembrerebbe quasi scontato sentirmi protagonista lavorando da 15 anni come Capo sala in un reparto di gineco-logia oncologica presso un ospedale milanese, quindi mi è sembrato molto interes-sante l’occasione che mi è stata offerta, partecipando a questo incontro, di riflettere su questo argomento. Mi sono chiesta infatti che cosa voglia dire per me essere protagonista. Ho pensato che mi sento protagonista quando quello che devo fare coincide con quello che voglio e desidero fare. In merito a quest’affermazione vorrei fare alcuni esempi.
Primo, essere protagonisti nell’assistenza è educare. Uno dei compiti del Capo sala è quello di educare alla responsabilità. In particolare, in questi tempi ho dovuto af-frontare l’arrivo di alcuni infermieri neoassunti. Questo fatto è stata l’opportunità di riflettere su come volevo introdurli alla realtà che è la malattia. E’ stato così che ho deciso di affiancarli ad infermieri che potessero insegnare loro non solo una tecni-ca, ma soprattutto la convenienza che c’è nel farsi carico dell’altro, sia esso pazien-te, medico, collega, ausiliario, portantino, cioè chiunque si rapporti con me.
Secondo, essere protagonisti nell’assistenza è rispondere. Lavoro con il mio diret-tore, o primario, da circa 15 anni, sempre lo stesso, siamo molto simili per tempe-ramento. Capisco che condividiamo lo stesso ideale di cura e, a volte, siamo un po’ impetuosi nel cercare di raggiungerlo. All’inizio pensavo che la criticità si risolvesse andando d’accordo, creando un compromesso, perché pensavo che il problema fosse organizzativo. Per esempio, avere un programma operatorio che durasse al-meno una settimana e che non prevedesse imprevisti, cosa alquanto impossibile in un reparto di chirurgia, e poi chiedevo al mio primario di cercare di diminuire i rico-veri d’urgenza visto che noi non siamo dotati di pronto soccorso. Quando una mat-tina il mio direttore, guardandomi un po’ sornione come fa lui, mi ha detto “Manu, io lavoro così. Il capo sono io”, in quel momento ho capito che l’unico modo per non accettare passivamente questa realtà era ripetermi che assistere significa risponde-re.
Terzo, essere protagonisti nell’assistenza è assistere. Di assistenza potrei parlarvi per tante ore perché lavoro da 25 anni. Dapprima sono stata per 4 anni infermiera in ginecologia oncologica, poi ho passato 6 anni in sala parto come ostetrica e da 15 anni sono Capo sala e sono entusiasta come il primo giorno di aver scelto una professione che mi consente di stare con le persone in momenti così drammatici come il nascere, la malattia, il morire e, qualche volta, la guarigione. In merito a questo terzo punto vorrei fare un esempio su che cosa vuol dire essere protagonisti nell’assistenza. Sembrerà un esempio banale, ma è tradizione che a Natale nel no-stro reparto si faccia un albero e un presepe, e ogni anno ci stupiamo del numero di regali che i pazienti ci portano. Solo perché siamo buoni? In realtà penso che il motivo sia che sono fondamentalmente grati per avere trovato delle persone e un luo-go disponibili ad accompagnarli in questo particolare momento della loro vita. Un altro esempio riguarda gli anni in cui ho fatto l’ostetrica. In quel periodo, una notte in cui assistevo un parto, la mia maestra – la considero la mia maestra più che il tu-tor –, vedendomi rigida sulla tecnica e poco coinvolta nell’assistere una signora in periodo espulsivo, mi disse che per assistere adeguatamente un parto, era neces-sario che io ci fossi innanzitutto come persona e, di conseguenza, era importante mettermi nelle condizioni di guardare la partoriente come una persona con i suoi bisogni. Faccio un ultimo esempio. Una delle caratteristiche che mi contraddistin-gue, a detta dei miei collaboratori, è una certa insistenza sui particolari. Infatti, più di una volta, mi è capitato di dover dire agli infermieri che, per esempio, per quanto riguarda l’igiene del malato, della persona, era necessario immedesimarsi e quindi non era pensabile che passasse una settimana senza che gli venissero lavati ca-pelli, piedi o schiena.
Vorrei concludere dicendo questo: quello che mi preme e mi premeva comunicare è che nell’assistenza è possibile essere protagonisti. Non solo perché abbiamo raggiunto legislativamente una maggiore autonomia, ma soprattutto perché esserci con il cuore e la ragione non può non rendermi protagonista. Questa posizione ver-tiginosa e affascinante è possibile mantenerla solo se siamo, a nostra volta, soste-nuti da un giudizio e da una compagnia. Come spesso, o meglio sempre, diciamo agli infermieri neolaureati, questo può essere il criterio per decidere dove andare a lavorare. Chiudo facendo un appello: ho bisogno di infermieri.
MODERATORE:
Grazie. Adesso darei la parola a Esperanza De Urbieta.
ESPERANZA GAMARRA DE URBIETA:
Come per un santo uomo quale Padre Zaracho, malato terminale, la sua perma-nenza nella clinica Divina Provvidenza fu il Paradiso, così per me fu l’esperienza di lavoro dentro la clinica, quando un grande amico, Padre Aldo Trento, mi propose di lavorare a tempo pieno. Dopo 15 anni di lavoro in un ospedale dove apparente-mente avevo tutto, incominciò per me una nuova avventura, in un certo senso una sfida che cambiò la vita mia e della mia famiglia. Questa proposta è stata determi-nante nella mia vita e soprattutto il decidere positivamente è stata una opportunità che ricercavo: un grande desiderio del cuore era da sempre poter lavorare con e per i poveri e di fare una esperienza nuova. Mi sono fidata di questo grande amico e ho sentito questa proposta come una chiara richiesta di Cristo.
Inizialmente ho cominciato come volontaria nella clinica assistendo gli ammalati tre volte alla settimana, con il tempo mi sono resa conto che questo luogo riempiva il mio cuore e soprattutto mi aiutava a crescere umanamente e professionalmente. Evidentemente era Cristo che mi chiamava lì, così ho lasciato la istituzione dove lavoravo e ho dedicato più tempo alla clinica, organizzando tutto il necessario per offrire una assistenza integrale a ciascun infermo. Ho imparato soprattutto a servi-re ogni ammalato con uno sguardo differente, così come Cristo mi guarda e mi ama. Da qui ho visto che le cose fondamentali per l’ammalato terminale sono l’amore, la compagnia, il sorriso, ascoltare e comprendere che è un essere umano come me malgrado i suoi limiti, il dolore, la sofferenza, la solitudine, l’abbandono da parte della famiglia e della società. Accompagnare questi ammalati nel cammino verso la croce come Gesù accompagna ogni giorno ognuno di noi è una grande gratificazione e motivo, paradossalmente, di allegria, che in un altro luogo non riu-scirei a capire. La clinica infatti è un ambiente propizio per vedere ogni ammalato con il volto di Cristo. Quando un paziente entra nella clinica immediatamente gli viene offerto un letto pulito, lenzuola bianche, assistenza alla persona da parte del servizio infermieristico e medico. Il sacerdote lo accoglie e gli offre il sacramento della Penitenza, l’Unzione degli Infermi. In un momento successivo una volontaria, generalmente una suora, inizia un dialogo per conoscere se esiste il desiderio di avvicinarsi ad altri sacramenti come il Battesimo, la Prima Comunione, la Confer-mazione e il Matrimonio. Da questo desiderio inizia un percorso attraverso la cate-chesi.
La Clinica Divina Provvidenza “San Riccardo Pampuri” inizia il 1° maggio 2004 per dare risposta ai malati terminali di cancro e aids, in condizioni economiche insuffi-cienti o addirittura senza risorse. Dagli 11 letti iniziali si è passati ai 27 attuali. E’ in costruzione una nuova struttura che prevede 40 letti.
Noi offriamo assistenza integrale nell’aspetto medico, spirituale, infermieristico, so-ciale, psicologico, nutrizionale con uno sguardo che tiene conto di tutte le necessità del paziente nel momento finale della vita, accompagnandolo così all’incontro con il Mistero.
L’assistenza è gratuita per gli ammalati indigenti e abbandonati, perché in Para-guay la sanità pubblica non è gratuita.
Quando il servizio di ricezione della clinica viene a conoscenza di un potenziale pa-ziente, l’assistente sociale si reca a domicilio per verificare la situazione sociale chiedendo certificazione medica rispetto alla malattia terminale. Tutta la documen-tazione viene consegnata al direttivo per la decisione di accogliere o meno il pa-ziente.
Tutti i giorni Padre Aldo Trento dà la Comunione a ciascun ammalato. Poi c’è un momento di adorazione al Santissimo per tutti gli operatori sanitari, i familiari e i vo-lontari. All’inizio della giornata dopo la lettura del giorno c’è la benedizione per ini-ziare bene il lavoro.
Viene celebrata la S. Messa ogni giorno nella stanza degli ammalati e 3 volte al giorno c’è la processione con il Santissimo con la benedizione di ogni paziente.
Quando un infermo muore viene celebrata la S. Messa e se non ci sono familiari che si occupano direttamente dell’estinto, si organizza la veglia nella chiesa per 24 ore e infine gli si dà la degna sepoltura di un figlio di Dio nel cimitero.
Alla domenica il sacerdote celebra i sacramenti agli infermi preparati.
Gli incontri settimanali che vengono effettuati nella clinica sono: equipe multidisci-plinare di infermeria, di responsabili di settore, area di servizio, volontari, avendo come referente Padre Aldo Trento che dà il significato e l’atteggiamento giusto di fronte a ciascun paziente e ricorda che ciascuno di loro è Cristo che soffre. Ciascu-na delle persone espone, poi, la propria esperienza della settimana.
L’incontro con i medici si realizza settimanalmente per decidere la terapia e verifi-care lo stato delle cose. Tale incontro viene condiviso con il dott. Quinto dall’Italia in video conferenza, inviandogli preventivamente la situazione dei pazienti. Questo incontro è preceduto dalla visita insieme nelle varie stanze.
Vi faccio alcuni esempi. Cecilia, una inferma di aids di 40 anni, cieca a causa della toxoplasmosi, molto contenta di essere arrivata nella clinica. Quando tutti i giorni andavo a salutarla chiedeva lei a me come mi sentivo. Conversando con lei mi di-ceva di lasciare aperta la finestra perché così poteva gustare la brezza mattutina e godere del bel giorno. Ogni giorno peggiorava, sola e abbandonata dalla sua fami-glia, però diceva sempre che Cristo gliene ha regalata un’altra e che tutti le voglio-no bene e si occupano di lei. Certamente il suo dolore e la sua sofferenza erano per la sua piccola figlia di 6 anni, che alla sua morte sarebbe rimasta senza nessu-no. Un giorno parlò con Padre Aldo di questa sua preoccupazione ed egli le rispose che avrebbe trovato una soluzione. Dopo alcuni giorni una vicina di casa le portò la bimba. Vedendola Padre Aldo disse a Cecilia che di fronte alla chiesa c’è una piccola casa (Casita di Belen) destinata ai bambini orfani ed abbandonati. Cecilia rimase molto contenta di questo e ringraziò Padre Aldo. Sua figlia andava a visitar-la e lei era molto felice. Poi Cecilia morì con la pace che solo Cristo può dare e con la certezza che sua figlia veniva accolta nel luogo più adatto.
Altra esperienza è quella di Milziade, un bimbo di 10 anni con idrocefalo e denutrito che veniva sfruttato da un parente per chiedere l’elemosina ai semafori. Grazie alla provvidenza che lo portò in clinica oggi sorride ed è l’angelo della casa. In base ai dati medici il suo cervello è ridotto ad una lamina sottile, però in lui è possibile ve-dere come Cristo si manifesta perché sorride, gioca, batte la mano a chi gli si avvi-cina, con tutti i suoi limiti risponde all’affetto che gli si dà: solo Cristo può operare in questo modo e dimostrare il senso della vita fino alla sua conclusione.
Finalmente la clinica mi aiuta a comprendere il senso della vita e la relazione stretta tra la vita e la morte. Soprattutto nel vedere che Cristo compie la promessa con ciascun essere umano e lo abbraccia con amore e misericordia fino alla morte cor-porale.
Il Papa Benedetto XVI ci ricorda che siamo poveri servi e che l’uomo non si realiz-za basandosi su una superiorità o maggiori capacità personali, ma perché il Signo-re gli concede questa grazia.
Farà con umiltà quello che gli è possibile e con umiltà confiderà tutto nel Signore. Chi governa il mondo è Dio, non noi.
Noi gli offriamo il nostro servizio per quello che possiamo e fino a che ci dà la forza. Certamente fare tutto quello che sta nelle nostre mani con le capacità che abbiamo è il compito che mantiene sempre attivo il buon servitore di Gesù (Deus Caritas Est).
Ci premia l’amore di Cristo. Non dobbiamo servire i poveri come se fossero Gesù, dobbiamo servirli perché sono Gesù (Madre Teresa di Calcutta). Grazie.
MODERATORE:
Grazie. Passiamo la parola a Cecilia Sironi.
CECILIA SIRONI:
Dopo questi due interventi posso provare a mettere una cornice, se così posso di-re, a questo incontro. Innanzitutto parto dal tema. Quando lo scorso anno ho sentito che al Meeting del 2008 ci sarebbe stato il tema “O protagonisti o nessuno”, ho pensato: bene è il mio tema, il mio titolo, è il nostro. Quale occasione migliore per provare a far capire a migliaia di persone che affollano ogni anno la fiera del Meeting – non che migliaia siano qui, ma sono in giro, per cui hanno visto nel program-ma questo incontro – che fra i protagonisti dell’assistenza in Italia e in tutto il mon-do, ci sono centinaia di migliaia di persone che non si vedono, non si notano e non si fanno notare, ma che tengono letteralmente insieme il sistema, permettendo ai sistemi sanitari e assistenziali di funzionare? Chi sono? Gli infermieri. E qui cito Louis Thomas che nel suo testo….racconta la sua esperienza di medico e di scien-ziato e sintetizza in una frase il ruolo degli infermieri. Ve lo dico in italiano: “La mia scoperta – scrive – innanzitutto come paziente in medica e successivamente in chi-rurgia è che l’istituzione è tenuta insieme, incollata, messa in grado di funzionare come un organismo dagli infermieri e da nessun altro”. Questo lo scrisse nel 1983, ho trovato la citazione in un libro di ricerca infermieristica. Gli unici motivi che por-tano gli infermieri sui giornali oggi sono o denunce di vario genere, e ovviamente chiunque non sia un medico e indossi una divisa o un camice bianco è un infermie-re, e purtroppo si usa ancora il termine paramedico che non ci è molto simpatico; oppure l’altro motivo per cui si legge sui giornali degli infermieri è che mancano gli infermieri. La Manu mi ha preceduta: abbiamo bisogno di infermieri, certo. Vi offro solo un esempio che mi aveva colpito, perché mi ha permesso di incontrare una persona e di attivare questo incontro del Meeting. Lessi sul Corriere della Sera Lombardia, era ancora il gennaio 2006, un articolo di fondo di Giuseppe Remuzzi. Il titolo era Il futuro della sanità, incentivi contro la fuga di infermieri. Remuzzi citava un libro di una giornalista americana, Susan Gordon, e ringrazio per questa citazio-ne – no comment sull’articolo – perché ho recuperato il libro di questa giornalista che mi aveva molto incuriosito. Ecco, nei libri di Susan Gordon si trovano molte ri-sposte alle domande rispetto alla carenza degli infermieri e alle motivazioni per cui noi siamo di fatto protagonisti ma non si può dire. Comunque, ho scritto a Susan Gordon, ho letto altri suoi libri, ho trovato alcune recensioni dei suoi libri e ho pro-posto agli amici del Meeting di invitarla qui. Quest’anno non ce l’abbiamo fatta, ma l’anno prossimo speriamo di averla fra noi: l’ho sentita per telefono e mi ha detto che comincia a tener l’agenda libera.
Da questo mio desiderio iniziale è stata comunque colta dagli organizzatori del Meeting questa istanza e, con gli amici di Medicina e persona, è venuto fuori que-sto incontro “Protagonisti nell’assistenza” o meglio, come diceva Marina all’inizio, nell’assistenza infermieristica. Per preparare questo intervento io mi sono posta quattro domande e ho provato a rispondervi. Innanzitutto, chi è il protagonista? Se-condo, perché gli infermieri non sono protagonisti? Terzo, perché gli infermieri in-vece sono protagonisti? E le testimonianze che mi hanno preceduto lo hanno am-piamente dimostrato. Per ultimo aggiungo la mia testimonianza perché mi sento protagonista e ho sempre vissuto da protagonista la professione di infermiere. Quindi parto da chi è il protagonista e cerco di essere breve perché è il tema del Meeting, e quindi l’avete sentito in tante relazioni in questi giorni. Nel mondo in cui viviamo, per il mondo o agli occhi del mondo, il protagonista è uno che ha succes-so, soldi, potere, un certo status e una certa posizione sociale. I premi vanno al mi-glior attore protagonista, non alle comparse, e l’attore protagonista è chi interpreta il ruolo centrale in un film. Il protagonista lascia un segno nella storia, è un personag-gio. È strano per me essere da questa parte perché di solito facevo la hostess, quindi ero dalla vostra stessa parte. Un personaggio, dicevo, nel mondo della cultu-ra o della scienza, della storia o della politica, è qualcuno di cui ci si ricorda, di cui i
giornalisti riportano quello che dice. La mentalità corrente promuove chi, anzi spe-cialmente, con poco e minimo sforzo arriva al successo. Di conseguenza, certe professioni e impieghi sono più considerati di altri. Questo aspetto è accennato molto bene nella lettera che il Papa ci ha mandato all’inizio del Meeting. Ad esem-pio, lavorare con le più moderne tecnologie o avere del personale dipendente pos-sono essere attività meglio considerate di quella degli insegnanti che si sgolano tut-to il giorno con bambini o ragazzi. Se ci avviciniamo all’ambiente sanitario è eviden-te che salvare la vita a qualcuno con l’elicottero, con l’ambulanza o con un difficilis-simo intervento chirurgico sono elementi che farebbero sentire chiunque poco al di sotto del Padreterno e i telefilm esasperano questa situazione. Infatti tutti i ragazzi che si laureano, dove vogliono andare a lavorare? Al 118, terapia intensiva. Quindi non intendo assolutamente sminuire la portata di certi ruoli e attività fondamentali, per amor del cielo, ma la realtà è molto varia. Non c’è solo questo.
Secondo punto, perché gli infermieri non sono protagonisti? Dopo quello che ho appena detto la risposta è già evidente, nel senso che non serve alcuna spiegazio-ne ulteriore. Gli infermieri, per il mondo e l’opinione pubblica, non sono e non sa-ranno mai, almeno in generale, protagonisti. E voi mi ricorderete che Marina Negri giustamente ha già citato Florence, perché non si può non citare mai Florence o San Camillo de Lellis, che la collega del Paraguay mi ha fatto venire in mente men-tre raccontava l’assistenza fatta. All’Ospedale Ca’ Granda di Milano è stato lui il primo grande infermiere: San Camillo. Florence, ai miei tempi, era citata sul mio te-sto di storia al liceo, nella guerra di Crimea. Mi viene in mente anche Sissi. Per ri-spondere alla domanda sul perché non siamo protagonisti, bisogna dire in che cosa consiste l’assistenza infermieristica. Ci occupiamo, in estrema sintesi, di rispondere ai bisogni di assistenza infermieristica e voi, specialmente chi non è un addetto ai lavori, mi dirà che è una tautologia. Perché “bisogni di assistenza infermieristica”? Qualcuno potrebbe dirmi che basta chiamarli “bisogni”. C’è dentro tutto, ma allora tanti professionisti rispondono a bisogni. Già qui la vicenda si complica perché non possiamo rispondere a tutti i bisogni, e per non rispondere a tutti indistintamente è necessario cogliere quali sono i bisogni ai quali possiamo rispondere meglio noi, in qualità di professionisti infermieri, di altri professionisti. Quindi è necessario dar loro un nome: non è solo il segno o il sintomo. Quella dell’infermiere è un’altra ottica. La leadership culturale della professione infermieristica, anche in Italia, distingue da anni con questi termini bisogni di assistenza infermieristica, per rispondere ai quali non basta la famiglia, la badante, un operatore socio-sanitario e non basta neanche il medico. Serve invece una persona che sia preparata “ad hoc”, e qui si inserisce l’elemento critico: noi aiutiamo le persone a soddisfare quei bisogni come l’alimentarsi, idratarsi, urinare. Potersi muovere, respirare bene, riposare o dormire sono atti quotidiani semplici e modesti che non si notano, che tutti facciamo con abilità ma senza alcun clamore. Per rispondere a questi atti, così semplici e banali, svolti in ambienti, a volte, ad elevata tecnologia, è richiesta una competenza, delle conoscenze sofisticate e sempre aggiornate. Anche se esigono un livello di abilità incredibile, che si guadagna in anni di esercizio ed esperienza, passione e deside-rio continuo di apprendere, rimangono sempre atti quotidiani, considerati poco im-portanti, di certo non degni di un protagonista. Questi atti, dei quali noi infermieri ci occupiamo, rimangono atti di ordinaria amministrazione. Anzi, scusate, sarà un po’ triviale, però sono atti di cui a volte si parla a bassa voce, perché uno non è che dice “oggi è andato di corpo”, sono cose un po’ così, anzi si usano eufemismi. Quindi gli infermieri si occupano di fatti e di atti che non fanno la storia. Non si ricordano negli annali e nei libri, non restano negli archivi. Non sono grandi gesti perché sono in gran parte complementari a quelli di altri professionisti. Spesso consentono ad altri di operare sulla persona al meglio, ma non consentono a chi li attua di essere considerato un protagonista. Quindi non essere considerati protagonisti secondo il mondo, non significa non esserlo. Questi atti così semplici sono comunque impor-tanti: tutti riconoscono che sono fondamentali, anzi, vitali nel senso letterale del termine. Questi atti ordinari consentono infatti, a volte, letteralmente la vita. Pensa-te appunto al bambino, alla mamma, quando non basta la mamma: perché quando il bambino è malato, quando ci sono dei problemi, ci sono delle situazioni per cui non basta la mamma. Pensate alla persona anziana che si avvia verso una sempre maggiore dipendenza da altri, pensate alla famiglia che ha una persona dimessa e si chiede che cosa fare, perché nessuno gli ha detto niente. Tipico. E queste situa-zioni sono in continuo aumento perché la degenza è sempre più breve. Parlavamo di atti ordinari che, per poter essere portati a termine, non sempre richiedono l’aiuto degli infermieri: ma chi insegna ai familiari quali accorgimenti adottare, chi mostra come vestire con minor fatica una persona non autosufficiente, chi suggerisce quali alimenti privilegiare dopo un particolare tipo di intervento o malattia? In ogni caso restano atti ordinari e l’assistenza infermieristica è fatta di atti quotidiani di questo tipo. Queste cose ordinarie, e questo nostro occuparci di cose ordinarie, ha portato e porta con sé degli aspetti che risultano controproducenti per la nostra professio-ne. Pensiamo al nostro status. Qualche anno fa’ è stata conferita una medaglia dal Presidente della Repubblica ad una badante, e mi è rimasto in mente. Uno legge i giornali e certe cose ti colpiscono. Sul giornale del 21 luglio, quindi del mese scor-so, ho letto un titolone: corsi di economia domestica per laurearsi badanti. E anco-ra: l’ Università delle badanti. E uno pensa subito che noi infermieri chiediamo la maturità per entrare in Università dal 1948, l’abbiamo avuta nel 1992, anzi, 1996 e adesso uno mette un titolo così. Poi, per amor del cielo, il titolo e il contenuto dell’articolo erano due cose diverse, però di fatto è tutta la vita che io mi occupo di queste cose. Mi è salito un brivido per tutta la schiena. Molti diranno che quello che facciamo evoca ancora molto le “cose da donne”, ciò di cui tradizionalmente si oc-cupavano e si occupano tuttora le donne, per cui ovviamente non serve un’istruzione superiore. Ebbene, questa è la battaglia alla quale diede corpo la Flo-rence che tutti citano, magari senza conoscere bene quello che ha fatto a fine otto-cento.
Purtroppo siamo nel 2008 e questa è ancora la battaglia che tante donne, in diversi paesi del mondo, stanno combattendo, al di là del discorso infermieristico, per ave-re un’istruzione e quindi farsi uno spazio nella società. Molti di voi avranno visto il filmato di Rose: è una splendida testimonianza di questo, con tutto quello che fa con i malati di AIDS. Ecco, lei riesce a fare cose che gli infermieri in Italia non rie-scono a fare, non sono messi in grado di fare. Qui non si tratta di primeggiare, ma di esistere. Questa è la causa abbracciata dall’International Council che, dal 1899, opera per promuovere l’assistenza e la professione infermieristica in tutto il mondo e della cui associazione italiana affiliata appunto all’ICN sono consigliera nazionale dallo scorso anno. Mi sono decisa a vedere se si riusciva a fare qualcosa anche in Italia.
In tutto il mondo la professione infermieristica ha fatto enormi progressi e anche in
Italia, specialmente negli ultimi 15 anni. Ha avuto un notevole impulso a partire dall’ingresso della formazione di base all’Università e anche in altri provvedimenti legislativi. Ma la realtà che cosa ci dice? Cosa avviene ogni giorno nelle unità ope-rative ospedaliere? Ho rivisto casualmente due mesi fa ad un incontro nel mio pae-se natale una ex compagna di liceo. È medico e sa che formo infermieri da vent’anni perché da vent’anni mi occupo di formazione. Mi ha chiesto che cosa sia cambiato perché, anche se gli infermieri adesso sono laureati, fanno le stesse cose di prima, quelle che hanno sempre fatto. Sono in tanti a dirmi così. Ma qualcuno ha pensato per caso che forse l’organizzazione doveva essere preparata? Forse che altre figure professionali dovevano prepararsi a questo cambiamento? Qualcuno ha pensato che tre anni accademici sono ridicoli perché sono meno dei tre anni scola-stici di prima del corso di base? Ma qui mi fermo, perché andrei fuori strada. Ci sa-rebbero numerosi esempi di elementi per illustrare perché gli infermieri non sono ri-sultati protagonisti per anni, per secoli. Serve un notevole lavoro, soprattutto da parte nostra, come gruppo professionale, per far cambiare la nostra immagine, per dare voce alla nostra professione senza voce.
Terzo punto: perché gli infermieri invece sono protagonisti? I due interventi che mi hanno preceduto hanno già risposto a questa domanda, quindi andrò veloce. Ci sono esperienze di intimità totale con l’altro che soffre, così come di vicinanza con i loro cari che hanno difficoltà magari ad accettare la prognosi del proprio congiunto, che sono assolutamente impagabili. Anch’io ho avuto qualcuno che mi ha attaccato la malattia dell’oncologia, e quindi anch’io ho lavorato in oncologia prima di occu-parmi di formazione e ho esperienze che ricordo ancora oggi, compresi nomi e co-gnomi di persone che ho assistito e che ho incontrato. Ogni infermiere può lette-ralmente fare la differenza per la vita di un’altra persona. Non con il bisturi ma nel fare in modo che il chirurgo sia messo nelle condizioni di operare, che la persona arrivi preparata in sala operatoria, che dopo l’intervento magari, nonostante certe cose successe in sala operatoria, non prenda un’infezione. E chi è dirigente, ne ve-do diversi in sala, sa benissimo i costi che hanno giorni di degenza in più. Questo potrebbe rovinare l’intervento perfetto. L’infermiere può fare la differenza, non con la prescrizione del farmaco giusto, ma accorgendosi che il farmaco non ha gli effetti desiderati, somministrandolo nel modo opportuno, spiegando alla persona malata tutto ciò che il medico, che in quel momento aveva premura, non gli ha fornito: per-ché deve assumerlo, che effetti ha, a che cosa deve stare attento e che cosa ripor-tare subito, come assumerlo, per quanto dovrà assumerlo e così via. A volte si sa quante pastiglie si deve prendere e per quante volte al giorno, ma ci si chiede quando. A chi lo si può chiedere? L’infermiere può fare la differenza, non con in-dagini diagnostiche o procedure terapeutiche, ma rispondendo a bisogni che sono comunque fondamentali. Avete mai provato a farvi lavare i denti da qualcuno? E’ un’esperienza che ho fatto: lavare i denti ad un’altra persona. Provatelo: lo faccia-mo fare anche agli studenti tra di loro perché non si rendono conto di cosa vuol di-re. Lavare i denti è una cosa banale. Ma se certe attività possono essere eseguite da operatori socio-sanitari, da altri non-professional, secondo voi è la stessa cosa? Quando per esempio la persona assistita è in camera sterile? Quando è politrau-matizzata? Secondo voi gli infermieri – intendo quelli qualificati, quelli che si chia-mavano professionali ed ora sono laureati –, quand’è che possono raccogliere tutte quelle informazioni utili per personalizzare l’assistenza se non avvicinando gli assi-stiti con queste attività quotidiane, intime, per poi pianificare l’assistenza? Quando possono esprimere appieno le loro competenze, la loro preparazione e quindi fare la differenza nella qualità dell’assistenza? Adesso viene il discorso dei tagli. Prima di venire via sentivo nel mio ospedale che il direttore generale ha detto che c’è un deficit e che quindi taglieranno sul personale. Sappiamo già che personale verrà tagliato. Potrei fare mille esempi, ma sempre di attività più o meno ordinarie, ma che serve svolgere in modo straordinario. Per questo sostengo il nostro protagoni-smo nell’assistenza: siamo professionisti che possono fare, con piccoli gesti, que-sta enorme differenza. Purtroppo questo si comprende solo quando personalmente si viene toccati da problemi di salute o viene colpito un nostro familiare. Quindi so-stengo che quella dell’infermiere è una professione meravigliosa, e lo dico con la consapevolezza che se ne può avere dopo 28 anni dal diploma, riconoscendo di aver superato dei momenti in cui io mi sono vergognata di essere infermiera e ho desiderato fare tutt’altro. Ma nonostante questo ritorno continuamente e non perdo la speranza altrimenti non riuscirei ad insegnare che la nostra professione è impor-tante ed ha un futuro.
Quarto e ultimo punto, perché mi sento protagonista ed ho sempre vissuto da pro-tagonista l’essere infermiera? Per il mondo in generale e il mondo infermieristico che conta in particolare, io sono una professionista un po’ fuorigioco. Una che in-segna dal 1985 in Università e non è riuscita ad entrarvi, a 50 anni, per rimanere nella professione, ha deciso di lavorare part-time per fare cose che le piacciono, per restare entusiasta e motivata, voi capite, è considerata tutto fuorché una prota-gonista. Sembra che io non possa essere considerata una protagonista, eppure mi sono sempre sentita tale perché il punto è come uno affronta e vive il lavoro. Biso-gna quindi chiedersi cosa significa lavorare, a che cosa ciascuno di noi è chiamato nella vita, con la vita. La consapevolezza di essere stata chiamata con la vita in-nanzitutto a qualcosa di preciso, mi ha fatto affrontare seriamente la scelta profes-sionale. Devo dire che Mons. Luigi Giussani mi ha sempre spinto, cioè ha avallato questo mio desiderio di farmi infermiera. La scelta di fare l’infermiera è quindi origi-nata dall’intuizione che la mia realizzazione poteva coincidere con un servizio, con il servire l’altro, in particolare l’altro bisognoso, ma questo è stato detto molto me-glio da chi mi ha preceduto. Di questo ho avuto subito conferma frequentando il corso di infermiera professionale a Milano, dal 1977 al 1980. È stata quindi una chiamata, una vocazione, parola che in Italia non usa più, è fuori moda, mentre “professional vocation” si dice ancora in inglese. Quindi è una vocazione, è una professione come quella dell’insegnante, che ritengo non possa fare chiunque. Ap-pena diplomata ho trovato conferma di questo mio ideale di servizio nel vedere la-vorare le infermiere inglesi. Perché il mio primo lavoro è stato lì, nel 1980-1981. Mi sono resa conto all’inizio del mio percorso professionale che in Italia la professione infermieristica aveva uno status, un’articolazione, una storia, un percorso evolutivo profondamente differente dai paesi anglosassoni. Decisi così di occuparmi della formazione dei futuri infermieri per provare a dare il mio contributo e per fare in modo che chi doveva imparare a fare l’infermiera incontrasse qualche modello po-sitivo, o perlomeno entusiasta, motivato. Proprio perché mi piaceva così tanto il mio lavoro di infermiera ho sacrificato, e per me è un sacrifico, l’assistenza diretta, che mi piaceva moltissimo. La curiosità e il desiderio di capire sempre di più mi portarono anche ad approfondire le motivazioni della diversità del fenomeno infermieristico italiano. La professione infermieristica in Italia ha avuto un’evoluzione assolutamen-te unica – lo dico anche per le chiacchierate fatte con colleghi provenienti da tutto il resto del mondo. Proprio qui a Rimini, nel 1992, presentai il mio primo libro. Mi ri-cordo che c’erano Cesana e Farina, non so se alla mia destra o sinistra. Ne sono seguiti altri di libri, perché il desiderio di dire quello che penso, studio e imparo tutti i giorni dai miei studenti e dai miei colleghi più esperti, specialmente nell’ambito cli-nico, aumenta sempre di più. Quindi dal 1985 mi occupo di formazione a diversi li-velli. Non mi sono però sentita sufficientemente preparata, perché è vero che noi infermieri, e questo è un errore che abbiamo fatto, abbiamo un po’ idealizzato il tra-sferimento in Università. Non sentendomi però pronta, per me non basta mai quello che consegno agli studenti, e per affrontare questo passo del trasferimento della formazione, ho proseguito i miei studi prima a Dublino, nel 1999-2000, e poi a Lon-dra. Ma non avrei mai potuto studiare all’estero né fare ciò che ho fatto in questi 28 anni, se non mi fossi confrontata per anni soprattutto con don Giussani, che ho avuto come costante punto di riferimento per le scelte che pensavo di attuare, le idee che mi venivano in mente, i suggerimenti che mi derivavano dall’impatto con la realtà. Quello che vedevo, sentivo e leggevo, come la Susan Gordon che adesso ho conosciuto e spero di portarla qui l’hanno prossimo, mi ha mosso. Potrei farvi diversi esempi, per esempio sono diventata direttrice didattica a 26 anni. Una cosa che non mi sarei mai sognata. Quindi sono passata da infermiera professionale a direttrice didattica. Oppure ho partecipato alla Fest presentando il mio lavoro di sto-ria a questa conferenza in Canada nel 1992, e ad altre ancora prima di venire a Rimini; ho presentato relazioni a convegni internazionali, l’ultima nel 2007 a Yoko-hama. Esperienze bellissime di confronto e di scambio con colleghi infermieri che hanno già vissuto prima di noi certe problematiche e con i quali ci sente sulla stes-sa lunghezza d’onda. Cerco di trasmettere quindi parte della ricchezza che ho rice-vuto grazie a queste influenze, attraverso l’insegnamento, e di conseguenza inse-gno cercando di trasmettere non solo contenuti, ma anche interesse passione e cu-riosità. Questo significa cogliere l’urgenza del vivere dei ragazzi e trasmettere loro l’amore alla verità. È vero e importante anche dal punto di vista scientifico: non si può fare ricerca se non si ama la verità, quindi fa la differenza. Lo scorso ottobre Carrón diceva agli insegnanti che il problema vero dell’educazione è se abbiamo una risposta a questa urgenza del vivere, in modo tale da poterla comunicare vi-vendo, perciò non è un problema dei ragazzi ma è un problema degli adulti. Lo stesso vale nell’assistenza. All’infermiere che hai vicino, magari demotivato perché non viene pagato bene, bisogna dirgli: senti, comincia a far tu la differenza. Se si insegna in un certo modo, inoltre, non si ha molto tempo per scrivere mentre io sento che è ciò che dovrei fare adesso. Prevalentemente, infatti, come ho detto prima, dal 2006 ho deciso di lavorare part-time e di dare metà del mio tempo a questa ed altre attività che non sono retribuite ma che sono convinta che servano a fare cultura professionale. Quindi, oltre al tempo che cerco di strappare all’insegnamento per scrivere, collaboro anche a questa associazione libera che rappresenta l’Italia nell’International Council Nursery.
C’è una mole impressionante di lavoro da fare che è lasciato solo alla buona volon-tà e gratuità di infermieri un po’ pazzi come me. Dico pazzi perché lavoro gratis, e non si tratta di collegi, federazioni o organismi istituzionali che hanno un bel budget: è volontariato puro. Si tratta di un’associazione libera che si conosce più per un passaparola e il numero di iscritti porta il suo contributo. Siamo pochi in Italia, sono pochissimi quelli che danno il loro tempo ed energie, però lavorare con colleghi di tutto il mondo è un’esperienza impagabile e la ricchezza dello scambio con quello che altri hanno vissuto spesso è, dal punto di vista professionale, l’unico confronto. Il nesso con l’ICN mi aiuta a rimanere nella professione e a trasmettere continua-mente questo entusiasmo. Infatti, quando spiego a colleghi d’altri paesi la nostra si-tuazione italiana, il rapporto medici-infermieri, mi guardano con tanto d’occhi, di-cendomi che abbiamo una scienza infermieristica sottosviluppata in un paese svi-luppato. Questa è la situazione della professione infermieristica in Italia. Il sostegno tra pari è una delle armi più potenti che abbiamo per non soccombere nella fatica del lavoro quotidiano. Questa è un’altra attività che mi ritrovo quasi involontaria-mente a svolgere e a fare, prevalentemente via e-mail o attraverso il sito di questa associazione. E’ il sostegno, il confronto con altri colleghi da tutto il mondo, in sen-so letterale, che mi arriva via e-mail, ed è più forte di me rispondere a tutti. E’ pro-prio un discorso di sostegno. Grazie.
MODERATORE:
Grazie a Cecilia Sironi. Anch’io in pochissimi minuti, proprio per concludere questo incontro, a partire dalle esperienze di queste persone in ambiti così diversi e da quello che veniva detto, vorrei riprendere uno dei temi che è trasversalmente usci-to, cioè la mancanza di infermieri. Perciò vorrei cogliere l’occasione per annunciare a tutti che stiamo preparando, come Associazione Medicina e Persona, un conve-gno che si pone esattamente questa domanda: “Mancano gli infermieri o manca l’infermiere?”, perché è vero che numericamente gli infermieri in Italia sono pochi, ma ci vorremmo anche domandare come mai è così poco attraente la professione, per salvare veramente il senso e il significato di questo lavoro oggi in Italia. Un altro tema uscito è quello della difficoltà di mantenere da soli questo livello di tensione che la professione richiede. Credo che il discorso dell’associazione professionale sia un ambito che può aiutare a mantenere vivo questo tipo di tensione. In questo senso invito chi vuole a incontrarci allo stand di Medicina e Persona, perché co-munque la via al protagonismo attraverso il lavoro è il modo per mantenere desto e vivo il desiderio, per non venir meno all’esigenza del nostro cuore e perché queste possano trovare un compimento anche attraverso un cammino professionale. Da ultimo vorrei solo leggere due righe del saluto che Mons. Luigi Giussani mandò al nostro convegno di Bellaria nel 2000, parlando appunto ad un convegno di infer-mieri e ribadendo perché a suo giudizio sia ragionevole e bello fare l’infermiere. Di-ceva: “Ragionevole, perché la partecipazione alla vita concreta di chi incontrate e l’obbedienza alle circostanze che vi si presentano ogni giorno è per voi il modo di fare la volontà di Dio. Un Dio misteriosamente presentito per chi non crede, ricono-sciuto presente per chi ha fede. Bello, perché non c’è cosa più entusiasmante che dare la vita per i propri amici e perciò sacrificare vita energia e tempo affinché l’altro viva, cioè si realizzi secondo l’ampiezza del suo destino, che neanche la morte può fermare. Voi ne sapete qualcosa, tanto è fatto per l’infinito il cuore di ogni uomo.” E ringraziando per la testimonianza di questa bellezza, vi salutiamo.