PERCHÉ IL SESSANTOTTO. DOMANDE DALLA STORIA

Partecipano: Maria Bocci, Professore Ordinario di Storia Contemporanea all’Università Cattolica di Milano; Mario Calabresi, Direttore de la Repubblica. Introduce Francesco Magni, Assegnista di Ricerca all’Università degli Studi di Bergamo e Coordinatore di Redazione della rivista Nuova Secondaria.

Perché il sessantotto. Domande dalla storia

Ore: 17.00 Auditorium Intesa Sanpaolo A3
PERCHÉ IL SESSANTOTTO. DOMANDE DALLA STORIA

Partecipano: Maria Bocci, Professore Ordinario di Storia Contemporanea all’Università Cattolica di Milano; Mario Calabresi, Direttore de la Repubblica. Introduce Francesco Magni, Assegnista di Ricerca all’Università degli Studi di Bergamo e Coordinatore di Redazione della rivista Nuova Secondaria.

FRANCESCO MAGNI:
Buonasera a tutti e benvenuti a questo incontro dal titolo “Perché il Sessantotto. Domande dalla storia”.
Ringrazio fin da subito i nostri autorevoli ospiti, alla mia destra la professoressa Maria Boccia, docente ordinario di Storia contemporanea all’Università cattolica di Milano e Mario Calabresi, direttore del quotidiano La Repubblica.

MARIO CALABRESI:
Buon pomeriggio, grazie.

FRANCESCO MAGNI:
Vi ringrazio di cuore per aver accettato il nostro invito e vado subito al tema di oggi. Nella prima parte dell’incontro chiederemo alla professoressa Bocci non solo di entrare nei contenuti storici della mostra, che tanti di voi in questi giorni state visitando, dal titolo “Vogliamo tutto: 1968-2018”, ma chiederemo alla professoressa anche di raccontarci il lavoro che ha portato a questa mostra, il lavoro con un gruppo di giovani studenti e ricercatori universitari, che ha portato poi all’esposizione che vedete. In una seconda parte chiederò al direttore Calabresi di reagire d alcuni interrogativi nati tra coloro che hanno prodotto e costruito la mostra nel lavoro di questi mesi, interrogativi che nascono dalla storia, ma che come recita il titolo di questo incontro, interrogano anche il nostro presente. Cedo quindi subito la parola alla professoressa Bocci.

MARIA BOCCI:
Grazie, grazie, buonasera a tutti. Anzitutto vi ringrazio perché avete fatto la fatica di esser qua stasera, da amante del Meeting so cosa può voler dire, e soprattutto avete fatto la fatica, incredibile a dirsi, di venire a riflettere insieme a noi su un pezzo di storia, su un pezzo della nostra storia, cosa che non è affatto scontata. Perché? Perché il Sessantotto? Abbiamo voluto che questo incontro si intitolasse così. Perché portare il Sessantotto poi al Meeting di Rimini? Quando con Francesco Magni, Marta Busani e gli altri collaboratori della mostra abbiamo iniziato ormai un anno fa questo lavoro, io ho detto subito: guardate che non è affatto scontato proporre questo argomento al Meeting di Rimini. Perché? Tolgo subito un dubbio. La risposta non è perché è l’anniversario del Sessantotto. Francamente, facendo il lavoro di una che deve studiare storia, vi assicuro che gli anniversari sono un po’ come una specie di incubo, che tendono a condizionare anche troppo il nostro lavoro. Non è per questo. Gli anniversari delle volte sono importanti, ci fanno pensare, ma non è questo. Allora perché? Voglio partire da qui, da questa domanda, non per niente ho voluto metterla a titolo del nostro incontro. Voglio partire con una constatazione di cui, facendo il professore di storia, incontrando quotidianamente tanti ragazzi, soprattutto incontrando spesso, grazie al cielo – ringrazio il cielo tutti i giorni per questo – i ragazzi che hanno lavorato con noi insieme per preparare questa mostra, mi sono accorta ben presto: il Sessantotto è ancora un mito, è ancora un mito che provoca, è ancora un mito che ha il suo fascino. Ha il suo fascino per noi adulti che – io no, sono nata poco tempo prima, ma insomma – ci siamo passati un po’ dentro, come la mia generazione che ha fatto la scuola media superiore alla fine degli anni Settanta, all’inizio degli anni Ottanta, e poi soprattutto per chi l’ha vissuto, come una fase breve ma significativa per la propria vita. Io invece sono partita dal fatto che è un mito per i nostri ragazzi e questo colpisce molto di più, perché per i nostri ragazzi non è poi così facile farsi affascinare da un mito che viene dalla storia, almeno per le generazioni di oggi. È un mito persino per i ragazzi che non ne sanno niente e direi che moltissimi di quelli che hanno lavorato con noi per preparare questo lavoro non ne sapevano nulla, eppure erano affascinati. Un’eco lontana, ma seducente. Allora, questo percorso espositivo, che in realtà molti di voi che l’hanno visto se ne sono accorti, non è propriamente sul Sessantotto, noi diciamo Sessantotto per brevità, però è su un’altra cosa: vogliamo tutto, vogliamo tutto. Ovviamente anche questo non è un titolo a caso. Vogliamo tutto. Questo vogliamo tutto, almeno per me – il mio inizio è stato così -, nasce dal tentativo, appunto, di superare i confini di questo mito per fare i conti col fenomeno storico del Sessantotto. Il primo obiettivo, almeno per quello che mi riguarda, è stato quello – non è un obiettivo tanto diverso da quello che perseguo quando faccio lezione – di ridargli una fisionomia plausibile agli occhi dei ragazzi che ancora lo sentono come un fenomeno affascinante e provocante. Come mai, mi sono chiesta, per i ragazzi non è un oggetto storico qualunque? Non è, non so, come studiare, dico un po’ a caso, Lenin, Mussolini, la guerra fredda, le guerre mondiali – non tanto a caso lo sto dicendo perché invece per la mia generazione, cioè per noi che siamo stati giovani nel Novecento, questa grande storia del Novecento, del primo Novecento, è ancora carica di fascino, fascino terribile magari, ma fascino. Per i miei studenti non è così, per loro studiare Lenin o Mussolini non è tanto diverso che studiare Napoleone, cioè un passato remotissimo, per loro almeno. Il Sessantotto non è così per loro, direi che per loro ha una specie di brillantezza – non mi è venuta una parola migliore – di brillantezza che rende più facile l’immedesimazione, soprattutto ai ragazzi che lo accostano appunto sui banchi dell’università. Cos’è stato il Sessantotto per noi che l’abbiamo visto da vicino? È stato per noi – anche se non l’abbiam vissuto, ma che l’abbiamo un po’ nel nostro Dna, siamo cresciuti con il Sessantotto – beh, è stato simbolo di antiautoritarismo, di rimozione del padre, tutti i padri naturalmente, non solo quello biologico, di autodeterminazione e poi di politicizzazione estrema e quindi di lotte tra schieramenti contrapposti e poi, questo ho fatto in tempo a vederlo, di barricate, di scontri con la polizia, di lacrimogeni, di città invase da dimostranti, intolleranze reciproche, sino alla guerriglia urbana, che i più anziani di noi ancora ricordano. Non è questo che fa riflettere i ragazzi che hanno voluto fare questa mostra. Non soltanto questo, non in prima battuta, gliele devi dire queste cose, così come non è nemmeno uno dei problemi grandi del Sessantotto che stamattina Aldo Brandirali ci ha detto con tanta efficacia, il consumismo, il nemico oggettivo del Sessantotto, il bersaglio polemico. I nostri ragazzi non si accorgono neanche più di vivere a bagnomaria in una società consumistica. Allora qual è il punto? Il punto mi è sembrato – e questo ha molto orientato il nostro percorso, il nostro lavoro – il punto mi è sembrato stare tutto in una parola: questa parola è cambiamento. Poi magari loro mi correggeranno, perché il bello della vicenda è che tutto ciò dà luogo a un continuo dialogo, a un continuo confronto. Incontrando voi che venite a vedere la mostra, scopriamo delle cose che non immaginavamo neanche. Però, cambiamento. Mi è sembrato che proprio questa parola riassuma bene la forza di provocazione, soprattutto per le giovani generazioni. Io vi devo dire che forse non avrei accettato l’invito di Francesco Magni e di Marta Busani, che mi hanno trascinato in questa avventura piena di imprevisti, se non avessi percepito appunto, questo interesse dei miei più giovani interlocutori. Occuparsi in chiave storica dell’argomento significa infatti incominciare a fornire strumenti per capire, per confrontarsi sul serio con quel mito che affascina, magari per destrutturarlo. Io sono convinta che i miti non fanno mai bene, lasciatemelo dire. Ecco, io mi sono avventurata in questo lavoro perché, appunto, ho verificato che l’argomento Sessantotto ha la capacità di pescare a un livello profondo, direi quali esistenziale. Anche questo aspetto è uscito stamattina, nella testimonianza di Aldo Brandirali. È una questione grossa per i nostri ragazzi affrontare il Sessantotto e affrontare questa parola “cambiamento”, che vuol dire tante cose per loro, ha tanti significati, è come composta di strati successivi che ci spingono sempre più in là e non ti danno tanta tregua, perché tutte le sere quando passo alla fine del turno c’è qualcuno che mi ferma delle nostre ammirevoli guide – fatemelo dire, io le ammiro tantissimo, non avrei mai osato alla loro età spiegare una mostra di storia a gente che magari ha vissuto quel passato – e hanno qualcosa da chiedermi, non sono mai contente, non finiamo mai di andare in fondo alla questione. È una questione che implica – l’ho visto in loro – un’attesa, un’aspirazione, a volte quasi una pretesa, un coinvolgimento personale, che investe tante cose, naturalmente l’università, la sua organizzazione, i corsi. Brandirali stamattina diceva: ma qual è il significato dello studio? I nostri ragazzi ce l’hanno fortissima questa domanda e quindi il rapporto coi professori, il lavoro negli organismi rappresentativi studenteschi; molti di loro sono arrivati al Sessantotto perché ci lavorano negli organismi rappresentativi studenteschi. Però poi sono ragazzi intelligenti e quindi ci sono tante altre cose che saltano fuori: i problemi del Paese, i drammi collettivi, i drammi personali, insomma, riassumiamo con un’altra parola: mondo, il mondo, il cambiamento del mondo a partire da me stesso, ma a partire dalla mia università, ma a partire da tutto quello che mi sta intorno e cioè mondo, quella dimensione che è tipicamente sessantottina e che appunto si intreccia con la volontà di cambiamento, che vale anche per i ragazzi che hanno lavorato con noi oggi; tanto è vero che alcuni di loro, quando si sono messi a studiare i fatti di cinquant’anni fa, li leggevano come se fossero fatti di oggi e lì è stato naturalmente necessario tutto un lavoro di approfondimento per far capire che il tempo è passato e non c’è una piena sovrapposizione tra le due epoche. Comunque, visto la posta in gioco, raccogliere la sfida, andar dietro all’interesse dei ragazzi, mettersi a lavorare insieme, confrontarsi tra noi curatori è stata un’occasione preziosa che ha cambiato il nostro anno di università e che, lasciatemelo dire, si è dimostrata un’ottima ragione per mettersi a fare questo lavoro. Vi dicevo cambiamento, quella parola che ci mette immediatamente in connessione con il Sessantotto. Dopo averla tematizzata, con l’animo di chi, come i ragazzi che conosco io, di cambiamenti ne vogliono tanti, appena iniziamo a studiare, appena iniziamo a riflettere, seguono a valanga una serie di domande, sempre più impegnative: che cosa significa cambiamento? Verso dove dovremmo andare, sarebbe bello andare? Chi ci guida? Che cosa deve cambiare? Quali sono gli strumenti? E poi l’altra grande domanda. Terribile! Ma chi è capace di cambiare? Che è una domanda che pesca sempre più in fondo. Vedete, non è così scontato sostenere il peso di queste domande. Sono domande che vengono dal Sessantotto ma che certamente caratterizzano il nostro tempo che, peraltro, lo sappiamo bene tutti, è così travagliato. A questo punto il discorso ci porta verso altri problemi, verso altre parole, perché le dimensioni del cambiamento vissuto e desiderato dalla generazione di allora, ed il secondo elemento con cui i nostri ragazzi si stanno confrontando, erano globali. I giovani degli anni Sessanta sono emersi come una categoria sociale a sé stante che si distingue dagli adulti per mentalità, modo di vivere, gusti, gusti culturali, in tutto il mondo occidentale e non solo. La gioventù degli anni Sessanta, lo vedrete o l’avete visto se siete passati per la mostra, ha acquisito una dimensione planetaria nonostante le differenze rilevantissime che ci sono tra la vita di un giovane di Praga o di Varsavia e la vita di un giovane di Parigi, di Milano, dell’università giapponese. Però esistono i giovani di allora. È la prima generazione globalizzata, forse, della storia ad ambire a ruolo di protagonista del cambiamento. Anche da questo punto di vista i giovani di oggi si fanno molto interrogare. Vorrei ricordare quello che chiedeva una delle nostre ragazze l’altro giorno a Franco Bonisoli, in quell’incontro così toccante: ma com’è possibile che giovani di allora non dormissero sonni tranquilli pensando alla guerra che era dall’altra parte del mondo? A noi non succede la stessa cosa! E questo noi, cioè i giovani di oggi, significa i giovani più connessi della storia del mondo, molto più che del Sessantotto. Questa ragazza reagiva a questa apertura incredibile dei giovani di allora. Anche per questo per loro Il Sessantotto è una fase epica che rende le strettoie e i mondi piccoli di oggi un po’ stonati, un po’ soffocanti. Allora dal Sessantotto arrivano come a valanga tutta una serie di domande sul ruolo che giovani oggi possono e vogliono avere nel mondo, su quali, poi, possano esserne gli interlocutori credibili. Questo è un altro grandissimo problema del Sessantotto; ma quali interlocutori si trovano di fronte i nostri giovani? Sempre all’incontro di Bonisoli l’altro giorno io sono rimasta colpitissima, l’ho detto a tutti quelli che ho incontrato, per cui lui raccontava come un ragazzo tra i tredici e i diciannove anni decide di diventare terrorista, come è possibile? Tredici anni son pochi ma anche diciannove sono pochissimi, e questo interroga moltissimo me come educatore, come adulto, come gente che sta guardando e che ha a che fare tutti i giorni con i giovani. Allora, chi sono gli interlocutori credibili? Come è noto è l’assillo dei sessantottini, a detta dei quali ce n’erano ben pochi: li han buttati via tutti in una volta sola, fossero credibili o non credibili, non hanno tanto distinto tra gente che ci tentava e gente che non ci tentava neanche. La strada era ed è in salita, anche da questo punto di vista. Dunque che strada percorriamo, qual è l’itinerario? Perché le strade individuate dal Sessantotto, che ci sono brevemente nella nostra mostra, non sto qua a ridirvele (il marxismo, il dissenso cattolico, la scuola di Francoforte, il terzomondismo, tutte le cose che vedrete accennate nella mostra) non ci sono più nelle mappe segnaletiche dei giovani di oggi. Quindi la domanda sulla strada percorribile è urgente e bruciante, mancano i punti di riferimento, mancano anche gli strumenti teorici perfino per capire i punti teorici di allora, non è affatto facile spiegare oggi cos’è il marxismo, cos’è la scuola di Francoforte, cos’è il terzomondismo eccetera, eccetera. È una domanda bruciante e come spesso avviene quando parlano questi ragazzi, si ha la sensazione che vivano nel vuoto, che non ci siano strade: c’è vuoto davanti e dietro, è un vuoto che spaventa, fatto di assenza di punti cardinali. Ecco, certo, da questo punto di vista le differenze con il Sessantotto sono notevolissime. Però il Sessantotto c’entra, perché il rifiuto a priori del passato e di chi autorevolmente ne trasmetteva i valori è sfociato nell’orizzonte vuoto di oggi, per tanti, purtroppo, vuoto di oggi. Ci sarebbero tante altre cose che hanno affascinato i nostri ragazzi. Ne dico solo una, perché la troverete tantissimo nella mostra. Qualcuno che l’ha vista ha detto: ma voi siete un po’ ossessionati da questa cosa, avete rivisto il Sessantotto tutto alla luce di questa istanza. Sì, forse è vero, e l’istanza è: autenticità, il desiderio di autenticità che i giovani degli anni Sessanta hanno espresso in tante forme; e infatti avete ragione quando dite: ma la seconda sezione della mostra che è su questo, campeggia; è vero, perché è la cosa che ha colpito di più i nostri ragazzi, perché in questo desiderio di autenticità si riconoscono. E allora questa è diventata un po’ la chiave interpretativa di tutto il nostro lavoro, è stata una scelta; potevamo farne tante altre. Vi dico questo perché quando siamo partiti con questo lavoro, io personalmente avevo fatto una scelta un po’ diversa; in un anno di lavoro sono successe tante cose. Come è partito questo lavoro? È partito come su due binari diversi. Noi curatori, perlomeno io, avevamo un problema un po’ diverso, noi volevamo studiare quello che papa Francesco chiama il cosiddetto cambiamento d’epoca, convinti che il Sessantotto forse non sta proprio all’origine del cambiamento d’epoca ma è stato un enorme acceleratore, come un detonatore del cambiamento d’epoca; volevamo sviluppare di più, ad esempio, la parte finale, le conseguenze, la cosiddetta mutazione antropologica. I ragazzi però stavano andando su un altro binario. Allora la nostra mostra, me ne rendo ben conto, è frutto un po’ di un parlarsi reciproco perché, a un certo punto, i binari si sono incontrati e forse un po’ scontrati anche, e credo che uno dei risultati più belli, almeno per me, sia stato accorgermi dell’arricchimento reciproco di questo dialogo, perché l’altro ti fa sempre vedere la cosa come tu non l’hai vista. C’è stata una grande disponibilità nel mettersi in discussione tra tutti noi, devo dire, come diceva don Milani, peraltro è citato come autore di Lettera ad una professoressa che, come sapete, è uno dei manifesti più noti del Sessantotto. Allora siamo entrati nel Sessantotto con quel “mi interessa” e abbiamo dato risalto a quel “mi interessa” dei ragazzi, perché crediamo che sia una via privilegiata all’apprendimento. D’altra parte però sappiamo che questo “mi interessa” va verificato, io da questo punto di vista mi tiro un po’ fuori dal Sessantotto, va verificato, magari ti capita, andando avanti, che ne scopri altri di interessi e che un percorso guidato è utile, purifica, fa saltare fuori le cose più interessanti, le cose più utili e che il cammino della conoscenza quindi, fatto insieme, è fatto anche dai professori, anche dagli insegnanti che ci hanno aiutato, e può essere utile per fare saltare fuori qualcosa a cui non avevi pensato. Voglio dire tutto ciò con le parole di una ragazza che ci ha aiutato molto, si chiama Margherita, mi scuso con lei tanto lo sa che la citavo, e che verso la fine del nostro lavoro scrive così: «La storia è pazzesca perché aiuta veramente a capire ma mentirei spudoratamente se dicessi che ora ho capito; anzi, le domande sono aumentate, non solo le domande relative a quel periodo ma anche all’oggi. La mostra infatti nasce dal desiderio di capire meglio l’oggi. Però sarebbe sbagliato cercare nel passato la risposta (credo che abbia ragione), la soluzione ai problemi di oggi. Tuttavia, un dialogo tra passato e presente è inevitabile anche semplicemente per il fatto che leggendo i saggi che ho letto, guardando i video che ho visto, di fronte a giovani che si sentivano oppressi dalla società, mi chiedo: ma oggi questo è vero, per me? Perché? Cosa opprime, cosa mi opprime, cosa mi libera, cosa libera?». Come vedete è una sfida impegnativa stare a livello delle loro domande, vi assicuro, non è affatto semplice. Dunque la mostra si muove su questo doppio binario, tenendo conto sia delle necessità di fornire notizie, chiavi interpretative sia del tentativo di capire meglio chi siamo e che cosa vogliamo. Avete visto che la mostra si articola in una serie di passaggi che riassumo brevissimamente, un ultimo video vuole cominciare ad offrire delle ipotesi, delle riflessioni con le quali ci sembra interessante confrontarci. Avrete visto che la nostra ipotesi è di un Sessantotto lungo, che parte dal Boom economico (perché i protagonisti del Sessantotto sono i giovani che per la prima volta vivono in un mondo che sta conoscendo il benessere. Questo è un dato abbastanza incredibile con gli occhi della storia! A tentare di fare la rivoluzione non sono i giovani che hanno vissuto le ristrettezze e la vita terribile dei loro padri, sono nati tendenzialmente dopo la seconda guerra mondiale, hanno accesso a strumenti di istruzione, a modi di conoscere il mondo che loro padri non avevano). Allora la protesta non nasce affatto dalla povertà, almeno non per tutti certamente, non per i molti ragazzi della piccola e media borghesia che poi fanno l’università e che saranno insieme i protagonisti del Sessantotto. Da che cosa nasce? Perché si ribellano? Alle origini forse di tutto ciò c’è la promessa della società del benessere. Qual è? I desideri possono e devono essere appagati; anzi la felicità sarà attivata dai beni di consumo, si potrà quasi comprare. Il consumismo fa baluginare la speranza che la felicità sia dietro l’angolo, che i beni ora acquistabili siano l’alleato più fedele per chi voglia realizzare se stesso e per chi voglia che vada a finire bene dal punto di vista dei rapporti, umani e anche affettivi, che gli stanno a cuore. In questo contesto matura la rivolta dei giovani contro società borghese e si manifestano una serie di fenomeni che palesano disagio esistenziale e anche sociale, mettendo in discussione appunto le promesse cui le generazioni adulte sembrano credere e che ai giovani cominciano a stare strette. Il Sessantotto o la contestazione degli anni Sessanta, sarebbe più giusto dire, vuol mettere alle corde un sistema di valori, lo dico con Augusto del Noce, che sembra avere elevato il benessere come fine. Questo è il punto, forse. In realtà, questo mondo borghese, i ragazzi del Sessantotto lo dicono leggendo Marcuse, si serve di quella falsa promessa per integrare gli individui nel sistema, omologando ma soprattutto rimpicciolendo i desideri, consumandoli, con il risultato di rafforzare il conformismo diffuso nel mondo degli adulti dal quale i giovani degli anni Sessanta vorrebbe liberarsi. Allora abbiamo dato tanto spazio al grido di protesta di questi giovani che alle sue origini non è ancora segnato dalle derive ideologiche del Sessantotto e della fine degli anni Sessanta. I nostri ragazzi si sono riconosciuti in Mario Savio, si sono riconosciuti negli studenti delle università americane che cominciano a ribellarsi tra il Sessantadue e il Sessantaquattro e che pongono delle domande pregnanti: che cosa è realmente importante? È possibile vivere in un mondo diverso e migliore? Se volessimo cambiare la società in che modo potremmo farlo? E qui troverete tutta una serie di questioni: il crollo del mito americano, la crisi della sinistra giovanile, la crisi del mondo cattolico, della Gioventù cattolica in tutto l’occidente che ha alimentato in maniera molto consistente la contestazione giovanile e lo stesso Sessantotto. E poi tutte quelle questioni che hanno a che fare con il travaglio del mondo: il Vietnam, l’ingerenza americana in America Latina, il razzismo, il neocolonialismo ma anche i carri armati del Patto di Varsavia, le persecuzioni che imperversano al di là della cortina di ferro, le dimensioni del mondo. A un certo punto emerge un po’ il nocciolo duro di questo passaggio della mostra, cioè la crisi della tradizione, sia quella incarnata dai valori religiosi e dalla pedagogia cattolica, sia la vecchia interpretazione della storia marxista ancora sposata dalla vecchia sinistra. E poi troverete la crisi del sistema scolastico, dell’università, l’entrata in crisi di tutte le agenzie educative, l’accusa che i giovani già cominciano a fare a metà degli anni Sessanta ai loro professori di autoritarismo, di insegnare un sapere avulso dai bisogni della società, avulso dal “mi interessa” di cui parlavamo poco fa. Da ultimo poi tutti i problemi che riguardano l’università di massa, la crisi che riguarda gli organismi rappresentativi studenteschi. Poi il focus naturalmente sul Sessantotto, compreso quello orientale e ringrazio davvero molto Russia Cristiana di aver curato questa parte della mostra. Dunque la democrazia di base, l’assemblearismo, la controcultura, Mao, la rivoluzione culturale, tutte le cose che sapete e che troverete nella mostra fino a quella che ci è sembrata sì la deriva intollerante finale, la radicalizzazione del conflitto, ma soprattutto una delle eredità più durature del Sessantotto, cioè la rottura con la vecchia morale borghese, la rivoluzione sessuale, che forse sì questa sta proprio all’origine del cambiamento d’epoca. Chi ha visto la mostra sa che poi il bilancio finale è molto accennato, un chiaroscuro, solo un accenno: la vittoria del soggettivismo, dell’individualismo, l’evaporazione del padre, che tra l’altro produce nei nostri giovani la ricerca dolente, direi, e a volte esasperata di figure autorevoli che curino le angosce personali e collettive. Però noi finiamo un po’ diversamente il nostro percorso. Come? E così concludo: rilanciando quelle provocazioni che gli studenti di oggi hanno intravisto nella contestazione giovanile e che ci sembrano, ancora oggi, a metà del Meeting, una strada tutta da sondare. Utilizzo di nuovo Margherita che scrive: «Dopo aver incontrato un testimone, una persona che ha vissuto il Sessantotto – e i nostri ragazzi ne hanno incontrati alcuni, – mi chiedo spesso cosa vuol dire cambiare il mondo, come si fa? Sono rimasta sbalordita quando sentendo un testimone ho intuito che cambiare il mondo perdendo se stessi non è cambiare il mondo ma è perdere tempo». A questo punto il quesito si fa cruciale ed è diventato tuttora il contenuto di dialoghi, di confronti, ritorna al centro quel desiderio di autenticità, di libertà che la contestazione ha sottolineato, anche se è facilissimo rilevare tutta la sproporzione degli esiti del Sessantotto, anche tutta la sproporzione di come oggi viviamo questi stessi problemi e queste aspirazioni. Allora ciò che ci urge ancora sono proprio quelle domande che hanno a che fare non solo con la nostra sete di pienezza e di felicità, ma con la sfida di trovare strade possibili che permettano a tutti, vicini e lontani, di vivere meglio, di condividere il destino comune. Queste domande non ci lasciano affatto tranquilli, non vogliamo metterle a tacere. Proprio per questo abbiamo voluto mostrare non tanto quello che abbiamo capito del Sessantotto, non c’è un riassunto, troverete che tante cose non ci sono, ma abbiamo voluto che la nostra mostra fosse una introduzione, fosse uno stimolo per l’incontro con persone (e oggi ne abbiamo una molto autorevole) che hanno qualcosa di interessare da dire su questi temi di cui vi ho parlato oggi, che non hanno perso la loro carica di sfida. Ovviamente sappiamo che non basta quello che abbiamo studiato per rispondere a quelle domande, come non bastano risposte facili e preconfezionate, non ne abbiamo, però un sospetto a questo punto ce lo abbiamo: i sessantottini, con quel loro impaziente… non tanto “vogliamo tutto”, ma “lo vogliamo immediatamente”, lo vogliamo subito, abbiano fatto un passo falso. Crediamo, infatti, e lo stiamo sperimentando, è la nostra esperienza di tutti i giorni, che sia necessario un lavoro impegnativo di verifica, che probabilmente durerà tanto, la vita ci servirà per questo. Come abbiamo concluso la nostra mostra, ci sentiamo tutti coinvolti, non ci sentiamo per niente assolti. Siamo al lavoro e proprio per questo vogliamo incontrare tutti voi e tutte le persone che sono al lavoro come noi. Vi ringrazio.

FRANCESCO MAGNI:
La professoressa Bocci concludeva l’intervento richiamando alcune domande dei ragazzi di ieri e di oggi, domande che rilancio al direttore Calabresi. La prima la formulerei così: cosa vuol dire oggi per lei, anche a partire dalla sua esperienza umana e professionale, contribuire al cambiamento del mondo? Che cosa costruisce davvero la società in cui viviamo? Oppure, in un altro modo, quale contributo possiamo dare come giovani assetati di cambiamento? Cosa si sentirebbe di dire ai giovani che invece non sentono questa esigenza, giovani che rimangono chiusi e isolati nei loro piccoli mondi?

MARIO CALABRESI:
Intanto buonasera a tutti. Dopo quattro domande così uno si arrende ed esce a mani alzate, ringrazia e saluta. Prima di tutto voglio dire una cosa: mi fa molto piacere essere qui, se mi avessero chiesto di venir a parlare dell’anniversario del Sessantotto, sarei rimasto al mare, nel senso che come diceva anche la professoressa, basta parlare dell’anniversario del Sessantotto. Invece l’idea di parlare con una platea in gran parte di giovani di che cosa sono state le sfide allora e di quali possano essere le sfide di oggi, mi sembra che valga la pena. Vorrei partire però con una cosa. Venendo qui mi è venuto in mente Sergio Marchionne. Lo conoscevo bene perché ho fatto il direttore de La Stampa e La Stampa in quel periodo era ancora della FIAT. Mi ricordo quando Marchionne venne qua e mi ricordo di avergli parlato una settimana dopo e lui era completamente stregato dal Meeting, era pieno di entusiasmo e mi ha detto: «Tutti mi raccontano che l’Italia è un Paese in cui i giovani sono senza lampi nello sguardo, invece ho trovato una energia di ragazzi e di giovani incredibile. Infatti spero un sacco che mi rinvitino». Detto da uno come Marchionne, che tirarlo fuori dal suo ufficio era una impresa, era veramente una cosa notevole. Quindi sono venuto qui e ho rivisto quello e ho risentito quella cosa. Partendo da allora, mentre venivo qui, oggi ero sul treno, ho telefonato ad una sorella di mia madre, più grande, che si chiama Mirella, che ha fatto il medico tutta la vita, oggi in pensione, e che partecipò all’inizio del Sessantotto (che poi iniziò nel Sessantasette, come ricorda bene la mostra), questa prima occupazione, una notte, alla Statale di Milano. Lei era lì, studiava medicina e la fece. Le ho chiesto: che cosa era che vi spingeva? Lei mi dice: «L’idea, il tema delle diseguaglianze, soprattutto all’interno delle università, come diritto allo studio perché oggi sembra quasi acquisito, ma allora la università era ancora, negli anni Sessanta, elitaria, se eri benestante potevi andare all’università, altrimenti eri davvero una eccezione». Poi dice: «E anche studiare che cosa era l’università, interrogarsi, che funzione aveva, farsi le domande su che cosa era l’istruzione, la formazione». Quindi lei partecipò a questa prima occupazione e poi mi ha detto che mio nonno le disse: «Sì, tu vai all’occupazione ma poi torni a casa a dormire». Siccome l’occupazione durò una notte, lei sostanzialmente fece la sera e poi tornò in tram. Le ho detto: «E poi che cosa è stato?». Lei dice: «Molto oggi si tende a dire “ah, il Sessantotto”, comunque una cosa ce l’ha lasciata: qualunque sia la società di oggi è meno diseguale, checché se ne pensi, di quella che c’era negli anni Sessanta». Alla domanda che tu mi fai «che cosa si può fare per cambiare il mondo», io credo che, soprattutto oggi, quello che io posso dire a dei ragazzi come voi, sia che ognuno deve provare a fare la differenza nel suo piccolo, nella sua vita. Ogni giorno la vita ci pone delle occasioni, delle sfide in cui possiamo decidere chi siamo ed è lì il punto. Cosa fece mia zia? Una signora che ha fatto la sua vita, non è diventata nota, vive nell’Alta Val Brembana ma dopo quelle esperienza di inizio del Sessantotto (poi vide gli scontri di piazza e lei e il suo fidanzato, poi suo marito, scapparono perché non gli piaceva la piega che stava prendendo il tutto) cosa fece? Lei e il suo fidanzato decisero che loro la differenza la volevano fare andando ad aprire un ospedale in Africa. Si sposarono nel Sessantanove e la loro lista di nozze era tutto ciò che era necessario ad aprire un piccolo reparto, in mezzo al niente, in Uganda, in una zona dove non c’erano ospedali, non c’era niente, ‘la Cambogia’, loro aprirono una stanza, non è che intorno alla stanza ci fosse qualcosa, cioè c’era la savana e poi c’era una piccola costruzione grande come una stanza che era una maternità, un luogo dove far nascere bambini. La loro lista di nozze era l’elenco, erano dieci lettini, attrezzi chirurgici, bende, disinfettante. Allora loro pensarono che il loro modo di dare una risposta a quella voglia di cambiamento era provare a fare la differenza e partirono, andarono in Uganda appena laureati, appena specializzati medici e aprirono questo posto. Naturalmente non sapevano cosa sarebbe stato, lo fecero in un modo veramente col sogno, con la passione, con il cuore. Qualche anno fa, quattro anni fa, sono tornato, quarantacinque anni dopo, a vedere le conseguenze di una lista di nozze. Ricordo che la sera, prima di prendere un aereo da Milano per andare (ho fatto scalo in Etiopia) in Uganda, ho detto a mia madre: «Mamma, cosa rimane della tua lista di nozze?». Mia madre ha detto: «Guarda, facciamo presto». Ha aperto il mobile di casa sua, della cucina e mi ha detto: «Sono rimasti sei fondi, sette piani, quattro tazzine da caffè, il resto lo avete distrutto tu e i tuoi fratelli». Cosa è rimasto della lista di nozze di mia zia e di mio zio che scelsero di provare a fare qualche cosa che secondo loro poteva fare la differenza nella loro vita e nella vita degli altri? È rimasto un ospedale che oggi fa diecimila parti l’anno, è uno dei più grandi ospedali dell’Uganda, nato da una lista di nozze. Allora quella è la conseguenza. Quando sono andato mi sono commosso nel vedere come il sogno di quei due ragazzi avesse poi camminato sulle gambe di tanti altri medici, volontari, tante altre persone. Mi viene da dire una cattiveria, non resisto, mi stavo mordendo la lingua da due minuti: loro erano andati a fare quello che oggi si dice “aiutiamoli a casa loro”. Ecco loro erano andati ad aiutarli a casa loro. Non è mica sbagliato dire “aiutiamoli a casa loro”, però poi bisogna farlo, non è che così si dice “così ti fermo”. Allora che cosa è oggi fare la differenza? Secondo me, ve le dirò sparse le cose, è sottrarsi all’obbligo, alla dittatura dei like e della popolarità. Io faccio una battaglia, ho due figlie di undici anni e faccio una battaglia con loro su questa parola “popolarità”. Mi dicono: «Sai papà, quella nostra compagna è la più popolare della classe; quello è il più popolare della scuola». Io dico: «Chi se ne frega!». E loro: «Tu non puoi capire». «E no! Ho avuto undici anni anche io».
Allora questa idea che tutto si risolva nel fatto che tu ad un certo punto metti una cosa su non dico più Facebook perché l’ho detto alle mie figlie e mi hanno detto che quella era una roba dei nonni. Diciamo che metti una foto su Instagram e con ansia vedi a quanta gente piace. Questo fatto di consegnare agli altri il giudizio continuo su quello che sei tu… Vi do un consiglio: se potete provate a fuggirne, provate a farvi un’idea voi di chi siete voi, guardatevi allo specchio ma non per farvi le facce da Instagram. Guardatevi allo specchio per chiedervi: che cosa mi interessa nella vita? Ed è la prima cosa. La seconda è il valore delle parole. Noi viviamo in una società in cui è completamente perso il valore delle parole. Fate un esperimento: tutto vive molto … ogni parola … non esistono più parole normali. “Arrabbiato”, “irritato” sono parole banali, cioè tutto è super. Se c’è uno che vede un incidente al semaforo, immediatamente, anche per colpa dei giornali, è un supertestimone. Al che: il testimone che cosa è? Non si sa, è quello che non ha visto forse. C’è un supertestimone e così tutto è, vedete, i nostri politici su Twitter, il presidente degli Stati Uniti: o uno tira un missile nella comunicazione ogni giorno oppure non è. Io vi chiedo ogni tanto di fare un esperimento: provate, quando state per dire una frase e volete dire una frase forte, provate a fermarvi un secondo e fate una sottrazione, e levate una parola che vi sembra bella, esplosiva, che deve fare effetto, e usatene una appropriata ma normale. Vi assicuro di una cosa: fa molto più effetto. Le persone si fermano e dicono: ma come mai? Se voi pensate di dire «mia madre mi ha detto che stasera non posso uscire e sono… come una bestia». Se invece uno dice «non mi lasciano uscire, sai che questa cosa mi addolora molto?». Si fermano tutti. È anche un consiglio detto fra noi, visto che magari ci sono più figli che genitori, se voi ogni tanto anziché urlare a vostra madre o a vostro padre che vi dicono «no, non vai al cinema», dici «mamma, lo sai che questa mancanza di fiducia che hai verso di me mi provoca molto dispiacere?». Vi assicuro che li mettete in crisi, perché loro sono pronti al fatto che voi alziate i toni e sono pronti alla sfida. Se voi li abbassate non sono attrezzati. La società non è attrezzata. Ve lo dico perché io faccio un costante esperimento. Ricevo tutti i giorni uno svariato numero di mail o di tweet, a prescindere. Ormai la gente si alza e ha bisogno di mandarti a quel paese, di mandare a quel paese qualcuno. Fai il direttore di un giornale, ti possono sparare a palle incatenate. Ad esempio l’altro ieri mi sveglio e trovo una mail di uno che parte così: «Si vergogni! Io la pensavo una persona perbene, ho letto i suoi libri e poi vedo che ieri sera il sito del suo giornale, anziché parlare del ponte di Genova, apriva con una partita di campionato. Non la leggerò mai più, sono profondamente deluso, le ripeto si vergogni!». Primo, io ho chiesto un po’: ma abbiamo aperto con la partita della Lazio? No, può darsi che mentre si spostavano le cose sul sito per un secondo sia stata sopra, ma nessuno ha mai scelto di farlo. L’istinto cosa vorrebbe? Che tu gli dici: «Ma vada a quel paese, ma cosa mi rompe di primo mattino, ma cosa vuole, ma guardi il sito ecc.». Invece io ho fatto una sorta di fioretto, uno o due al giorno, di più non ci riesco, rispondo molto gentilmente: «La ringrazio per aver letto i miei libri, mi stupisce molto che sia successo questo perché abbiamo dato una copertura amplissima, con un numero di giornalisti molto importante ai fatti di Genova, per la loro drammaticità e per quello che segue, non riesco a ricostruire questa cosa, mi dispiace ma le assicuro che non era nostra intenzione». Passano dieci minuti: «No, mi scusi tantissimo, stamattina mi sono alzato male, io la apprezzo molto, continuerò a leggere il suo giornale ecc.». Ogni volta che qualcuno ti attacca e tu gli rispondi gentilmente, oggi è talmente tutto incattivito che se appena c’è un piccolo incidente e due macchine si toccano tutti e due scendono con la bava alla bocca, è la battaglia della fine del mondo. Se uno dei due scende e dice: «Oh, ma mi dispiace, magari lei aveva un appuntamento, ma che disastro, adesso riusciamo a metterci d’accordo in fretta così salviamo le nostre giornate?». L’altro è uscito che sembrava Hulk e immediatamente si vede e dice: «Ma perché?». Provare ad abbassare il tono è una delle grandi sfide che ci sono da fare oggi. Voi mi direte: ma questo è metodo. Non è solo metodo, è anche sostanza, perché ci dice che non possiamo vivere fuori giri. E soprattutto un’altra cosa, che non possiamo vivere pensando che la vita siano i cento metri. La vita è una maratona, bisogna impostare un passo tranquillo in cui uno ha tempo di riflettere, di pensare, di mettere una gamba dopo l’altra, di vedere i chilometri passare. Non è una cosa che va fatta tutta di corsa, bisogna avere il senso del tempo. Le cose bisogna avere anche il senso di conquistarle. Nella mostra, ad esempio, si parla del consumismo già negli anni Cinquanta e negli anni Sessanta, però attenzione, che tra il consumismo degli anni Cinquanta e Sessanta e quello degli anni Novanta c’è una differenza immensa. Gli anni Cinquanta e Sessanta erano un consumismo in cui per soddisfare il desiderio c’era bisogno di tempo, impegno e fatica. La lavatrice si comprava in quarantotto rate, arrivava dopo molto tempo. Mia nonna voleva la lavatrice a tutti i costi e alla fine decide di vendere la macchina, la cinquecento, per comprare la lavatrice. E mette per lungo tempo sullo stesso piano la macchina o la lavatrice, la macchina o la lavatrice, poi sceglie la lavatrice perché aveva sette figli e non ce la faceva più a lavare a mano tutte le notti. Eppure era una donna che stava bene, era benestante, però sceglie tra la macchina e la lavatrice. Invece gli anni Novanta, gli anni Duemila, gli anni più vicini a noi prima della crisi hanno un’idea di soddisfazione immediata del desiderio. Il problema è che quando il desiderio viene soddisfatto immediatamente non ha più alcun valore. Provatelo. Io lo vedo con le mie figlie, che quando chiedono una cosa e la ottengono subito, quella cosa passa di interesse in pochissimo tempo; quando invece uno gli chiede di conquistarsela, studiando a scuola, facendo dei lavoretti, attendendo, gli mette un percorso, quando la conquistano… mi viene da dire che il viaggio è più importante della meta. È il percorso che dà la soddisfazione di conquistarsi le cose. Datevi delle mete, perché in questo c’è l’autenticità, nel conquistarsi le cose, nel sentirle, uno le deve sentire addosso le cose, altrimenti non sono autentiche. I cento metri si fanno senza respirare, la maratona la si sente perché ci vuole la testa per farla, ci vuole la pazienza, ci vuole la tenacia. L’ultima cosa che dico è quella che mi sta più a cuore. I nostri nonni hanno fatto molta fatica, l’Italia che è stata costruita dopo la seconda guerra mondiale è un’Italia costruita con la fatica. Si è pensato poi che il progresso, il futuro, il benessere, fosse difendere i propri figli dalla fatica. Facciamogli fare meno fatica di quanta ne abbiamo fatta noi. Questa secondo me è una gigantesca fregatura, perché se uno mi dice: che cos’è il miglior consiglio che puoi dare a un genitore o che puoi dare a un ragazzo? Fate fatica. La fatica è la cosa migliore, mi vien da dire che solo la fatica ci salverà. La fatica è la cosa migliore che io vi possa augurare, perché vuol dire conquistarsi le cose, vuol dire dare un sapore alle cose. Anche per fare un esame all’università o se sei al liceo, mettersi la sveglia alla mattina alle cinque ed iniziare a studiare alle cinque, e studiare dalle cinque alle sette, è fatica. Ma la soddisfazione che dà è infinita, è grandissima: conquistarsi le cose con fatica. Io credo che i genitori non dovrebbero proteggere i figli dalla fatica, dovrebbero accompagnarli, dargli gli strumenti, ma non proteggerli. Fare fatica è la chiave per fare le cose, perché le cose vere non sono mai gratis, non arrivano. Il porsi domande è faticoso, molto meglio cercare risposte, cercare frasi che ci piacciono, mettere il like su una foto. La fatica è veramente quello che secondo me ci può salvare, ed è anche l’antidoto alla società di adesso. Io credo, e in questo momento sono in una super minoranza, che la risposta ai giovani non sia «va bene ragazzi, non trovate lavoro? Vi daremo dei soldi di stato perché non trovate lavoro», ma la risposta sia «vi diamo gli strumenti per costruirvi una vita, vi dobbiamo dare gli strumenti per fare fatica». Altrimenti che cos’è? Ma che vita è? Che vita è se uno non viene stimolato ad ingaggiarsi, a sfidarsi, a provare, anche a provare e a fallire? Perché bisogna anche uscire da questa logica e da questa sorta di etica o di delirio del successo per cui a uno deve andargli sempre bene e se sbaglia è finita. No, bisogna provare e sbagliare. Ma se voi in un giorno provate a fare dieci cose e ve ne riescono sei e ne sbagliate quattro, è una grande giornata, ve ne sono riuscite sei. Ma se invece non ne provate neanche una per paura di sbagliarne una… provatene dieci, mettetevi in gioco, provate le cose, provate, provate. Adesso farò un esempio che non è un grande esempio intellettuale ma che a me piace tanto, e riguarda Michael Jordan che era grande giocatore di basket, il mio preferito. Ho lavorato lavando le auto alla fiera di Milano per comprarmi le Nike di Michael Jordan e me le sono veramente sudate, e quindi quelle Nike ce le ho ancora, anche se sono rovinatissime, perché se me le avesse regalate mia madre il giorno che gliele avessi chieste, avrebbero avuto un altro valore, e siccome mi ricordo quante macchine ho lavato negli stand della fiera di Milano, quelle scarpe hanno un valore ben preciso. Un giorno hanno chiesto a Michael Jordan come ha fatto a diventare il miglior giocatore di basket della storia, e lui ha risposto: «Perché ho sbagliato tanto, perché ogni volta che io mi allenavo tenevo a mente tutti gli errori che facevo, e quando tutti finivano e andavano via dalla palestra io rimanevo mezz’ora in più e lavoravo sui miei errori per correggerli. Siccome però noi finivamo l’allenamento alle otto e la palestra chiudeva alle otto, io andai dal guardiano e gli chiesi se potevamo tenere le luci accese fino alle otto e mezza, ma lui mi disse no, che alle otto doveva andare a casa. Allora cercai il suo punto debole, e il suo punto debole era che era golosissimo. Il mio punto forte era che mia madre era bravissima a fare le torte. Allora feci un patto con lui: due torte a settimana e lei tiene le luci della palestra accese per mezz’ora dopo l’allenamento. Lui, provate le torte di mia madre, decise di starci a questo gioco». Michael Jordan disse: «Io ho imparato di più in quella mezz’ora in cui tutte le volte correggevo i miei errori che in tutto il resto del tempo, e siccome sbagliavo tanto ho corretto tanto. E questo è il modo in cui ci sono arrivato».
Questo vi dico, non abbiate paura di sbagliare e non abbiate paura di fare fatica.
FRANCESCO MAGNI:
Io ringrazio i nostri ospiti per l’incontro di oggi, e direi che dopo quello che abbiamo ascoltato possiamo capire forse di più l’invito che ci ha fatto papa Francesco nel messaggio al Meeting di quest’anno. Quell’invito a non rinunciare a sognare che il mondo cambi in meglio. Direi che oggi abbiamo avuto tanti esempi e due autorevoli personalità che ci hanno accompagnato in questa possibilità di conoscenza e di percorso. Io li ringrazio ancora e ricordo a tutti la possibilità di contribuire alla costruzione di un luogo come il Meeting, e quindi invito chi volesse a dare un piccolo contributo negli spazi “Dona ora”, per costruire questa grande storia. Grazie

(trascrizione non rivista dai relatori)

Data

22 Agosto 2018

Ora

17:00

Edizione

2018
Categoria
Incontri