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PER IL BENE DI TUTTI: LE PROSPETTIVE DEL WELFARE ITALIANO ED EUROPEO
Per il bene di tutti: le prospettive del welfare italiano ed europeo
Partecipano: Angelo Bazzari, Presidente della Fondazione don Gnocchi; Andrea Ceccherini, Provveditore della Venerabile Arciconfraternita della Misericordia di Firenze; Gianluca Chiodo, Responsabile Giuridico della Cooperativa Giotto; Enzo Moavero Milanesi, Ministro per gli Affari Europei. Introduce Monica Poletto, Presidente della Compagnia delle Opere – Opere Sociali.
PER IL BENE DI TUTTI: LE PROSPETTIVE DEL WELFARE ITALIANO ED EUROPEO
Ore: 15.00 Sala Neri
Partecipano: Angelo Bazzari, Presidente della Fondazione Don Gnocchi; Andrea
Ceccherini, Provveditore della Venerabile Arciconfraternita della Misericordia di Firenze;
Gianluca Chiodo, Responsabile Giuridico della Cooperativa Giotto; Enzo Moavero
Milanesi, Ministro per gli Affari Europei. Introduce Monica Poletto, Presidente della
Compagnia delle Opere – Opere Sociali.
MONICA POLETTO:
Buongiorno, buongiorno a tutti e benvenuti. Tema di questo incontro è “Per il bene di tutti:
le prospettive del welfare italiano ed europeo”, ed è un incontro che ha due gruppi di
soggetti: innanzitutto dei testimoni, dei testimoni importanti e che io sono contentissima
che siano al nostro Meeting, Monsignor Bazzarri, Presidente della Fondazione Don
Gnocchi e il Provveditore della Misericordia di Firenze, che forse è l’opera sociale più
antica che abbiamo in Italia, di cui tanto abbiamo sentito parlare e che sono ben contenta
che possa essere qua a raccontarci, oltre a una giovanissima ma non meno importante
realtà che è quella rappresentata da Gianluca Chiodo, che è Responsabile legale della
Cooperativa Giotto e del Consorzio Giotto. Abbiamo inoltre una interlocuzione istituzionale
di cui siamo molto contenti: è il Ministro Enzo Moavero Milanesi, che, avendo la
responsabilità della relazione dell’Unione Europea, entrerà nel merito di problematiche che
tanto assillano molte delle nostre realtà non-profit. Abbiamo pensato di impostare la nostra
tavola rotonda innanzitutto con un breve giro, in cui chiediamo alle tre opere testimoni di
raccontarsi, di dirci chi sono e di dirci soprattutto qual è la loro origine, e come la loro
origine si attua adesso.
Noi teniamo conto, quando parliamo del mondo del non-profit, che evidentemente è solo
una cecità che continua a rappresentare questo mondo come un mondo residuale:
finalmente c’è stata la pubblicazione dei dati ISTAT del 2011, che ci hanno fatto vedere
che, in un momento di crollo a picco dell’occupazione, il mondo del non-profit ha avuto un
incremento del 39% dal 2001 al 2011, ed è un dato impressionante, e che tutto sommato
ha avuto un rilievo mediatico che è durato circa un giorno.
Stiamo parlando di un mondo che fa lavorare quasi 700 mila persone e ha quasi 5 milioni
di volontari, per cui non si può parlare di un sistema residuale; abbiamo pensato che il
modo migliore per far capire che non è un sistema residuale è far parlare i protagonisti.
Per cui farei partire Andrea Ceccherini, Provveditore della Venerabile Misericordia di
Firenze, a cui chiedo di presentare l’opera, la propria origine, che è un’origine antica e
importante, e come questa origine ancora oggi si attua. Grazie.
ANDREA CECCHERINI:
Buonasera, e intanto grazie di averci invitato a questo Meeting, per noi è veramente un
piacere, un onore essere qui.
Voi siete qui per conoscere e capire la Misericordia. È un po’ come chiedere a un
innamorato che sentimenti prova nei confronti della sua amata, e pur avendo a
disposizione, verbi, sostantivi, aggettivi, un vocabolario intero, sicuramente non riuscirà
mai a rendere pienamente l’idea, perché in fondo non ci sono le parole giuste e adatte per
spiegare certe cose. Ma per Grazia del Signore e per fortuna ci sono le opere e le azioni
della Misericordia, che ben dimostrano cosa è, e cosa sono le Misericordie.
Per parlare di Misericordia, però, bisogna soprattutto fare un gran passo indietro nella
storia, cioè andare esattamente al 1244, quando nacque la Misericordia di Firenze. Come
era Firenze nel 1244? Firenze era già una città abbastanza importante: era alla sua terza
o quarta cerchia muraria, si estendeva su circa 75 ettari di terreno, aveva circa 30 mila
persone; però la cattedrale di santa Maria del Fiore, il Palazzo Vecchio, la Cupola del
Brunelleschi, il campanile di Giotto ancora non erano stati costruiti, neanche pensati. Il
sommo poeta, Dante Alighieri, nasceva soltanto circa vent’anni dopo, esattamente nel
1265. In un simile contesto storico, l’unico punto di riferimento in quel momento era il
Battistero, il bel S. Giovanni, il Battistero di Firenze, con la sua forma ottagonale; e a me
piace vedere nella forma ottagonale del Battistero di Firenze il riferimento alle beatitudini
del Signore, beatitudini fra cui: “Beati i misericordiosi perché troveranno misericordia”. E
proprio lì, a circa venti metri dal Battistero, nelle buche di S. Giovanni, buche che
ospitavano i facchini dell’opera, della Corporazione delle Arti Maggiori e Minori, un gruppo
di uomini, di viva fede, si riunirono in sodalizio per rendere gloria a Dio attraverso le opere
di carità.
Qui, secondo me, bisogna fare una riflessione. Intanto si parla di uomini, e quindi è la
dimostrazione che la misericordia nasce dal basso, nasce dal popolo. Uomini comunque
che avevano dentro di sé una viva fede, e infatti le misericordie sono associazione laiche
ma di ispirazione cristiana. E cosa fanno questi uomini? Si riuniscono in sodalizio.
Sodalizio è una parola importante; qui non si dice che si riunirono in una congregazione, in
un gruppo, in un ente, ma in sodalizio, cioè in qualcosa di coeso, qualcosa di importante,
qualcosa destinato a durare nel tempo, qualcosa di indistruttibile come sodalizio (tant’è
che la misericordia di Firenze il prossimo anno festeggerà i suoi 770 anni). Quindi si
riunirono in sodalizio per far cosa? Per rendere gloria a Dio attraverso le opere di carità.
Altro punto importante: non si parla di pietà umana, non si parla di solidarietà umana, si
parla di carità cristiana. Ognuno di noi, se vede un malcapitato, è spontaneamente portato
a dargli una mano: lo vede per terra, gli dà un aiuto, e il più bel esempio l’abbiamo nella
parabola del buon samaritano, che fu l’unico che si mise a dare una mano al malcapitato.
Nelle Misericordie si parla di più che del buon samaritano, si parla anche del Cireneo che
si prende la croce propria del Signore, se la carica addosso, e quindi diventa anche la
propria croce. Si parla di carità cristiana, quindi questo è un qualcosa di importante per
noi, per il nostro patrimonio morale. Quale fu la grande intuizione dei nostri padri
fondatori? Non certamente quella di dare una mano a chi era malcapitato in quel
momento, perché è un sentimento singolo; ma la grande intuizione fu quella di
istituzionalizzare, o comunque di regolarizzare, questo sentimento, questa idea, questo
bisogno di aiutare gli altri. E quindi diciamo che la misericordia è il primo esempio di una
non-profit, il primo esempio di una organizzazione, di un qualcosa che si organizza per
offrire un aiuto, un aiuto organizzato, al mal capitato, al bisognoso, all’infermo,
all’ammalato.
L’altra grande intuizione dei nostri padri fondatori fu quella di aprire la Misericordia a tutti, a
tutte le classi sociali: quindi alla Misericordia potevano venire a fare servizio, allora come
oggi, tutte le classi sociali. Così facendo, sia come prestatori di opera ma anche per
andare a soccorrere le persone, così facendo è successo che la Misericordia è rimasta
indipendente per 770 anni, non ci sono mai state ideologie, sponsor, né altre cose che
abbiano potuto influenzare la politica della Misericordia. La politica della Misericordia è
stata soltanto quella di avere di fronte a sé il bisogno della persona che in quel momento
chiede un aiuto.
Dicevo prima di questa frase: “uomini di viva fede si riunivano in sodalizio per rendere
gloria a Dio attraverso opere di carità”.
Questa non è una frase che mi sono tirato fuori io così, improvvisamente, ma è una frase
che è riportata nel nostro statuto, nei nostri statuti che, seppur rivisti e corretti, contengono
comunque dei passaggi importanti che sono delle pietre angolari del nostro patrimonio, di
cui questa è, appunto, una frase.
L’altro importantissimo passaggio che abbiamo nelle nostre costituzioni è la saggia
arrendevolezza ai mutamenti del tempo. Questa cosa ha consentito alla Misericordia di
Firenze, e poi a tutto il Movimento delle Misericordie – perché, ripeto, quel seme che fu
gettato lì, nel 1244, di fronte al bel S. Giovanni, ha poi costituito una ramificazione di
Misericordie: oggi siamo oltre 850, non solo in Italia ma in Europa, addirittura anche sparsi
in tutto il mondo – di vedere come cambiava il bisogno delle persone, e quindi l’eclettismo
della Misericordia per quanto riguarda tutti i servizi che in questo momento sta facendo.
Se prima era soltanto andare a seppellire i morti nelle strade che nessuno reclamava,
oppure di aiutare le fanciulle povere ad avere una dote per potersi degnamente sposare,
oggi è una miriade di servizi che le Misericordie offrono a tutti i cittadini. Ecco quindi
l’eclettismo.
Ma al di là dell’indipendenza dell’eclettismo, ci sono poi due valori importantissimi nella
Misericordia, due valori imprescindibili che rappresentano il nostro patrimonio morale, sul
quale noi non discutiamo assolutamente, e che sono la gratuità e l’anonimato.
Questi sono i pilastri fondamentali delle Misericordie: gratuità e anonimato.
Niente chiediamo, niente vogliamo dagli altri, soltanto Dio ce ne renderà merito, per i
servizi e per le opere che facciamo.
Però, parlando di anonimato, mi viene spontaneo chiedere a voi se conoscete cos’è la
buffa.
La buffa è quel cappuccio della nostra veste storica che veniva calato sul volto di chi
andava a prestare servizio, in maniera tale che non veniva riconosciuto, e questo per il
principio che la destra non sappia mai cosa fa la sinistra. Cosa ha consentito questo
cappuccio sul volto? Ha consentito che il guelfo potesse soccorrere il ghibellino, che il
nobile potesse soccorrere il proprio servo, il ricco il padrone e viceversa. L’anonimato.
L’anonimato è quel valore che ancora dentro di noi teniamo saldamente, e come facciamo
a tenerlo? Consegnando anche oggi ai fratelli della Misericordia che si iscrivono da noi, e
che hanno 16 anni, i più giovani, consegnando loro ugualmente la veste nera; questa
veste nera, la veste storica, viene ugualmente consegnata anche ora nel 2013, come
all’epoca, proprio per ricordare le nostre radici, la veste nera con la buffa e con la corona
del rosario, perché tutti sappiano chi fa servizio, qual è la nostra storia e quali sono i nostri
valori: gratuità e anonimato.
Posso continuare? Bene. Quindi, si sta entrando nel mondo dei servizi.
E qual è la cosa più evidente che si vede nel mondo delle Misericordie? È facile:
l’ambulanza, l’ambulanza, i lampeggiatori accesi, la sirena, i fratelli che scendono con le
loro divise alta visibilità, con le scarpe anti infortunistiche, con i vari livelli: questa è la parte
più visibile, delle Misericordie. Senza nulla togliere a loro che fanno un servizio
encomiabile di presenza continua sul territorio, c’è un servizio che è ritenuto il servizio per
eccellenza della Misericordia ed è il servizio delle mutature.
Non vi faccio qui la domanda, non vi chiedo cosa sono le mutature perché non lo sapete.
Non sto raccontando una cosa che ho tirato fuori da qualcosa di 100 o 200 anni fa, è una
cosa che accade tutti i giorni da piazza Duomo.
Questo per far capire anche come Firenze sia riuscita nel tempo a forgiare un’altra opera
d’arte, un’altra eccellenza che non è la cupola del Brunelleschi, non è una statua, non è un
monumento: è un’altra eccellenza, ma questa volta è un sentimento, è un qualcosa che
nasce da dentro, è un’emozione che nasce dentro di noi. C’è un gruppo di fratelli, di
sorelle, circa cento, centoventi in questo caso, che tutti i giorni (e quando dico tutti i giorni
vuol dire Natale, Pasqua Ferragosto… tutti i giorni) a turno, tre volte al giorno, alla mattina,
il pomeriggio, armati solamente di guanti, vanno nelle case di quelle persone dove c’è
l’ammalato cronico, dove c’è l’infermo, dove c’è l’anziano che non può muoversi da solo,
che non ha la possibilità di pagarsi un badante o una badante, che quindi è nella necessità
di un aiuto. Questi fratelli, tutti i giorni, vanno in queste famiglie, arrivano li a mutare, cioè a
cambiare, a lavare l’infermo, a disinfettarlo, a rifargli il letto, a prenderlo e metterlo su una
poltrona la mattina, oppure in un altro posto e la sera fare l’operazione inversa, cioè
rimetterlo a letto, poi una carezza, poi una parola, soprattutto una parola di conforto nei
confronti della famiglia che sta subendo, perché noi si parla tante volte del malato cronico,
sì, ma pensiamo anche al contorno che c’è intorno, alle famiglie che stanno subendo a
volte questa situazione, ma per amore lo fanno. Ecco un conforto a loro, una parola: “Ciao,
ci vediamo domani, no domani non ci sono, io torno la settimana prossima perché domani
viene un altro fratello a fare questo servizio”.
Ecco, questo è quanto succede tutti i giorni da piazza Duomo: questo gruppo di fratelli a
rotazione si muove e va nelle famiglie. Quindi, dicevo, la parte visibile sono le ambulanze;
questo invece è un servizio estremamente silenzioso, estremamente delicato, che non tutti
riescono a fare, ma che viene sempre fatto.
Però, quando si parla di servizi, è logico, devo anche parlare di tutti quei fratelli che si
occupano di protezione civile, quei fratelli che si occupano di bambini, con il progetto
nostro che si chiama Sacra Vita, cioè dare futuro, dignità ai bambini ultimi del mondo con
le nostre missioni in Albania, in Moldavia, in Bielorussia, con il progetto delle “Dodici ceste”
(ci rifacciamo alla parabola della moltiplicazione dei pesci e dei pani, quando furono
sfamate cinquemila persone, ma i resti, gli avanzi non furono buttati via, ma furono raccolti
in 12 ceste). Bene, allora noi, in maniera artigianale, cosa abbiamo fatto? Abbiamo creato
due piccoli supermercati, riforniti un po’ da noi e tanto con l’aiuto del Banco Alimentare, e
possiamo dare la dignità, a persone che sono in difficoltà, di ritornare a fare la spesa,
gratuitamente, distribuendo questi cesti alimentari in questi piccoli due nostri supermercati.
Debbo ricordare tutti i fratelli che si occupano del disagio familiare, dei fratelli che si
occupano dell’uso responsabile del denaro, cioè tutte le persone che vanno a fare
formazione. E’ una miriade di servizi la Misericordia: quando parlavo di questa grandezza
dei servizi e della molteplicità dei servizi, è proprio perché ognuno possa trovare la propria
dimensione all’interno di una istituzione che ormai ha 770 anni.
La Misericordia non è vecchia, è antica, ma ha saputo cambiare nel tempo, come dicevo
prima, per questa saggia arrendevolezza ai mutamenti del tempo.
Ho tralasciato un po’ la storia, perché sono otto secoli, e raccontare otto secoli di storia
non è certamente facile, però posso dire che non ci sono stati né guelfi, né ghibellini, né
Lorena, né Medici, né la dominazione napoleonica, né quella tedesca, né l’alluvione di
Firenze: la Misericordia ha sempre operato giorno dopo giorno, non si è mai fermata un
attimo. E non parlo solo delle Misericordie di Firenze, posso parlare benissimo nel nome di
tutte le altre Misericordie, perché conosco, potrei dire personalmente, quello che fanno, e
questo lo fanno giornalmente. Posso dire che l’attuale sede storica della Misericordia, in
piazza del Duomo, di fronte alla cupola del Brunelleschi, di fronte al campanile di Giotto, è
a S. Giovanni, al Battistero: fu donata alla Misericordia nel 1576 da Francesco I de’ Medici
per gratitudine della città, in quel caso della famiglia de’ Medici che governavano Firenze,
per quanto faceva la Misericordia. E debbo dire che, in otto secoli, sia Firenze come città,
sia la Misericordia come sodalizio, sono cresciuti insieme, perché in otto secoli insieme,
capite bene che si cresce, ci si sviluppa insieme, si affrontano le criticità insieme e oggi
posso dire, lo posso dire con coscienza, che la Misericordia si è acquisita una
autorevolezza per tutto quello che svolge proprio per tutta la città. Fino a poco tempo fa,
quando passava un’ambulanza, non si diceva “Passa un’autoambulanza”, a Firenze si
diceva “Passa la Misericordia”: proprio per far capire come questa associazione è dentro
la mente dei Fiorentini.
E la Misericordia come festeggia Firenze? Con il suo patrono, san Sebastiano (lo
festeggiamo il 20 gennaio ogni anno). Abbiamo due patroni, uno è san Tobia, del Vecchio
Testamento, e l’altro appunto S. Sebastiano del Nuovo Testamento.
Bene, la Misericordia di Firenze, il 20 di gennaio di ogni anno festeggia il suo patrono, ma
festeggia Firenze, riprendendo una vecchia tradizione del 1575: all’epoca, la Misericordia,
visto che c’erano delle persone, delle famiglie in gravi difficoltà, acquistò centocinquanta
pani da distribuire alle famiglie povere. Questa tradizione non si è mai interrotta, dal 1575
fino ad oggi. Il 20 di gennaio distribuiamo un panellino benedetto a tutta Firenze: alle
scuole, agli enti, proprio in segno di comunione e di legame forte tra Firenze e la sua
Misericordia.
MONICA POLETTO:
Effettivamente staremmo ad ascoltare molto a lungo 770 anni di storia, e spiace doverci
trattenere così. Ho avuto modo di recente, accompagnata dal Provveditore, di visitare il
Palazzo della Misericordia ed è una storia veramente impressionante, però mi sembra che
la cosa che sia interessante trattenere è che oggi abbiamo capito perché, tutte le volte che
tra di noi al Meeting si parla di sussidiarietà, a un certo punto viene fuori la Misericordia; mi
sembra che sia emerso in un modo chiarissimo. Adesso passo la parola a Monsignor,,
Angelo Bazzari, Presidente della Fondazione Don Gnocchi. Grazie don Angelo.
ANGELO BAZZARI:
Grazie a voi, grazie dell’invito, grazie della vostra presenza. Io sono il terzo successore di
Don Gnocchi, e le proporzioni sono fra pigmei e watussi o fra nani e giganti; viviamo
all’ombra di questo gigante che è definito come seminatore di speranza, genio della carità,
illuminato profeta, e poi cappellano volontario nella seconda guerra mondiale, e divenuto
poi protagonista anche dei primi cinquant’anni della nostra storia del secolo scorso.
In una sua opera, Don Gnocchi, 1902-1956 (muore a 54 anni), scrive: “Ho sempre cercato
le vestigia di Dio in questo mondo; mi sembra di avere intravisto un’unghiata di Dio dentro
gli occhi casti e ridenti dei bambini, nel sorriso stanco e opaco dei vecchi” (noi siamo ormai
alla quarta età, parlando di anzianità, parlando di vecchi), e poi dice di avere “udito un’eco
lontano anche nel crepuscolo del morente”. Sono qui fissate le coordinate di Don Gnocchi,
e anche della nostra attività: dall’alba al tramonto, dall’inizio alla fine, dalla bara, se volete
dalla culla fino alla bara, questi sono i confini della sua attività.
Cosa lo ha ispirato? Non aveva lauree particolari, non era medico, non era assistente
sociale, si fa più presto usando il non che non il positivo, e ha fatto una esperienza di una
sensibilità unica perché è stato protagonista della ritirata di Russia, un’apocalisse che ha
visto la morte, una morte da una parte epocale, ma dall’altra anche molto clamorosa, di
tutti i nostri soldati. Da quella cattedra, da quell’università della sofferenza, del dolore, ha
imparato ad interessarsi profondamente dell’uomo, e di quel’uomo, in un altro suo testo,
dice: “Se torno vivo da questa esperienza, realizzerò un’opera di carità; non so quale, Dio
me la suggerirà, so però che la mia carriera è quella ormai di servire l’uomo a partire dagli
anelli più fragili, più deboli della situazione umana”. E in una sua lettera al cugino dirà
appunto: “Ho pensato questo: sono tornato vivo e a questo punto, non posso fare – dice al
Cardinal Schuster, suo superiore di allora – non posso fare il prete qualsiasi, o qualunque;
non posso andare in parrocchia, dopo questa esperienza devo realizzare qualcosa di
nuovo, di diverso, di inedito”, e come sapete poi ha trovato il terreno applicativo della sua
azione. Non ha costituito nessuna congregazione religiosa, maschile o femminile, e
quando sul letto di morte pronuncia questa frase – “amis, vi raccomando la mia baracca” –
era preoccupato di come continuare quest’opera, preoccupato su come questo patrimonio
valoriale potesse continuare. Non ha curato la restaurazione dei territori, slabbrati dalle
bombe, nemmeno si è interessato delle case, divorate dagli ordigni bellici, ma si è
interessato dei bambini, perché questa è la speranza, questo è il futuro, su questo bisogna
investire, su questo deve crescere il Paese. E’ su questi presupposti che ha raccomandato
“amis, preoccupatevi di questa baracca”.
La seconda slide dice: da quel 1956, 28 Febbraio 1956, alla beatificazione, perché Don
Gnocchi è stato beatificato il 25 di ottobre del 2009 in quella cattedrale a cielo aperto che
era piazza del Duomo di Milano, con oltre 50mila persone, con una platea televisiva di
oltre tre milioni di persone.
Queste sono le due tappe, che in qualche modo fissano il momento direi più esaltante di
Don Gnocchi. In mezzo a questo cosa ci sta? Ci sta la sua opera.
Parlava di un debito che deve pagare, di una cambiale da onorare, queste sono parole
sue, e l’ha onorata così. Noi, che siamo eredi continuatori di questa realtà, non possiamo
non ricordare che è nata nel 1952, almeno dal punto di vista giuridico formale, come
Fondazione pro juventute, diventata poi, dopo la sua morte, Fondazione pro juventute Don
Gnocchi, e nel 1998 il sottoscritto, insieme al Consiglio di Amministrazione, ha saldato
davvero Don Gnocchi con la sua opera, per cui oggi si parla di Fondazione Don Gnocchi,
e non altro. Ente morale nel 1952, diventa ONLUS nel 1998, approfittando della legge 460.
Abbiamo diversi centri, ma nel 1991 abbiamo avuto, da parte del Ministero della Salute
insieme al MIUR, il riconoscimento di Istituto di Cura a carattere scientifico, sia a Milano
che a Firenze, e nel 2001 siamo stati riconosciuti anche come ONG, consentendoci così di
operare, in maniera più titolata, anche all’estero. Oggi siamo presenti con due centri in
Africa, in Rwanda e Sierra Leone, dove praticamente facciamo quello che Don Gnocchi
faceva all’inizio: curiamo i minori, i piccoli soldati arruolati con la violenza, con interventi
molto semplici, per restituire la salute a questi bambini.
Abbiamo poi una Formazione CEFOS, dal 1972, riconosciuta anche dal Ministero della
Salute, e come provider nazionale, ECM, e anche nel 1972 e nel 2010. Qual è la nostra
missione? E’ quella di essere eredi e continuatori di un genio, come è stato Don Gnocchi,
la cui università, la cui scuola è stata questa del dolore, della sofferenza, ma non per un
dolorismo di cui troviamo traccia anche in un certo mondo cattolico, ma di una sofferenza
nella ricerca del senso, del significato di questa sofferenza, di questo dolore, in una
prospettiva evidentemente costruttiva.
Noi abbiamo ereditato tutto questo e lo promuoviamo, cercando di fare cultura, di vedere
davvero i bisogni dell’uomo, quelli vecchi e nuovi, quelli nuovi che sono vecchi, quelli
vecchi che possono diventar nuovi, quelli emergenti, quelli sommersi – insomma,
dobbiamo cercare con questa sonda di perforare un attimino la cultura e la situazione del
nostro Paese, per cercare di sintonizzarci con le risposte. Don Gnocchi, cosa ha portato di
nuovo? Si è allineato a tutta quella schiera di santi o di benefattori dell’umanità che hanno
beneficato la nostra società, ma l’assistenza l’ha rivestita di riabilitazione: non basta quindi
curare e cinturare di amore e di attenzione il bisogno, o meglio le persone che sono in uno
stato di fragilità, di bisogno: cerchiamo di recuperarle, per farli diventare cittadini
possibilmente attivi dentro la società, non creando delle isole beate di assistenza ma
rendendoli protagonisti.
Quando dico questo, ho presente bene tutti i percorsi, gli itinerari di quanto sto dicendo,
ma questo è l’orizzonte, la bussola di orientamento del nostro operare. Noi sviluppiamo,
partecipando a quello che Don Gnocchi ci diceva, l’ispirazione ai principi della carità
cristiana, come è stato richiamato, e quando diciamo carità non siamo attestati solo sulla
beneficenza, l’elemosina, il filantropismo; la carità dice sempre di più e oltre, dice
l’ennesima potenza, dice l’inesauribile. Tutto quello che noi realizziamo trova radice lì, ma
è come un albero al rovescio, che ha le radici verso il cielo e i frutti li facciamo cascare qui
sulla terra.
Poi abbiamo un rapporto con il volontariato. Nella nebulosa del non-profit sta la
Misericordia, con quanto abbiamo sentito, ma ci stiamo dentro anche noi, che ci
impegniamo a realizzare questa nostra missione lavorando su tre leve, su tre pedali, che
sono integrati, costitutivi della nostra azione, perché siamo eredi di quest’opera che
vogliamo ridefinire e rigiocare oggi, in un universo di bisogni certamente un po’ diversi ma
con le caratteristiche che segnano e configurano la persona umana.
La dimensione della solidarietà sociale. Chi è con noi? Motivazioni forti, impegni precisi e
capacità di dedicare la propria professionalità, travasandovi dentro tutto quello che la
carità richiese, in questo caso anche la giustizia, perché ci vuole amore per poter
soddisfare i diritti che la giustizia fissa.
E poi la dimensione tecnico scientifica. Noi sviluppiamo all’interno della nostra Fondazione
la bioingegneria: abbiamo l’Istituto tecnico e cerchiamo di utilizzare tutte le tecnologie più
avanzate; abbiamo rapporti con la Comunità Europea, traduciamo tutte le tecnologie
assistive, siamo collegati con diversi Paesi europei nei progetti che andiamo a realizzare,
mettendo la scienza, il sapere e la tecnica al servizio dell’uomo.
Del resto questa scienza e queste tecniche e tecnologie più avanzate, anche le più
sofisticate, rispondono al come dobbiamo curare, quindi contenere, arginare, risolvere i
problemi, laddove possibile, ma resta sempre la domanda sul perché, sul senso del
dolore, della sofferenza. Che tipo di condivisione è possibile spendere, giocare in questo
bisogno?
E poi la dimensione organizzativa e gestionale. Oggi sta prevalendo tutto questo, ci stanno
dicendo giustamente che le chiavi di questa società ce l’hanno in mano i ragionieri, i
contabili, ed è un’esperienza che facciamo anche noi. Sostenibilità, questa è la parola
magica. Chi vive nella sanità sa che ci sono sette o otto termini che di volta in volta
vengono giocati su diversi tavoli, dal quelli del Ministero, delle Regioni, delle ASL, dei
Comuni. Adesso è la sostenibilità. Dico queste cose perché credo che soprattutto il mondo
del non-profit, soprattutto quello di matrice religiosa, stia vivendo momenti drammatici, con
delle difficoltà in parte dovute a mancati aggiornamenti nella dimensione della
organizzazione gestionale, ma anche a questa incapacità ad uscire da questa situazione
organizzativa gestionale.
Del resto l’umanizzazione ormai sta diventando uno degli obiettivi anche dei piani sociosanitari
regionali.
A chi ci rivolgiamo? Ci siamo interessati, più che delle malattie, dei malati, e dei malati
abbiamo questa vasta gamma: dalla sclerosi multipla alla sclerosi laterale amiotrofica,
Alzheimer, Parkinson, gravi cerebro lesionati. Quali sono gli ambiti della nostra attività?
Abbiamo il 74% della nostra attività in sanità riabilitativa, 17% socio-assistenziale e 5%
socio-educativa. Abbiamo un migliaio di disabili, naturalmente non istituzionalizzati ma con
le formule più diverse, che vanno dall’appartamento alla famiglia, alle comunità, anche col
sostegno dei day hospital.
Le strutture sono 28 in tutta Italia, siamo presenti in 9 regioni d’Italia, il 60% della nostra
attività è in Lombardia, perché questa è stata un po’ la culla del nostro impegno.
L’articolazione e il servizio. Ho già detto che abbiamo due Istituti di Ricovero e Cura, 9
unità di riabilitazione ospedaliera, 22 unità polifunzionali, 2 case di cura, 4 unità per gravi
cerebro lesioni acquisite, 32 ambulatori territoriali, 3 hospice per malati oncologici
terminali, 8 residenze per anziani con 1200 posti letti. Poi tutto il resto: centri di formazione
diurni per disabili, centri diurni per disabili sparsi sul territorio. Posti letto: siamo a 3602
posti letto accreditati e operativi di degenza piena, 1200 nelle RSA per anziani.
Ogni giorno accedono ai nostri servizi quasi 10.000 persone, curate e assistite ogni giorno.
Le risorse umane. Abbiamo 5700 operatori, di cui 3970 sono dipendenti a tempo pieno, a
tempo indeterminato poche centinaia, il resto sono collaboratori professionali e migliaia di
volontari che integrano la nostra attività.
Chiudo questa prima parte con una frase che riscontriamo nel testamento spirituale di Don
Gnocchi, La pedagogia del lavoro innocente, le cui bozze sono state corrette anche
qualche giorno prima della sua morte, dove dice (e qui c’è tutto, ci sono tutti i profili
integrativi e costitutivi della nostra attività): “Nella misteriosa economia del cristianesimo, il
dolore degli innocenti è permesso per manifestare le opere di Dio, quelle degli uomini,
l’amoroso inesausto travaglio della scienza, quindi la scienza a servizio dell’uomo, le
opere multiformi dell’umana solidarietà”. Don Gnocchi ha una visione molto laica della vita,
chi legge le sue opere trova una freschezza di linguaggio e anche di impostazione davvero
nuova e trova i prodigi della carità soprannaturale, che come ho detto è semplice
semplice, di più e oltre.
MONICA POLETTO:
Grazie, don Angelo. Gianluca presentati, presentaci magari un po’ brevemente la
Cooperativa Giotto, che in parte tanti di noi hanno già avuto modo di conoscere, e magari
facci uno spaccato sulla grandezza della cooperazione sociale nel nostro Paese.
GIANLUCA CHIODO:
Innanzitutto grazie, ringrazio il Meeting per avermi invitato e ringrazio voi per essere
presenti. Io sono il responsabile dell’area giuridico del Consorzio Sociale Giotto di Padova,
che è noto soprattutto per le attività nel carcere di Padova, a cui aderiscono tre
cooperative sociali, tutte di Padova anche queste, con capofila la Cooperativa Giotto, che
probabilmente è quella più nota.
Oggi il consorzio impiega stabilmente più di 450 lavoratori, tra i quali circa 130 detenuti,
sia in attività interne che in attività esterne del carcere di Padova e una 70 di disabili in
attività molto diversificate, come si conviene ad una cooperativa sociale che si rispetti,
come la manutenzione di aree verdi, servizi di pulizia, la raccolta e trasporto di rifiuti, la
gestione di parcheggi, servizi di ristorazione, pasticceria nel carcere di Padova, servizi di
call-center, attività di montaggio e tutte le altre attività che vengono eseguite in carcere.
Le cooperative sociali associate a consorzi sono tutte di tipo B, cioè hanno lo scopo della
promozione umana, dell’inserimento, della promozione umana e della integrazione sociale
di cittadini svantaggiati attraverso il loro insediamento lavorativo; cioè il nostro scopo è
quello di creare occasioni di lavoro per le persone svantaggiate, che la legge 381 del 1991
sulle cooperative sociali definisce svantaggiate, quindi disabili fisici e psichici,
tossicodipendenti, alcolisti e detenuti.
Il motivo conduttore della nostra storia è per noi soltanto uno ed è il lavoro. Il lavoro per noi
è connotato da due fattori che sono tra loro complementari e inscindibili. Il primo fattore è
la qualità di servizio: tutte le nostre attività, tutti i lavori che facciamo per noi devono
essere fatti bene, devono essere fatti con qualità e professionalità, perché abbiamo
imparato nel corso della nostra storia che senza la professionalità, senza la qualità di
quello che facciamo, l’azione sociale si perde, cioè è la professionalità che sostiene il
sociale e non viceversa. Se non è così, l’azienda sociale è destinata a morire, perché i
committenti in assenza di risultati qualitativi in linea con il mercato tendono a non fidarsi
più e quindi a non affidarci più i lavori. Dall’altro lato, senza qualità, le caratteristiche, le
capacità di ogni persona, comprese quelle svantaggiate, non sono valorizzate appieno, e
le persone nel tempo perdono motivazione ed autostima. Invece è il contrario: con la
qualità e la professionalità, anche chi parte da situazione di disagio personale è spinto a
dare il meglio di sé. Questo chiaramente è una sfida continua, perché provate voi a
lavorare con disabili e detenuti che magari, in vita loro, non hanno mai fatto niente, cioè
non sanno cosa sia il lavoro; nel caso dei detenuti è tipico che in vita loro non abbiamo
mai lavorato ed abbiano sempre vissuto di espedienti diversi. Però solo questo livello
consente la stabilizzazione ed il recupero delle situazioni di disagio. Se invece chiediamo
poco, giocando al ribasso, otteniamo pochissimo in termini di produttività ed ancor meno in
termini umani e sociali.
Faccio solo qualche esempio, magari qualcuno conosciuto, però lo ricordo lo stesso. La
pasticceria del carcere, che noi gestiamo nel carcere di Padova, sforna prodotti di
eccellenza che hanno ricevuto tantissimi premi, probabilmente molti di voi li avranno
assaggiati, e sono prodotti creati, fatti tutti i giorni dai detenuti, che hanno imparato a fare i
pasticceri con grande soddisfazione, con grande professionalità. Oppure, per un
committente produttore di valigie per una nota azienda italiana, i nostri dipendenti hanno
imparato ad assemblarle talmente bene che questo produttore, non ha più scarti. Lui,
prima di affidare la commessa a noi, portava la produzione all’estero, voleva spendere
meno, chiaramente, però all’estero aveva il 30% di scarti; quando ha portato la produzione
nel carcere di Padova, l’assemblaggio di queste valigie gli dà scarti praticamente azzerati.
Oppure, terzo esempio, per un altro committente abbiamo i detenuti che controllano che
gli agenti commerciali di questo cliente, quando vendono i contratti al pubblico, quando
vendono i contratti ai clienti, si siano comportati regolarmente, perché accade anche che
gli agenti commerciali tentino di portarsi a casa contratti non troppo regolari o addirittura in
frode ai clienti. Da quando questa attività è svolta dai carcerati del due palazzi di Padova,
la percentuale di contratti conclusi in frode ai clienti è calata del 20%. Questo magari ci
può far dire, anche con un certo paradosso, che ci sono dei detenuti nel carcere di Padova
che svolgono una funzione di prevenzione generale di reati, rispetto ai cittadini liberi.
Chiaramente per le attività esterne il principio è lo stesso. Anche lì abbiamo bisogno della
qualità di servizi, anche nei servizi più semplici, come per esempio le manutenzioni,
perché i nostri committenti tendono a non fidarsi troppo di una cooperativa sociale, perché,
in fondo in fondo, la cooperativa sociale è vista sempre come il parente povero delle
imprese non-profit, è un soggetto che non è che dia proprio tanta affidabilità. Quindi se
una impresa normale deve dare 100 per ottenere stabilità del lavoro, noi dobbiamo dare
105/110, perché altrimenti il committente non si fida di noi.
Il secondo fattore che connota il nostro lavoro è rappresentato dalle relazioni. Per noi
questo è un fattore fondamentale, noi chiediamo sempre ai nostri interlocutori di venirci a
trovare, di venire a vedere quello che facciamo, perché con i discorsi molto spesso non si
ottiene niente, non si convince nessuno, invece se vengono a vedere si convincono. Da
noi, per esempio nel carcere di Padova, sono passati politici di tutti gli schieramenti,
imprenditori, dirigenti pubblici, rappresentanti di tutte le associazioni, e si sono resi conto,
attraverso la visita alle attività, si sono resi conto del bene che queste attività portano.
Chiaramente tutti i percorsi di inserimento lavoratori delle persone svantaggiate non li
lasciamo al caso. C’è un ufficio preposto che si chiama ufficio sociale, dove lavorano
persone competenti, sono sociologi del lavoro, psicologhe cliniche, e valutano l’andamento
degli inserimenti attraverso alcuni indicatori di risultato. Questi indicatori sono utilizzati per
tutti, sia per il disabile che per il detenuto, si esamina la condizione psicofisica generale, il
grado di benessere e di soddisfazione personale e la capacità di autonomia acquistata sul
lavoro. Questo si valuta nel tempo, e se l’inserimento funziona, il soggetto nel tempo ha
per esempio minor bisogno di accedere a cure mediche, minor bisogno di ricoverarsi,
minor bisogno di usare sostanze alcoliche o stupefacenti, e assicura una presenza molto
più costante sul posto di lavoro. L’assenteismo viene quasi annullato. E nel caso di
detenuti viene persa progressivamente la tendenza a delinquere.
Perché questo avvenga, però, chiaramente voi capite che l’inserimento di una persona
svantaggiata, attraverso la valutazione di questi fattori, richiede un tempo N, cioè richiede
un tempo che può essere più o meno lungo, ma comunque non standardizzabile.
Il fattore assolutamente principale per poter compiere queste valutazioni è che queste
persone abbiano la stabilità lavorativa. Quando le cooperative sociali non hanno la
possibilità di garantire la stabilità lavorativa alle persone svantaggiate che fanno lavorare,
le conseguenze sono disastrose. Io leggo alcuni dati da una ricerca che mi è stata passata
che riporta dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e riporta i dati delle
conseguenze sull’inclusione sociale per una persona svantaggiata che perde il lavoro:
inizia a perdere la propria identità sociale e vive con fatica quasi insormontabile anche le
cose che ai nostri occhi possono sembrare banalissime, come per esempio alzarsi dal
letto, mangiare o vedere un amico o un parente. Presenta disturbi depressivi molto
frequenti, effettua visite mediche con una frequenza tripla rispetto alle persone che
lavorano, si ricovera con frequenza quattro volte superiore e fa uso di gran lunga superiore
di farmaci. Rischia l’emarginazione. Voi pensate, ci sono moltissimi casi di persone senza
fissa dimora che provengano da situazioni di svantaggio come quelle che abbiamo visto
prima e, nel caso che ci riguarda più da vicino, aumenta la tendenza a delinquere,
commette reati, con tutto quello che ne consegue. Se invece, alle persone svantaggiate,
viene garantito un lavoro in un contesto stabile e duraturo, questo costituisce una concreta
risposta in termini di inclusione sociale, non solo per sé ma anche per le famiglie: voi
pensate ad un disabile che perde il lavoro e che deve tornare completamente a carico
della propria famiglia di provenienza, con tutto il carico assistenziale che grava solo su
questa famiglia, che il più delle volte è lasciata sola. E poi per la comunità nella quale la
persona è inserita, perché tutta la comunità beneficia del fatto che una persona che ha
problemi ha una prospettiva di vita.
Fin qui gli esiti umani “sociali” che porta il nostro lavoro. Però tutti quanti sappiamo che
l’azione della cooperativa, come la nostra, ma di tutte le cooperative sociali italiane, porta
un beneficio clamoroso alle finanze pubbliche; e qui faccio alcuni esempi, magari facciamo
partire la prima slide. Probabilmente molti di voi hanno partecipato all’incontro che c’è
stato ieri mattina su “carcere e giustizia”. E’ stato detto un dato impressionante sulla
recidiva: la recidiva è il problema delle carceri, cioè i detenuti che escono dal carcere
tornano a delinquere in una percentuale quasi totale, siamo oltre il 90%. Per chi invece
segue percorsi di inserimento lavorativo, iniziando all’interno del carcere e poi
proseguendo all’esterno, questa percentuale viene praticamente azzerata.
Allora a questo sono collegati dei numeri, lo diciamo così per simpatia: lo stato spende
circa 250 euro al giorno, tra costi diretti e indiretti, per ogni detenuto, che vuol dire più di
90.000 euro all’anno che pesano sulle casse statali e quindi di tutti noi, per ottenere in
cambio nessuna rieducazione e, come detto, una recidiva pressoché totale. È esattamente
il contrario di quello che prevede la Costituzione. Grazie al lavoro, questa tendenza viene
invece nettamente invertita, quindi i costi sono abbattuti ed il detenuto da costo per lo
Stato diventa risorsa, perché inizia a lavorare ed inizia ad essere produttivo.
Se passiamo ad altre tipologie di svantaggio, se vedete la slide, il risparmio derivante dal
lavoro può essere quantificato in questo modo. Sono ricerche fatte un paio di anni fa, ma
sono ancora attuali. Per ogni disabile fisico, inserito al lavoro, si va da 15 a 30 mila euro
all’anno di risparmio per le casse dello Stato. Se un disabile è psichico, 50 mila euro
all’anno, minori in età lavorativa 18.000 euro all’anno, dipendenze 14 mila euro all’anno,
ed i detenuti costano 90 mila euro all’anno. Questo tra l’altro riguarda solo le categorie di
svantaggiati previsti dalla 381, ma oggi, come sappiamo, ci sono tantissime nuove povertà
che stanno emergendo, quindi sarebbe interessante vedere che risparmio procurano
anche i lavori dalle nuove categorie: pensiamo ai cinquantenni che perdono il lavoro, per
esempio.
Concludo dicendo un po’ di numeri che riguardano le cooperative sociali oggi in Italia.
Prima è stato detto, nell’introduzione, il dato che riguarda tutto il settore del non-profit: le
cooperative sociali sono una bella fetta del non-profit italiano, oggi sono 11.300 tra tipo A e
tipo B, che raggiungono con i loro servizi 6 milioni di cittadini e occupano 365 mila
dipendenti. Come è stato detto prima, tutto il settore del non-profit vede una crescita
costante del numero di dipendenti, in controtendenza rispetto al dato nazionale. Nelle
cooperative sociali questo dato è 17,3% dal 2007 al 2011, 4% nel 2012 ed anche oggi
sappiamo che, nonostante tutto, le cooperative sociali stanno tenendo.
MONICA POLETTO:
Grazie, grazie. Adesso devo chiedervi il sacrificio di un tempo brevissimo, quindi vi chiedo
dei flash su questo secondo punto, avendo anche la possibilità di avere qui il Ministro, un
breve flash su quali sono le principali difficoltà che identificate nel settore del non-profit.
Passerei la parola ad Andrea Ceccherini.
ANDREA CECCHERINI:
Sì, velocissimo. Intanto, non-profit non significa no problem, anzi tutt’altro, ne abbiamo di
problemi… Il valore economico del volontariato in Italia è di 7 miliardi e 700 mila euro; ogni
euro investito nel volontariato rende 12 euro, quindi è un bell’investimento. In Italia circa il
26% degli italiani svolgono un’attività di volontariato. Io concludo qui dicendo: signor
Ministro, noi, al di là di questi numeri, quanto valiamo per voi?
MONICA POLETTO:
Grazie, anche per la sintesi. Don Angelo.
ANGELO BAZZARI:
Sì, non intendo sgranare una specie di lamentela o di geremiade, perché ce ne sono a
iosa rispetto alle istituzioni, non per le attese ma talvolta per i ritardi nelle decisioni, i ritardi
nei pagamenti, i ritardi nell’accogliere non più tanto il rapporto pubblico-privato in termini
surrogatori, ma in termini di integrazione e come possibilità, con i titoli e gli accreditamenti
riconosciuti, di operare. Quindi, al di là dell’elenco dei problemi, mi ero annotato qui tutta
una serie di modelli del welfare che abbiamo avuto in questi anni, per arrivare a quello che
vedo io in questo momento, che è il welfare più di community. Che ruolo dare a questo
mondo del non-profit? Non possiamo farci scaricare, come se fossimo il tubo di
scappamento della macchina. Noi ci possiamo impegnare a cercare davvero, in coerenza
con il nostro carisma e con la piattaforma dei valori e degli ideali che abbiamo, possiamo
cercare di caricarci le aree di maggiore fragilità, di povertà, di individuare anche le
proposte per i bisogni che sono più dimenticati, o perché anestetizzati o perché
mimetizzati dentro questa società. Ci offriamo anche per tentare di monitorare i diversi
problemi, perché, come sempre, questi bisogni poi spesso sono carsici, esplodono, poi di
nuovo conoscono il sottopelle di questa nostra società. Ci possiamo mettere a
disposizione per quello che già facciamo, per potenziare maggiormente, sperimentare
modelli organizzativi diversi, nuovi, per individuare anche approcci adeguati, possibili
sinergie formative, gestionali, operative, insomma tutta una serie di cose.
Ma quello che mi interessa è che dobbiamo anche tenere bene distinto quello che è il
mondo del profit e del non-profit, pur cercando le collaborazioni, perché le prospettive che
io temo sono quelle di una maggiore competitività, che, anziché portare a migliorare la
qualità dei servizi, punta unicamente ai tagli di risorse e di disponibilità. Noi ci impegniamo,
naturalmente, a puntare su una professionalizzazione dei nostri operatori, ad avere una
gestione manageriale molto più marcata, mettendo insieme la solidarietà con la
professionalità. Siamo disponibili ad accettare anche questa sfida di qualità, possiamo
anche affrontare la concorrenza a livello europeo, perché, mentre da noi ci si regionalizza
sempre più, nel 2014 si apriranno le frontiere europee anche per la sanità, e rischiamo di
vederci di nuovo, probabilmente, un risucchio: non più i treni della speranza dal Sud verso
il Nord del nostro Paese, ma anche qualche fuga, con attrazioni attive o passive, verso
l’Europa. Dobbiamo poi affinare anche i nostri servizi, per conferirvi valore aggiunto,
migliorando la capacità di curare e anche di comunicare. Ho messo lì tutto un elenco di
cose, ma non c’è tempo per entrare a dibattere. Grazie.
MONICA POLETTO:
Sì, sono dei flash che lanciamo e che lasciamo alla riflessione di tutti, dando la parola, al
volo, a Gianluca.
GIANLUCA CHIODO:
Ai dati che ho dato prima, ne aggiungo uno che rende ancora meglio l’idea. Le cooperative
sociali e tutte le altre realtà del terzo settore non soltanto costituiscono un aiuto formidabile
alle fasce deboli, non soltanto creano posti di lavoro, ma negli ultimi tempi sono diventate
anche la banca preferita dalla Pubblica Amministrazione. Se è vero, come dice una
recente indagine di Banca Prossima, che dei 37 miliardi di debito complessivo che la
Pubblica Amministrazione ha verso i propri fornitori, il 70%, cioè 25 miliardi, sono debiti
verso il terzo settore. Quindi è evidente a tutti che le cooperative sociali danno un
contributo decisivo al sistema di welfare italiano, anche se negli ultimi tempi ne è stata
messa in dubbio la funzione e la specificità. Ci sono argomenti come IVA, Imu e
affidamenti di servizi, che tutti noi conosciamo bene, che sono temi che ci mettono in forte
difficoltà. Io parlo soprattutto della questione dell’affidamento di servizi, perché l’ho seguita
da vicino negli ultimi anni, anche con l’autorità di vigilanza sui contratti pubblici.
C’è un problema di fondo, che è il rapporto tra gli affidamenti alle cooperative sociali e la
tutela della concorrenza del mercato. Questi affidamenti sembra che stiano in una zona
grigia, cioè in una terra di mezzo che non è completamente né Stato né mercato, perché
tengono insieme due elementi che sembrano inconciliabili, cioè sono per forza insieme,
ma sembra che non possano stare insieme. Uno è di natura privata, cioè è il servizio reso
all’ente per il quale la cooperativa viene pagata; l’altro però è il servizio, completamente di
natura pubblica e di funzione pubblica, che è l’inclusione lavorativa. La legge italiana
aveva privilegiato, con la legge del 1991 sulle cooperative sociali, la parte pubblica, era
evidente questo, perché aveva previsto uno strumento di natura sussidiaria, che era la
convenzione, cioè l’affidamento senza gara, che teneva conto di questa specificità e del
fatto che la natura e la funzione della cooperazione era innanzitutto una funzione pubblica.
La legge Quadro sul welfare del 2000 sembrava avesse ribadito questo, perché aveva
previsto un principio, che poi è rimasto sulla carta, che è quello della co-progettazione;
cioè, i soggetti privati venivano chiamati allo stesso tavolo del pubblico per programmare e
gestire assieme i servizi di welfare, i servizi sociali. Oggi, per diversi motivi, le convenzioni,
cioè l’articolo 5 del Trattato 1 che prevede l’affidamento diretto, sono state relegate in un
angolo, sono usate pochissimo; la co-progettazione, come detto, è rimasta una bella
intenzione, e anche le clausole sociali, che sarebbero quelle clausole che vengono inserite
negli appalti sopra soglia, con cui si obbliga il giudicatario a eseguire il servizio con
persone svantaggiate, stentano a decollare, perché comunque vengono aggirate, perché
ci sono società che usano le cooperative sociali per aggiudicarsi gli appalti, e poi chi s’è
visto s’è visto.
Qual è il problema secondo noi, secondo me? Il problema è che oggi sta prevalendo
l’interpretazione che fa delle cooperative sociali un fornitore della Pubblica
Amministrazione, non un partner privilegiato. E se siamo dei fornitori siamo trattati come
fornitori, cioè dobbiamo per forza sottostare alle regole della concorrenza del mercato. E
l’elemento dell’inserimento lavorativo, perciò, diventa un accessorio. Bellissimo, ci fanno i
complimenti, ma è sempre un accessorio. Questo, però, ha delle conseguenze. Abbiamo
visto prima i risultati che porta l’azione delle cooperative sociali: se questo risultato non è
possibile, ci sono delle conseguenze. Noi possiamo dire, per esempio, a un disabile, a un
tossicodipendente, a un detenuto, “ti posso recuperare soltanto fino a 200 mila euro,
perché bisogna rispettare il limite di soglia, poi t’arrangi”? Oppure: “Guarda, l’anno
prossimo cambia cooperativa, perché, siccome il codice degli appalti prevede il criterio di
rotazione, devi cambiare cooperativa”? Nelle intenzioni del legislatore del 1991, come ho
detto, era chiaro che doveva prevalere l’aspetto sociale, e le attività affidate erano lo
strumento attraverso il quale si realizzava l’aspetto sociale. Non è più così: molti enti non
si fidano. Nonostante anche l’autorità di vigilanza, un anno fa, abbia ribadito la piena
operatività dell’istituto.
Credo che ciascuno dei cooperatori che è qui presente potrebbe raccontare decine di
episodi tra il comico e il surreale con la Pubblica Amministrazione. Io ne racconto solo un
paio per dare l’idea. Un ente non ci ha più rinnovato la convenzione perché non si poteva,
doveva andare in gara per forza. Ci chiama qualche giorno dopo l’Ufficio Categorie
Protette dello stesso ente, chiedendoci se avevamo dei posti per inserire i loro disabili.
Evidentemente c’è qualcosa che non quadra, perché un altro ufficio dello stesso ente ci
aveva appena tolto il servizio! Un altro caso, un’aggravante: la stessa persona mi dice
“guarda, mi dispiace, ma il servizio che fate voi dobbiamo metterlo in gara. Però, senti,
avrei un parente cinquantenne che ha appena perso il lavoro: non è che potete fare
qualcosa?”. E io gli ho detto: “Senti, no! Mi hai appena tolto il lavoro, dove lo metto?”.
Oppure, terzo caso, questo è assurdo: l’anno scorso è stato fatto un convegno a Padova
sull’applicazione della legge regionale sulle cooperative sociali, e un dirigente dell’UlS ha
chiesto se la Regione Veneto non potesse emanare una circolare per farsi dire che la
legge regionale sulle cooperative sociali, nella parte sulle convenzioni, era applicabile.
Quindi aveva bisogno di uno strumento che non è legge. Quindi c’è evidentemente
qualcosa che non va, c’è molta confusione su questo tema! Potrei citare il Mepa ma
lasciamo perdere.
Ad alimentare questa confusione c’è, intanto, il panorama normativo generale in materia di
appalti pubblici; dal 2006 ad oggi ci sono state centinaia di modifiche al Codice degli
appalti, senza contare il Regolamento di attuazione, le sentenze del Tar e del Consiglio di
Stato, gli atti dell’autorità di vigilanza, soltanto per stare a quelli principali. È una
produzione abnorme che, invece di facilitare la vita ai funzionari che devono prendersi
delle responsabilità, alimenta soltanto la burocrazia e la confusione, con un impianto di
norme che tra l’altro, secondo noi, è molto preoccupato di garantire, di verificare i requisiti
di accesso alle gare, ma in realtà poi, quando la gara è stata aggiudicata, si preoccupa
pochissimo di andare a vedere i risultati; mentre, per le cooperative sociali, sarebbe
interessantissimo invece verificare i risultati.
Perché dico questo? Perché noi spesso ci lamentiamo con gli enti pubblici, e spesso
abbiamo ragione, perché lavorano poco e male; però io mi metto nei panni di un
funzionario che si trova davanti questa sterminata selva di norme, in mezzo alla quale si
deve districare, senza la paura di incappare magari in un ricorso al Tar, o in un esposto
alla Corte dei Conti, che ci viene continuamente ricordato.
Noi crediamo che le principali questioni che mettono in difficoltà le cooperative sociali
abbiano un’origine comunitaria, che è dovuta, secondo noi, con tutta probabilità, proprio
come si diceva prima, a un problema di conoscenza. Il nostro è un settore che lavora
tantissimo, ma che in realtà non è molto conosciuto, e meno ancora a livello comunitario.
Negli ultimi anni, questa tendenza si è un po’ invertita, grazie anche al lavoro molto
preciso e meticoloso di alcuni rappresentanti che cercano di far conoscere la realtà
italiana, la specificità italiana del terzo settore. Uno di questi, per esempio, che cito, è qui,
è Beppe Guerini, che lavora al CESE, e che cerca di sensibilizzare la Comunità Europea
su questi temi. La Comunità Europea effettivamente sta dando dei segnali positivi. Cito tre
atti che sono stati approvati soltanto negli ultimi anni. Il primo in ordine di tempo è dello
scorso 12 giugno: il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione che impegna le
istituzioni comunitarie a promuovere lo sviluppo di cooperative e imprese dell’economia
sociale, riconoscendone il ruolo essenziale, specie in tempi di crisi. Secondo
provvedimento europeo molto importante: è stato da poco licenziato il testo della nuova
Direttiva Appalti, che contiene l’importantissima, per noi, possibilità delle gare sopra soglia
riservate alle cooperative sociali, importantissima perché consentirebbe, evidentemente, di
sviluppare negli anni una progettualità sociale che altrimenti sarebbe bloccata. A ottobre
2011 era stato approvato dalla Commissione Europea il documento “Iniziativa per
l’imprenditoria sociale”, che tra le tante cose aveva proposto proprio azioni di sostegno alle
imprese sociali per migliorare l’accesso ai finanziamenti, la visibilità e il contesto legale di
riferimento.
Quindi, se guardiamo il quadro giuridico, è tendenzialmente favorevole. Però occorrerà
che tutte queste iniziative si traducano in atti concreti, perché altrimenti chi si deve
prendere la responsabilità di una scelta, non può misurarsi se non ha degli strumenti certi,
sicuri, senza paure e incertezze, come invece oggi accade sempre. Per questo, secondo
me, sarà necessario che indaghiamo a fondo il significato delle regole che vogliamo
applicare, dove portano e che conseguenze hanno per la vita delle persone. In realtà, la
cultura giuridica dominante, non è che ci aiuti molto, perché noi siamo abituati a pensare
alle regole, alle norme giuridiche come a qualcosa che attiene essenzialmente alla
burocrazia e al potere. Ricordava tempo fa un giudice della Corte Costituzionale, che
siamo come affetti da una grande superficialità: si studiano, si subiscono una serie di
regole della vita sociale senza mai lasciar sorgere la domanda sul loro significato, sul loro
senso profondo, sulla loro origine. Noi diciamo: è vero, le regole che ci diamo devono
tener conto di tutti e due i diritti, del diritto di cittadini ad avere i servizi e del diritto delle
imprese a poter accedere a pari condizioni a questi servizi. Però noi dobbiamo chiederci
se in certe situazioni ci sia un diritto sacrificabile in nome di un diritto più alto, soprattutto
quando le scelte incidono sulla vita dei cittadini più indifesi. Per esempio: se noi
applichiamo le regole della concorrenza del mercato agli affidamenti, che contemplano
l’inclusione lavorativa, l’inserimento lavorativo degli svantaggiati, le conseguenze sono
quelle che abbiamo visto prima, alla lunga perdono il lavoro, incidono sulla loro vita e sulle
tasche di tutti quanti. Oppure, se l’IVA passerà dal 6 al 10% per le prestazioni sociosanitario-
educative, si taglieranno per forza i servizi di inclusione sociale, oppure
aumenteranno i costi a carico dei cittadini.
Mi chiedo: non ci sono proprio alternative? Sono queste le regole che ci vogliamo dare per
costruire il welfare del futuro? Quindi, in conclusione, ci interessano moltissimo i segnali di
sensibilità che l’Europa ci sta mandando; noi chiediamo di poter avere degli interlocutori
attenti, con cui poter dialogare di questi temi apertamente, raccontando chi siamo e cosa
facciamo e cercando di individuare le soluzioni più giuste per tutti, perché il terzo settore
italiano possa continuare a portare un contributo fondamentale al bene di tutti.
Grazie.
MONICA POLETTO:
Grazie, grazie. Do prontamente la parola al Ministro, a cui abbiamo lanciato un po’ di
provocazioni. È risultato evidente, mi sembra, che c’è un’emergenza welfare in Italia, che
diventa l’emergenza legata ai soggetti del welfare. Sono state dette cose molto importanti
sulle cooperative, certamente abbiamo un problema di normativa frammentata e spesso
inapplicabile, che rende difficilissimo fare welfare in Italia e portare avanti soggetti nonprofit.
Il problema è che si scrive sussidiarietà e si legge franchising, nel senso che
spessissimo molti dei nostri enti sono considerati fornitori a basso costo della Pubblica
Amministrazione, senza che realmente ci sia un dialogo sulla lettura del bisogno e sulla
progettazione. Inoltre c’è il problema gravissimo della precarietà economica e del ritardo
dei pagamenti, abbiamo l’aumento dell’IVA che incombe, c’è stata questa discussione in
materia dell’Imu che ha fatto percepire una difficoltà di dialogo reale con l’Europa.
Insomma, avremmo tantissime cose da mettere sul tavolo, molte questioni sono questioni
italiane, molte questioni sono questioni che interpellano, invece, l’Europa. Perciò Le
chiediamo di reagire a quello che ha sentito, dicendoci anche cosa si agita in Europa in
materia di welfare e di terzo settore, e le chiediamo come sia possibile far comprendere la
specificità e la grandezza di una certa storia, di un certo presente del non-profit italiano, e
le ricadute che ha sul nostro sistema di welfare, cioè sul benessere delle persone. Grazie.
ENZO MOAVERO MILANESI:
Grazie. Anch’io ringrazio il Meeting per questa opportunità. Soprattutto perché il tema,
come abbiamo sentito, è un tema non solo di un’importanza base perché tocca una delle
realtà più sensibili della nostra società, ma anche di attualità, e soprattutto, come cercherò
di sottolineare, di prospettiva futura. Però permettetemi di iniziare con uno spunto che mi
veniva ascoltando gli interventi precedenti, e in particolare la precisazione sulle date di
nascita e di morte di Don Gnocchi, 1902-1956, che racchiudono, oltre che la vita di questo
importante protagonista della nostra realtà, anche quella prima metà del ’900 che vede
l’Europa precipitare nella tragedia di una terribile guerra civile, che si apre nel 1914 con
l’inizio della Prima Guerra Mondiale – l’anno prossimo faranno 100 anni – e si chiude nel
’45 con la fine della Seconda Guerra Mondiale, che forse in realtà finisce più tardi, finisce
nell’89, con la caduta del muro di Berlino, o forse finisce qualche anno dopo quando,
finalmente, le armi cessano di uccidere nella ex Jugoslavia.
Da questa tragedia, indubbiamente mondiale come vengono qualificate le due guerre, ma
soprattutto europea, guerra civile come dicevo all’inizio e come credo che debba essere
considerata, nasce l’esperienza della Comunità Europea, che poi oggi ci ha portato
all’Unione Europea. Nasce nel 1950 con la dichiarazione di Robert Schuman, mano tesa
verso la Germania, a cui si associano, cosa molto naturale, i paesi del Benelux, cuscinetto
fra le due grandi potenze europee che si erano combattute per secoli, in particolare nelle
due grandi guerre, ma si associa sorprendentemente per certi versi anche l’Italia – perché
quella che nasceva era una Comunità del Carbone e dell’Acciaio, due materiali, due
risorse, soprattutto a livello di materie prime, di cui il nostro Paese non abbondava – ma si
associa per lungimiranza di chi in quell’epoca guidava il Paese. In particolare ricordo
Alcide De Gasperi, ma possiamo inserirlo in una tradizione che vede anche come
protagonisti altre personalità, ad esempio Altiero Spinelli. Però l’elemento che legava le
personalità che fondano l’esperienza della Comunità Europea – Schuman, De Gasperi,
Adenauer, per citarne tre – era il fatto di essere personalità nate in zone di frontiera dei
rispettivi Paesi e tutti e tre cristiani impegnati in politica. Questa è una matrice che va
tenuta presente per comprendere anche quell’essenza e quel potenziale che è racchiuso
nei testi dei trattati fondanti della Comunità Europea prima e dell’Unione Europea oggi,
che non sono dei testi unicamente di regolamentazione dei rapporti economici, ma che
vanno ben al di là. Non per nulla si è sempre considerato che il senso profondo delle
norme, anche economiche, della Costituzione europea fosse una visione di economia
sociale di mercato. Quindi di un’economia senza dubbio libera e liberale, aperta quindi al
mercato e alla concorrenza, ma che tenesse presente e portasse avanti anche i valori
sociali. D’altra parte questi 60 anni di pace costruiti attraverso la Comunità Europea e
l’Unione Europea, hanno garantito ai Paesi che via via ne sono entrati a far parte, e al
nostro in modo particolare come Paese fondatore, una crescita in benessere sociale, oltre
che una prospettiva di vita, di pace, che, quando noi guardiamo come la guerra sia ancora
vicina alle nostre frontiere europee, in particolare anche alle nostre frontiere nazionali
come Italia, deve essere apprezzata anche oggi, a distanza di tanti anni dall’ultima guerra
che ha coinvolto il Paese, come un grande valore acquisito. E questo ci porta un po’ nel
tema di oggi: la conoscenza dei meccanismi e non solo delle regole, dei meccanismi che
reggono e disciplinano la realtà dell’Unione Europea, è un elemento fondamentale per
poter poi interfacciarsi con l’Unione Europea stessa. Troppo spesso, semanticamente, ma
è una semantica che credo in realtà rispecchi una forma mentis culturale, noi decliniamo
l’Europa in terza persona. Noi parliamo dell’Europa che ci dice, dell’Europa che sta
facendo e ci dirà di fare, dell’Europa che non ci consente. In realtà noi siamo coprotagonisti
dell’Europa e siamo anche un co-protagonista importante, non solo per il fatto
storico di essere fondatori della costruzione e del processo “integrazione europea”, ma
anche per il fatto reale che il nostro peso, come numero di voti in seno al Consiglio
dell’Unione Europea, è più rilevante di molti altri Paesi. Con Germania, Francia e Gran
Bretagna noi condividiamo il numero maggiore di voti relativi in seno al Consiglio
dell’Unione Europea. Con gli stessi Paesi condividiamo il numero maggiore di parlamentari
in seno al Parlamento Europeo. Ora Consiglio dell’Unione Europea, per differenti tipologie
e materie, e Parlamento Europeo sono il legislatore delle norme europee, quindi noi copartecipiamo
come uno dei soci di riferimento alla produzione normativa che si ha a livello
di Unione Europea. Quindi le citazioni, che abbiamo sentito, di disposizioni europee che
condizionano le realtà di cui partecipiamo oggi, sono degli atti legislativi, degli atti
amministrativi ai quali il nostro Paese ha pienamente partecipato. Quindi ne portiamo
meriti e responsabilità, qualora non vadano bene. Così come, guardando al futuro, noi
siamo in grado di poter portare avanti delle iniziative in sede di Unione Europea sia a
livello politico, sia a livello normativo, come ben sanno anche i parlamentari europei qui
presenti oggi e non solo, che possono portare ad una maggior conoscenza di specificità
nazionali come quelle di cui stiamo parlando oggi, che indubbiamente variano nella loro
configurazione reale da Stato a Stato, da Paese a Paese, a seconda di quelle che sono le
tradizioni culturali, le sensibilità locali e anche la funzionalità di sistema. Quest’ultimo
fattore va preso in tutta la sua importanza. Quando sentiamo dai dati che sono stati
appena citati, che la maggior parte dei debiti che le pubbliche amministrazioni, in senso
ampio, centrali, regionali e locali, hanno nei confronti del sistema imprese in senso lato,
profit e non-profit, riguarda proprio il settore di cui stiamo parlando, questo vi dà uno
spaccato di una carenza del nostro sistema Italia. Abbiamo il maggior numero di debiti in
ritardo di pagamenti nei confronti del sistema imprese e il maggior numero di giorni –
viaggiamo su una media di oltre 120 giorni di pagamento -, quando il termine imposto dalla
normativa europea, che il Governo italiano e il Parlamento italiano hanno portato in vigore
con tre mesi di anticipo rispetto alla tempistica europea, è di 30 giorni. Qui non voglio
scomodare Trilussa quando spiegava cos’erano le medie: se ognuno mangia mezzo pollo,
può darsi che ci sia uno che mangia un pollo intero e qualcuno che non lo mangia per
nulla. Per cui la media di 120 giorni significa che in alcune zone del Paese si paga a tempi
ancora più lunghi. Ora, che questo riguardi soprattutto il settore dell’assistenza, il settore
sanitario e quant’altro, ci dà un’idea di come la capacità di funzionamento del sistema
Paese può pesantemente condizionare in negativo delle realtà come quella di cui stiamo
parlando. Ora, rispetto alla conoscenza del settore, io credo effettivamente che esista
indubbiamente una percezione non completa dell’importanza crescente del settore di cui
stiamo discutendo rispetto alla realtà dell’economia, soprattutto del suo potenziale, al
tempo stesso io mi chiedo, e io invito tutti a chiederci, se da parte dei protagonisti di
questo settore esista una sufficiente sensibilità e conoscenza dei meccanismi di
funzionamento delle normative che possono avere un’incidenza sul settore stesso, in
particolare quelle di origine europea. Pensiamo anche che questa carenza di conoscenza
del settore da parte del legislatore nazionale ed europeo e questa carenza di influenza sul
legislatore da parte dei protagonisti del settore, se a fotografia di oggi può essere visto
come un difetto, in proiezione può invece rappresentare un vasto campo da arare con un
grosso potenziale di sviluppo e di adeguamento.
I tre esempi che abbiamo sentito poco fa di crescente sensibilità, anche a livello di Unione
Europea, per il settore, ne sono una dimostrazione. Mi permetto di sottolineare, perché se
non altro permette anche di dare conto di una parte dell’attività svolta, che una delle
ragioni per la quale nel nuovo pacchetto di direttive appalti è stata inserita questa
possibilità di quota di riserva a favore delle attività e delle cooperative, è dovuta anche
all’azione che è stata svolta dal Governo italiano, avendo partecipato alle discussioni. Ho
visto in presa diretta la iniziale non comprensione e la successiva progressiva
comprensione. Qui colgo questo elemento per darvi un punto di riflessione specifico,
perché dal generale, dal filosofico, dobbiamo scendere molto velocemente al dettaglio.
Uno dei motivi per cui era difficile, in un primo momento, pervenire ad una possibilità di
questo tipo nella normativa europea sugli appalti, era che nel concetto di cooperativa, nel
concetto di cooperazione, entravano anche delle entità pienamente di mercato,
assolutamente competitive con qualunque altro tipo di impresa. Un primo spunto è quello
di distinguere, quanto più possibile, proprio concettualmente, categoricamente,
operativamente, le cooperative di natura sociale da tutte gli altri tipi di esperienza,
ampiamente meritoria peraltro, di iniziative di carattere cooperativo. Proprio per entrare in
quella possibile dicotomia, che può poi integrarsi armoniosamente, tra la dimensione di
carattere più tipicamente di mercato, di carattere più tipicamente economico e la
dimensione di carattere invece più sociale e senza scopo di lucro, è bene sottolineare un
altro elemento fondamentale della visione dell’attuale assetto normativo e di approccio in
sede europea rispetto alle questioni di cui stiamo parlando.
Non conta tanto la natura del soggetto, non conta tanto il suo oggetto sociale, ma conta
l’attività e il modo attraverso il quale l’attività viene esercitata. In altri termini, conta
l’organizzazione dell’attività, conta l’eventuale obbligatorietà legislativa, conta molto,
moltissimo, il modo di finanziamento della attività stessa. Quindi l’accento tonico
dell’attuale assetto normativo europeo, che poi condiziona ovviamente quello nazionale, è
posto sull’attività, sul suo modo di svolgersi, sul suo finanziamento e sulla forma
organizzativa dell’attività stessa piuttosto che sulla natura del soggetto. Confondere i due
piani o privilegiare la natura del soggetto rispetto all’attività porta come minimo ad un
maggiore travaglio nella discussione delle questioni con le autorità europee preposte, in
particolare penso a quelle che si occupano di questioni di libera concorrenza, ed anche ad
una minore incidenza sulla normativa stessa. A proposito di incidenza sulla normativa,
vorrei anche ricordare che, a livello di sistema Unione Europea, è solo la Commissione
europea che può fare proposte di nuova normativa. Ebbene, la Commissione si è già
impegnata, già dal 2003-2004, a pubblicare online e sulla Gazzetta Ufficiale i pre-progetti
normativi, per raccogliere a livello di avan-progetto, a livello di pre-progetto, le reazioni da
parte di chiunque. La cosa interessante su cui vorrei attirare la vostra attenzione è che
nell’elencazione esemplificativa dei soggetti che possono e che sono particolarmente
invitati a reagire a queste preconsultazioni normative, oltre a soggetti chiaramente
interlocutori dalle imprese e degli enti territoriali, agli Stati stessi, sono però esplicitamente
citati cooperative, organismi religiosi, organismi ecclesiali, tra l’altro citazioni che
suscitarono a suo tempo una certa polemica per una certa visione molto laicista, come sa
molto bene anche qui Carlo Casini, che ha fatto lunghi anni di Parlamento Europeo. E
sono citati esplicitamente proprio per poter creare questo tipo di interfaccia di discussione,
che può poi avere un’influenza sul progetto vero e proprio che verrà presentato al
legislatore europeo, per poi essere discusso in sede di Consiglio dell’Unione Europea o di
Parlamento Europeo. Quindi, l’importanza di interfacciarsi e l’importanza di tener conto del
canone in base al quale viene portato avanti l’approccio di esame e di applicazione
normativa a livello europeo, non deve venire sottovalutato. L’attività e non tanto la natura
del soggetto è un altro elemento da sottolineare. Quali sono le disposizioni base del
sistema giuridico dell’Unione Europea che vengono normalmente prese in
considerazione? Sostanzialmente qui parliamo di tre tipi di riferimenti normativi molto
semplicemente menzionati: il primo riguarda le regole sugli aiuti di Stato, perché si vuole
evitare a livello di funzionamento del mercato interno europeo che gli Stati interferiscano
troppo con la vita economica. Quindi meno Stato nell’economia, meno interventi di aiuto,
di supporto, di sostegno e di agevolazione, al di là di quelli strettamente indispensabili.
Tuttavia, secondo gruppo di norme, si identifica l’importanza dei cosiddetti servizi di
interesse generale nella terminologia della normativa europea, che sono poi i servizi
pubblici. Questi sono distinti in due categorie e chiariti molto bene attraverso il protocollo
numero 26 allegato ai Trattati. Da una parte ci sono i servizi di interesse generale, i servizi
pubblici di natura non economica, e qui si dice con chiarezza che la potestà normativa
disciplinare di intervento spetta esclusivamente agli Stati, quindi qui per il momento
l’Europa non interviene, li considera al di fuori del campo di applicazione base delle
norme. Realtà che può evolvere, ma che tale è attualmente interpretata. E, secondo, sono
i servizi pubblici, i servizi d’interesse generale con un carattere invece economico. Questi
ultimi rilevano proprio a livello di un’eccezione, di una deroga alle norme classiche di libera
concorrenza. Si ammette, cioè, per questi interessi, per i servizi di interesse generale con
carattere economico, con valenza economica, la possibilità di derogare alle normali norme
sulla libera concorrenza. E questa è una possibilità importante, perché è quella che ha
permesso di prendere in conto dei servizi di carattere sociale. Gli ultimi documenti della
Commissione europea, a partire dal 2006, lo sottolineano via via, ne abbiamo sentiti citare
alcuni, ed è un elemento che viene preso sempre più in conto proprio come deroga
all’applicazione normale delle norme sulla libera concorrenza. L’applicazione normale
della norme sulla libera concorrenza, per dirla nei termini più semplici, vede i soggetti attivi
a livello economico sul mercato in competizione fra loro. La competizione dovrebbe
portare in generale, e in generale porta, un vantaggio per l’utente, per il consumatore,
perché porta ad abbassare i prezzi, a migliorare la qualità, tutti elementi che vengono
associati ad una libertà di scelta del consumatore ed a una libertà di concorrenza fra le
imprese. Naturalmente, rispetto a questa situazione, poco importa se l’ente che gestisce
un ristorante a pagamento sia un ente qualificato come profit o non-profit, il fatto che
eserciti un’attività economica sul mercato lo pone in concorrenza con ogni altro tipo di
impresa. Ciò che invece può contare è se il tipo di servizio, rimaniamo nell’esempio del
ristorante, sia invece offerto senza pagamento o a livello di una contribuzione di carattere
meramente simbolico: in questo caso siamo di fronte a una mensa per i poveri, siamo di
fronte ad un’attività di rifocillamento per pellegrini, per bimbi di asili, per qualunque altro
tipo di assistenza ospedaliera a carattere benevolo. In questo caso siamo fuori dal campo
del mercato, dal campo dell’economia e ci troviamo, nella visione attuale europea, nel
campo di quelle attività basate sul principio solidaristico e quindi in ultima analisi
finanziate, vuoi attraverso contribuzioni volontarie, vuoi attraverso contributi pubblici ,che
però sono finanziati dalla raccolta generale delle tasse, che quindi contribuiscono a creare
quel paniere attraverso il quale queste attività possono essere finanziate. Per cui
l’elemento solidaristico dell’attività diventa molto importante. Siccome abbiamo sentito
citare la Misericordia come quasi sinonimo del servizio di ambulanze, permettete, a chi per
lungo tempo si è occupato di diritto europeo, di diritto comunitario, come veniva chiamato
prima, di citare proprio un esempio preso dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia.
Esiste una sentenza, che si chiama Ambulanz Glöckner, che riguarda proprio un servizio
di ambulanze in Germania dove si fa chiaramente la distinzione fra il servizio di ambulanza
generale, che viene garantito a tutti e su base regolata dalla legge di solidarietà, e quei
servizi più speciali di ambulanza specifica, di ambulanza di urgenza, che invece sono
garantiti sulla base vuoi di particolari affiliazioni ad associazioni o ad assicurazioni oppure
a pagamento diretto da parte privato, considerando i primi fondati sul principio
solidaristico, i secondi fondati su un principio di economia di mercato. Ecco, se pensiamo
alla Misericordia, probabilmente cadiamo nella prima categoria, però potremmo trovarci in
quell’area di mezzo che è stata più volte citata, e secondo me è proprio su questo rischio
di essere intermedi fra la classica categoria mercato e la classica categoria servizio
pubblico fondato sul principio di solidarietà, che occorre sviluppare una azione di
spiegazione prima e successivamente di iniziativa, affinché a livello di Unione Europea si
adottino approcci di inquadramento, quindi di risoluzione del Parlamento Europeo o di
carattere legislativo, che possano contribuire a dare un’individualità prioritaria al settore di
cui stiamo parlando. Il rischio che rimanga una attività di carattere – nell’inquadramento
nell’approccio e nella visione normativa dell’Unione Europea – residuale rispetto alla
categoria base dell’attività economica o dell’intervento diretto o pubblico, indubbiamente
esiste. Quindi occorre individualizzare maggiormente il tipo di attività, spiegandone le
caratteristiche. Concludo con quello che dicevo poco fa: esiste, secondo me, un grande
campo, vorrei dire anche una grande prateria che può essere ampiamente arata a livello di
Unione Europea, tenendo conto che siamo in un settore in cui gli stessi atti base
dell’Unione Europea riconoscono la competenza prioritaria degli Stati. Quindi è necessaria
un’azione a livello nazionale di modernizzazione dell’assetto normativo. Quando sento
citare, a proposito degli appalti, atti del 1991 o anche la legge quadro sul Welfare del
2000, beh, in termini di evoluzione legislativa dell’ Unione Europea, parliamo veramente di
periodi che sembrano vicini ma che in realtà sono molto, molto lontani, anche se, a volte,
mantengono ancora sorprendenti livelli di modernità. Quindi per scrivere altrettanto bene
le norme europee si deve agire in modo puntuale attraverso una costante azione di
interfaccia e di interlocuzione con le stesse Istituzioni europee. Come si fa? I Parlamentari
europei dovremmo conoscerli, e dovremmo conoscerli meglio. Sono loro che possono
assumere delle iniziative europee. I membri del Consiglio dell’Unione Europea sono i
Ministri del governo in carica, a cominciare da quello più specificamente dedicato che vi
sta parlando. I membri della Commissione Europea li conosciamo, non bisogna avere un
approccio unicamente nazionale, bisogna anche correlarsi a realtà simili e analoghe,
esistenti negli altri Stati membri, e questo è il modo corrente con cui si è evoluta nel corso
di questi sessant’anni l’Unione Europea stessa. Sono molti di meno dei settecentosettanta
di cui abbiamo sentito, però sono sessant’anni durante i quali si è costruito un sistema di
pace, di collaborazione, di discussione ma pur sempre molto migliore, senza ombra di
dubbio, di quello che nei decenni precedenti aveva caratterizzato il nostro continente.
MONICA POLETTO:
Grazie. Io molto velocemente ringrazio. E’ molto interessante l’approccio che il Ministro ci
ha illustrato in chiusura, perché evidentemente noi ci siamo trovati bloccati nel renderci
conto che il non-profit italiano e il sistema del Welfare italiano non sono mai stati nel
mercato, ma in questa zona grigia che è tutt’altro che grigia, è una zona gloriosa, che è
veramente molto importante che si riesca a spiegare e a far emergere anche in ambito
europeo. Io spero che questo incontro sia un primo passo in questa direzione. Grazie.