PARTIRE PER RIMANERE: COMUNIONE E MISSIONE IN RUSSIA

Incontro con S. Ecc. Mons. Paolo Pezzi, Arcivescovo di Mosca. Introduce Alberto Savorana, Portavoce di Comunione e Liberazione.

 

MODERATORE:
Buon pomeriggio a tutti, benvenuti a questo incontro con l’arcivescovo metropolita di Mosca, Sua Eccellenza Mons. Paolo Pezzi. Confesso un certo imbarazzo perché non riesco a dargli del “lei”, perché lo sento profondamente parte della mia vita e della storia che ha preso me ed ha preso lui.
Al primo giorno di questo Meeting, Marcos Zerbini, il leader del grande movimento di emancipazione sociale che a San Paolo del Brasile ha consegnato nelle mani di don Carrón tutta la sua Associazione, parlando di sé, ha detto che il protagonista della storia è chi dice di sì al mistero.
Pochi minuti fa Vicky del Meeting Point di Kampala, un’altra dimensione della vita, del mondo, della realtà, della società, ha detto che la libertà, che ci fa uomini, è dire di sì alla chiamata. È sorprendente e miracoloso che due persone che non si sono mai conosciute, che non sapevano l’una dell’altra, abbiano usato pressoché le stesse parole per identificare il valore della loro vita e provvidenzialmente adesso ascoltiamo a che cosa ha dato vita, che cosa ha generato il sì di un giovane in servizio di leva all’invito di un commilitone, chi avrebbe potuto immaginare il filo di una storia che oggi porta Mons. Pezzi qui, come guida del popolo cattolico a Mosca, in Russia.
Quando ci siamo sentiti, appena è girata la voce a settembre dell’anno scorso che fosse stato scelto da Benedetto XVI per guidare la Diocesi cattolica di Mosca, mi ha detto: sono commosso e stupito perché mi fa guardare a me stesso come amato, voluto, preferito, è come se Cristo mi domandasse: Tu mi ami? Questa nomina è come entrare misteriosamente, in un modo tutto particolare, nell’intimo del rapporto tra Cristo e i suoi.
Un giovane seminarista, quasi settant’anni fa, non lui ma don Giussani, raccontava che a un certo punto cominciò con un suo compagno di seminario, il futuro Cardinale Biffi, a rifugiarsi nello studio di un loro professore per studiare la lingua russa, perché aveva nel cuore il sogno dell’unità, la passione per l’unità dell’unica Chiesa.
Era il sogno della giovinezza, Lui stesso lo identificava come il sogno della sua giovinezza e io credo che oggi anche don Giussani, che ci guarda dal cielo, si compiaccia non per se stesso, ma perché un suo figlio è stato chiamato misteriosamente a collaborare a che quel sogno della sua giovinezza diventasse sempre più realtà. Noi non partiamo da dei discorsi, noi ci muoviamo perché nella realtà accade qualcosa che suscita in noi lo stupore, la curiosità, così che per spiegarci la realtà che c’è, dobbiamo risalire pian piano in un lungo cammino di conoscenza fino alla sorgente da cui tutta la realtà nasce. Allora io oggi sono molto contento perché possiamo ascoltare la testimonianza di un uomo il cui sì l’ha fatto diventare agli occhi nostri, del mondo, degli angeli di Dio, un protagonista.
Spero che ci spieghi innanzitutto lo strano titolo che ha voluto dare a questo incontro: Partire per rimanere.
La parola a Sua Eccellenza.

S. Ecc. Mons. PAOLO PEZZI:
Probabilmente ci ripeteremo un po’. Quel che diceva Alberto, non posso che ripeterlo: alla fine si dice sempre sì al mistero di Dio, o meglio, è dicendo sì che la vita si compie. Comunque quando mi hanno chiesto di fare questo intervento, mi è venuto in mente che 25 anni fa ero tra i volontari che questo palco lo montavano, e c’era un amico mio, Aldo, che si preoccupava di tener un po’ la super visione della cosa, a colpo d’occhio era in grado di valutare, allora si facevano così, quanti nodi e quanti tubi “innocenti” sarebbero serviti.
In fondo era molto semplice sapere cosa fare, perché bastava seguire, obbedire, per sentirsi partecipi di un’opera molto più grande di me. Oggi, sul palco, tutto sommato mi è chiesto invece di parlare, penso che nella sostanza almeno per me, nella sostanza è la stessa cosa, io nella vita, è vero, ho cercato sempre una cosa cioè di rispondere soltanto al mistero di Dio.
Dice Claudel che la vita va cavalcata, non va sgrossata per cercare di renderla un po’ più facile. Nella mia vita ho detto di sì al Mistero, un po’ di volte magari ingenuamente, a volte anche incoscientemente, eppure così facendo ho potuto scoprire, con uno stupore via via crescente, perdonatemi se uso questa espressione, un disegno buono sulla mia vita e al centro di questo disegno, e lo dico senza falsa modestia, ho potuto conoscere sempre più chiaramente i lineamenti del volto di Colui che ne è l’Autore.
Col passare del tempo mi sono reso conto che il vero protagonista della storia è l’uomo che vive l’esistenza come il rapporto col mistero di Dio .
L’uomo, io, sono rapporto col mistero e perciò sono protagonista nella misura in cui io lo vivo coscientemente questo rapporto, non certo nella misura in cui gli altri uomini parleranno di me. Il Papa mi ha chiamato a diventare Arcivescovo della Diocesi della Madre di Dio a Mosca. Già la denominazione può fare insorgere che c’è una certa delicata complessità della situazione in cui sono chiamato a servire questo mistero, però vi è una semplicità di fondo che permane e questa semplicità è che qualsiasi cosa ti sia chiesta, tu sei chiamato a rispondere, per cui in fondo si tratta soprattutto di sapere a chi rispondere.
Perdonatemi la banalità, ma dire sì a Cristo oggi, è semplice e concreto come quando lo dicevo 25 anni fa ad Aldo, quando mi diceva porta un tubo da 5, un tubo da tre, da quattro metri, porta otto di quei nodi per mettere su i tubi.
Penso che se qualcuno avesse guardato con attenzione, avrebbe potuto dire che realmente quelli lì erano amici che servivano l’ opera di un altro e così partecipano a qualcosa di grande. C’è un racconto di Tolstoi che esprime in modo suggestivo questo. Si narra di un vecchio pellegrino che, camminando per la sua strada, arriva in un grande spiazzo dove fervono dei lavori di costruzione, gli viene davanti un uomo che spinge una pesante carriola colma di massi. “Cosa stai facendo fratello?” “Non lo vedi?” Si ferma l’uomo asciugandosi il sudore. “Trascino questa maledetta carriola di sassi!”
Il vecchio prosegue ed incontra un altro uomo che anche lui spinge un’altra carriola di pietre.
“Fratello cosa stai facendo?” L’uomo si ferma a riprendere fiato: “Ma non vedi? Sto guadagnandomi il pane col sudore della fronte!”
Ripreso il cammino, ecco un terzo uomo piegato nello sforzo di spingere la carriola di pietre: “Fratello cosa stai facendo?” L’uomo si ferma un istante, si asciuga il sudore della fronte e poi: “Non lo vedi? Sto costruendo la santa Chiesa di Dio!” e conclude: “Come sarebbe bello se tutti lavorando fossero coscienti di costruire la Santa Chiesa di Dio!”
Chi risponde partecipa coscientemente e diviene così un protagonista.
Claudel nel suo bellissimo, penso, dramma teatrale, “Santità – così dice – santità non è farsi lapidare in terra di pagana o farsi baciare da un lebbroso sulla bocca, ma fare la volontà di Dio con prontezza, si tratti di restare al nostro posto, o di salire più in alto”, e lo motiva col fatto che non alla pietra tocca fissare il suo posto, ma al maestro dell’opera che l’ha scelta.
Insomma si tratta di rispondere al mistero di Dio, di svolgere perciò la vocazione della propria vita.
Quando ero ragazzo, soprattutto quando ero più ragazzo, pensavo che il problema della vita fosse in fondo quello di acquisire delle capacità, di diventare insomma efficienti, efficaci, importanti in qualcosa.
A quindici anni mio fratello si portò a casa un disco, allora non era molto semplice, un disco di vinile, ed era un disco di Dylan che veniva dagli Stati Uniti, e dentro c’era una canzone che si chiamava “Forever young”, la sentii, e cercando di capire, quando riuscii un po’ a capire l’inglese, di che cosa si trattasse, del contenuto, mi sembrò una bestemmia.
Come si può augurare ad uno di restare sempre giovane? In fondo se concepisci la vita come la tensione a raggiungere un’autosufficienza, allora si può essere vecchi già a 15 anni.
Vecchi come l’acqua di uno stagno, che non si alimenta più ad alcuna fonte esterna a se stessa, allora devi aspettare solo un sasso che rimuova lo stagno.
Poi questo sasso è venuto: la grazia di uomini toccati, presi, attratti dal mistero di Dio.
Insomma per me è stato l’incontro con uomini che vivevano di questa risposta al Mistero, al Mistero presente nella loro vita. Così ho scoperto che non è affatto vero che la vita consista nel raggiungere l’eccellenza nel dettaglio, ma vivere istante per istante nel Mistero di Dio che chiama.
Questo fa rimanere, o meglio, fa diventare sempre giovani. C’è un’icona della Madre di Dio col bambino, quella Teotokos come la chiamano, nella quale il bambino Gesù, è strano, ha il volto di un adulto, ha la fronte alta del sapiente, il corpo invece è quello dell’infante, di un bambino piccolo piccolo; sembra una contraddizione, eppure la vera saggezza, la maturità, non è in un sapere statico, chiuso in sé, la sapienza suprema è nel nascere sempre, nel riconoscersi sempre nascenti, attualmente generati da un altro, come il bambino eterno, come dice Origene.
Ecco, da questa coscienza scaturisce, come da una fonte inesauribile, la giovinezza del cuore. Ti ringrazio Padre, diceva Gesù, perché hai nascosto queste cose a quelli che si credono sapienti in questo mondo e non hanno ancora concluso nulla e le hai rivelate ai piccoli.
Allora la questione è come diventata un’altra, cioè come posso allora servire a questo mistero. Eppure per potergli però dire di sì, per potergli rispondere, dovevo vivere un rapporto con questo Mistero di Dio, dovevo avere una familiarità con Lui, con la sua voce, così da essere certo che rispondevo a Lui, se è da questo che dipende la realizzazione della vita, la possibilità di diventare “Forever young”.
Così ho capito, con questa domanda viva, che dire sì a Cristo coincideva sempre, con il sì che tu dici a persone concrete, alla circostanza precisa. Persone e circostanze che portano qualcosa di più di se stesse, Qualcuno di infinitamente più grande di loro. E sono andato scoprendo che proprio il sì, detto a persone e a certe circostanze, ti rende familiare Cristo e da questa familiarità con Lui nasce una certezza di bene, che tende a investire anche il rapporto con tutte le altre circostanze, con tutte le altre persone, anche quelle che sono, non solo appaiono, esteriormente più avverse. Ciò che rende veri testimoni di Cristo è la capacità, realizzata in noi dallo Spirito, di riconoscere Cristo presente sotto e dentro l’apparenza di ciò che accade, così che in noi si forma un modo di giudicare le cose e le persone diverso da quello del mondo. Così ti scopri con commozione a dire sì a Lui anche quando perdi un’infinità di tempo, un’infinità di ore negli intasamenti del traffico moscovita; e guardate che tali intasamenti non sono necessariamente solo dettati dalla concentrazione spaventosa di autovetture, ma possono essere anche degli intasamenti umani. E a un certo punto ha cominciato come ad interessarmi di più questo sì detto a Cristo nelle circostanze, più che continuare a sognare circostanze più favorevoli. Bene, il frutto di questa conversione dello sguardo per me è stata una scoperta che condenserei in una frase: ciò che fa fiorire il deserto, anche quello più arido, è la quotidiana offerta. Tanti anni fa, era estate, era una domenica… insomma, era caldo, mi accorsi che mia madre – stava stirando – stava stirando da tutto il pomeriggio, una domenica. Quindi immaginate, siccome era un po’ caldo, già caldo, poi addirittura attaccata a un ferro da stiro! Allora mi avvicinai e le chiesi: scusa mamma, perché, avevo dodici anni, perché tu stiri la domenica pomeriggio quando tutte le altre mamme dei mie amici, dei miei compagni di scuola vanno al cinema, si divertono? E lei, continuando a stirare, mi disse: perché voi veniate su buoni, secondo la volontà di Dio. Tanti anni dopo, quando ho incontrato il Movimento, ho scoperto il valore veramente profondo di questa risposta di mia madre, che, devo dire, allora mi aveva proprio stordito. Forse oggi comincio a capirla veramente, perché la vita quotidiana, anche da vescovo, è spesso ripiena di cose che sono di per sé molto aride, non tanto appassionanti; dico per me, questioni amministrative, burocratiche, problemi di governo; insomma, gran parte del tempo si può provare lo stesso, veramente lo stesso sentimento che ti assale quando ti trovi imbottigliato nel traffico di Mosca a certe ore del giorno. Il tempo scorre e tu non puoi farci letteralmente niente. Bene, tutto questo può divenire, per me almeno è divenuto, una grande occasione di protagonismo, offrendo. Imparare a dire: “Ti offro, o Cristo, questo rapporto, questa questione che devo affrontare, Tu che sei la consistenza di tutte le cose, mostrati ora, fa che Tu sia riconosciuto attraverso la mia povera persona, che Tu hai preso e fatto così”. Poi magari il giorno dopo ti trovi invitato dal Presidente della Repubblica, o dal Patriarca della Chiesa ortodossa… insomma, voglio dire che non le decidi tu le circostanze, e non decidi nemmeno tu a che livello trovarti giorno per giorno. Perciò puoi offrire sempre, in ogni circostanza. Quando il Papa mi ha nominato Vescovo a Mosca, qualcuno si è posto un problema che io stranamente non avevo mai avvertito prima, cioè il problema che era stato nominato un vescovo straniero in terra russa. Per qualcuno era diventato una vera e propria obiezione; quando l’ho sentita rivolta a me direttamente, questa obiezione, mi sono reso conto di una questione ben più profonda e radicale. E cioè del fatto che ci si comincia a sentire stranieri quando si perde la coscienza viva del rapporto col Mistero. Perché io, senza Cristo, senza la coscienza di questo rapporto, divento straniero a me stesso, estraneo a me medesimo, e allora nulla mi è più familiare. Mentre invece dentro la familiarità con la fonte del mio essere, come di quello di ogni uomo e di tutto ciò che esiste, io posso letteralmente sentirmi a casa mia ovunque. Un secondo sentimento che mi ha dominato a partire dall’ordinazione, è che quello che mi era chiesto segnava letteralmente un nuovo inizio, una nuova partenza: ma che cosa significa iniziare, un nuovo inizio? Alcuni anni fa, dopo aver fatto visita a degli amici monaci alla Cascinazza, con uno di loro, lasciandoci, ci eravamo detta una cosa, diciamo così, un po’ strana, da cui viene appunto il titolo di questo intervento. Ed era l’occasione in cui mi era stato nuovamente chiesto di partire. “Tu rimani in monastero, ci eravamo detti, perché io possa partire in missione; perché non si rimane se non partendo, e non si parte se non rimanendo”. Ecco, in questi mesi ho come più riscoperto la verità di questo, perché un nuovo inizio non significa una rottura, non significa uno stacco rispetto al passato. Certo, ogni partire è un po’ morire, no? Però partire è l’occasione perché il proprio rimanere si approfondisca, perché si radichi sempre più in profondità: che vale, se anche possedessi il mondo intero, se anche lo conquistassi alla causa che ritenessi la più bella, la più giusta, la più grande di questo mondo, se poi alla fine perdessi me stesso, se non avessi cioè un posto, un luogo per cui per me sia bello, vero rimanere? Allora ho cominciato come a sentire più pressante la domanda: “Come rispondo a Cristo?” Io mi accorgo innanzitutto che questa domanda mette in questione la mia fede. “Signore, anch’io non lo capisco, ma se vado via da te, dove vado?” Quando penso a questa risposta, che è veramente molto geniale, molto geniale perché profondamente umana, di Pietro, penso che anche per me la fede prima di tutto è soprattutto risposta alle mie domande sull’esistenza. Bene, il primo modo con cui io rispondo a Cristo è scoprendolo come risposta permanente alla mia umanità. San Paolo lo dice in un modo molto potente: “Questa vita nella carne la vivo nella fede del figlio di Dio che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me”. Si può forse immaginare che per un solo momento nella sua esistenza San Paolo abbia sentito la memoria di Cristo, la memoria di quel fatto misterioso, eppure così potentemente realmente accaduto e che lui nella fede afferrava, come non pertinente alla sua vita? Allora è proprio soltanto nel rimanere in questa posizione di stupore dei primi, nel rimanere per così dire sempre in presenza dell’avvenimento attuale di Cristo, che io ritrovo in ogni istante il gusto nell’avventura della vita e cioè il gusto della mia missione. Questa avventura della missione io l’ho imparata proprio a gustare nella fraternità dove si è formata e compiuta la mia vocazione, in compagnia di don Massimo. Mi ricordo che in un bellissimo dialogo con lui, alcuni anni fa, proprio sulla missione, mi colpì una percezione chiara di quella che è la riduzione dell’originalità della missione, che può facilmente insinuarsi nella vita. E cioè la mancanza di uno stupore per una comunione goduta e sperimentata nel presente. Ciò che manca è la consapevolezza di appartenere a Cristo. Infatti quando io non so più di chi sono, quando non sai insomma a chi appartieni, allora questa appartenenza non determina più la quotidianità, anche quella più banale. In te si sta come impercettibilmente sfocando la coscienza del fatto più sommamente reale e cioè che dipendi dal mistero di Dio, del fatto che il valore di ciò che vivi sta nel rispondere a Lui. Allora le giornate diventano il ricatto delle cose da fare a cui tu devi come titanicamente tentare di rispondere. A me ha spesso colpito un brano del Vangelo di Marco, che si trova all’inizio del Vangelo e dice: “Gesù chiamò a sè quelli che Egli volle. Li chiamò a sé perché stessero con Lui. Perché fossero mandati”. In questi mesi si è come acuita per me l’evidenza che se non rimango ancorato a un’esperienza vissuta quotidianamente della compagnia di Cristo alla mia vita, io non svolgo nessuna missione, ma il mio affannarmi diviene il canto sgraziato di un cigno solitario. È proprio quell’avvenimento sperimentato adesso che dona all’esistenza la sua autentica misura ideale. Senza il contatto continuo con l’evento di Cristo presente, la misura del mio vivere diviene quella del calcolo. Misura che porta inevitabilmente a un irrigidirsi che logora e sfibra, in una preoccupazione continua per tutto quello che ancora non c’è. Mi accorgo che perciò occorre una lotta e una vigilanza per non cedere a questa logica mondana. Un po’ di anni fa, l’allora cardinal Ratzinger, in un’intervista, parlava di un enorme processo, cito una cosa che diceva: “È in atto la perdita della realtà cristiana, un momento di stanchezza che non permette più di venire alla luce la bellezza e la necessità umana della realtà della fede. Anche la vivacità e la semplicità della fede non emergono più”. E Ratzinger associava questa riduzione di interesse per il centro dell’annuncio cristiano all’interesse per alcune questioni particolari. “Dovunque si vada – notava il Cardinale – dove si svolgono incontro diocesano o altra manifestazione, si sa già quale saranno le domande: celibato, sacerdozio femminile, divorziati, risposati. Si tratta certamente di problemi seri” diceva “ma sembra proprio che la Chiesa continui a occuparsi di se stessa”. Anche per la Russia in fondo si potrebbero più o meno già sapere quali sono le domande. Comunque, e così per molti, la missione è diventata qualcosa da giustificare o da arginare, perché in fondo più o meno meschinamente la si fa coincidere con qualche forma di caccia all’uomo. Invece uno comincia a fare proselitismo quando muore la missione, io voglio portare uno dalla mia parte quando non desidero più portarlo a Cristo. E viceversa, quando vivo un entusiasmo per Cristo, io non propongo me stesso ma un Altro attraverso di me. Per me la passione missionaria è proprio parte della natura stessa di me in quanto tale e della Chiesa stessa. In questi anni di esperienza in Russia ho anche scoperto con grande interesse la complementarietà che c’è tra l’idea di missione, che si è sviluppata nella tradizione latina, e quella più tipica della tradizione orientale. Semplificando un po’, si potrebbe dire che per l’occidente la missione significa comunicare agli altri, attraverso l’annuncio, le opere, la bellezza, la verità, la giustizia, la pace, la pienezza di vita che si incontrano in Cristo Gesù. Mentre per gli orientali, per così dire, più contemplativi, ha prevalso l’idea che la missione consiste principalmente nella trasfigurazione della propria persona. Lo splendore dell’uomo trasformato dalla comunione con Cristo, che attira il mondo verso il suo centro e calamita lo sguardo di chi si incontra. Io, questi due aspetti, questi due accenti nel modo di concepire la missione, credo di averli appresi e assimilati come per osmosi seguendo don Giussani e quelle persone che in modo più intenso mi hanno reso il cristianesimo affascinante e interessante. Ricordo che, dopo l’incontro che ci fu del Movimento di Comunione e Liberazione col papa nel 1984, in occasione del trentennale, scrissi a don Giussani che ero così grato di quello che aveva toccato e di quello che mi aveva raggiunto attraverso di lui, che ero disposto ad andare ovunque nel mondo. Ovunque nel mondo significa anche dietro l’angolo di casa tua. Non avevo mai pensato alla Russia. Certo è vero, ci sono stati dei segni nella mia vita, come per esempio l’icona del Salvatore, che è legata ormai inscindibilmente al mio rincontro col cristianesimo. Oppure la lettura di certi testi del Samizdat, che avevo letto dopo aver ascoltato una volta come padre Scalfi ne parlava appassionato e che mi avevano colpito per il modo di vivere la fede in condizioni così tragiche. Però voglio dire che questa passione non nasce in me da un trasporto personale o temperamentale. Ma nasce dalla passione per ciò che ho incontrato e che continuamente mi genera. E così come Cristo mi si comunica all’interno del suo stare con me, così l’annuncio di Cristo non è possibile senza una certa condivisione di vita. Anche quando devo predicare, comunicare cioè attraverso delle parole, fare degli incontri insomma, quello che io maggiormente desidero è di poter arrivare a condividere la vita degli altri. Insomma partire rimanendo vuol dire dilatare questa familiarità nuova che per grazia io mi trovo ad avere con Cristo. Questo partire rimanendo, che è proprio della missione, significa per me attirare gli uomini in questo miracolo di comunione, che per grazia la mia vita sperimenta. Allora la vita si trasforma, la mia almeno si è trasformata così. È il contrario di una lotta solitaria. E qui io capisco la preziosità del mio obbedire. Perché l’obbedienza è la condizione perché tutto ciò che fai esprima continuamente le comunione che è fede. Non è vera la comunione che affermi e che vivi se non arriva a farti obbedire e obbedire significa piegarsi alle circostanze invece di perseguire un proprio progetto. Dove mi trovo adesso, anche se magari non ne parlano in tanti, mi accorgo di essere davanti a un momento drammatico, non solo nella storia di questo paese ma nella storia dell’uomo, anche i recenti fatti ce lo dimostrano. Certo ci sono diversi che oggi in Russia riconoscono che il contesto sociale in cui si vive non offre determinate condizioni, ma quello di cui spesso ho l’impressione, è che ci si arresta o ci si abbarbica sempre a un livello di un’analisi. Quando, alcune settimane dopo essere stato chiamato ad essere Vescovo a Mosca, mi sono domandato: “Ma, qual è una priorità, un punto da cui iniziare?”, mi ha colpito che non mi sia venuto in mente di creare delle commissioni che studiassero il problema; per esempio il problema educativo in Russia. Quello che ho pensato è stato di incontrare direttamente la gente. Ho pensato a un incontro. Ho incominciato a fare ogni mese un incontro coi giovani di diverse città. Per chi sa un po’ di cosa si tratta, diciamo, ho lanciato l’idea di un “raggio”. E questo proprio perché la trasmissione della fede non può avvenire che da persona a persona, è attraverso la testimonianza di un cambiamento già in atto in me che faccio la proposta del cristianesimo. Mi ha colpito che i ragazzi sono rimasti stupiti, perché dicevo loro che, proprio attraverso questo incontro con loro io, realmente desideravo essere educato a vivere di più il mio rapporto con Cristo, a vivere la mia vita e la mia fede, rispondendo di più a Lui, al mistero da cui dipendo, a Colui, diceva Serafino di Serov, che è la gioia della mia vita. Gesù nel Vangelo dice: “Quello che vi è stato sussurrato nelle orecchie”, quello che vi hanno più o meno bisbigliato e che probabilmente non avete nemmeno capito bene, “Lo griderete sui tetti” e allora quello che nemmeno voi stessi riuscite a capire e a vivere fino in fondo si vedrà in poi. Ecco per chi ha conosciuto Cristo così, per chi in Lui ha vissuto, per chi vive in Lui, tentativamente istante per istante, ecumenismo significa questo: andare verso l’altro col desiderio di riconoscere la verità che nell’altro è presente, fosse anche solo per un frammento. È perciò un’energia di riconoscimento che fa scoprire l’altro partecipe di quello stesso avvenimento di verità e di misericordia che ha preso te. Potremmo dire che in questo modo, attraverso di me, attraverso il cammino che io faccio verso l’altro, la presenza di Cristo tende a diventare trasparente nei suoi diversi colori in tutti quelli che incontro. L’amicizia di questi anni con alcuni preti ortodossi mi ha portato a fare insieme a loro e insieme anche ad altri amici, degli incontri potremmo dire informali, che non appaiono sulle pagine dei giornali, ma che costruiscono una trama di rapporti nuovi. Il contenuto che abbiamo deciso di dare a quell’ incontro, già da alcuni anni, è l’educazione di noi stessi e delle persone che incontriamo, perché si sia cristiani maturi nella società in cui viviamo. Dopo che il papa mi ha nominato Vescovo, abbiamo deciso di mantenere questa stessa forma nel nostro incontrarci, perché è di aiuto innanzitutto alle nostre persone. Mi ricordo che a uno di questi primi incontri, parlando di questa nuova missione di vescovo, avevo detto loro un po’ quello che dicevi tu prima e cioè che per me in fondo la questione era rimasta la stessa ed era quella di continuare a rispondere al mistero di Dio che mi fa. E uno di loro, perfino un po’ stupito, mi ha detto: “Ma Eccellenza, la cosa più impressionante è che lei, tra tutte le cose che deve fare, tutte le questioni burocratiche, amministrative, ci venga a ridire oggi che al centro di tutto c’è il suo rapporto con Cristo”. Io stesso mi sono stupito di quello che un altro aveva colto meglio di me come il cuore di me. Ho riletto recentemente un testo di Pawel Florenskij, in cui devo dire mi ritrovo pienamente. Dice ad un certo punto: “V’è nel nostro tempo”, scrive negli anni ’20, “un peccato comune a tutte le confessioni, che consiste nella dimenticanza del termine cattolico, a cui nel migliore dei casi viene attribuito un significato estensivo e quantitativo. Mentre l’espressione katholicos indica innanzitutto qualcosa di intensivo e di qualitativo. Il cristianesimo è cattolico perché tutto è stato fatto”. È veramente geniale nel cogliere la radice della cattolicità della stessa ecumene, del mistero di Cristo, da cui tutto dipende perché tutto in Lui consiste. “Il cristianesimo” dice “è cattolico perché tutto è stato fatto per mezzo del Verbo eterno di Dio e quindi l’orientamento della coscienza a Cristo implica la pienezza e l’infinità delle manifestazioni, senza rinunciare a nulla di ciò che è proprio ad una singola Chiesa”. Dice poi Florenskij: “I cristiani devono issare innanzitutto il vessillo del cristianesimo. Non può e non deve essere troppo complicato questo vessillo. Vi devono essere riunite solo quelle peculiarità spirituali, cioè non riducibili alle proprie opinioni, al proprio gusto magari estetico, senza le quali non vi sarebbe più alcun motivo per chiamarsi cristiani”. Quando l’ho letto, mi sono immediatamente venute in mente le parole del vecchio staretz Giovanni all’imperatore, nel Racconto dell’Anticristo di Solovev: “Quello che noi abbiamo di più caro nel cristianesimo è Cristo stesso. Lui stesso e tutto ciò che viene da Lui, giacché noi sappiamo che in Lui dimora corporalmente tutta la pienezza della divinità.” Oppure il grande inizio della Mistagogia di Massimo il Confessore: “Cristo è tutto in tutti, Egli che tutto racchiude in sé, secondo la potenza unica, infinita e sapientissima della sua bontà, affinché le creature del Dio unico non restino estranee e nemiche le une con le altre, ma abbiano un luogo comune dove manifestare la loro amicizia e la loro pace”. Se non sono vere queste parole, allora di quale ecumenismo possiamo ancora parlare? Se strappiamo via la missione, cosa resterebbe di noi? Non resterebbe niente della Chiesa, di noi stessi come uomini, non come attivisti ma come uomini. Non resterebbe nulla perché quello che siamo non ci sarebbe più. Perché l’uomo è la sua vocazione. La passione per la gloria di Cristo è ciò che fa della vita stessa una passione alla missione. Questa missione nasce dallo struggimento della carità, dell’amore a Cristo. Occorrerebbe tornare all’ardore del fuoco che bruciava il cuore di Paolo, così come lui stesso lo descrive nella lettera ai Corinzi nel capitolo quinto: “L’amore dimostratoci da Cristo ci strugge, perché se uno è morto per tutti, è morto perché tutti non vivano più per se stessi ma per Colui che è morto e risorto per noi”. Poco prima che partissi per la Siberia, quindici anni fa, in un incontro con don Giussani, lui commentò questo versetto e quelle parole mi accompagnano quotidianamente da allora. Permettetemi di leggerle in conclusione di questo mio intervento: “L’amore dimostratoci da Cristo ci strugge, è la memoria dell’amore di Cristo che esaurisce il contenuto di ciò che mobilita tutta la nostra vita. Questo struggimento ci fa partecipare allo scopo per cui Lui è venuto. È morto ed è risorto affinché tutti coloro che vivono, non vivano più per se stessi ma per colui che è morto e resuscitato per gli uomini”. Se questo non è ecumenismo nel senso stretto della parola, ditemi voi! Questo struggimento che assicura la memoria dell’amore di Dio per l’uomo, è lo scopo cui tende tutto il nostro desiderio, cui tende tutta la nostra attività. La vita diviene triste, tediosa, quando non ha questo struggimento, quando non vive con chiarezza lo scopo per cui tutto esiste, “che tutti coloro che vivono, non vivano più per se stessi ma per colui che è morto e resuscitato per l’uomo”. Siccome queste cose non sono il termine di una riflessione teologica ma sono il comunicarsi alla nostra mente, al nostro cuore, della mente e del cuore di Cristo, il comunicarsi alla nostra esperienza di uomini dell’esperienza di Cristo, allora queste riflessioni devono essere il contenuto di una domanda, il contenuto della preghiera che faccio allo Spirito, che Cristo comunichi uno struggimento adeguato all’amore che ci ha portato; un impegno di tutta la vita perché sia ottenuto lo scopo per cui Lui è venuto”. È questo che mi permette di guardare con grande pietà ed attenzione le persone che incontro, senza la preoccupazione di ingrossare le proprie file. È questo che mi permette di accorgermi con gratitudine, per esempio, della realtà della Chiesa Ortodossa, ma anche di altre realtà che ci sono presenti, per esempio alcune, sebbene minuscole, comunità luterane. Perché il bisogno di Cristo che ha l’uomo russo, più o meno consapevolmente gridato e domandato, è il bisogno più grande ed è il più grande e vero bisogno di ogni uomo, perché di Cristo sono bisognosi tutti. Grazie per la carità con cui mi avete ascoltato.

MODERATORE:
Io ho bisogno di incontrare persone così. Non perché ci fanno dei discorsi su Dio, come termine lontano, remoto di un desiderio, ma perché ci comunicano il loro entusiasmo per la realtà. Per la realtà di cui è fatta la nostra esistenza. C’è un inconveniente, diceva qualche giorno fa don Carrón, raccontando una discussione con un suo studente, quando insegnava a Madrid, che gli obiettava che bisogna parlare di Dio, bisogna partire da Dio per parlare, e lui diceva: “No! Io parto dalla realtà, non da Dio. Il problema è che per darmi ragione di questa realtà, di questo complesso di circostanze che tramano la mia vita, io devo iniziare il percorso”. Il percorso, come quello che l’Arcivescovo di Mosca ci ha mostrato in atto questa sera, per arrivare a dare il nome a questa realtà. Perché mentre lo ascoltavo parlare mi domandavo: “Mah, quanto deve essere reale per lui, fisica, la realtà di quel Cristo di cui ci ha parlato, per essere diventato e per essere ai suoi occhi il catalizzatore della sua intelligenza, della sua energia affettiva, che ha stampato nel suo motto episcopale: Gloria Christi passio”. Passione perché il nome di tutte le cose sia riconosciuto. Perché noi facciamo il Meeting animati, dentro la nostra incoerenza, immoralità e fragilità, dallo struggimento che quel nome sia conosciuto, incontrando tutto e tutti. E per questo siamo grati di averci entusiasmati, mostrandoci che quello di cui ci parla la Chiesa, è una realtà più leale della donna che abbracciamo, dei figli che baciamo, del lavoro che esercitiamo ed è la sostanza di tutte le cose. Grazie ancora a Sua Eccellenza e buona serata.

(Trascrizione non rivista dai relatori)

Data

26 Agosto 2008

Ora

17:00

Edizione

2008

Luogo

Auditorium D7
Categoria
Incontri