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PADRI E MAESTRI: DAL CINEMA ITALIANO ALLA PIXAR
Partecipano: Francesco Amato, Regista; Armando Fumagalli, Docente di Semiotica e Storia e Linguaggi del Cinema Internazionale e Direttore del Master in International Screenwriting and Production all’Università Cattolica del Sacro Cuore, Consulente di sviluppo per Lux Vide. Introduce Antonio Autieri, Giornalista e Direttore di Sentieri del Cinema.
PADRI E MAESTRI: DAL CINEMA ITALIANO ALLA PIXAR
ANTONIO AUTIERI:
Buon pomeriggio, grazie del caldo saluto e della presenza folta, tra l’altro mi dicono che non ci stiamo dentro tutti, siamo tutti molto sorpresi e contenti. Bene! Allora come sapete l’argomento dell’incontro lo conoscete tutti, parla dei maestri dal cinema italiano alla Pixar. Abbiamo pensato con alcuni amici, alcuni mesi fa che sarebbe stato interessante, stimolante, bello, far interagire, far dialogare la frase di Goethe che da il titolo al meeting di quest’anno con questa particolare forma di espressione, questa forma di comunicazione spesso forma d’arte che è il cinema e che per noi, qui al tavolo, in vesti diverse, occupazione professionale, ma come sempre per chi lavora nel cinema a vario titolo, una grandissima passione.
E quindi per fare questo dialogo abbiamo pensato in maniera un po’ spericolata ma con quel gusto del paradosso che al meeting è spesso compagno di strada, di prendere due punti di osservazione, se ne potevano scegliere tanti: il grande cinema di animazione della Pixar, casa di produzione che voi conoscete credo benissimo, amata da tanti appassionati di cinema, tante famiglie, tanti bambini, ma anche tanti adulti appassionati anche di cinema, cinefili, che hanno visto in questi grandi film da Toy story del ‘95 fino ai giorni nostri, tanti spunti interessanti, questa capacità di parlare della vita a 360 gradi senza censurare nulla, parlando del dolore, della solitudine, perfino della morte e però con questo, con tanti spunti interessanti positivi sulla famiglia, sull’amicizia e sempre una chiave di volta positiva nell’affronto delle difficoltà della vita. Questa capacità di raccontare la vita. Per parlare della Pixar abbiamo invitato Armando Fumagalli che è qui alla mia sinistra, che è un professore universitario dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, docente di Semiotica e Storia e Linguaggi del Cinema Internazionale e direttore di un master internazionale in sceneggiatura e produzione molto apprezzato, fra l’altro da cui sono usciti tanti talenti nella sceneggiatura, nella produzione, nella comunicazione, uno per tutti cito un nome famoso, Alessandro D’Avenia.
L’altro corno diciamo di questo dialogo, l’altro lato della medaglia che abbiamo scelto è il cinema italiano, in particolare pensando a, giocando un po’ sul titolo del meeting, pensando alla grande ricchezza di questo cinema nella sua storia, ma anche a una vivacità nel presente in generale e in particolare nell’aspetto della commedia, che è uno dei tratti caratteristici del cinema italiano, abbiamo pensato di invitare Francesco Amato, che è qui alla mia destra. Giovane regista e sceneggiatore di cui parleremo prima del suo intervento, illustreremo quello che ha fatto in questi anni di carriera e di cui stasera vedremo il suo ultimo film Lasciati andare.
Allora, ci siamo dati come modalità di lavoro per introdurre gli interventi, di vedere insieme prima degli spezzoni di film, quindi per introdurre il tema della Pixar chiedo alla regia di mandare in onda alcuni spezzoni dei grandi film della Pixar che credo tutti voi conosciate e poi ne parleremo.
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Tutti grandi film, credo questo siamo tutti d’accordo. Ad Armando Fumagalli che ha scritto tra l’altro, ha studiato, ha scritto della Pixar in particolare nel saggio Creatività al potere: da Hollywood alla Pixar passando per il cinema italiano che tra l’altro è un titolo curiosamente simile titolo del nostro incontro, e che fra l’altro non è solo uno studioso ma è consulente di una casa di produzione importante come la Lux Vide, famosa per la fiction televisiva Giovanni Paolo II per esempio, Sant’Agostino, Maria di Nazareth e l’ultima serie I medici, ma anche del debutto nella produzione con Bianca come il latte, rossa come il sangue. Ad Armando chiedo, direi, abbiamo visto questi spezzoni, padri, maestri, padri, una serie di padri, maestri come Doc in Cars, come questi temi ci stimolano secondo te, rispetto al percorso della Pixar e che cosa ci insegna questo ormai trentennale percorso di questa grande casa di produzione.
ARMANDO FUMAGALLI:
Buongiorno a tutti, intanto ringrazio per l’invito, io sono molto appassionato della Pixar ormai da diversi anni, ho iniziato a seguirli un po’ dalla fine degli anni 90, devo dire, parlare della Pixar è facile perché è una storia talmente bella e talmente interessante che ci sarebbero anche mille aneddoti da raccontare ed è collegata anche con il tema del meeting di quest’anno. Anzitutto dei dati banali ma giusto per ricordarli: la Pixar nasce a metà degli anni 80 vicino San Francisco e fa il suo primo film nel ‘95 che è Toy Story. A questo film ne seguono altri 17, a oggi hanno fatto 18 film, ed è il caso, se non faccio qualche lapsus, ma sono convinto che sia il caso di maggior successo di tutta la storia del cinema mondiale almeno come dimensioni. Teniamo conto che non c’è stato nessun gruppo di autori, nessun autore singolo che abbia avuto un numero così grande di film che sono stati successi sia di critica che successi commerciali a livelli così alti. Una dimensione che aiuta a capire è che prima di produrre Toy Story la Pixar era sull’orlo della bancarotta, Steve Jobs finanziava l’azienda ogni anno con qualche milione di dollari ma stava perdendo soldi, e dal ‘95 al 2005, 2006 la Pixar da valere 0 è passata a valere 7,2 miliardi di dollari, cioè 7200 milioni che è il prezzo della fusione, diciamo dell’acquisto dell’incorporazione rispetto alla Disney. Sono film come abbiamo visto divertenti, innovativi, profondi, curatissimi in tutti i dettagli. Fra l’altro sono film, su questo torniamo fra poco, che sono anche in profonda armonia con una antropologia cristiana, con una visione cristiana dell’uomo, non sono film religiosi, non sono film predicatori, ma c’è questa visione antropologica, c’è ed è chiarissima.
Allora la cosa divertente è che la Pixar nasce proprio dal tentativo di fare qualcosa di nuovo, da parte di un gruppo di giovani che erano completamente degli outsider. Quando fanno il primo film, questo lo raccontava Andrew Stanton, che è il regista di Finding Nemo, Alla ricerca di Nemo, Wall-e, raccontava che quando pensavano di fare il primo Toy Story si sono riuniti e si sono detti “ma cosa vorremmo fare? Vorremmo fare un film diverso da quelli che fa di solito la Disney, quindi non vogliamo l’inizio nel così detto happy village, non vogliamo che ci sia un cattivo cattivone classico, non vogliamo quel tipico momento dei film Disney in cui c’è il personaggio principale che dice “io voglio essere questo nella vita”, viene chiamato il want moment, non vogliamo fare un musical eccetera”. Quindi vanno dalla Disney a proporre il film e dice che la prima cosa che gli hanno detto dalla Disney, dicendo “però rendetevi conto che se volete fare un film che distribuiamo noi gli ingredienti del film sono: happy village, il villan, il cattivo, ci deve essere un momento, il want moment eccetera, no?” Quindi il loro primo film nasce e la storia di Toy Story è molto divertente perché ci fu un momento di grande crisi in cui sembrava che il film non sarebbe stato fatto e poi Lasseter e gli altri riuscirono a convincere la Disney a ridare loro un’altra possibilità per riscrivere completamente la storia, quindi nasce con un’idea di fare qualcosa di diverso in parte, in particolare di John Lasseter che fin da bambino voleva lavorare nell’animazione, aveva scoperto un libro scritto da alcuni autori Disney su come si fa l’animazione e lui lo racconta in modo molto divertente, dice: “io quando ho capito che si poteva fare questo mestiere per vivere ho detto questo è quello che voglio fare.” Era un grande appassionato di Disney, è andato a studiare alla Cal Arts, California Institute of Arts, che è una università specializzata in arte, in particolare con un corso di animazione, una università finanziata in buona parte dalla famiglia Disney. Aveva iniziato subito dopo la laurea a lavorare alla Disney e dopo tre anni, siccome lui voleva fare animazione con computer graphics, i suoi capi videro il suo primo cortometraggio fatto di animazione al computer e gli dissero in modo brutale: “ma questa cosa è più economica, si riesce a fare meglio?” E lui disse: “no, veramente no, in questo momento no.” E loro gli dissero: “va bene, da questo momento il tuo lavoro in Disney è finito, puoi andare.”
Quindi fu licenziato nell’83 mi pare dalla Disney, ovviamente come sappiamo la storia finisce bene, perché poi nel 2006 tornerà alla Disney come capo di Walt Disney animation, adesso è anche capo di Disneytoon, capo creativo, oltre a essere capo creativo della Pixar. Infatti il rinnovamento dei film Disney Disney, non Pixar, è dovuto con Frozen e altri grandi successi è dovuto in buona misura alla cura fatta da Lasseter, e dall’altra grande mente della Pixar che è Ed Catmull rispetto a Disney.
C’è un problema di eredità e di innovazione perché questo Ed Catmull in un libro che ho qui, forse magari vi leggo due righe poi, che in inglese di chiama Creativity ink, in italiano Verso la creatività e oltre, Ed Catmull identifica molto molto bene un problema di rischio di sclerotizzazione nelle grandi organizzazioni. Quindi lui dice, quando Walt Disney morì, per diversi anni la gente si chiedeva che cosa avrebbe fatto Walt Disney. Questo modo di ragionare lo si può intendere in un modo giusto e in un modo sbagliato. C’è un modo sbagliato di intendere questo ed era il modo in cui l’azienda Disney l’aveva inteso, che la fermò per diversi anni, finché non arrivarono una nuova leadership negli anni, fine anni 80 inizio anni 90, che è un modo di rimanere fortemente legati al passato senza saper innovare. Perché la vita cambia continuamente, bisogna invece essere capaci di interpretare l’eredità che abbiamo ricevuto in un modo continuamente creativo e lui Catmull oggi lo dice per la stessa Pixar, quando ci siamo fusi con la Disney, lui dice, io ho promesso a tutti che la Pixar non sarebbe mai cambiata, intendevo che non ci saremmo mai fatti influenzare dal fatto di essere parte di un mega gruppo come la Disney, però è chiaro che la vita va avanti e dei cambiamenti bisogna farli. Lui dice che poi dopo il 2006, appena succedeva qualcosa la gente spaventatissima andava da lui e diceva: “ma stiamo cambiando, non dobbiamo cambiare”. E lui dice: “se non si cambia non c’è vita”.
Questo libro, Verso la creatività e oltre, è un libro che è considerato oggi, è uscito due o tre anni fa, uno dei libri più belli anche di management delle organizzazioni, in particolare di management delle organizzazioni creative. Allora all’origine della Pixar c’è sicuramente il genio creativo di John Lasseter, c’è Steve Jobs, anche come è ben noto, però Steve Jobs non ebbe mai un ruolo interno alla Pixar, Steve Jobs fu una sorta di ministro degli esteri diciamo, o di scudo, faceva le negoziazioni con la Disney, per esempio organizzò il fatto di andare in borsa, e cose di questo tipo, ma non si occupava della vita quotidiana dell’azienda. La grande mente organizzativa, il terzo polo della Pixar, come dicevo prima è proprio Ed Catmull. Allora la storia, come vi dicevo, è una storia di outsider, persone che sono completamente degli outsider e che in pochi anni riescono ad affermarsi e a cambiare, ad aprire anche un settore totalmente nuovo, adesso ogni anno escono nuovi film di animazione che sono molto diversi dagli altri, molto belli. La Pixar è stata la prima a trasformare il film di animazione da un genere specifico, il genere musical Disney a semplicemente una modalità espressiva attraverso la quale si possono fare film di diversi generi, si possono fare film d’azione come Gli incredibili, si possono fare film che sono per esempio film epici come Bugs life, si possono fare film che sono delle buddy comedy come Toy Story, eccetera. È diventato semplicemente un mezzo di espressione. E sono degli outsider che vengono dal mondo dei computer e della rivoluzione informatica e una delle grandi cose che hanno fatto è stato applicare alla creatività il modello fortemente collaborativo e paritario che era tipico delle organizzazioni che si occupavano di scienza, in particolare di computer science ma in generale di tutte le organizzazioni scientifiche.
Accanto a questa origine molto diversa, loro appunto non stanno a Los Angeles, non stanno a Hollywood, non stanno a New York che sono i grandi poli del mondo dell’entertainment americano, ma stanno a San Francisco, più precisamente nella zona più interna della Silicon Valley, con i nomi che sentiamo tante volte che sono le zone dove c’è anche Facebook, dove c’è Google, dove ci sono le grandi azienda di informatica e hanno portato un modo di ragionare, una cultura diversa all’interno del mondo dell’entertainment.
È interessante, fra l’altro Lasseter e Catmull, probabilmente sono stati entrambi, hanno scelto le prime persone, il board, loro hanno un gruppo che chiamano brain trust che è il gruppo, diciamo, dei registi dei direttori creativi che sono persone credo straordinarie, ciascuna di loro Andrew Stanton, Pete Docter, Lee Unkrich, Bred Bird, John Ranft, è interessante tra i nomi che ho citato, tranne Lee Unkrich, tutti vengono dallo stesso luogo formativo che è appunto la CalArts, . Fra l’altro John Lasseter, Bred Bird che è il regista de Gli Incredibili, John Ranft che non ha diretto nessun film, è morto giovane per un incidente stradale ma fino al 2006 era stato capo dello sviluppo delle storie per la Pixar e anche il regista Tim Burton erano tutti colleghi dello stesso corso della CalArts. Hanno imparato dai grandi animatori Disney, che vengono chiamati con una espressione idiomatica gli old man cioè quegli uomini che negli anni ‘40 e ‘50 avevano fatto i grandi film di Walt Disney e che negli ultimi anni della loro vita si sono dedicati a insegnare ai giovani e hanno trasmesso questa esperienza.
Una cosa che non viene detta molto ad alta voce, ma secondo me è molto interessante e importante è che diverse di queste persone, soprattutto Andrew Stanton e Pete Docter, che è regista di Monster & Co, Up e Inside out, sono cristiani praticanti, cioè gente che non ha nessuna remora a dirlo, trovate su internet delle belle interviste in cui parlano di questi temi, lo stesso John Lasseter viene da una famiglia di persone protestanti, molto credenti. I suoi genitori, tutti e due, lui stesso aveva iniziato una università di Malibu, la Pepperdine University, che è una università con una forte identità religiosa protestante, quindi vengono da una educazione, una formazione che è quella diciamo dell’America profonda, dell’America anche del Mid West, molto provengono da questi stati tipo Ohio, gli stati vicino a Chicago che è una zona del paese che è quella dell’America più profonda, dell’America diciamo nel senso buono del termine più tradizionale. Quindi molti di loro si sono formati in una cultura fortemente cristiana; Ed Catmull invece è mormone, viene dallo Utah, e questo a mio parere ha influenzato moltissimo i contenuti di quello che hanno raccontato. Li ha influenzati sia questo, sia un’altra cosa che può sembrare strano dirlo ma non è frequentissimo nel mondo dell’entertainment cioè che quasi tutti loro, per esempio tutti quelli che ho citato sono sposati e con figli. Questo è molto interessante anche importante perché poi alla fine quando raccontano dei loro film, ciascuno di loro dice come la prima idea del film è nata da esperienza fortemente personali e fortemente vissute. Per esempio abbiamo visto delle immagini di Alla ricerca di Nemo, Andrew Stanton racconta che da tempo voleva fare un film sul mondo degli oceani e poi l’idea principale del film gli è venuta quando mentre stava lavorando a Toy Story o a Toy story 2, aveva un bambino piccolo e dice che quando andava il sabato e la domenica al parco con suo figlio si rendeva conto che era continuamente un po’ troppo nervoso, continuava a dire a suo figlio: “non fare questo, fermati, è troppo rischioso” eccetera e gli è venuta l’idea di questo padre super ansioso, che è talmente ansioso che provoca la ribellione del figlio fino a tutta la storia che noi conosciamo. Pete Docter per esempio racconta la storia di Monster & Co del fatto che l’idea gli è venuta proprio quando ha avuto la prima paternità, è nato il suo primo figlio e lui era un po’ workaholic, in queste aziende normalmente si lavora tanto, anche se in Pixar, soprattutto dopo Toy Story 2, hanno cercato di utilizzare una politica molto attenta di bilanciamento work life balance, cioè io quando sono stato lì, qualche anno fa a fare delle interviste a gente della Pixar tutti mi dicevano che la politica aziendale è che verso le 17:30 si finisca di lavorare e si vada a casa, cioè non è incoraggiato e non è visto bene chi lavoro fino alle 20, fino alle 22, fino a mezzanotte, anzi non si fa tendenzialmente perché si deve lavorare negli orari in cui si lavora e poi si deve avere una vita normale. Comunque Pete Docter racconta che aveva una situazione diciamo workaholic, troppo lavoro e gli è venuta l’idea di una storia in cui c’è questo mostro che è un grande lavoratore e però la sua vita viene cambiata dall’incontro con una bambina. Cose analoghe per Up, per Inside Out si è ispirato in parte a sua figlia; Bred Bird abbiamo visto Gli incredibili, racconta che alcune scene, le scene di famiglia degli incredibili, più o meno sono le scene che succedono a casa mia. Io penso che il pubblico di accorga di questo, non è una posizione ideologica sulla famiglia, non sono film ideologici ma sono film che partono da un’esperienza diretta e raccontano esperienze dirette. Lee Unkrich racconta anche qualcosa di simile che è successo fra lui e sua moglie che ha messo in Toy Story 3. Quindi c’è da una parte questa esperienza diretta perché almeno la mia esperienza di lavoro di conoscenza di come nascono i film, oramai conosco tanti sceneggiatori tanti registi, vedo che moltissimo alla fine nasce e viene filtrato dall’esperienza personale. Questo è un qualcosa, ed è bello che sia così, perché nessuno di noi, i film più belli nascono da esperienze profonde, nascono da idee profonde, e quindi questo ha un’influenza molto forte. Allora in questo modo questo autori hanno interpretato e stanno cercando di interpretare, cercando di non fermarsi mai, e qui torno all’idea di Catmull del fatto che non si può non cambiare questa grande tradizione che è la tradizione disneyana. Walt Dsney è stato un grande innovatore in tanti campi, anche in campi tecnici oggi lo si dimentica ma c’è un bellissimo documentario sulla Pixar, appunto che si chiama The Pixar story in cui alla fine la figlia di Walt Disney ricorda questo. John Lasseter dice: “Walt Disney è stato un innovatore in tanti campi tecnici e questo lo si dimentica” e la figlia di Walt Disney dice: “John Lasseter è stato quello che ha interpretato meglio l’eredità di mio padre. Probabilmente è lui il nuovo Walt Disney”.
ANTONIO AUTIERI:
Grazie Armando, anche per aver dato già un senso della tradizione in senso vivo come sembra una tradizione che si interrompa nel caso di Walt Disney, del licenziamento e poi riscoprirla, ed è bellissima questa idea che se non si cambia non c’è vita.
Adesso parliamo del cinema italiano con Francesco Amato. Insomma, al meeting di Rimini non è che vediamo tantissimi registi, a mia memoria. Allora prima di dare la parola a Francesco facciamo vedere alcuni spezzoni anche in questo caso e il primo spezzone ci spiega chi è il regista, perché tante volte abbiamo un’idea così, come di un pittore che fa tutto da solo. Vediamo questa scena di un grandissimo film di François Truffaut.
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A volte la risposta è “che si arrangino loro”, non so se Francesco ci confermerà questo. Chi è Francesco Amato, perché non so se tutti lo conoscono, allora diciamo qualche parola su di lui. Giovane regista davvero nel cinema italiano si è giovani a 40 anni, lui ha 38 anni, ha fatto già tre lungometraggi, un sacco di documentari, un sacco di cortometraggi, video clip e concentrandoci solo su i lungometraggi, quelli usciti in sala, ha esordito nel 2006 con Ma che ci faccio qui?, una commedia giovanile che fu apprezzata subito dalla critica e che tra l’altro è il primo film prodotto dal centro sperimentale, uno dei suoi luoghi in cui si è formato che per la prima volta decise, come alla fine dell’anno scolastico, di dare come diploma la possibilità di fare un film. Poi nel 2011 Cosimo e Nicole, un film che partecipò al festival di Roma, tutti e due i film sono circolati anche all’estero. Cosimo e Nicole con Riccardo Scamarcio, fra l’altro, che era uno dei due protagonisti. E proprio pochissimi mesi fa, il terzo film, Lasciati andare, quello di maggior diffusione, quello che vedremo stasera in sala Neri, con un cast molto importante Toni Servillo, per la prima volta in una commedia, Carla Signori, trade union, che è la voce di Dori in Alla ricerca di Nemo, Luca Marinelli, Giacomo Poretti e Veronica Echeguì. Prima ancora un po’ di suspance vediamo alcuni film del passato, quindi non suoi ma che l’hanno formato, che hanno un legame quasi da maestro di tradizione.
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Il tema di questo incontro, padri e maestri, è interessante vederlo interpretato da un giovane e apprezzato regista che rispetto ai film che abbiamo fatto vedere, più che i singoli film sono depositari di un lascito di chi ha fatto cinema prima di lui, quindi grande Lubich di Vogliamo vivere, questa grande commedia mitteleuropea di un europeo che ha fatto poi la storia di Hollywood come tanti; la grande commedia all’italiana, l’esempio del film di Una vita difficile di Rino Risi, con Alberto Sordi, ma se ne potrebbero citare altri, ci era venuto in mente anche la grande guerra, quella capacità di parlare di cose drammatiche, il passaggio da monarchia a repubblica, la prima guerra mondiale con la commedia che spesso è sottovalutata in questa capacità di parlare di tutto anche facendo sorridere ma in maniera profonda e poi Broadway Danny Rose la grande commedia di Woody Allen il periodo d’oro di Woody Allen e fra l’altro uno dei film preferiti di Francesco e anche di Antonio, esatto un punto in comune che abbiamo è questa commedia molto amata.
Quindi mi viene da chiedere a Francesco: i film, i maestri, i padri artistici o i percorsi personali perché dentro il percorso di un artista c’è tutto quello che la vita gli ha portato. Cosa ci puoi raccontare di te in questo senso?
FRANCESCO AMATO:
Intanto grazie mille dell’invito, scusate una punta di emozione ma io, diciamo, non sono abituato, le sale cinematografiche purtroppo non sono piene come questa in Italia, soprattutto per il cinema italiano e questo è un problema per il nostro cinema, insomma vi ringrazio. Spero che questo applauso sia di buon auspicio per i film del nostro cinema della prossima stagione. Intanto con Antonio ci siamo chiesti un po’ come introdurre questa figura del registra, come raccontarla e abbiamo pensato alla scena del film di Truffaut di Effetto notte che forse è uno dei grandi maestri che più mi ha dato. Conosco piuttosto bene il cinema di Truffaut e trovo che quel pezzettino di film che sta attorno al minuti quindici di Effetto notte sia la definizione migliore che si può dare del regista. Ogni tanto mi viene chiesto: che cosa fa un regista veramente? Credo che la mia famiglia inizialmente non lo sapeva quando io ho cominciato a fare il regista e allora ho cercato in qualche modo di trovare delle risposte. Il regista è il responsabile della trasposizione del testo scritto, ha il testo visivo certamente, il regista è colui che dirige la troupe, il regista è un demiurgo. Il realtà il regista è quello che risponde a un sacco di domande da parte di tutti e questa è la definizione di Truffaut che di cinema ne sapeva molto ed è la sostanza del lavoro, la sostanza del lavoro sul set. Come avete visto dalla costumista al produttore, allo scenografo tutti si presentano da regista e lo riempiono di input, di piccole scelte da fare che possono essere molto piccole come appunto il colore della parrucca di una comparsa, possono anche essere delle scelte importantissime come il volto del protagonista che segna il film. Quindi per definire quello che può essere un regista io credo che bisogna parlare degli strumenti del regista. E gli strumenti sono prima di tutto la scelta appunto, essere sottoposti a questa quantità di domande determina la necessità di prendere tante scelte e anche abbastanza in fretta. E quindi si può fare un film anche senza macchina da presa, ci si è riusciti anche senza i cellulare ma non si può fare un film senza lo strumento della scelta. E poi questo film ci consente anche di capire quali sono gli altri due strumenti fondamentali, credo, della regia. Sono la tradizione, forse questo aspetto incrocia un po’ il tema del meeting. Truffaut è stato un grandissimo critico prima di essere un grande regista. Io ho un rimpianto: avrei voluto fare il critico prima di avere la necessità di fare il cinema e invece ho iniziato un po’ troppo presto. Avrei preferito vedere un po’ più film. Fare il percorso dei critici dei Cahiers du cinéma di cui Truffaut è un importante rappresentante. Truffaut si porta dentro una conoscenza formidabile della storia del cinema, e questo è il secondo strumento del regista: l’esperienza. Qualcosa che fa parte della tradizione e da cui non si può prescindere e che necessariamente ogni regista è chiamato a riaggiornare. Poi forse il terzo elemento che fa di un regista un regista è la troupe, il terzo strumento è avere accanto delle persone che portano degli stimoli e il regista fondamentalmente è quello che incanala tutti gli stimoli di tutti i suoi collaboratori nella stessa direzione. Un regista deve pretendere prima di tutto che tutti i suoi collaboratori siano dei narratori. Prima di tutto il regista è un narratore, e lui deve convogliare la necessità narrativa di ognuno dei suoi collaboratori, di ognuno dei suoi reparti, dal costumista alla scenografa, allo sceneggiatore naturalmente, ma anche al produttore. Insomma, tutti i componenti della troupe nella stessa direzione. Mi viene chiesto da Antonio da dove viene la mia vocazione per la regia. Io come Truffaut sono un grande spettatore, io credo che i film, è giusto come dice Armando, nascono nell’esperienza di tutti noi ma si sviluppano nella sala cinematografica. Io quando vado in sala, anche clandestinamente, ogni tanto non lo dico a mia moglie, non lo dico ai miei colleghi, faccio finta di niente, uso le pause pranzo, vado tanto al cinema e credo che è quello per me lo spazio, è uno spazio di riflessione, è uno spazio di approfondimento, è dentro la sala cinematografica guardando altri film che io scrivo i miei film. Mi porto un piccolo taccuino e tutto sommato la mia voglia di cinema non nasce in sala ma nasce in televisione. Erano gli anni 80 e c’era una trasmissione di Sergio Zavoli che si chiamava Viaggio intorno all’uomo, se non mi sbaglio. Aveva una sigla meravigliosa che forse qualcuno ricorda con la musica dei Dire Straits, un sapore un po’ alla 2001 di Odissea nello spazio, ed era una sorta di cineforum, un vero e proprio cineforum in cui io ho scoperto tutto il cinema di quegli anni, il cinema dei miei maestri veri, nel senso poi quelli che mi hanno insegnato tecnicamente a fare il cinema, coloro che ho incontrato poi nei miei studi al centro sperimentale di cinematografia, la scuola nazionale di cinema. Ed erano appunto la Francesca Archibugi con Mignon è partita, mi ricordo di aver visto i film di Marco Risi, figlio di Dino, ricordo di aver visto Mery per sempre, ricordo di aver visto La messa è finita di Moretti, L’albero degli zoccoli di Olmi, era un’altra televisione, una televisione molto diversa da quello che si fa oggi, era una televisione che aveva spazio in prima serata per il cinema, era una televisione che si permetteva un approfondimento sul cinema. Tutto un mondo che diciamo oggi in qualche modo si va un po’ spegnendo purtroppo. E poi in fatto di padri, appunto, la mia prima curiosità vera rispetto al cinema, la prima volta che ricordo di essere entrato al cinema è stato Fantasia della Disney e io non vengo da una famiglia di cinema, i miei genitori fanno i medici. Andavamo al cinema a Natale, il più bel film che ho visto nella mia vista è stato Balle spaziali nel 1987, era il 24 dicembre, era la proiezione delle 18:30 prima del cenone di Natale. È forse uno dei ricordi più belli che ho, che mi porto dentro. Chi mi ha insegnato il cinema? Abbiamo citato alcuni ma poi in realtà io in fatto di padri io sono avvantaggiato perché in fondo il cinema me l’ha insegnato mio padre. Mio padre mi regalò, mi iscrisse a un corso di inglese perché diceva che era importante, e aveva ragione, però io non imparai una parola, ero piuttosto negato e poi mi disse “devi imparare a suonare uno strumento musicale” e mi mandò al corso di chitarra e io riuscii a fare ancora peggio, non avevo neanche capito bene come si impugnava. Poi un giorno disperato mi dà una macchina fotografica in mano, era la sua vecchia Zorki, una macchina fotografica russa con esposimetro esterno e io l’ho imparata intuitivamente in un attimo e insomma mi sono subito molto divertito con la macchina fotografica. Ma quello era un regalo interessato perché mio padre fa, appunto come vi dicevo, il mestiere più simile che ci sia al regista, che è il medico. Osservando mio padre che faceva il medico io ho capito che significa fare un ritratto. Lui faceva l’anamnesi, faceva una prognosi, determinava una cura e questo è la stessa meccanica con cui si costruisce un personaggio sul set, con cui si lavora con l’attore, l’attenzione al personaggio è quello che fa la differenza evidentemente. Quindi io dalla fotografia sono passato al cinema perché queste immagini fisse non bastavano più e mi sono messo a scrivere. Ho incontrato dei maestri che mi hanno dato tanto. Ho incontrato dei maestri cattivi e mi sono serviti perché mi chiedevano tanto. Ho incontrato dei cattivi maestri e non mi sono serviti perché non mi hanno dato niente. Devo dire che quest’ultimo film l’ho scritto con Francesco Bruni che è un grande sceneggiatore del nostro cinema, lo sceneggiatore dei film di Paolo Virzì con Paolo Virzì, è lo sceneggiatore del Commissario Montalbano ed è stato anche lo sceneggiatore di un film meraviglioso che si chiama La seconda volta di Carlo Presti. È stato anche il mio insegnante al centro sperimentale di cinematografia al punto che è la scuola di cinema nazionale e da lui ho imparato il valore del personaggio perché oggi i produttori hanno la tendenza a chiedere delle grandi idee per quando facciamo il cinema. Quando ti presenti a un produttore, il produttore ti chiede una idea che viene definita di high concept, cioè un’idea fulminante che si può raccontare in una frase. Ecco questo spesso rischia di mortificare i personaggi. In qualche modo spesso nella drammaturgia la coperta è corta, poi ci sono degli esempi di racconti perfetti con dei personaggi scavatissimi, qualche modo anche l’ultimo film di Genovese aveva un’idea di high concept che quello dei telefonini, Perfetti sconosciuti, aveva un’idea molto forte. Però ecco in realtà collaborando con Bruni ho capito che basta un’idea anche più piccola, sono i personaggi che devono essere lavorati, sono i personaggi che devono essere scavati perché oggi il nostro cinema deve consegnare personaggi complessi che rispecchino la complessità della nostra società. Non possiamo accontentarci di personaggi piatti, non possiamo accontentarci di personaggi che vengono guidati da una trama che si percepisce essere scritta. I personaggi devono insegnarci la storia. Un po’ come Bruni mi ha insegnato a scrivere i film. Ultimamente ho seguito la presentazione dell’ultimo film di Farhadi che si chiama Il cliente, e Farhadi, un premio oscar, con Una separazione ha vinto il premio Oscar, e dice “è molto semplice raccontare i personaggi positivi”. Quello che interessa a Farhadi e in qualche modo interessa anche a Bruni e quello che interessa anche a me è la complessità del personaggio, Farhadi riesce a indagare i personaggi contraddittori, riesce ad empatizzare o comunque a chiedere una spiegazione ai personaggi che sbagliano. Io credo che questo un po’ sia anche la vocazione del nostro cinema. Indagare anche personaggi che sbagliano. È quello che abbiamo cercato di fare in questo film che forse vedrete questa sera.
ANTONIO AUTIERI:
Grazie Francesco. Fra l’altro qualcuno forse lo ricorda, il meraviglioso Una separazione di Farhadi lo proiettammo qua al meeting qualche anno fa e ricordo Francesco Bruni, grande sceneggiatore, anche grande regista, gli ultimi anni di film altrettanto meravigliosi come Scialla, Noi quattro, il recentissimo Tutto quello che vuoi. Per parere personalissimo, Lasciati andare e Tutto quello che vuoi sono i film italiani più belli della stagione. Io mi permetto adesso di farvi due domande incrociate, rispondete liberamente però chiederei ad Armando cosa vedi degli spunti di cui stiamo parlando nel cinema italiano attuale e cosa la Pixar può insegnare al cinema italiano mentre a Francesco chiederei che spunti interessanti vedi nei film della Pixar, sia da genitore che da regista.
ARMANDO FUMAGALLI:
Qua la cosa interessante secondo l’esperienza Pixar, per questo io occupo una parte del mio tempo, come direttore di un master per la formazione di professionisti del cinema e della televisione. Per me questo lo studio della Pixar è stato molto interessante e illuminante è che moltissimi dei principi che loro applicano sono applicabili a realtà molte più piccole delle loro, ovviamente sappiamo bene che le dimensioni anche economiche del cinema americano, di un cinema distribuito dalla Disney rispetto a un cinema italiano sono assolutamente incomparabili. A un film della Pixar lavorano probabilmente trecento quattrocento persone per tre anni circa, sono film che costano centocinquanta/ centoottanta milioni, un film italiano oggi costa due milioni, tre milioni, sono cifre totalmente incomparabili. Però al di là di queste differenze di dimensioni ci sono una serie di idee, di modi di fare che sono perfettamente applicabili e io devo dire nella mia esperienza come consulente della Lux vide, è una esperienza interessante positiva perché nel nostro piccolo, nel loro piccolo, soprattutto il reparto di sviluppo delle storie della Lux, in qualche modo istintivamente lavorava e lavora in un modo simile, poi ovviamente cerchiamo tutti di imparare gli uni dagli altri e quindi alcuni principi vengono applicati. Ho qui quattro o cinque punti su cui vado molto molto velocemente. Un primo punto è che la Pixar ha avuto chiarissimo fin dall’inizio che mentre tutti fine anni 90, primi anni 2000 parlavano alla tecnologia, il computer, loro dicevano “nel cinema la cosa più importante è la storia, story first”. Ricordo bene una mia studentessa, ex studentessa perché si è laureata ormai quindici anni fa circa, fece un’intervista a Pete Docter, mandò delle domande al regista di Monster & Co, gli mandò delle domande quando ancora non c’era questa attenzione così forte sulla Pixar e lui da questa studentessa sconosciuta, la ragazza si chiamava Elena, me la ricordo bene, che faceva una tesi di laurea, rispose e nel rispondergli le chiede “ma come mai avete fatto…? Come lavorate?” eccetera ed era già chiarissimo, lui John Lasseter lo dicono, per il cinema, per noi la tecnologia eccetera è assolutamente secondaria. La cosa più importante è lavorare sulla storia. Story first, la storia al primo posto. E lavorano tanto, ci lavorano fra l’altro con un lavoro che spesso è un lavoro molto cooperativo, qualche volta i loro film come sceneggiatori li filmano una, due, tre persone ma alle volte, per esempio Toy Story, Toy Story 2, fra gli autori della storia, gli autori della sceneggiatori e addictional story material almeno sette, otto o dieci persone. Poi loro hanno questa metodologia che fa sì che nelle varie fasi di sviluppo di un progetto, il progetto viene sottoposto a un gruppo di una decina di registi, di creativi che danno liberamente dei suggerimenti. Allora questo permette di sviluppare le storie molto molto molto bene. E questo in qualche modo è un po’ nel piccolo l’esperienza del Lux, soprattutto con le fiction televisive. Il secondo punto questo lo dice John Lasseter uno dei principi tanto suo suoi quando di Ed Catmull lui dice “qualities is the business plan”, è inutile cercare scorciatoie, alla fine le strade che apparentemente sono più lunghe, più faticose sono quelle che portano più lontano. In altri casi, si può evidentemente applicare a situazioni molto, molto, molto diverse a situazioni grandi, piccole e medie, anche un gruppettino di tre ragazzi che si mettono a fare un corto, possono e devono applicare se vogliono lavorare bene questi principi. Non cercare scorciatoie, loro hanno avuto un momento molto importante che dicono un momento definitorio per loro quando la Disney aveva insistito per fare un Toy Story 2, loro l’avevano dato in mano ad un équipe di secondo livello, hanno visto che Toy Story 2 non era del livello sufficiente e essendo l’uscita del film già definita perché collegata a tutta una serie di operazioni di merchandising etc.. avevano 9 mesi di tempo per rifare il film completamente da capo, hanno lavorato come pazzi per rifare totalmente il film per 9 mesi che come è noto è stato uno dei primi sequel che è considerato forse addirittura migliore dell’originale perché hanno capito che non potevano collegare il nome Pixar con un prodotto di secondo livello. Il terzo punto è un’attenzione continua alla formazione. È molto bello quello che ha detto Francesco “mi piace vedere film, continuerei a vedere film, perché ovviamente sono un’esperienza intellettuale, esistenziale, ma anche si impara tanto a vedere film”. Loro in generale sono un’azienda che cura tantissimo tutti gli aspetti della formazione con anche aspetti sorprendenti, vogliono che anche chi si occupa ad esempio di informatica, ma anche di contabilità eccetera segua durante l’anno dei corsi di materie che interessano a loro, storia dell’arte, storia del documentario, disegno eccetera perché vogliono far sì che tutta l’organizzazione sia un’organizzazione che continua ad imparare, non si considerano mai arrivati, io ho sentito un’intervista con Pete Docter in cui lui dopo aver avuto due grandi successi, ha proprio elaborato diversi grandi successi mondiali, dice che aveva seguito per la quarta o la quinta volta un corso di quattro giorni di un famoso guru americano che si chiama Robert Mckee e che ha insegnato la sceneggiatura a tantissimi professionisti americani, europei e nel mondo. E quando gli intervistatori gli chiedevano: “Ma scusi, ma come mai? Ma chi fa questi quattro giorni di corso? Dice sempre le stesse cose, perché l’ha seguito quattro, cinque volte?”. Dice: “Guardi, è vero che ripete le stesse cose, però a me serve molto per quando sto pensando un nuovo film. Questa cosa mi aiuta ad avere nuove idee, a confrontarmi di nuovo, ad analizzare meglio quello che sto facendo, eccetera”. Al di là dell’aspetto specifico, secondo me, identifica l’atteggiamento giusto, l’atteggiamento di chi non si considera mai arrivato, che purtroppo è una malattia – Francesco lo saprà – molto diffusa nell’ambiente creativo: di chi si considera arrivato dopo aver fatto magari una prima cosa che è andata magari semplicemente benino. E l’altro punto è quello di saper prendersi dei rischi, su questo non mi fermo, ma Catmull racconta molte esperienze e va molto in concreto su questo. Lui dice: “Il ruolo del management di chi guida un’organizzazione relativa è quello di prendere dei rischi”. Non si può non sbagliare. Se si vogliono fare delle cose nuove, qualcuna verrà male. Non dobbiamo aver paura di affrontare dei fallimenti. Il ruolo del manager è quello di gestire la cosa che va male. È inutile, non serve niente se tutto va bene. Ma occorre la capacità di saper prendersi dei rischi. Pensiamo a film che, visti con senno di poi, sembrano facili. Ma pensate voi cosa vuol dire investire 120, 150 milioni di dollari su un film, in teoria per bambini un film d’animazione, che ha per protagonista un anziano scorbutico, come il caso di Up. Era considerato un progetto molto rischioso. Non so quanti produttori avrebbero rischiato su un film così. Pensate cosa vuol dire investire una cifra simile per raccontare la storia di un topo nella cucina di un ristorante francese, un high concept, un concept molto forte, una cosa totalmente inaspettata o un film che puoi raccontare in una frase. Però la loro caratteristica è quella di non fermarsi all’high concept, ma di fare uno sviluppo paziente – lavorano anche due, tre, quattro, cinque anni. Nel caso di Ratatouille hanno cambiato sceneggiatore, hanno addirittura cambiato regista perché c’era un regista che stava lavorando, non lavorava bene. È stato sostituito poi da Brad Bird. E però capacità di prendersi dei rischi. Oppure Wall-e, un film quasi muto nei primi quaranta, quarantacinque minuti, ambientato in un futuro post-apocalittico. Sono cose, se uno fosse andato, e soprattutto in quell’epoca, da qualsiasi produttore del mondo a dire: “Voglio fare un film d’animazione così”, gli avrebbe detto: “Sei pazzo, non lo puoi fare”. Ovviamente queste strategie vanno poi bilanciate realisticamente anche con la capacità di, magari, fare anche dei sequel che sono garanzie di successo, come hanno fatto con Cars, che fra l’altro sono film che vendono tantissimo in merchandising. E le ultime notazioni. La citavo prima, ma la sottolineo: la capacità di impostare una cultura della collaborazione, che nell’ambiente creativo è difficilissima, per questo anche nel nostro piccolo formativo noi cerchiamo di formare moltissimo alla collaborazione, perché è una chiave di soluzione di mille problemi. Di geni assoluti ne nasce uno ogni non so quanto tempo, ma c’è la possibilità di arrivare a fare delle cose molto ben fatte, se si riesce a unire le forze. La storia stessa della Pixar, l’unione fra Steve Jobs, Lasseter e Catmull e gli altri che hanno lavorato con loro, lo dimostra. Loro hanno tutta una serie di pratiche, di modi di fare, di stili aziendali, ma proprio anche di modi di procedere per facilitare al massimo la collaborazione. Il penultimo punto è già accennato, ma lo sottolineo. Sono tutte cose che, ripeto, possono essere prese ad esempio nel nostro relativamente piccolo del cinema e della televisione italiana. L’altro punto è il contatto profondo con la gente comune, che non tanto per la televisione, non tanto per la fiction televisiva, ma quanto per il cinema italiano alle volte rischia di essere un problema. Ogni comunità creativa tende a chiudersi un po’ nel suo mondo, che è un mondo che ha un po’ tutte le sue logiche, i suoi riti, i suoi interessi, le sue passioni, eccetera, ma alla volte rischia di staccarsi dalla gente comune. Non è un caso che il regista-sceneggiatore di maggior successo del cinema italiano, che sappiamo bene è Gennaro Nunziante, il regista-autore dei film di Checco Zalone, è un regista-autore che ha deciso scientificamente, volutamente di non andare ad abitare a Roma. Abita a Bari, è sposato con tre figli, vuole fare una vita staccata dal mondo che tende ad avere le sue logiche del mondo del cinema, ed è riuscito a fare dei film che sono andati veramente incontro alla gente comune. Questo alle volte per il cinema italiano rischia di essere un problema. E l’ultimo punto è la loro capacità – quello che dicevo prima – di attingere l’esperienza personale, ma di toccare le emozioni, cioè di lavorare in profondità su delle emozioni, che, saranno anche semplici, ma sono vere. Pensiamo all’emozione forte che probabilmente abbiamo sentito tutti nel vedere l’abbraccio finale fra Carl e il giovane Russell in Up: è una cosa, se vogliamo, semplice. Probabilmente alcune persone che lavorano in Italia nel cinema – lo so perché ho assistito a conversazioni di questo tipo – direbbero: “No, è troppo cheap, è troppo ovvio, è troppo scontato”. Eppure questa capacità di essere semplici, di andare forte a delle verità, che poi alle fine sono delle verità umane, l’esigenza di questo ragazzo di avere una figura paterna e il fatto che questo nonno trovi in qualche modo un figlio che non ha mai potuto avere, questo noi lo vediamo e lo capiamo in questo abbraccio. Ecco, questo alle volte, secondo me, è quello che il cinema italiano dovrebbe imparare di più e dovrebbe non aver timore di fare, di raccontare.
ANTONIO AUTIERI:
Grazie, Armando. Francesco, tu cosa vedi in questi film?
FRANCESCO AMATO:
Rispetto alle interessanti considerazioni di Armando, io ruberei alla Pixar un po’ quello che lui ha definito il “rischio d’impresa”. Ecco, spesso siamo un po’ timidi, il nostro cinema rischia di essere un po’ timido, mentre, invece, mi sembra ci sia molto coraggio nel lavoro della Pixar. Soprattutto adesso io non sono un grande esperto, però ricordo i personaggi Disney: quelli prima del 2006 erano, sembravano piuttosto edulcorati in qualche occasione, mentre quello che a me piace dei film della Pixar – motivo per cui li vado a vedere con mia figlia – è che parlano dei deboli, parlano delle fragilità, parlano dell’handicap, parlano degli svantaggiati, ecco, e lo fanno con uno spirito positivo. E questo, insomma, devo dire, mi conquista. E, diciamo, il problema del cinema in fatto di rischio, e qui mi ricollego il cinema italiano, è che noi facciamo dei prototipi, cioè io avevo un insegnante molto bravo che diceva che noi non facciamo lavatrici, le lavatrici si fanno tutte alla stessa maniera. Anche quando si ha il controllo di tutto, come nell’animazione, poi non si ha mai la certezza del risultato. Insomma, gli americani possono contare molto spesso su esiti molto positivi da un punto di vista di botteghino, noi molto meno. Però forse dovremmo tentare di lanciarci un po’ di più. Quello che mi piace di Pixar è un po’ quello che abbiamo visto anche in Una vita difficile, perché poi quello ce lo siamo inventati noi: la combinazione tra il tragico e la commedia. Io quello che invidio alla Pixar è la qualità della scrittura: la qualità della scrittura di Inside Out è incredibile, l’approfondimento dei personaggi di Up è incredibile. Però questa qualità di scrittura, questa qualità di approfondimento dei personaggi stava anche nel nostro cinema, nella commedia all’italiana, in particolare, io penso, abbiamo visto un pezzettino di Una vita difficile. La combinazione tra il tragico e la commedia: questo è un livello sul quale mi sembra che lavori l’animazione dai tempi di Bambi. E poi viene fuori molto forte in questi ultimi film della Pixar ed è una questione su cui il nostro cinema forse lavora meno in questi ultimi anni. Una cosa che mi ha regalato la scrittura di quest’ultimo film con Francesco Bruni e con Davide Lantieri è la capacità di ridere, la forza che ha la risata, ma non quella del pubblica, quella di noi scrittori mentre lavoriamo. A un certo punto piano piano ho capito che le scene che scrivevamo funzionavano soltanto se ci facevano ridere. Per ricollegarmi ad alcuni degli spezzoni che abbiamo visto, quello di Lubitsch, quello di Woody Allen, abbiamo guardato molto alla cinematografia anglosassone ebraica, dai fratelli Cohen ai fratelli Marx, per scrivere questo film Lasciati andare, che forse qualcuno di voi vedrà questa sera. E abbiamo guardato a questa cinematografia intanto perché il protagonista del film, Toni Servillo, è ebreo, e poi perché l’umorismo ebraico stabilisce con il tragico e con la commedia un rapporto di incontro, di combinazione. Per gli ebrei l’umorismo, l’autoironia è, diciamo, la chiave per superare le sofferenze, per superare i drammi della storia anche. In questo senso c’è un segno molto forte, credo, anche rispetto alla direzione che dovrebbe prendere la commedia, cioè parlare di temi forti con una chiave di leggerezza. Mi sono segnato una frase che diceva, che aveva scritto Calvino nelle Lezioni americane: “Prendete la vita con leggerezza, che leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore”. Ecco, credo che questa sia una maniera per affrontare non soltanto le storie del cinema, ma anche la vita. È un messaggio che il cinema può comunicare: appunto, raccontare con leggerezza, prendersi un po’ in giro. Mi sembra un messaggio di civiltà ogni tanto.
ANTONIO AUTIERI:
Grazie, Francesco.
FRANCESCO AMATO:
Grazie a voi.
ANTONIO AUTIERI:
Grazie, oltre che per quello che hai detto molto significativo, anche perché hai introdotto già l’ultimo contributo, il filmato che vediamo prima di salutarci, che è proprio qualche immagine di Lasciati andare, film di stasera, a cui vi invitiamo assolutamente a venire alle 21.15 in Sala Neri. Prego la regia di mandare in onda queste scene.
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Appuntamento per tutti stasera. Prima di lasciarci permettetemi di dire due ultime parole. Io intanto ringrazio moltissimo Armando e Francesco per la loro presenza, per quello che ci hanno detto. Pensando a questo incontro, pensavamo così a degli stimoli sulla frase di Goethe, sull’eredità da riguadagnare, sui percorsi di John Lasseter e di Francesco Amato e della loro eredità da riguadagnare. Sentendo parlar loro, mi è venuto da pensare – la vita è sempre spiazzante – che l’eredità da riguadagnare è anche nostra come spettatori: della bellezza di grandi film che vediamo d’animazione, per il grande cinema italiano che spesso snobbiamo, del passato o soprattutto del presente. Ed è un’eredità da riguadagnare per gli spettatori e per me, che ne parlo e rischio di darlo per scontato. E proprio per questo vi dico la frase che mi hanno detto di leggere, secondo me molto significativa rispetto al tema sul meeting: “Anche quest’anno è possibile contribuire alla costruzione del meeting attraverso donazioni. A questo scopo all’interno di numerosi padiglioni troverete le postazioni “Dona ora”. Le donazioni dovranno avvenire unicamente presso i desk dedicati, dove sarete accolti da volontari che indossano la maglietta “Dona ora”.” Anche il Meeting è un’eredità da riguadagnare per tutti. Grazie e ci vediamo stasera in Sala Neri.