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“OSPEDALI APERTI”: TESTIMONIANZA DALLA SIRIA
Partecipano: Joseph Fares, Direttore dell’Ospedale Italiano di Damasco; Lucia Goracci, Corrispondente della RAI da Istanbul; S. Em. Card. Mario Zenari, Nunzio Apostolico a Damasco. Introduce Giampaolo Silvestri, Segretario Generale della Fondazione AVSI.
"Ospedali apertii”: testimonianza dalla Siria
GIAMPAOLO SILVESTRI:
Buon pomeriggio a tutti. Innanzitutto vorrei ringraziare i presenti, gli ospiti e i relatori che tra un po’ presenterò, tutte le persone in sala. Vorrei ringraziare il Meeting proprio perché ha scelto di chiudere con un incontro destinato a raccontare quello che sta succedendo in Siria, dal titolo: “Ospedali aperti: testimonianza dalla Siria”. Perché questo incontro, attraverso testimoni diretti, vuole fare conoscere e ascoltare una delle più grandi emergenze umanitarie oggi nel mondo, forse la più grande nella storia, a partire dalla seconda guerra mondiale. In particolare, attraverso un progetto che si chiama “Ospedali aperti”. Vorrei iniziare con un brevissimo video di 2 minuti che ci aiuta ad entrare nel contesto. Pregherei la regia di mandarlo.
Video
Come avete potuto vedere da queste immagini, stiamo parlando di un progetto che riguarda degli ospedali e che è di aiuto alla popolazione siriana. Prima di raccontare il progetto, vorrei introdurre gli ospiti, partendo da Sua Eminenza il Cardinale Mario Zenari. Sua Eminenza è Nunzio Apostolico, quindi rappresentante del Papa in Siria, dalla fine del 2008. Ha una grande esperienza diplomatica. Come dice sempre lui, è un “Nunzio di guerra”, perché ha vissuto molti contesti difficili: la guerra civile in Costa d’Avorio, la guerra civile in Sri Lanka. E’ stato temprato da situazioni difficili. Nel 2016 Papa Francesco lo ha nominato Cardinale, anche per dare un significato alla presenza della Chiesa in Siria. E lui è un vero testimone di quello che sta succedendo in Siria, essendo lì dall’inizio, da prima della guerra. Dopo ascolteremo le sue parole. Poi abbiamo Lucia Goracci: giornalista RAI, inviata di Rai News 24, ha seguito tutta la guerra siriana. È stata più volte in Siria, è stata a Kobane e prossimamente diventerà corrispondente RAI da Istanbul, proprio per seguire l’area mediorientale: sentiremo dalle sue parole anche un’analisi del contesto geopolitico in cui questa guerra, questa crisi si sta sviluppando. E poi, Joseph Fares, medico, direttore dell’ospedale italiano di Damasco. Joseph parla italiano e siriano, il suo ospedale è un’istituzione storica, esiste da oltre 100 anni: lui ci racconterà, da testimone sul campo, cosa significa oggi lavorare in un ospedale in Siria. Io sono Giampaolo Silvestri, faccio il Segretario Generale della Fondazione AVSI, una Ong che molti di voi penso conoscano: facciamo progetti di cooperazione, siamo presenti in trenta Paesi del mondo, abbiamo più di 150 progetti. Ma ciò che ci sta più a cuore è proprio la situazione della Siria. AVSI è entrata in Siria circa tre anni fa, facendo un accordo col Governo siriano, e stando lì, attraverso un dialogo, un’amicizia con Sua Eminenza, abbiamo avviato questo progetto “Ospedali aperti”. Che cos’è? Vogliamo permettere alle fasce più povere della popolazione siriana, prostrata da sei anni di guerra, di accedere a servizi sanitari in maniera gratuita, attraverso il potenziamento di tre ospedali cattolici gestiti da congregazioni presenti in Siria da più di un secolo, due a Damasco e una ad Aleppo. Si trovano in un contesto di guerra e noi vogliamo potenziarli in modo tale che possano offrire cure gratuite alle fasce più povere della popolazione. Il progetto ha una componente di fornitura di attrezzature, di formazione del personale e soprattutto di rimborso delle prestazioni che gratuitamente questi ospedali forniranno. Un progetto su cui il Cardinale ed io siamo molto impegnati, anche per quanto riguarda la raccolta fondi, che non è semplice. C’è un budget importante, quasi 20 milioni di euro sui tre anni, e fino ad oggi molte realtà ci hanno sostenuto, potete vederlo nella slide: realtà cristiane, cattoliche, enti privati, imprese. Noi chiediamo il contributo di tutti. Ma ora direi di passare ai nostri ospiti e partirei proprio da Lucia Goracci. Questo progetto nasce in un contesto regionale ben preciso, in una crisi. Vorrei chiedere a lei, che è stata in Siria e conosce il contesto, anche dei Paesi vicini: che cosa sta succedendo in quest’area? Qual è la tua percezione dei fatti, dopo sei anni di guerra? Aiutaci a capire la realtà.
LUCIA GORACCI:
Grazie. Penso che la mia ricostruzione sarà un racconto approssimativo e insufficiente, non solo perché evidentemente non si racconta in pochi minuti quella che l’ONU ha chiamato la peggiore catastrofe umanitaria dopo il secondo conflitto mondiale, con mezzo milione di morti, cinque milioni di profughi, sei milioni di sfollati interni. Un siriano su due non è più a casa sua, non è più nel luogo dove è nato e dove probabilmente ha trascorso la gran parte della sua vita. C’era l’altro giorno, sul quotidiano britannico The Guardian, un bellissimo articolo di Khaled Khalifa che raccontava la sua scelta in controtendenza di restare a Damasco, e la condizione di eterna apolidia cui invece sono condannati quelli che fuggono. Quello che è accaduto nella tarda estate del 2015 in Europa, lungo la rotta dei Balcani, è stato un esodo davvero epocale, subìto da un Paese che aveva una storia di città – penso ad Aleppo, che ho visitato quattro volte lo scorso anno – che venivano raccontate nelle tragedie di Shakespeare, città antiche, con una storia di commerci, di legame tra Oriente e Occidente, di legami tra civiltà. Inevitabilmente, un cronista cerca, come credo di fare io, di avvicinarsi il più possibile al luogo dove le cose accadono: questo in Siria, alla quasi totalità di noi, è stato reso impossibile. Raccontare le guerre è sempre un’operazione approssimativa: per raccontare compiutamente una guerra, da un punto di vista metodologico si dovrebbe percorrere quella linea immaginaria che separa le parti in conflitto e avere uno sguardo davvero a 360 gradi. Questo non è possibile e quindi vieni sempre forzatamente costretto a raccontare le guerre dal punto di vista del luogo che scegli per raccontarle. La tragedia siriana, da molto tempo a questa parte, ha delle zone d’ombra inevitabili per noi cronisti, soprattutto per noi occidentali. Raqqa, Deir ez-Zor, sono evidentemente città off-limits per molti noi da anni: lo sono state e continuano ad esserlo per la presenza di forze al-Qaediste, jihadiste. Io ho raccontato l’ultimo assedio di Aleppo dalla parte dei governativi, cioè di chi evidentemente la gran parte di quelle bombe lanciava, non di chi quelle bombe subiva. Ma andare in quei quartieri mi sarebbe probabilmente costata la libertà, forse la vita. Ricordavamo prima Padre Dall’Oglio: gli ultimi giornalisti come James Foley, che sono andati da quel lato del conflitto nella seconda metà del 2012, hanno pagato con la vita quella scelta coraggiosa. E’ una lunga premessa per dirvi che quella siriana è una tragedia che comincia, un po’ come tutti gli altri eventi del 2011, nel solco di quello che noi, semplificando, abbiamo chiamato “Primavere arabe”, ma che poi prende quasi subito un destino diverso per due ragioni: primo, perché è un fenomeno che si militarizza quasi subito. Ma questo era successo anche altrove, laddove il Governo aveva opposto resistenza alle rivolte, penso alla Libia. Il governo di Damasco, diversamente da quello libico, può contare su alleati che supportano Damasco stessa. Contestualmente, quelle che nascono evidentemente come rivolte di strada, molto presto, già prima del finire del 2011, diventano qualcos’altro. E Paesi come il Qatar, l’Arabia Saudita, la Turchia, intervengono con le loro agende geopolitiche internazionalizzando la crisi siriana anche con ambizioni proprie, penso soprattutto agli Stati Uniti dove, all’idea di Obama di tenersi lontano dalla Siria in un primo momento, si contrappone quella di Hillary Clinton, di un interventismo anche armato in Siria. Insomma, quella siriana diventa subito, come l’ho chiamata spesso nei miei servizi, una “guerra di guerre”. C’è un esercito libero siriano, ci sono città che vengono prese, amministrate dalla ribellione, ma già nel 2012 in Siria ci entra soprattutto la parte che si ribella al regime, Jabhat al-Nuṣra, la costola siriana di al-Qaeda, che prende il sopravvento in tutte quelle realtà, penso a Homs, ma anche in buona parte a Idlib. Attualmente Idlib è tenuta dagli eredi di Jabhat al-Nuṣra che oggi si fanno chiamare Hay’at Tahrir al-Sham ma, insomma, sono più o meno le stesse forze. Contestualmente, la risposta del Governo è molto violenta, è molto dura, si affida all’aviazione. Ci sono alcune ricostruzioni molto interessanti di esperti che dicono addirittura che il Presidente Bashar al Assad è la persona che nel gennaio di quell’anno, 2011, mentre cadevano Ben Ali in Tunisia e Mubarak in Egitto, rilasciò un’intervista al Wall Street Journal, dicendo: “A questo Paese non succederà”. E invece, poi, si è trovato in quello che è stato forse l’epilogo più tragico dei sommovimenti del 2011. Ebbene, pare che anche lui abbia in qualche modo contribuito a “qaedizzare” la rivolta: si parla, per esempio, di due amnistie per le quali dalle carceri siriane escono anche molti jihadisti. Ovviamente non posso raccontare tutta la guerra, procedo per sommi capi. Nell’agosto, settembre 2013 siamo ad un passo dall’intervento armato anglo-franco-americano per l’utilizzo delle periferie di Damasco, di cui fa le spese la popolazione civile, per le armi chimiche che erano state la linea rossa che Obama aveva opposto. Ma quell’intervento non c’è stato. Il Governo resiste, appoggiato anche dalle forze iraniane, dall’Hezbollah libanese e indirettamente dalla Russia, anche dal Consiglio di Sicurezza dove vengono bloccate molte risoluzioni di condanna. Quella facile caduta del Presidente Assad, che era stata pronosticata da molti – penso alla Turchia di Erdogan ma anche alla visita resa nei primi mesi della rivolta dall’ambasciatore americano e da quello francese ai ribelli di Hama – non avviene. Col tempo, però, ci sono parti del Paese, come ad esempio Idlib, che vengono prese da Al Qaeda: ricordo che nel marzo 2015 la caduta di Idlib nelle mani di Al Qaeda fece scalpore. Alla fine di quell’anno, ci fu l’intervento diretto dei russi a fianco del Governo: è il momento in cui tutto cambia. Contemporaneamente, si apre la partita curda: Kobane che resiste all’Isis muove un nuovo fronte, il fronte YPG, le forze curde fanno di quella resistenza un contrattacco che le conduce oggi alle porte di Raqqa, l’Isis arriva e ingloba tutto il resto, persino Jabhat al-Nuṣra che, in qualche modo, all’inizio era stata sua alleata. Arriviamo all’oggi: l’assedio di Aleppo, la riconquista da parte dei governativi, una Siria che rimane, un Governo che rimane ma a un prezzo davvero pesante: il Paese è diviso, il Governo rimane in quelle che sono le città principali, si parla di “Siria utile” – e cioè Latakia, Hama, Homs, Damasco -, che però ha ancora un fronte di ribellione molto importante nelle periferie. Un Paese che deve ricostruire sulle macerie. Due giorni fa, ascoltavo a Ginevra Jan Egeland, che è lo Special Advisor del Rappresentante speciale delle Nazioni Unite per la Siria, Staffan De Mistura: raccontava dell’enorme difficoltà per l’ONU di portare aiuti in Siria, parlava di undici città sotto assedio – otto assediate dai governativi, tre dai ribelli, da Al Qaeda in particolar modo, e a Deir ez-Zor c’è ancora l’Isis -, di mezzo milione di persone che non ricevono aiuti da mesi. La popolazione civile ne fa le spese.
Vedo che il tempo a mia disposizione sta finendo, vorrei lasciare dicendo quello che diceva Sua Eminenza poco fa: in un ingresso con l’esercito siriano in un quartiere di Aleppo, lo scorso ottobre, ho visto quella che è un po’ la rappresentazione plastica di questo crudele conflitto. Il cortile dell’ospedale presentava le ambulanze bombardate: evidentemente, era stata l’aviazione del governo di Assad, a farlo. Ma allo stesso tempo, l’ospedale stesso, dove erano presenti i vessilli di Jabhat al-Nuṣra nei murales, sulle pareti interne, conservava ancora gran parte di quegli aiuti. C’erano scatoloni di “MSF” e di “Save the Children”, che probabilmente non erano stati distribuiti alla popolazione ma trattenuti dai gruppi armati per curare prima di tutto i loro uomini. Ecco, davvero in Siria è difficile trovare innocenti, soprattutto dopo sei anni di un conflitto così crudele. La popolazione è la vera, prima vittima di questo conflitto dove gli interessi e gli appetiti di tutti si sono sovrapposti e dove gli interessi del popolo siriano non si sa da chi siano rappresentati e dove si trovino.
GIAMPAOLO SILVESTRI:
Ecco, appunto, gli innocenti. Dottor Fares, lei che ogni giorno nel suo ospedale ha a che fare con le vittime innocenti di questo conflitto, com’è oggi lavorare in un ospedale a Damasco? Quali bisogni incontra? Quali sfide devono affrontare nell’ospedale i suoi collaboratori?
JOSEPH FARES:
Buongiorno. Comincio col chiedere scusa del mio italiano ma ci tengo a parlare italiano qui in Italia, mi fa bene al cuore. Vorrei ringraziarvi del vostro invito. Desiderio ringraziare Sua Eminenza Cardinale Mario Zenari, promotore del progetto di cui stiamo parlando, la Presidente del Meeting di Rimini, professoressa Emilia Guarnieri e il segretario generale della Fondazione AVSI Giampaolo Silvestri. Vorrei ringraziare anche la dottoressa Goracci, perché questo quadro, anche a me, siriano che vive a Damasco, ha insegnato qualche cosa. Allora, grazie.
LUCIA GORACCI:
Grazie a lei.
JOSEPH FARES:
Signore e signori, amici e tutti qui presenti, il nostro ospedale è sorto nel 1913 per iniziativa dell’egittologo Ernesto Schiaparelli, fondatore dell’Associazione Nazionale per Soccorrere i Missionari Italiani all’estero, che si chiama ANSMI ed è proprietaria dell’ospedale. E’ un organismo non a scopo di lucro, la gestione è affidata all’Istituto dei Figli di Maria Ausiliatrice, Salesiani di Don Bosco, nella persona di Suor Yvonne Reungoat, in stretta collaborazione con il presidente dell’ANSMI che attualmente è l’architetto Maurizio Saglietto, al quale mando un cordiale saluto. L’ospedale italiano è aperto a tutti i siriani, secondo il nostro motto di sempre: l’ospedale è aperto a tutti e noi siamo per tutti. Vorrei presentare a questa assemblea i bisogni degli ospedali siriani, e quindi dei siriani. In primo luogo, riguardo alla situazione sanitaria, c’è mancanza di tante cose a causa della guerra che ha provocato distruzioni, specialmente nelle zone dove i combattimenti sono più forti. Ogni tanto manca l’acqua, mancano sempre, invece, l’elettricità e il gasolio. Mancano le risorse umane, ed è la mancanza più difficile da affrontare, dovuta alla migrazione o servizio militare. I giovani scappano per non andare nelle zone di combattimento, per non morire. E c’è una grande difficoltà finanziaria per i siriani: oggi la lira siriana vale undici o dodici volte di meno che nel 2011. Questo vuole dire, per esempio, che il dollaro, che valeva 45 lire siriane, adesso ne vale 530. Tutto questo rende le cose molto difficili: manca soprattutto la sicurezza per la vita propria e dei propri familiari. Io ho conosciuto tante persone che hanno perso i loro bambini nelle scuole, mortai che sono arrivati nelle aule: per salvare gli altri bambini, la gente ha cominciato a scappare dalla Siria. E questa è una sfida molto importante per noi: con AVSI e con i signori qui presenti cerchiamo di capire come affrontarla. C’è una mancanza di attrezzature mediche, soprattutto mancano i farmaci cosiddetti “salvavita”. Manca la possibilità di riparare gli apparecchi sanitari: non ci sono più ingegneri per seguire la manutenzione delle cose, tutto è caro, molto caro. Ed è quindi quasi impossibile una ristrutturazione efficace delle strutture ospedaliere di cui facciamo parte. Attualmente, l’alto costo del trattamento delle malattie ha messo in difficoltà l’ospedale e i malati: difficile affrontare il trattamento delle patologie normali, a maggior ragione di quelle causate dalla guerra. La stima dei morti è di circa 500 mila persone, probabilmente anche di più. Maggiore nella realtà è anche la stima dei mutilati di guerra, due o tre volte superiore al numero dei morti. Stiamo parlando di un milione e cinquecento mila persone! E grandissimo peso hanno le sanzioni che colpiscono gravemente anche l’importazione dei generi sanitari, dai medicinali ai macchinari. Teoricamente, non c’è embargo per la sanità ma praticamente non è così. È difficile fare arrivare materiale perché non possiamo mandare soldi dalla Siria e non possiamo riceverne. Così i prodotti devono arrivare in Libano o a Dubai, ci vuole il doppio del tempo e i costi lievitano. Dobbiamo fare qualcosa contro l’embargo. Quella che vi ho sottoposto è una breve lista, nella realtà è molto più lunga: questa è la situazione in Siria.
Vorrei parlarvi un po’ del nostro progetto che ha come scopo aiutare i poveri e i bisognosi che attualmente sono la maggioranza della popolazione siriana, offrendo loro la possibilità di servizi sanitari di buona qualità, con un follow-up per loro gratuito, pagato dal Progetto. Si cerca di rendere effettivamente gratuiti tutti i servizi che gli ospedali pubblici, teoricamente, sarebbero tenuti a fornire ad ogni siriano. In pratica non è così. E si stanno facendo accordi anche con gli ospedali privati, che offrono una professionalità e una disponibilità migliore. Da qui, il nome del progetto: “Ospedali aperti”. Aperti per i bisognosi e i poveri che vengono all’ospedale per essere trattati gratuitamente. Il progetto vuole appoggiare gli ospedali cattolici, che in Siria sono pochi, perché possano mostrare un ruolo positivo e patriottico nel risolvere la miseria dei siriani. Questo è un punto molto importante per noi, per l’immagine delle suore e della Chiesa: sostenere questi ospedali perché vadano avanti a curare i pazienti e aumentino il numero dei posti letto, attualmente pochi dato il bisogno che c’è. Adesso siamo al 50%, speriamo di arrivare al 100% delle nostre possibilità. Uno scopo è anche migliorare l’attrezzatura medica, modernizzare il sistema informatico, che è molto vecchio, quasi inesistente, dare la possibilità di creare dei centri esterni, specialistici, per mutilati fisici e psichici della guerra, offrire, gratuitamente o quasi, servizi per malattie croniche. Prima di finire il mio intervento, vorrei ripetere le parole di Sua Eminenza, il Cardinal Zenari, alla nunziatura di Damasco: “Facciamo questo progetto in risposta all’appello di Papa Francesco, per l’anno della Misericordia, per dare testimonianza e prova di responsabilità verso Dio e verso i nostri fratelli siriani”. Queste parole sono state il triduo per iniziare questo progetto. Allora, dico grazie ad ogni persona che ci ha aiutato e che ci aiuterà; grazie all’assemblea qui presente; grazie ad ogni persona che collaborerà con noi per diminuire il dolore e la sofferenza dei miei concittadini siriani, sia con sostegno materiale, psichico e morale, sia con un sorriso pieno di umanità. Sarete benvenuti in Siria e nel nostro ospedale, dove vi aspettiamo per mostrarvi la nostra realtà, le condizioni difficili della nostra vita quotidiana e del nostro lavoro. Grazie e buona giornata.
GIAMPAOLO SILVESTRI:
Vorrei ringraziare il dott. Fares E Sua Eminenza perché, per essere presenti oggi, hanno fatto anche un sacrificio personale. Sono arrivati ieri mattina da Beirut, dal Libano, appositamente per portare la loro testimonianza, e domani mattina ripartono. Anche questo non è scontato. Ora vorrei lasciare la parola al Cardinal Zenari. Lo ringrazio in maniera particolare perché per questo progetto abbiamo lavorato molto insieme. Si sta spendendo con energia incredibile, non misura la fatica per un progetto che ha avuto l’incoraggiamento dello stesso Papa Francesco. Ecco, le chiederei di dirci il senso di un progetto come questo e della presenza della Chiesa in Siria in questa crisi. Prima del suo intervento, ha chiesto se possiamo vedere insieme alcune foto che lui ci ha portato, che ci possono aiutare ad entrare nel contesto siriano. Pregherei di far girare le foto e di rimanere in silenzio.
Scorrono le fotografie
S. EM. CARD. MARIO ZENARI:
Buon pomeriggio. Prima di entrare, il dottor Fares mi ha venduto due minuti del suo tempo: vorrei cominciare con una buona notizia confortante. Il mio nome e i vostri nomi sono scritti in una città siriana, una città che fino al 1930 apparteneva alla Siria. C’è un’anagrafe dove, per la prima volta dopo che Gesù era salito al Cielo, i discepoli furono chiamati cristiani. Avremmo potuto chiamarci gesuani, gesuiti, nazareni! No, il nostro nome è stato scritto ad Antiochia, come vediamo nella Bibbia, negli Atti degli apostoli. Quindi, la Siria non è qualcosa di lontano: il nostro nome è stato scritto ad Antiochia, in Siria, tanto per cominciare. Desidero anzitutto esprimere il mio vivo ringraziamento alla professoressa Emilia Guarnieri, agli organizzatori del Meeting, a tutti i partecipanti per aver seguito in questi ultimi anni i tragici eventi di Siria con viva partecipazione e solidarietà nei riguardi della martoriata popolazione siriana. “Voi tutti che passate per la via, considerate e guardate se c’è un dolore simile al mio dolore, poiché grande come il mare è la tua rovina. Chi potrà guarirti?”. Queste considerazioni del libro biblico delle Lamentazioni, che si leggono nella liturgia del Venerdì Santo, mi sono venute spontanee alla mente passando per alcune vie di Aleppo e di Homs: interi quartieri e villaggi, abitazioni, ospedali, scuole, luoghi sacri distrutti. E, ancora più grave, il numero delle vittime, che sono state ricordate da coloro che mi hanno preceduto. Aggiungo una cosa: le ferite e le distruzioni che a prima vista non si vedono sono più gravi e più profonde di quelle che si vedono; ad esempio, le ferite inferte negli animi della gente e nel tessuto sociale sono molto più impressionanti di queste distruzioni. Si tratta della più grave catastrofe umanitaria provocata dall’uomo dopo la seconda guerra mondiale. Tutti questi quartieri e villaggi distrutti attendono di essere ricostruiti ma la persona umana, ferita nel corpo e nello spirito, chi può ricostruirla? Impresa quanto mai ardua, soprattutto la seconda. Chi potrà guarirli? Bambini estratti feriti o morti da sotto le macerie, dilaniati da esplosioni, asfissiati dai gas tossici, annegati in mare, trapassati da schegge, mutilati, traumatizzati, abusati sessualmente, arruolati: una vera e propria strage degli innocenti. Ho visitato alcuni di loro negli ospedali di Damasco, varie parti del corpo fasciate per le schegge ricevute. Una bambina, Lorìn, nove anni, quinta elementare, si chiedeva agitata il Sabato Santo del 2014: “Perché, o Signore, è capitato a me tutto questo, perché è capitato a me?”. Il giorno prima avevano dovuto amputarle entrambe le gambe. Ogni volta che entro nella Basilica di San Pietro in Vaticano, sosto a lungo a pregare e meditare davanti al capolavoro di Michelangelo, la Pietà, con la Vergine che tiene sulle ginocchia il proprio figlio, Gesù, morto: in questa Pietà vedo raffigurate tante mamme che piangono i loro figli morti o feriti, come pure il dolore di quelle a cui non è dato piangerli, non conoscendo la loro sorte. Vedo quasi trasfigurata la Siria, che tiene in braccio tutti i suoi figli morti e feriti. “Guardate e considerate se c’è un dolore simile al mio dolore”: la Siria stremata da ogni sorta di armi, da quelle medioevali della fame e della sete a quelle chimiche, con succursali dell’inferno ad Aleppo, Homs, Darayya, Darah, Yarmuk, Maraya, Guta orientale, Dumah, Raqqa, Deir ez-Zour; luoghi di detenzione, con demoni scatenati a commettere ogni sorta di crimini in assoluta impunità. A motivo della deplorevole mancanza di volontà, da parte delle più alte istanze internazionali, di chiamare questi diavoli per nome e cognome e portarli in tribunale a rendere conto delle atrocità commesse, la signora Carla del Ponte, come sapete, membro della Commissione Indipendente dell’ONU sulla Siria, ha rassegnato qualche settimana fa le sue dimissioni, dicendo: “Credetemi, crimini orribili come quelli commessi in Siria non li ho visti né in Rwanda, né nella ex-Jugoslavia. Non ho mai visto un conflitto così violento con così tanti bambini morti, torturati, decapitati. I bambini sono le prime vittime di questo conflitto”. In uno dei suoi tanti accorati appelli, un anno fa, Papa Francesco diceva: “E’ inaccettabile che tante persone inermi, anche tanti bambini, debbano pagare il prezzo del conflitto, il prezzo della chiusura del cuore e della mancanza di volontà di pace dei potenti”.
La Siria è anche luogo di misericordia e di compassione a 360 gradi, a cominciare dal dare da mangiare agli affamati, dare da bere agli assetati, fino al seppellire i morti. E’ il Paese dove è in atto una delle più vaste operazioni umanitarie attualmente in corso nel mondo. Sullo stesso terreno della compassione, si trovano a lavorare insieme credenti di ogni confessione, che invocano il Dio onnipotente e misericordioso o persone semplicemente mosse da profondi sentimenti di umana compassione, organizzazioni umanitarie. Diverse centinaia di operatori umanitari, tra cui un certo numero di impiegati nel settore sanitario – circa 700 -, hanno perso la vita soccorrendo i bisognosi: un certo numero di loro erano volontari. Poiché grande come il mare è la tua rovina, chi potrà guarirti? Adesso chiedo al dottor Fares di mettere in prosa quello che lui ha detto con tanta professionalità. Ripeterò in due o tre paragrafi: chi potrà guarirti, Siria, quando, secondo l’OMS, più della metà degli ospedali pubblici e dei centri di prima assistenza sanitaria sono chiusi perché distrutti o solo parzialmente agibili? Chi potrà guarirti quando le persone che muoiono per mancanza di medicine e di cure sono molto più numerose di quelle decedute sotto le bombe? Chi potrà guarirti quando vi è una grave penuria di medicinali, di materiale, di attrezzature sanitarie? Chi potrà guarirti, Siria, quando la produzione domestica di prodotti farmaceutici è calata dei due terzi e la copertura delle vaccinazioni è scesa della metà? Chi potrà guarirti, Siria, quando circa due terzi degli operatori sanitari hanno lasciato il Paese, con un impatto devastante sul sistema sanitario? Chi potrà guarirti quando uno studio condotto nel 2016 dall’OMS sugli ospedali in Siria ha messo in luce la carenza di personale sanitario qualificato e il collasso del sistema sanitario informatico,? Chi potrà guarirti quando, sempre secondo l’OMS, più di 11 milioni di persone hanno bisogno di assistenza sanitaria e milioni di loro hanno soltanto un accesso limitato anche alla più basilare assistenza sanitaria? Chi potrà guarirti quando pazienti di malattie croniche come il cancro e il diabete possono usufruire soltanto in maniera limitata di trattamenti salvavita e quando circa 5 milioni soffrono a diversi livelli di infermità mentale? Chi potrà guarirti? Come il malcapitato della parabola evangelica del buon samaritano, la Siria, derubata e spogliata, è lasciata dai ladroni mezza morta sul ciglio della strada, con l’aggravante che anche la locanda dove deve essere ricoverata è stata devastata dagli stessi assalitori. Nelle mie visite regolari agli ospedali cattolici, due dei quali si trovano a Damasco ed uno a Aleppo, operanti in Siria da più di cent’anni e molto apprezzati, sono rimasto inquieto nel constatare che non erano pienamente operanti, che vi erano diversi posti letto vuoti e che non si vedevano più le solite code ai servizi ambulatoriali, mentre davanti agli ospedali pubblici ancora funzionanti, e se del caso anche gratuiti, si assiste ad una ressa di pazienti e a lunghe e interminabili liste di attesa, con immaginabili conseguenze sulla qualità dei servizi. Naturalmente, come il Dottor Fares ha presentato, le istituzioni sanitarie private devono affrontare costi di gestione sempre più cari e insostenibili. Gran parte della popolazione, avendo perso il posto di lavoro, non beneficia più dell’assistenza sanitaria e non è in grado di sopperire neppure minimamente alle proprie cure mediche. A causa della guerra, infatti, l’85% della gente vive nella povertà. Di fronte a questo quadro così desolante, come non sentire più attuale che mai il profondo turbamento di Gesù, “Miserior super turbas” (ho compassione per la folla)? Se si apre anche a caso il Vangelo, ci si imbatte facilmente in miracoli di guarigione operati da Gesù: guarigione di lebbrosi, di ciechi, di sordomuti, di storpi, di paralitici, eccetera. Ed esplicito è il suo comando: “Guarite gli infermi”, “Risuscitate i morti”, “Purificate i lebbrosi”, “Scacciate i demoni”, “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”, “Ero ammalato e mi avete visitato”. Dietro questo esplicito comando di Gesù, sono state praticate fin dall’inizio del cristianesimo le opere di misericordia corporali e spirituali, tra cui la cura degli ammalati e l’educazione: ospedali e scuole, fiore all’occhiello, per così dire, della missione della Chiesa lungo tutta la sua storia e in tutte le parti del mondo. Rendere allora pienamente operanti gli ospedali cattolici è un dovere verso Dio, verso i nostri fratelli sofferenti e verso la Siria, al di là della responsabilità, verso la Siria così duramente ferita in una delle sue principali infrastrutture. Non da ultimo, è un dovere di riconoscenza verso i nostri fratelli e sorelle che, talvolta in maniera pionieristica e tra mille difficoltà, hanno impiantato queste apprezzate e benemerite istituzioni sanitarie in Siria. Alle volte, dico il vero, c’è da commuoversi leggendo la storia delle origini di qualcuno di questi ospedali.
Non siamo allora in linea, in un certo senso, con il tema del Meeting? “Quello che tu erediti dai tuoi padri, riguadagnatelo, per possederlo”. “Voi stessi date loro da mangiare”: ma che fare di fronte a tanta gente? “Qui non abbiamo altro che cinque pani e due pesci” dissero gli apostoli a Gesù. Alle volte mi commuovo quando, venendo qui da noi, amministro delle cresime, una delle ultime a simpaticissimi ragazzini e ragazzine di ambienti molto sani, famiglie buone, certamente non ambienti hollywoodiani ma gente comune, gente semplice. Poi, quando torno a casa, mi trovo nelle tasche buste di offerte per la Siria, per la martoriata Siria: cinque euro, cinque euro, cinque euro. A metà conta, mi sono detto: qui non si va tanto avanti. E poi, subito, mi sono rimproverato: “Ma don Mario, non sai che per questi cinque euro ci hanno messo tutto il cuore, tutta l’anima, questi ragazzini e queste ragazzine?”. E poi, giorni dopo, settimane dopo, qualche mese dopo mi son trovato questi cinque euro moltiplicati per dieci, moltiplicati per cento, moltiplicati per mille, moltiplicati per diecimila, moltiplicati per centomila. Prendo l’occasione per ringraziare di cuore tutti quanti, singole persone e istituzioni, per questa generosa solidarietà. “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date” ha detto Gesù ai suoi apostoli. La Siria è la patria di due celebri santi, due fratelli, i loro nomi sono perfino nel canone cosiddetto romano, i Santi Cosma e Damiano, vissuti a Ciro, a nord di Aleppo, a circa 50 chilometri. Erano ambedue medici e si chiamavano medici anargiri, cioè medici gratuiti: avevano fatto la promessa di visitare e curare gli ammalati gratuitamente, sono i patroni dei medici. C’è anche una bella e antica basilica a Roma, del V secolo, dedicata ai santi Cosma e Damiano. Un giorno, uno dei due torna a casa con delle uova, e il fratello insospettito: “Che cos’è questo?”. Imbarazzato, l’altro fratello rispose: “Una povera vedova a cui ho guarito l’unico figlio che aveva ha voluto a tutti i costi darmi queste uova. Ho cercato di resistere, non c’è stato verso”. L’altro fratello ha detto: “Quando morirò, non voglio essere sepolto con te”. Capitò che qualche tempo dopo subirono assieme, dalle parti di Ciro a nord di Aleppo, il martirio. E mentre i fedeli stavano preparando la sepoltura, qualcuno si ricordò: “Ma ha detto che non voleva essere sepolto accanto a suo fratello”. Che fare? Nei paraggi c’era (è un aneddoto curioso, molto, molto carino) un cammello che curioso stava ad osservare. A un certo punto, aprì la bocca e parlò: “Ma seppelliteli pure assieme” credo, dott. Fares, che l’abbia detto in aramaico, a quel tempo, non in arabo. Naturalmente, la carità va fatta bene. Ringrazio a tale proposito la fondazione AVSI per l’assistenza tecnica nell’attuazione corretta del progetto “Ospedali aperti”, come è stato detto, per i malati poveri, senza distinzione etnica o religiosa. Tutto ciò comporta una responsabilità verso Papa Francesco che incoraggia questa iniziativa e verso tutti i donatori che la sostengono generosamente. Si tratta di aiutare queste istituzioni cattoliche affinché continuino ad essere, e siano sempre di più, segno della compassione universale di Cristo, Misereor super turbas, provo compassione per questa gente. “Ospedali aperti”: questo importante aggettivo mi fa venire in mente anche l’idea di possibili e quanto mai opportune iniziative di partenariato dei vari ospedali in Italia, in Europa, in altre parti del mondo; partenariato con gli ospedali di Siria che rischiano il collasso. Una goccia d’acqua nel deserto: così potrebbe sembrare questa iniziativa, sotto certi aspetti: però anche il deserto fiorisce, il deserto siriano, dopo le prime pioggerelline di gennaio, febbraio, a marzo, inizio aprile, con incanto, il deserto siriano si copre di un sottilissimo manto di verde, è meraviglioso! Ringrazio tutti quanti per le preziose gocce d’acqua e per i preziosi semi. Grazie di cuore.
GIAMPAOLO SILVESTRI:
Grazie veramente, Eminenza, per queste sue parole che ci aiutano non solo a comprendere cosa sta succedendo ma anche ad andare avanti. A me sembra che oggi abbiamo fatto un piccolo passo nella conoscenza di quello che sta succedendo, come diceva prima Lucia Goracci, abbiamo provato ad illuminare qualche cono d’ombra con un quadro innanzitutto di tipo geo-politico. Attraverso le parole del Dott. Fares, abbiamo capito qual è la reale situazione, le mancanze, i bisogni, e come lui prova ad affrontarli; abbiamo anche sentito questo invito ad una responsabilità con cui ci ha richiamato Papa Francesco. E poi, attraverso il suo intervento, Sua Eminenza veramente ci ha aiutato a immedesimarci in quello che è il popolo siriano. Questa immagine che lui ci ha dato della Pietà, come trasfigurando la Siria che tiene sulle ginocchia i propri figli innocenti, sicuramente è una delle immagini più belle che ho sentito per descrivere la reale sofferenza di un popolo. E lui, vivendo lì da molti anni, come avete sentito dal suo discorso, immedesimato com’è in questa reale sofferenza, ci ha aiutato veramente a condividere il bisogno di questo popolo. Noi possiamo fare qualcosa, abbiamo capito qualcosa di più, possiamo non restare al balcone, come dice sempre Papa Francesco, contribuendo a questo progetto: perché, contribuendo a questo progetto, contribuiamo in piccolo, ma in maniera significativa ed esemplificativa, a far rinascere il deserto siriano. Il deserto siriano per rinascere ha bisogno di noi, ha bisogno di voi. Quindi, io vi invito ad andare sul sito dell’AVSI, al nostro stand, che appunto è Vieni e Vedi, per capire e contribuire. Grazie a tutti, ringrazio gli ospiti. Però lasciatemi finire, perché questo piccolo passo è stato possibile grazie al Meeting. E devo anche dire che il Meeting per esistere ha bisogno di voi, ha bisogno del vostro contributo attraverso le donazioni. Potete andare nei diversi padiglioni dove ci sono le postazioni Dona Ora e fare una donazione, perché è anche attraverso il Meeting che è possibile partecipare ad eventi di questo tipo che appunto illuminano i coni d’ombra e provano a far rinascere il deserto siriano. Grazie a tutti.