Chi siamo
OMAGGIO A GUARESCHI
Letture di Enrico Beruschi. Musiche di Walter Muto. Conduce Paolo Gulisano.
MODERATORE:
Benvenuti a questo omaggio a Guareschi, che un gruppo di amici appassionati di Guareschi ha voluto in questo Meeting. Quest’anno ricorre il centenario della nascita di Guareschi, che nacque il primo maggio del 1908 e morì quaranta anni fa, tra l’altro non molto lontano da qua, a Cervia, nel 1968. Guareschi è uno degli scrittori italiani più conosciuti, più letti nel mondo, ma al di là di questo è uno degli scrittori che più ha dato ai suoi lettori. Credo che se siamo qua è perché tutti noi in qualche modo siamo stati gratificati dalla lettura di Guareschi o dalla visione dei film. Il Meeting ha voluto ospitare una mostra dedicata a Guareschi e questo incontro con tre amici come noi, che non siamo il brusco, lo smilzo e Peppone – Peppone forse lo è più l’Enrico – ma siamo dei guareschiani di lunga militanza. Probabilmente non ci sarebbe bisogno di presentare nessuno dei presenti, no forse solo il sottoscritto: tutti conoscete Walter Muto, che uno può chiedersi “che fa Walter Muto qua?”. Walter Muto canta Guareschi, perché Guareschi non ha soltanto scritto e disegnato – era anche un grandissimo vignettista – ma pensate che Guareschi scrisse anche qualche canzone, una in una circostanza drammatica come ci spiegherà e canterà Walter. Poi c’è Enrico Bruschi. Anche Enrico Bruschi, come Guareschi, ha una popolarità che non passa. E’ da ieri che giriamo insieme per i padiglioni del Meeting ed è quasi imbarazzante andare in giro con uno che tutti guardano, a cena anche…e oltre ad essere quell’attore che tutti conosciamo e amiamo, ha anche la prerogativa di essere un guarescologo, un guareschiano. E’ anche lui da anni innamorato di Guareschi, anche a lui Guareschi ha dato molto e ce lo leggerà, perché forse la cosa più bella oggi che possiamo fare qua per rendere omaggio a Guareschi è appunto quella di sentirlo, quella di sentire le stesse sue parole. E poi ci sono io, beh forse qualcuno mi conosce, mi chiamo Paolo Gulisano. Io sono un tipo losco che ha curato la mostra su Guareschi insieme a qualche altro amico qui presente, c’è Laura Ferrerio, Alessandro Gnocchi dorme ancora ma comunque…e poi ho fatto anche questo libricino che si chiama “Quel cristiano di Guareschi”, acquistabile a tempo debito, dovuto eccetera… Guareschi era un bel tipo, si sarebbe potuto chiamare questo libro anche “Quel bel tipo di Guareschi”, però Guareschi era anche un uomo dalla profondissima religiosità, che non sempre è stata messa in evidenza, e allora abbiamo cercato di mettere in evidenza anche questo. Ma adesso cominciamo a sentire Guareschi attraverso questa canzone, che lui scrisse. Vi dico solo brevemente una circostanza. Nel 1943 Guareschi finì in campo di concentramento. Lui era un giornalista, aveva cominciato la sua carriera come giornalista a Parma, alla Gazzetta di Parma; poi andò a Milano, la grande scoperta di Milano, e a Milano collaborò con un periodico, il “Bertoldo umoristico”, però il regime che c’era allora, era poco incline all’umorismo. Infatti un bel giorno o forse un brutto giorno, Guareschi se ne uscì con qualche espressione un po’ pesante nei confronti dell’allora capo del governo, quando venne a sapere che suo fratello era disperso in Russia. Si prese una ciucca di grappa – noi abbiamo anche qua un’ottima grappa guareschiana fatta da amici di Foggia – e durante la sbornia gli uscì fuori tutto quello che pensava del capo del regime, uscendo anche con un’espressione pesante, che metteva in dubbio la virilità di Mussolini. La cosa era piuttosto grave: venne chiamato in commissariato, l’alternativa alla galera era quella di tornare sotto le armi, e quindi lo mandarono a fare il militare, l’ufficiale. Poi arrivò l’8 settembre, il ribaltone. Gli chiedono di aderire alla repubblica sociale, lui rifiuta e finisce in campo di concentramento, e per due anni visse quella tragedia comune ad altri 600.000 italiani di cui non si parla mai, che furono in questo campo di concentramento perché avevano rifiutato di servire una causa sbagliata. Di questi 120.000 non tornarono indietro, 1 su 5. Guareschi vedeva intorno a sè 1 compagno su 5 morire, eppure anche in quella circostanza seppe tenere alto il morale con il suo umorismo, con la sua voglia di vivere. Inoltre gli era anche accaduta una cosa: mentre era stato fatto prigioniero, sua moglie aspettava una bambina. Questa bambina sarebbe poi nata ma senza che il suo papà la potesse vedere. Allora Guareschi, nel suo campo di concentramento, sognava questa bambina e anche il desiderio di tornare a casa, di vederla lo teneva vivo. Infatti scrisse: “non muoio neanche se mi ammazzano”. E’ una battuta che ci fa sorridere ma ci fa anche pensare, infatti “non muoio neanche se mi ammazzano” è il titolo che abbiamo voluto dare alla mostra, perché, fra le tante belle frasi guareschiane, esprime sostanzialmente questo grande desiderio di bene, di bello che c’era in Guareschi. Non è un’espressione superomistica, non è un “sono invincibile”, ma non muoio neanche se mi ammazzano perché voglio tornare a casa, voglio tornare da mia moglie, voglio tornare dai miei figli. Ecco, questa volontà di bene, di bello ci ha profondamente colpito e colpì anche i compagni di prigionia che si sentirono cantare questa canzone che lui aveva scritto e dedicato alla figlia Carlotta .
WALTER MUTO:
Questa è una canzone il cui testo è stato scritto da Giovannino Guareschi, le altre sono accenni, temi, fatti solo con la chitarra, quindi dei temi strumentali di canzoni dell’epoca che – ci ha confermato Albertino Guareschi – piacevano molto a Giovannino. Fra l’altro questa canzone è scritta proprio nello stesso genere in cui erano scritte le altre canzoni, cioè una parte introduttiva, una sorta di “verse” come si chiama, come era tipico delle canzoni da teatro, e poi la classica forma della canzone, che era la canzone che andava in quegli anni, cioè quella dei musical, quella tratta dalla forma della song americana. La forma della canzone è un “aaba” abbastanza classico, una parte “a” ripetuta , un “b” leggermente diverso, e un “a” che ripete ancora la stessa melodia dell’inizio. Proprio la classica forma delle canzoni americane, e anche la canzoni di cui poi accennerò i temi fra una lettura e l’altra sono nello stesso stile.
CANZONE
MODERATORE:
E alla fine Giovannino tornò a casa davvero, questo era il suo sogno mentre era nel lager, e il sogno della canzone si realizzò. Giovannino tornò a casa, e quando tornò a casa in un’Italia devastata, distrutta, in macerie, cominciò a fare quello che sapeva fare, cioè il giornalista e lo scrittore. Fondò un giornale, un settimanale che si chiamava “Il candido”, che diventò un grande settimanale di battaglia, che portò avanti le battaglie di quegli anni dell’immediato dopoguerra, e su quel giornale, nel Natale del 1946, inventò un racconto che aveva come protagonisti un parroco e un sindaco comunista. Erano nati don Camillo e Peppone, il mondo piccolo di Guareschi che ci ha regalato tutti quei racconti che sono diventati poi i film che tutti abbiamo visto. Guareschi con tutto quello che era successo, con tutto quello che era capitato, aveva mantenuto il suo cuore buono incapace di odiare. Aveva scritto, quando era tornato a casa, “io non odio nessuno”, e cominciò a cercare di arginare tutto quel male che aveva visto nella guerra e tutto quel male che c’era ancora nella società del dopoguerra, inondando le sue pagine di bene e facendo un mestiere tutto particolare, quello dell’ umorista. Guareschi è considerato nelle antologie italiane di letteratura un autore minore, quasi non se ne parla, perché appunto l’ umorismo è considerato una sorta di genere letterario di serie b. Invece l’umorismo è qualcosa di grande, è qualcosa di straordinario. Innanzitutto l’umorismo è una virtù, perfino una virtù cristiana, ne parlava addirittura San Tommaso, ne parlava Dante Alighieri che parlava di una virtù dal nome strano, “eutrapelìa”, che è la virtù del buonumore, la virtù dell’essere contenti, perché la tristezza è l’ombra del diavolo e occorre cacciarla via. A questo serviva l’umorismo in Guareschi: non era una risata che derideva qualcuno ma era un ridere principalmente di se stessi per cercare di migliorarsi, di cambiare e di volare. Un autore che io amo molto e che per certi versi assomiglia molto a Guareschi, Chesterton, in uno dei suoi celebri paradossi scriveva “sapete perché gli angeli volano? perché si prendono alla leggera “. Ecco noi ci prendiamo invece troppo sul serio, diamo troppo peso a noi stessi e così non voliamo, invece Giovannino voleva volare come un angelo e cominciò a scrivere questi suoi racconti che fecero volare lui e fecero volare i suoi lettori. Ma Giovannino Guareschi non ha scritto soltanto la saga di Don Camillo, ha scritto dei racconti bellissimi di vita familiare, anzi è stato l’unico scrittore che abbia provato a realizzare un ciclo letterario tutto basato sulla famiglia, la sua. I personaggi di questa saga familiare sono lui stesso, un giornalista, Giovannino, sua moglie, che nella realtà si chiamava Ennia e che invece nella finzione diventa Margherita e i suoi due figli, la famosa Carlotta, di cui abbiamo sentito prima che diventa “la Passionaria” e Alberto che diventa nei racconti Albertino. Ecco, attraverso questa sua vita familiare semplice, apparentemente banale, Guareschi ci insegna che nulla nella vita è banale. Questo grande scrittore ha realizzato questa incantevole saga letteraria, formata da diversi libri quali “lo Zibaldino”, “Il Corrierino delle Famiglie”, “Vita con Giò”, “Osservazione di uno qualunque”. Sono libri che oggi magari si trovano a fatica, ma sono libri che hanno conquistato il cuore di un grande cabarettista come Enrico. E allora passiamo dal cabaret a Guareschi con Enrico.
ENRICO BERUSCHI:
C’è un microfono qui, funziona? Io ho un po’ paura dei microfoni, una volta ne ho mangiato uno, e mangiarlo è niente…(…) Io ho imparato a leggere con Guareschi. C’è un problema: sono del 1941, nel 1941 mia mamma mi ha aspettato per nove mesi, perché nel 1941 si usava così, e quando sono nato io è arrivata l’infermiera e gli fa: “signora, c’è quel coso qui, lo buttiamo via?” E invece mi hanno tenuto. Io ho imparato a leggere sui manifesti del 1946, quelli del referendum, perché era scritto grosso, poi in casa mia arrivava “Il Candido”. Ero un bambino abbastanza intelligente da piccolo, poi mi sono rovinato; a parte gli scherzi ero anche bello e poi mi sono rovinato…Quando a mio figlio una strana professoressa alle medie gli ha fatto leggere una cosa di Guareschi, proprio del “Corrierino delle famiglie”, sapendo di questa mia passione, è arrivato a casa e ha detto “papà, ma quel tuo amico lì ci conosceva? Parlava di noi!”, per dire come è ancora attuale la vita familiare. Io ho un figlio, un maschio appunto il primo, alto, bel ragazzo, mi assomiglia…cosa ride lei? Lei lei con la cuffia, cosa fa? Lei ha dei figli? Quanti, quattro? Il primo le assomiglia? neanche il primo! Il primo di solito assomiglia al padre, è il secondo che assomiglia al lattaio, al macellaio…E pensando da una parte a mia mamma dall’altra a mia figlia io quest’anno ho rallentato da prima di ferragosto, non volevo avere altri impegni, ho accettato questo del Meeting per un’antica storia. Io, sempre per questione d’età, nel 1955 ero uno di quelli con don Giussani in Gs eccetera, e mia figlia deve avere una bambina a giorni, speriamo non diventi rompiballe come la nonna, e forse ha perso lo spirito perché mi ha mandato un messaggio, mi ha detto: “papà io aspetto, però torna in fretta!”. Allora in queste cose familiari c’era questa passione per Guareschi, ancora prima della televisione, nel 1976 circa. Io avevo cominciato tardi, ho fatto una specie di scommessa con i colleghi. Eravamo a Roma. Sapete che quelli che stanno in televisione spesso si danno un po’ di arie, voi tutti siete stati in televisione credo, no? L’italiano medio va in televisione, io sono uno dei pochi che da quindici anni non vado in televisione, non mi chiamano. Ieri a cena mi hanno chiesto: “come mai non ti chiamano più?” e io ho risposto: “ma vi siete accorti che sono qui al Meeting?” Peccato perché fare l’opinionista in tv serve, perché sono quelle marchette che servono per la fabbrica dell’appetito, che è sempre aperta…Ma a parte queste cose personali, torniamo a Guareschi, il pezzo in cui ho vinto la scommessa era la salsa di pomodoro, la salsa, che io ho chiamato la salsa di pomodoro. Allora, in quell’occasione, ho conosciuto Alberto e Carlotta, è nata un’amicizia, ho vinto anche la scommessa e l’ho fatta anche in televisione nella mia versione, nella sberla del 1978. Io adesso vi leggo, anche se l’abbrevio leggermente, la “salsa”. Io vorrei riproporvi, qualcuno di voi se la ricorda, la versione originale, però con tutto questo faccio dei piccoli tagli, all’inizio, perché poi abbiamo anche poco tempo, poi vorrei leggerne altre. L’unica cosa che vorrei menzionare: lui aveva chiamato la moglie Margherita, io ho una moglie vera, ma ho una moglie televisiva che si chiama Margherita: voi sapete che Margherita televisiva non è mia moglie, è un’attrice brava che ha l’ingrato compito di fare la rompiballe, mia moglie vera è molto peggio. Comunque in questo libro che ho riscoperto l’altro giorno, c’è una dedica, non andate a dirglielo, rimanga tra noi, del natale dell’’81, e mi dice: “Enrico, vediamo per l’ennesima volta di tentare di ricostruire questo benedetto matrimonio”. Sono passati altri 27 anni e il benedetto matrimonio continua, siamo felicemente sposati, lei felicemente…Ecco nel descrivere la moglie dice: “disse un giorno la esimia signora che divide con me un Albertino e pochi proventi delle mie quotidiane aggressioni alla grammatica e alla sintassi”. Ecco questa è una di quelle formule che mi piacciono molto. Questo è un racconto che mi è servito per quella scommessa, perché nel ’39-40 c’erano degli umoristi e parlare di satira…c’era un regime in cui piacesse o non piacesse non si potevano dire certe cose, loro riuscirono a dirle lo stesso. Adesso io vedo dei giovani qui sotto i novanta e mi dispiace per loro che non hanno in genere l’idea della satira. In genere dico, non parlo per voi che essendo qui qualche idea dovreste averla, ma l’idea della satira di solito non alberga nel cuore dei giovani, perché gli dicono che la satira è una certa cosa che non è. Adesso si parla purtroppo in genere sempre di televisione, ma in televisione di satira…di umorismo ce n’è poco ma di satira direi che ce n’è niente, perché la satira non è sparare nel mucchio, e i poveri giovani credono che sia satira quella cosa lì, dove sparano nel mucchio. E soprattutto sono servi del potere, cioè sono servi di chi paga, che è una cosa utile quando si hanno i bambini coi piedi nudi nella neve, ma dato che non nevica più e i bambini hanno la scarpine, un minimo di dignità… L’esimia personaggia…L’esimia personaggia, dice della moglie, la distinta utente del mio stipendio, la signora che attentò con successo al mio indifeso celibato, insomma questa signora legge il giornale e dice che in uno scontro ferroviario un professionista è morto travolto da una cassa di scatole di conserve. Quindi le conserve alimentari sono pericolose per la salute. Questo è un ragionamento tipico delle signore mogli, c’è qualcuno che è sposato là che sorride vedo…lei ha moglie, dove ce l’ha? A casa? E il meeting serve eh! Va beh, allora la esimia personaggia dice che per salvare la famiglia occorre riempire almeno cinque fiaschi di salsa di pomodoro fatta in casa. “Fare la salsa di pomodoro è una delle cose più semplici del mondo, gli spiegò la egregia coinquilina, per quello che ti riguarda tu dovrai semplicemente procurarmi il denaro occorrente per l’acquisto di venti chilogrammi di pomodori freschi. Il giorno seguente, verso le 18, mentre seduto al tavolo d’ufficio stavo lavorando con il solito impegno, il telefono suonò, staccai il ricevitore e immediatamente avvertii un disgustoso odore di bruciaticcio, poi sentii la voce della signora di cui sopra, “sto cuocendo i pomodori, nel rincasare compra acido salicilico per 10 chili di salsa”. Io non amo le trovate spiritose, e se dico che l’odore della salsa in ebollizione si sentiva perfino nel telefono voi dovete credermi. Molte volte si verificano dei fenomeni che sfuggono ad ogni indagine scientifica. Rincasando la sera trovai l’anticamera notevolmente cambiata, Albertino aveva lavorato con impegno e c’era salsa di pomodoro dappertutto, anche sul soffitto. “E’ difficile”, spiegò con mal celato orgoglio la madre del lavoratore,” è difficile trovare un bambino di due anni e mezzo che riesca ad intuire da solo e in pochi minuti che una pompa da bicicletta può soffiare non soltanto aria ma anche salsa di pomodoro liquida”. “Ha riempito di salsa anche i pneumatici della bicicletta?” m’informai “no” mi rassicurò l’eccellente fabbricante di conserva alimentare, “soltanto le serrature dei mobili”. Chiesi dove si trovasse il piccolo pompiere. “E’ a mollo nella bigoncia” mi fu risposto, “forse riusciremo a ripulirlo senza metterlo in bucato”. Ecco tutto. Il giorno dopo, causa la singolare ripresa del caldo e per evitare che l’eccellente personaggia confezionasse certa marmellata di pesche di cui si era invaghita, ho spedito Albertino e la sua genitrice in campagna e io sono rimasto solo in casa in balia di cinque fiaschi di salsa di pomodoro. Il caldo s’era messo a picchiare forte e nel locale del mio quarto piano si respirava aria di fuoco. I cinque fiaschi di salsa erano stati disposti nell’angolo più fresco del mio studio sala da pranzo stanza di soggiorno, insomma, dietro una poltrona. Grazie a questo saggio accorgimento la prima sera, rincasando, ho trovato il soffitto dell’angolo più fresco del mio studio sala da pranzo ecc. decorato da una grande macchia purpurea. Le pareti e i mobili dei paraggi avevano raccolto con cura tutti gli spruzzi così che il pavimento era quasi pulito. Il caldo aveva dato straordinaria vigoria alla fermentazione della salsa e il tappo di un fiasco, non resistendo alle sollecitazioni che gli venivano dall’interno, era schizzato via, aveva raggiunto il soffitto accompagnato da una copiosa rappresentanza della salsa. Non sentendomi la forza di assumermi gravi responsabilità agendo di mia iniziativa, ho spedito un telegramma urgente alla fabbricatrice della salsa di Albertino con richiesta di istruzioni e alla mattina seguente ho ricevuto un telegramma urgente di risposta. (Qui faccio una piccola parentesi, qui siamo negli anni in cui i telegrammi non solo partivano ma anche arrivavano; io abito ad Arese e la posta prioritaria mi arriva con sette, nove giorni circa, dovete capire che i telegrammi andavano e venivano). “Togliere i tappi per evitare scoppi e fiaschi, sostituire i tappi con cappelletti di carta”. Ho tolto i tappi e mi sono recato al lavoro rassicurato. Rincasando nel tardo pomeriggio, ho trovato la salsa che mi aspettava in anticamera. Il caldo e la fermentazione si vede avevano reso insalubre la permanenza negli angusti fiaschi e una non trascurabile parte di salsa trovatasi libera dai tappi era uscita e, approfittando del leggero pendio del pavimento, era arrivata fino alla porta dell’anticamera per farmi un po’ di festa. La cosa mi ha commosso, era una salsa di pomodoro ribelle, ma affettuosa. Ho spedito un secondo telegramma urgente e ho ricevuto un secondo telegramma urgente di risposta: “Mettere in bottiglia la salsa rimasta tappando con forza. In verità la salsa rimasta nei suoi alloggiamenti non era molta; ad ogni modo fra tutti e cinque fiaschi sono riuscito a riempire tre bottiglie, che poi ho tappato servendomi dell’apposita macchina tappatrice. Ho trascorso una giornata relativamente tranquilla, ma rincasando ho ritrovato qualcosa di nuovo nel mio studio . Nel soffitto, vicino alla macchia antica, ce n’era una più piccola, cosa questa non straordinariamente interessante. Lo straordinario stava nel fatto che vicino alla macchia più piccola si vedeva infissa fino al collo nel sottile plafone di cannuccia una bottiglia senza fondo. Ci stupiamo se un uomo nelle identiche contingenze si comporta diversamente da un altro uomo? No. E perché allora dovremmo stupirci se due bottiglie di salsa agiscono diversamente una dall’altra? Dove il tappo era sistemato in modo meno saldo era saltato via il tappo seguito come sempre dalla salsa. Dove il tappo era troppo fissato era saltata via la bottiglia e mentre la parte superiore del recipiente era andata ad allocarsi nel soffitto, la parte inferiore era rimasta sul pavimento assieme a tutta la sua salsa. Ho inviato un terzo telegramma urgente chiedendo angosciato cosa dovessi fare della bottiglia rimasta. Terzo telegramma di risposta:” Trasferisci la salsa in bottiglia più robusta, tappando con forza e legando con fil di ferro. Chiudi la bottiglia nell’armadio dispensa. Ho trasferito la salsa in una bottiglia a prova di spumante e bloccato il tappo. Poi ho chiuso la bottiglia nell’armadio. Grazie al cielo tutto era finito. Ho passato la più tranquilla delle giornate; la sera ho ritrovato la bottiglia intatta al suo posto e mai notte fu più popolata di dolci sogni. Il giorno seguente era domenica e domenica era ieri. Approfittando della giornata festiva sono rimasto in casa a divertirmi, sfogliando i miei libri e i miei quaderni d’appunti. Verso le quattro del pomeriggio uno scoppio pauroso ha scosso la pace e i muri del mio quarto piano, mentre una piccola folla andava radunandosi nella strada. Sono corso in cucina e ho trovato quello che sapevo benissimo di trovare: gli sportelli dell’armadio dispensa erano scardinati e i piatti, i bicchieri, le bottiglie, che un tempo formavano l’orgoglio della mia tavola, giacevano un po’ dappertutto per la stanza, ridotti a piccoli pezzi. La bottiglia di salsa era scoppiata come una bomba, portando ovunque morte e distruzione. Rassicurata la popolazione che dalla strada vociferava di attentati dinamitardi, sono rimasto a lungo a guardare le rovine spruzzate di pomodoro, poi ho mandato l’ultimo telegramma e oggi ho ricevuto l’ultimo telegramma di risposta: “Non preoccuparti, ho trovato otto scatole di ottima salsa di pomodoro. Appena rinnovato appartamento scrivi. Albertino bene, io bene, tutti bene”. Ho deposto lo sciagurato messaggio sulle rovine della cucina e poi sono andato a spasso.
CANZONE
WALTER MUTO:
Senza volermi dilungare, perché è meglio lasciare spazio a Guareschi e a Enrico, andando a scovare un po’ di queste canzoni di quell’epoca che piacevano particolarmente a Guareschi, si scopre della gran bella musica e così ne ho adattata qualcuna alla chitarra. La prima fa proprio contrasto con questa vicenda familiare, credo sia un pezzo conosciuto da tutti, si tratta di “Bambina innamorata”, una delle canzoni più amate; chissà, probabilmente potrà averla dedicata ad Ennia o Margherita, chissà.
CANZONE
ENRICO BERUSCHI:
E’ di Banfi no… io ho avuto la fortuna i primi tempi…cioè l’ultima cosa che ha fatto… suona un po’… un applauso al nostro tecnico lui che…in effetti di mestiere fa il medico. Avete notato che bevo a canna? Perché nei camerini e negli alberghi, ma soprattutto nei camerini si beve a canna…io sembro una persona seria ma, ognuno di noi che fa questo mestiere ha qualche rotella che si è fermata, no…perché se no sarei in banca ancora, sarei un direttore, forse sarei in pensione…è in pensione? Ma lavorava lei? Non ha la faccia di uno che …lavorava in banca? E’ del ’28, ciumbia, complimenti! Ma guarda, ma nel novecento! Scusate, è medico anche lui, pericolosissimo. Voi non lo sapete ma anche quell’uomo lì che scrive…no non erano pericolosi, no, quelli del ’28 no. Beh a suo tempo si parla di tanti bambini che le assomigliano …Ma stiamo su Guareschi. Io volevo solo dire una cosa su mia moglie, io guardate che scherzo su mia moglie, il fatto che io dopo 34 anni di matrimonio sia ancora con lei! Che la mia mamma me lo diceva: “sposati e poi ridi se sei capace”. Non è cattiva. Non so se qualcuno si ricorda, prima di lasciare la televisione, un 17, 18, 19 anni fa abbiamo fatto quattro, cinque anni di Sabato al circo a canale cinque. Al circo ero di casa, tu pensa, come scimmia, no, mi prendevano per un attore e ho portato anche mia moglie e i bambini. Entrate le bestie, dopo aver visto mia moglie, tre tigri hanno avuto l’infarto, poi la santa donna è andata a trovarle anche in sala di rianimazione, è andata insieme a sua mamma. Le tigri hanno visto mia suocera: sono morte. Pensate che clima c’è in casa. Adesso mia suocera non c’è più, abbiamo dovuto abbatterla. Non era del ’28, era prima…non ha mai detto la sua età. Era una persona semplice, rustica diciamo. Una buzzurra…scusate mi viene da ridere, non l’ho mai detta questa. Poverina, scusa. Probabilmente è lì con mia mamma che se la ridono. Che mia mamma mi diceva sempre: “Enrico di’ no de stupidat” E io dico: “mama a di’ i stupidad me paghen” e “allora di’ i stupidad”. Ricordavo questi signori seduti così come…mi ricordo una sera nel ’78, eravamo appena usciti noi, i ciak a Milano, ho ancora il record delle presenze, c’era tutta sta gente, e poi la mia mamma che viene nel camerino dopo, così, e mi dice: “sei davvero il mio Enrico?” Perché io non avevo il coraggio, ero un bambino talmente timido, un po’ come Albertino, che non avevo il coraggio di dire la poesia di Natale neanche ai parenti, la dicevo solo alla nonna in camera da letto da soli, se no mi vergognavo. E lì tenevo, adesso mi sono abituato …è bello però queste cose…la mia mamma si preoccupava…è bello però la mamma che …poco prima di andarsene, un giorno, ormai immobilizzata in un lettino, ha fatto tutto un ragionamento: “dì Enrico – come dire, tu che sei più intelligente, perché poverina credeva ancora a queste cose – ma l’era minga mei se murevi prima?” Le ho detto: “mamma se te murivit prima, mi duvi finivi, in di martinitt?” Lei è stata lì un attimo: “ma cume te se stupid, te se tropp vecc per andà in di martinitt”. E’ riuscita a far ridere le infermiere. Pensate una donnina così, un po’ come la maestra Margherita, la maestra, la mamma. Bene, fu il Natale del ’47, a proposito delle poesie di Natale. Nel ’47 ormai c’era anche Carlotta, c’era il ‘Candido’, Margherita – questa ve la racconto tutta perché ha due fasi interessanti.
«Margherita in vita era debole, ma in certe cose non transige. Margherita per esempio è convinta che coi figli bisogna usare la maniera forte, nessuno al mondo potrebbe farle cambiare indirizzo. Quando la Passionaria chiede, invece della minestra, caramelle di menta e gongorzola con cacao, oppure pretende di andare a letto assieme alla mia bicicletta, o si impunta per qualche altra diavoleria del genere, ecco improvvisamente i lineamenti del mitissimo volto di Margherita farsi duro: le vene del collo le si gonfiano, gli occhi acquistano strani barbagli metallici ed eccola con uno scatto quasi felino avventarsi contro la Passionaria ed eccola giunta a pochi centimetri dalla bambina emettere l’urlo disumano che ogni volta mi fa sobbalzare sulla sedia, mi inchioda le dita sui tasti della macchina da scrivere “siiiiiiiiiii” . Questa sarebbe secondo Margherita la maniera forte da usare con i figli. Rispondere cioè, sì, a tutte le richieste, però con tale forza da far vibrare le pareti divisorie dell’appartamento. Margherita le fece osservare un giorno: non trovi che sarebbe meglio se tu invece di urlare sì ogni volta che quelli ti chiedono le cose più strampalate rispondessi loro no, a bassa voce? Quando ci incontrammo per la prima volta – sospirò Margherita – era in questo ordine di idee, e quando mi chiedesti se mi lasciavo accompagnare a spasso ti risposi no e a bassa voce, poi mi lasciai accompagnare a spasso: no a bassa voce o si ad alta voce è lo stesso. Coi bambini però è meglio dire sì ad alta voce, tu non conosci la psicologia dei bambini. Margherita forse non ha tutti i torti ripensandoci. Un giorno la Passionaria cominciò a piangere in cucina, piangeva e urlava. Andai in cucina la trovai sola sotto la tavola in un lago di lacrime. “Cosa c’è?”. “Voglio le caramelle nere con il torrone dentro”, urlò in un impeto tale che mi preoccupò per la resistenza dei piccoli polmoni. L’affidai ad Albertino, corsi giù e girai due rioni ma alla fine tornai con il sacchetto delle caramelle. Ecco, dissi ansimando quando rientrai in cucina porgendole il sacchetto intero. La Passionaria smise di piangere, aperse il sacchetto, svolse la carta di una caramella, controllò grattando con l’unghia che sotto la cioccolata ci fosse il torrone, poi mise la caramella in bocca. Tornai alla macchina e ripresi a battere sui tasti. Poco dopo la Passionaria apparve, mi venne davanti, si tolse di bocca la caramella, la riavvolse nella carta e la ficcò assieme alle altre nel sacchetto e mi consegnò il sacchetto. “Mi piace di più piangere” spiegò, poi ritornò sotto la tavola in cucina e ricominciò a piangere, a schiamazzare, continuò per un’ora e mezza fino a quando ritornò Margherita. Sentii Margherita urlare “siiiii!”. Poi non sentii più piangere. Forse Margherita ha ragione quando dice che occorre la maniera forte coi bambini. Il guaio è che a poco poco usando e abusando della maniera forte, in casa mia si lavora solo con le note sopra il rigo. La tonalità anche nei più comuni scambi verbali viene portata ad altezze vertiginose e non si parla più, si urla. Ciò è contrario allo stile del vero signore, ma quando Margherita mi chiede dalla cucina che ore sono, c’è la comodità che io non debbo disturbarmi a rispondere, perché l’inquilino del piano di sopra si affaccia alla finestra e urla che sono le sei o le dieci. Margherita una sera del mese scorso stava ripassando la tavola pitagorica ad Albertino e Albertino si era impuntato sul sette per otto. Sette per otto cominciò a chiedere Margherita e dopo sei volte che Margherita aveva chiesto quanto faceva sette per otto, sentii suonare la porta di casa. Andai ad aprire, mi trovai davanti il viso congestionato dell’inquilino del quinto piano: io sto al secondo,”cinquantasei”, esclamò con odio l’inquilino del quinto piano. Rincasando, un giorno del dicembre scorso, la portinaia si sporse dall’uscio della portineria e mi disse sarcastica: “E’ Natale, è Natale, è la festa dei bambini, è un emporio generale di trastulli e zuccherini”. Ecco, dissi tra me, Margherita deve aver cominciato a insegnare la poesia di Natale ai bambini. Arrivato davanti alla porta di casa mia sentii, appunto, la voce di Margherita: “E’ Natale, è Natale, è la festa dei bambini”, “è la festa dei cretini”, rispose calma la Passionaria. Poi sentii urla miste e mi decisi a suonare il campanello. Sei giorni dopo il salumaio, quando mi vide passare, mi fermò: “Strano” disse “una bambina così sveglia che non riesce imparare una poesia così semplice. La sanno tutti ormai nella casa meno che lei”. “In fondo non ha torto se non la vuole imparare – osservò gravemente il lattaio sopravvenendo – è una poesia piuttosto leggerina, è molto migliore quella del maschietto. ‘O angeli del cielo che in questa notte santa stendete d’ogni velo sulla natura in festa’…”. “Non è così – interruppe il garzone del fruttivendolo –O angeli del cielo che in questa notte santa stendete d’oro un velo sul popolo che canta”. Nacque una discussione alla quale partecipò anche il carbonaio e io mi allontanai. Arrivato alla prima rampa di scale sentii l’urlo di Margherita: “che nelle notti sante stendete d’oro un velo sul popolo festante”. Due giorni prima della vigilia venne a cercarmi un signore di media età molto dignitoso: “Abito nell’appartamento di fronte alla sua cucina – spiegò – ho un sistema nervoso molto sensibile. Sono tre settimane che sento urlare dalla mattina alla sera: è Natale, è Natale, è la festa dei bambini, è un emporio generale di trastulli e zuccherini. Si vede che è un tipo di poesia non adatto al temperamento artistico della bambina e per questo non riesce impararla, ma ciò è secondario. Il fatto è che io non resisto più, ho bisogno che lei mi dica anche le altre quartine. Io mi trovo nella condizione di un assetato che da quindici giorni e cento volte al giorno sente appressarsi alla bocca un bicchiere colmo d’acqua. Quando sta per tuffarvi le labbra ecco che il bicchiere si allontana. Se c’è da pagare pago, ma mi aiuti”. Trovai… trovai il foglio sulla scrivania della Passionaria, il signore si gettò avidamente sul foglio, poi copiò le altre quattro quartine e se ne andò felice. “Lei mi salva la vita” disse sorridendo. La sera della vigilia di Natale passai dal fornaio e il brav’uomo sospirò: “è un pasticcio, siamo ancora all’emporio generale…, la bambina non riesce ad impararla questa benedetta poesia, non so come se la caverà. Stasera, ad ogni modo è finita!” – si rallegrò. Margherita la sera della Vigilia era triste e sconsolata, ci ponemmo a tavola, io trovai la regolamentare letterina sotto al piatto, poi venne il momento solenne: “credo che Albertino debba dirti qualcosa” – mi comunicò Margherita. Albertino non fece neanche in tempo a cominciare i convenevoli di ogni bimbo timido, la Passionaria era già ritta in piedi sulla sua sedia e aveva già attaccato decisamente: “o angeli del cielo, che in questa notte santa stendete d’oro un velo sul popolo festante…”. Poco decisa attaccò proditoriamente, biecamente, vilmente e recitò tutto d’un fiato la poesia di Albertino. “È la mia!” – singhiozzò l’infelice correndo a nascondersi nella camera da letto. Margherita che era rimasta sgomenta si riscosse, si protese sulla tavola verso la Passionaria e la guardò negl’occhi: “Caina!” urlò Margherita, ma la Passionaria non si scompose e sostenne quello sguardo e aveva solo quattro anni, ma c’erano in lei Lucrezia Borgia, la madre dei Gracchi, Mata Hari, il ratto delle sabine e le sorelle Karamazov. Intanto… Abele dopo averci ripensato aveva cessata l’agitazione, rientrò Albertino, fece l’inchino e declamò tutta la poesia che avrebbe dovuto imparare la Passionaria. Margherita allora si mise a piangere e disse che quei due bambini erano la sua consolazione. La mattina un sacco di gente venne a felicitarsi e tutti assicurarono che colpi di scena così non ne avevano mai visti neanche nei più celebri romanzi gialli.»
MUSICA
WALTER MUTO:
Fra i più, da Giovannino, c’erano in particolare due artisti, o meglio, un gruppo di artisti “Il Trio Lescano” e… e un grande direttore d’orchestra, il signor maestro Barzizza e quindi queste sono canzoni che provengono da quel repertorio. Facilmente riconoscibile.
MUSICA
ENRICO BERUSCHI:
Ci chiedevamo che il tempo è passato ma vedo che ne volete un’altra ..così imparate, io ve la leggo.
Se qualcuno vuole uscire esca prima che …..Quelle canzoni, ho visto che come me le cantavate anche voi…perché ve l’han raccontate i nonni? Perché io sono oppresso da queste cose. Tutte le volte che dico che mia figlia sta per avere un bambino, c’è sempre qualcuno che fa : “Allora diventi nonno”. Si il problema è: ma i nonni esercitano ancora ? Dice di sì signora, la metto in lista ! No una stupidata. Ho fatto proprio quindici giorni di vacanza con mia figlia che mi dice sempre: papà dai, smettila di scherzare. Però dopo ci si è divertita. Devo dire che nonostante abbia dei momenti umani, mia figlia, e si sia divertita in quel momento, di solito sta diventando come la mamma. Io lo dico sempre: stai attenta che poi l’uomo scappa, la mamma ha trovato un santo, non è che c’è ne sono tanti in circolazione. Io, per esempio, dato che sono sempre in mezzo ai giovani, a vedere voi giovani mi preoccupo molto per le ragazze. Adesso vi racconto qualcosa che potrebbe raccontarvi anche lui. Noi ci mettevamo tre quattro mesi a dire ti amo, a toccare il ginocchio al cinema. Pensate come sono cambiati i tempi. In questi giorni mi hanno fatto dei discorsi dei ragazzi: il matrimonio è una roba che devi stare li a pensarci, è tutta una roba seria, è una roba anche familiare, devi pensarci prima, pensarci prima. Ed io ho detto che era appena successo che dei ragazzi, che si erano conosciuti all’oratorio, morosati per sette otto anni, poi si sono sposati e dopo un anno si sono lasciati. Mia moglie si ha sposato con l’inganno. Io non le ho mai chiesto di sposarmi, lavoravo di giorno in Galbusera, di notte in cabaret, non è che stavo più in piedi bene. Mi ha detto sposiamoci. Io, sarò stato gentile, c’ho creduto, per cui non sono colpevole di questo matrimonio, sono solo la vittima. Per cui può durare 34 anni senza essere stati li a menare il terrore prima. Tutte le cose bisogna viverle, non star menar…
Allora l’esame. «Io stavo leggendo seduto davanti alla finestra spalancata e Albertino si avvicinò e mi domandò: “Babbo sei onesto?” Questa non è una domanda facile, anche ammesso che uno sia abituato a frequenti esami di coscienza, e così rimasi imbarazzato, mi serve per il tema dove c’è la descrizione dei genitori, però non come l’ho fatto l’anno scorso con le misure della larghezza, della lunghezza del perimetro etc., qui ci vuole la onestà, la laboriosità, l’attività, e via discorrendo, Margherita intervenne, si tratta di ricatto morale dei genitori disse, noi crediamo di vivere incontrollati tra le mura della nostra casa e invece i bambini ci guardano. Anche le bambine, affermò la Passionaria con aria di sottilissimo sarcasmo, non sono cose per te, ribatte seccamente Margherita, guarderai quando sarai in quarta come tuo fratello. La Passionaria rispose che lei invece guardava finché voleva anche se non era ancora in nessuna classe, ma Margherita non raccolse la provocazione e la cosa finì lì. Babbo sei onesto? Sono cose che non si chiedono neanche, esclamai, tu mi conosci, sai quello che faccio, come mi comporto, lo devi giudicare da solo, se sono onesto o no. Albertino ritornò al suo tavolo. Io, quando sono a scuola o quando tu sei via da casa non so quello che fai, obbiettò preoccupato, era logico che mi risentissi e mi risentii, bella fiducia che dimostri a riguardo di tuo padre, come puoi pensare che io faccia il galantuomo in casa e il farabutto fuori? Questo non è un ragionamento che funziona, saltò su Margherita, c’è un sacco di gente che ha una doppia vita, e nessuno lo sa, il bambino non è in grado di compiere un’indagine di questa portata. Giovannino suvvia diglielo o non potrà svolgere il tema, ebbi uno scatto d’impazienza, ma si capisce, perbacco. Albertino fece un cenno di sì con la testa e dopo aver masticato accuratamente il portapenne per qualche minuto, andò a parlottare all’orecchio di Margherita. Giovannino, disse poco dopo Margherita, sii gentile e dagli una risposta precisa. Sono un galantuomo, esclamai, e mi meraviglio che ci possano essere dei dubbi in proposito. Albertino fece ancora un cenno di sì con la testa, poi ritornò a parlottare all’orecchio di Margherita. Sì, sì, galantuomo e onesto sono la stessa cosa, lo rassicurò Margherita, allora Albertino andò a scrivere sul suo quaderno. Passarono cinque minuti, poi Albertino ritornò con molta cautela alla carica, sei anche laborioso babbo? Sì Albertino, risposi con dolcezza, sono laborioso, amo il mio mestiere, sopporto dei sacrifici per il bene della famiglia, della patria, della civiltà. Albertino prese nota con cura di ogni cosa sul suo quaderno, poi rialzò il capo: e come padre come sei? Qui mi rifiutai di rispondere, questo lo devi giudicare tu esimio figlio, affermai. Anch’io sono tuo figlio, esclamò la Passionaria con impeto. Certamente, e siete per ciò voi miei figli che dovete giudicarmi come padre. Albertino e la Passionaria si ritirarono nella stanza vicina, per prendere di comune accordo una decisione, circa le mie qualità di padre. La discussione fu lunga e piena d’animazione, alla fine i due rientrarono e Albertino si andò a insediare al suo tavolo e prese a scrivere. Io gli cercai gli occhi, ma il viso di Albertino era impenetrabile, incontrai lo sguardo della Passionaria, strizzò l’occhio e mi fece un cenno come per significare: non ti preoccupare, è andato tutto bene, ci ho pensato io a sistemare ogni cosa. La Passionaria è ancora analfabeta, ma sa ugualmente difendersi dalle insidie dell’alfabeto. Quando Albertino ebbe scritto, la Passionaria prese il quaderno e lo portò a Margherita, parlottarono, poi Margherita dette una scorsa alla paginetta e rassicurò la Passionaria: era scritto come voleva lei. Aberrino asciugò con cura la paginetta e ripose il quaderno nella cartella, confortato dalla assistenza della Passionaria che si interessava sempre di queste interessanti operazioni, poi i due si distrassero e Margherita poté comunicarmi con un soffio di voce: è un po’ burbero ma è simpatico. Ebbi un sospiro di sollievo, anche questa volta mi era andata bene, l’esame di padre era stato brillantemente superato. Si capiva che la Passionaria aveva spinto molto, e gliene fui grato.»
Grazie, sono commosso per gli applausi. Ma è strano perché di solito, quando la gente non paga, non gliene frega niente… io vi ringrazio, andate a prenderli questi libri, si chiamano Zibaldino, o Corrierino delle famiglie. In questi giorni io l’ho preso anche per una giovane attrice: tutte sono attrici, non c’è giovane che non sia attrice, c’è qualcuna che non fa l’attrice qui tra voi? Tu fai finta di scrivere ma in effetti speri di diventare giornalista televisiva. Se vuoi diventare giornalista di televideo prendi la laurea ma non superare la terza elementare. Guareschi scrive in modo molto semplice, non usa molte parole, lui diceva duecento, e le cose son chiare e penso possano servire a voi giovani, servono per contrastare la mentalità imperante di quando vi dicono: quella lì è satira.
MODERATORE:
Ringraziamo davvero di cuore Enrico Beruschi che ci ha reso presente Giovannino Guareschi. Speriamo che anche Giovannino sia stato contento di questo omaggio che abbiamo voluto rendergli e io credo che abbiamo ancora tanto da imparare da questo uomo straordinario, semplice, che però parlava dritto al cuore. Risentiamo ancora quella canzone che Guareschi scisse nel lager, la canzone dedicata a Carlotta, perché adesso, alla luce di tutto quello che abbiamo sentito, capiamo perché quell’uomo nel carcere e nel lager scrisse: non muoio neanche se mi ammazzano.
Canzone
(Trascrizione non rivista dai relatori)