Chi siamo
NUTRIRE IL PIANETA: VERSO L’EXPO 2015
In collaborazione con Unioncamere. Partecipano: S. Em. Card. Bernard Agré, Arcivescovo Emerito di Abidjan, Costa d’Avorio; Giancarlo Galan, Ministro delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali; Letizia Moratti, Sindaco di Milano e Commissario Straordinario per Expo 2015; Andrea Prato, Assessore dell’Agricoltura e Riforma Agro-Pastorale della Regione Autonoma della Sardegna. Introduce Alberto Piatti, Segretario Generale Fondazione AVSI.
ALBERTO PIATTI:
Devo confessare di avere provato una certa soddisfazione, quando mi hanno proposto di moderare questo incontro, perché mi sono ricordato un dialogo della primissima ora con il sindaco Letizia Moratti, in cui sostanzialmente, mi permetto di dirlo anche se era un po’ confidenziale, dissi al Sindaco che sicuramente erano importanti capannoni e binari, infrastrutture necessarie ma non sufficienti con un titolo così impegnativo. Perché mi pare sia la prima grande Esposizione Universale post moderna o post industriale, quindi una esposizione del sapere e della conoscenza che è qualche cosa di quasi intangibile, immateriale, pur governando le nostre vite quotidiane. E allora dissi al Sindaco che era fondamentale capire come chi avrebbe esposto in questa struttura – gli Stati, i Governi, la comunità e il popolo – avrebbe svolto questo contenuto, la realizzazione di buone pratiche da mostrare a tutti, nella settimana espositiva.
C’è poi un grande tema, ma lo svolgerà lei alla fine: cosa rimane dopo l’Expo? Perché la Torre Eiffel non la lasciamo, lasciamo qualcosa a mio avviso di molto più importante ma che apparentemente non è malato di quello che viene comunemente denominato il “mal della pietra”, che è un certo vantaggio. Oggi abbiamo la possibilità di discutere dei contenuti, con il Cardinale Bernard Agré, alla mia destra, persona che ci onora della sua stima e della sua amicizia. La prima volta che l’ho incontrato mi disse: “Io sono i due terzi della storia dell’evangelizzazione del mio Paese”. E’ un buon agricoltore e ci darà un punto di vista del Sud del mondo. Poi abbiamo l’Assessore all’Agricoltura della Regione Sardegna, Andrea Parto, che ci darà una visione regionale; il neoministro Giancarlo Galan, alle prese con tanti problemi, ma non poniamoli qua. E da ultimo e non per ultimo, la signora Sindaco Moratti, che introdurrà il suo intervento con un piccolo video. Ve li ho presentati nell’ordine che democraticamente abbiamo stabilito: non è stato possibile farlo in salottino, quindi l’ho deciso io. La parola subito al cardinale Agré.
S. EM. CARD. BERNARD AGRÉ:
Signor Ministro e tutte le Autorità politiche, amministrative, militari, ognuno nel rispettivo ambito di competenze, purtroppo non posso usare la lingua italiana, la lingua di Dante, scusate se parlo in francese. Illustri e gentili invitati, cari amici, il vostro cortese invito al Meeting mi schiude la positiva possibilità di affrontare con voi una tematica significativa e ricorrente: la sicurezza alimentare nel mondo. L’argomento è di grande attualità. Occorre non darsi per vinti a priori, ma piuttosto organizzarsi al meglio e mettere in gioco tutte le possibilità umane e materiali per vincere la minaccia della fame intorno a noi e nel mondo.
La terra è in grado di nutrire ragionevolmente tutti i suoi abitanti.
Questa convinzione contraddice le teorie di Malthus che affermano l’impossibilità che la terra possa nutrire tutti i suoi abitanti. Non c’è bisogno di impaurirsi e di cercare a tutti i costi di ridurre le nascite con qualsivoglia metodo. Giovani e adulti, singoli e collettività, nazioni, si agitano ritenendosi minacciatI. E siccome la paura è cattiva consigliera, qualcuno se la prende con i nascituri; altri, in nome del vivere bene, vogliono sopprimere gli handicappati, i malati, ecc. I discepoli di Malthus non esitano a programmare l’eliminazione degli anziani, di quanti sono giudicati inutili ai processi produttivi, di quanti non sono più in grado di dare economicamente frutto. La povertà spirituale del mondo d’oggi tende ad assolutizzare la produttività materiale, al punto da non tenere in alcun conto la produttività mentale, morale e spirituale. Il materialismo sociale ha dato i suoi frutti nefasti; occorre cambiare.
Un’organizzazione razionale e solidale può permettere di nutrire tutti gli uomini.
Coloro che lottano in maniera intelligente contro la fame, utilizzando le risorse della terra e dell’agricoltura, sanno che, per far rendere al massimo la terra, praticando una buona agricoltura, occorrono cinque condizioni indispensabili: una terra utilizzabile che si possa rendere più feconda, la disponibilità di fonti d’acqua adoperabili, condizioni favorevoli di sole, uomini e donne capaci e decisi a lavorare con strumenti adeguati, una disponibilità di nutrimento adeguato per le piante, vale a dire concimi utili per la terra e le piante stesse.
La terra a disposizione deve essere curata e protetta. Non è necessario aggredire e distruggere la foresta per l’agricoltura nomade tipica dei paesi del Terzo Mondo. L’utilizzo razionale del maggese, unito a concimi appropriati, aiuta a migliorare i rendimenti agricoli.
Il problema dei concimi biologici va affrontato molto seriamente.
La ricerca e il commercio internazionale hanno imposto l’uso indiscriminato e generalizzato dei concimi chimici. Procedendo con il loro impiego, tuttavia, consumatori e ricercatori si rendono conto che i concimi chimici ad alto rendimento presentano oggi degli inconvenienti importanti. I loro caratteri nocivi colpiscono tanto la terra quanto gli alimenti ricavati dalle piante che fanno crescere. Nel lungo periodo, colpiscono la terra, impoverendola e rendendola dura. Perciò la quantità erogata annualmente deve essere aumentata. Alla lunga, il consumo dei frutti e dei legumi prodotti con concimi chimici mina la salute dei consumatori. Le conseguenze sui corsi d’acqua e sulle falde acquifere sotterranee diventano pericolose. L’acqua potabile diventa più rara a causa dell’abbondanza di prodotti chimici.
Attualmente, e un po’ in tutti i continenti, a poco a poco i concimi biologici cominciano a suscitare l’attenzione dei consumatori, che ne vedono i vantaggi per loro stessi e per la terra. Sono anche disposti a pagare di più per acquistare prodotti bio. La ricerca a 360 gradi sui concimi biologici è al suo culmine ovunque nel mondo. Anche l’Africa è impegnata in questo processo. Gli agricoltori e i ricercatori vanno dalla realizzazione di concimi a base di rifiuti organici (piante, frutti, escrementi animali) alla fabbricazione di fertilizzanti biologici in granuli o liquidi. I risultati divengono di giorno in giorno più soddisfacenti. Non rimane che trasferirli sul piano industriale e diffonderne la conoscenza. Una collaborazione leale ed efficace fra ricercatori sfocerebbe in uno scambio di tecnologie a beneficio di tutti. A cosa si potrebbe paragonare questo passaggio obbligato dai concimi chimici a quelli biologici? Penso alle macchine da scrivere con memorie sempre più capaci, tutta questa tecnologia avanzata per arrivare all’uso quasi universale dei computer. In questa gara di fondo fra concimi chimici e concimi biologici, è sempre più evidente che saranno questi ultimi a prevalere, per via di una migliore salvaguardia della terra e di maggiori garanzie per la salute di uomini e animali.
La progressiva sparizione dei concimi chimici – riconosciuti nocivi da una parte sempre maggiore dell’opinione pubblica mondiale – a favore di quelli biologici, dagli effetti più positivi sulla terra e sui consumatori, uomini e animali, è di buon auspicio per l’agricoltura e per l’allevamento di pollame e bestiame, piccolo o grosso. Per quanto riguarda l’allevamento, prima di intraprenderlo occorre interrogarsi se si possieda il nutrimento per tutte le bestie, perché in caso contrario è certo che l’allevatore, chiunque esso sia, debba destinare i due terzi del proprio guadagno a quanti gli forniscono il cibo per i polli, il bestiame, i pesci. In altre parole, è destinato a diventare un impiegato del proprio fornitore. Parlo per esperienza. Ecco perché, ovunque nel mondo, diventa urgente moltiplicare le ricerche sulla produzione in grandi quantità. Una buona alimentazione degli animali verrà senza dubbio da cereali e da piante ad alto tenore di proteine, vitamine e oligoelementi. È importante conoscere le molteplici virtù delle piante. Ve ne sono, per esempio, che sono più ricche di proteine del latte, più ricche di vitamina A rispetto alle carote, più ricche di vitamina C rispetto alle arance. Mangimi prodotti con la polvere di queste piante e di certi cereali, sarebbero la soluzione più opportuna per diversi tipi di allevamento. Si tratta di produrre in grande quantità queste piante e questi cereali, e fornire i macchinari adeguati per la loro trasformazione. Una collaborazione efficace e rispettosa fra Nord e Sud, se ricercata da tutti, creerebbe una vera rivoluzione dell’agricoltura e dell’allevamento biologico.
La trasformazione dei prodotti agricoli.
Abbracciando con decisione l’opzione bio, si conferisce un grande valore aggiunto ai frutti dell’agricoltura e dell’allevamento. Mangiare in misura abbondante e sana in ogni stagione e in ogni parte del mondo, diviene un obiettivo realizzabile e realizzato. La terra, se ben lavorata e ben protetta, non tradisce mai. Le sue risorse, molte e diversificate all’infinito, possono e devono nutrire tutti gli uomini e portare loro un bene maggiore attraverso un lavoro serio e fecondo. Questo necessita di una buona dose di ottimismo, di un picco di creatività nel rispetto dell’uomo e di una solidarietà in azione. In questo mondo, diventato famiglia, nessuno deve mancare del necessario, almeno nel campo dell’alimentazione.
ALBERTO PIATTI:
Eminenza, lei è stato una grande sorpresa perché, oltre ad essere un uomo di fede, un Principe della Chiesa, è anche un ottimo agronomo, uno che se ne intende proprio, di coltivazioni e di politiche agrarie. Io suggerirei al dottor Sala di prevedere un suo intervento, una lectio magistralis durante l’Esposizione Universale. Passiamo ora a un punto di vista regionale, italiano, con Andrea Prato, Assessore all’Agricoltura della Regione Sardegna. Andrea Prato, come saprete, è alle prese con qualche problemino che accennerà, senza approfondire le occupazioni degli aeroporti.
ANDREA PRATO:
Grazie, per me essere qui oggi è una grande emozione, è il sesto Meeting che vedo dall’altra parte e quindi oggi è veramente un giorno particolare ed emozionante per me. Viviamo in un mondo che gira alla rovescia e, in buona parte, non ci piace. E’ un mondo dove, come sentiamo, molta gente muore di fame, ma nelle mense ospedaliere, l’80% dei pasti finiscono nei bidoni della spazzatura. In più, abbiamo la Sanità che è in una condizione che molti italiani conoscono bene. Tante cose insieme, difficilmente comprensibili se non attraverso un avvitamento di questa nostra terra, che ha voluto fortemente una globalizzazione che ha molti aspetti corretti e giusti, ma probabilmente, per come è stata attuata, sta creando più danni che benefici, sia ai Paesi del primo mondo, sia a quelli del secondo, terzo o quarto. Credo sia difficile per ciascuno di noi sentirsi innocente, rispetto a questa situazione: perché, se oggi andassimo a fare un’analisi seria nei nostri frigoriferi, vedremmo che sono le entità più globalizzate che esistano sulla terra. Non esiste più il prodotto di stagione, siamo in grado, a pochi metri da casa, di avere nei supermercati prodotti che provengono da qualunque nazione. Solo oggi riusciamo a capire il costo sociale ed economico di questa forma di globalizzazione.
Ma che cosa dobbiamo fare per prendere questo mondo e cercare di orientarlo in modo più incline alla nostra cultura e al nostro essere? Io credo che la parola tipicità debba essere la nostra stella cometa, la nostra stella polare: attraverso la tipicità, dobbiamo riscoprire quello che realmente siamo, partendo dall’alimentazione, partendo dai prodotti per poi arrivare all’uomo. E’ un periodo in cui si parla tanto di federalismo fiscale, ora anche di federalismo demaniale: bisognerebbe aprire anche un’altra finestra importante, quella del federalismo culturale. Perché ci siamo appiattiti: la bellezza d’Italia, la bellezza dell’Europa, la bellezza delle nostre Regioni è nella diversità, nel fatto che siamo uno diverso dall’altro. Abbiamo stimolato questa diversità che ha generato tante produzioni straordinarie che ora rischiamo di perdere proprio perché abbiamo uniformato i nostri stili di vita.
Andare per hotels in Italia, in Europa, rende evidente questa situazione: si trova il Foie Gras dappertutto, per fortuna ogni tanto il fermentino di Gallura, però sarebbe più giusto che, insieme alla conoscenza dei prodotti provenienti da altri mondi, ci fosse una maggiore sensibilità da parte di tutti noi, da parte dei cittadini, prima ancora delle istituzioni, perché è inutile prendersela con la Regione, con il Governo, con lo Stato: ma prendiamocela un po’ anche con noi stessi! Credo sia molto importante ripartire da questa esigenza di tipicità, riscoprire le nostre vocazioni. E’ un punto fondamentale, riscoprire le vocazioni, perché ogni territorio, proprio perché è diverso, non può inseguire i miti altrui. Siccome quella cosa ha funzionato in un’altra Regione, in un’altra Nazione, per forza deve funzionare a casa nostra! Una ricerca intensa, un inseguimento delle nostre vocazioni, della nostra storia, della nostra storia alimentare, delle culture che abbiamo in buona parte perso: credo che ci sia ancora il tempo per recuperare, soprattutto noi italiani che, quando siamo in grande difficoltà, come è oggi il nostro Paese, abbiamo anche la forza di ripartire.
E ripartire dalle nostre vocazioni, dalle nostre tipicità, è l’elemento chiave che fa la differenza. Perché è giusto ed è corretto stimolare l’esigenza di sfamare il mondo, è un dovere che abbiamo, ma contemporaneamente dobbiamo sapere che, per sfamare il mondo, dobbiamo ricreare anche quella ricchezza che nei nostri territori stiamo perdendo. Senza questa ricchezza culturale ed economica, si fa fatica poi ad aiutare il prossimo, se, in questo momento, Regioni italiane come la mia si trovano nella condizione di non sapere come uscire da questa situazione. Bisogna rieducare i palati.
Recentemente ho commissionato al professor Mannheimer uno studio in Sardegna per chiedere ai sardi cosa mangiassero. Bene, il pecorino, il famoso pecorino di cui in questi giorni tanto avete sentito parlare, viene consumato nella pasta dal 35% dei sardi, il resto mangia altri formaggi, spesso non italiani. Questo è un male, perché è inutile poi prendersela sempre con le istituzioni, quando a casa nostra non capiamo l’importanza di investire inizialmente, principalmente, sulle nostre produzioni, che sono quelle che fanno la differenza.
Ma per fare questo e sempre, in questo mondo alla rovescia, dobbiamo capire che ci sono regole, perché siamo in Europa ed è un valore, non un problema, e dobbiamo far sì che questo valore venga utilizzato a pieno. In questo caso, credo sia importante rafforzare il concetto dei prodotti a Denominazione di Origine Protetta, perché in questo momento ne abbiamo fatti troppi in ambiti dove forse non occorrevano. Sempre per un esempio regionale: credo che non sia giusto che il pane carasau venga realizzato con il grano kazako, e che non sia una cosa illecita, perché succede da noi. I nostri cerealicoltori stanno fallendo: e se falliscono, se va a male quella ricchezza che abbiamo costruito in tanti anni e che dal dopoguerra abbiamo difeso con forza, il lavoro diventa impossibile. Oltre a rafforzare le produzioni di Denominazioni di Origine Protetta, é importante anche combattere seriamente il cosiddetto Italian Sound.
Non è possibile che noi abbiamo le nostre aziende agricole in Italia, non solo in Sardegna, che rischiano di saltare per aria perché l’80% dei prodotti italiani – perché italiano è bello e buono – vengono realizzati illecitamente all’estero! Non è possibile! Non si può tollerare questo! È vergognoso che noi non possiamo fare molto, anzi, non possiamo fare nulla, perché ormai la mozzarella, che fino a prova contraria abbiamo inventato noi, la può fare chiunque. E possiamo fare poco in altri ambiti. Ma vi sembra normale che, in questi giorni, McDonald’s scriva ad un signore che ha un negozio di 20 mq solo perché l’ha chiamato McPuddu’s, in Ogliastra, e debba minacciarlo di morte, civile, ovviamente, sociale e imprenditoriale? Questa è una vergogna perché noi vediamo dieci miliardi di prodotti commerciali contraffatti e poi un signore in Ogliastra, che è un posto bellissimo che vi invito a visitare, ha 56.000 abitanti e vive di un’economia agricola e turistica, spaventi McDonald’s. Ma il fatto che McDonald’s intervenga anche in questi casi, dà il segnale chiaro di dove siamo arrivati: è un mondo che non ci piace.
Io credo che sia fondamentale, insieme alla ricerca delle vocazioni, ripartire da chi siamo. Lo abbiamo perso. Credo che dobbiamo stimolare i tre motori dell’uomo attraverso le nostre tipicità. Oggi ci troviamo in una condizione per cui i nostri tre motori sono: il lavoro, la famiglia e il tempo libero. La nostra vita è diventata una cosa nella quale questi tre ambienti non sono più sovrapponibili, non si completano più, sono tre emisferi che forse si sfiorano, qualche volta si toccano, ma non sono più a contatto tra di loro. Soprattutto in quell’ottica di cui parlavo prima, del federalismo culturale, credo che dobbiamo scoprire i nostri paesi delle zone interne, investire molto sui centri marginali. E’ una sfida importante, perché quando la Roma imperiale cadde, lì nacque l’Italia di oggi. Ora la Roma imperiale è dove siamo tutti andati a vivere, a Roma e a Milano: abbiamo abbandonato l’agricoltura e siamo andati ad inseguire la chimica, la fisica, la matematica. Se non ci svegliamo, tra un po’ facciamo la fine di Roma imperiale: saremo costretti a tornare nei paesi dell’interno.
Bene, vorrei che lo facessimo prima di arrivare con il naso contro il muro, perché probabilmente è una mossa che si può fare, una forte volontà dell’Unione Europea: e credo che lo Stato su questo possa giocare una partita molto importante. Se riscopriamo i piccoli centri abitati, probabilmente ritorniamo a far sì che questi tre mondi dialoghino, perché in un agriturismo, probabilmente, la famiglia, il lavoro ed il tempo libero si coniugano molto più che da cassintegrati, in qualunque dei sobborghi delle città italiane che oggi vedono più disagi che opportunità.
Insieme alle tipicità, credo sia l’elemento chiave per uscire da una crisi dalla quale difficilmente usciremo se non faremo scelte drastiche. Il tempo è quasi finito, vorrei chiudere con due cose. La prima: chiedere al nostro caro Ministro, visto che il 6 ci incontreremo sulla vertenza che riguarda la grande crisi della pastorizia sarda, e non solo, di fare un gesto straordinario di sostegno a questa economia. Magari preghiamo anche noi perché abbia più forza di quanta, forse, in questo momento ne possa avere, viste le casse dello Stato e delle Regioni. Infine dico, al caro Ministro e a tutti voi, che perdere la pastorizia in Sardegna vuol dire perdere la Sardegna. E questo non ce lo possiamo proprio permettere. Grazie.
ALBERTO PIATTI:
Grazie ad Andrea Prato che, pur avendo toccato un tema apparentemente molto localizzato in una Regione, mi ha alzato una palla molto importante perché il tema della tipicizzazione dell’uso delle risorse, degli alimenti, credo debba essere molto valorizzato nell’ambito dell’Expo. Io ho visto un bambino a Campeche, in un centro che abbiamo per la lotta alla malnutrizione, gravemente malnutrito, con in mano una Coca Cola e un pacchetto di patatine. La valorizzazione della tipicità dei prodotti locali, che costano molto meno e hanno un contributo energetico e proteico significativo, secondo me dovrà essere un tema da sviluppare nell’ambito della Fiera. Ma prima di dare la parola al Ministro Galan, che è il Ministro dell’Agricoltura, quindi colui che ha realizzato il sogno della mia giovinezza, essendo io un agrario, vorrei introdurlo con una piccola provocazione. Io viaggio molto per il mondo e spesso guardo il Nord del mondo dal Sud del mondo. Un contadino del Sud del mondo, genericamente inteso, guarda in su e vede una grandissima siepe, dazi e protezione doganale, oltre la quale ci sono persone che a loro sembrano giardinieri ma che da noi chiamiamo agricoltori, pagati per manutentare il verde. Naturalmente forzo un po’ i toni, capisco che la cosa non si può risolvere subito, però se è vero come è vero che ci sono milioni di persone che muoiono di fame, e milioni che vivono con un dollaro al giorno, è altrettanto vero che le vacche allevate nel Nord del mondo prendono un contributo medio dai 2 ai 3 dollari: il Giappone è un po’ particolare, ne prende 5. C’è evidentemente qualcosa che non funziona. Io non voglio fare del pauperismo o dell’ideologia. Capisco che dobbiamo trovare nuovi equilibri: e se è vero che è un’Expo post-industriale, è anche vero che è un’Expo post-ideologica. E forse dobbiamo essere più pragmatici e seguire la grande osservazione del premio Nobel della Medicina Alexis Carrel che diceva: “Molto ragionamento e poca osservazione conducono l’uomo all’errore, ma molta osservazione e poco ragionamento approssimano di più l’uomo alla verità”. Prego, Ministro.
GIANCARLO GALAN:
Provocazione per provocazione, io ti vorrei rappresentare la figura di un agricoltore veneto che si affaccia sui confini della regione Trentino-Alto Adige, dove non ci sono siepi, non c’è nulla, ma ci sono prati tenuti meravigliosamente, fiorellini piantati ad arte, staccionate costruite e ricostruite ogni anno coi contributi pubblici, ovviamente. E quello che sembra a un agricoltore del Sud del mondo un giardiniere, quelli sì, che sono giardinieri, tecnici del giardinaggio, professionisti: io penso girino in camice bianco. Questo per dirti che le disparità ci sono in tutto il mondo e che occorre per davvero una rivoluzione culturale prima ancora che agricola. Un po’ come è avvenuto nella seconda metà dell’ ’800, ecco, è venuto per davvero il tempo di cambiare registro. E voglio rispondere anche all’Assessore, così dopo ti dico quello che mi sono mentalmente preparato, ma l’Assessore alla Sardegna chiede i soldi, alla fine, non li chiede ovviamente per sé, li chiede per un mondo che li merita.
La produzione di latte in Italia è di 9 milioni e 200mila ettolitri, 9 milioni e 200mila tonnellate, la produzione di latte ovino caprino supera i 7 milioni, quindi non è tanto diversa. Quello che è stato fatto per i produttori di latte non è lontanamente paragonabile per il nulla è stato fatto per i produttori di latte caprino e ovino. Questo è vero. Però io voglio ricordare all’Assessore della Sardegna, all’Assessore del Lazio e agli altri Assessori che non l’hanno fatto, che l’Europa dà dei contributi: e il primo dovere, prima di venire a chiedere altri soldi ai cittadini italiani, ai contribuenti, è spendere quello che hanno già dato versandoli in Europa. Io non tollero che venga sprecata una lira, per inefficienza e incapacità, dei soldi che i cittadini italiani hanno versato a Bruxelles. Non ha diritto a parlare chi non lo ha fatto, lo dico e posso dirlo perché, insieme e litigando con Roberto Formigoni all’ultimo decimale, non abbiamo mai sprecato, nella nostra vita, in quindici anni, una sola lira di contributo europeo. Chi ha la coscienza a posto, dopo può chiedere l’intervento, ma prima occorre averla a posto.
Allora, vengo al tema: nutrire il pianeta. Intanto una risposta l’ha già data il Cardinale Agrè: c’è abbastanza per nutrire il pianeta? I dati sono inquietanti, anzi tragici. Un cittadino del mondo su sei che soffre la fame, milioni e milioni di bambini che non raggiungono il 5° anno di età per problemi legati alla fame. Eppure, paradossalmente, occorre dire, e già è stato detto, che c’è abbastanza sul nostro pianeta per sfamare tutti gli abitanti, anzi, ce n’è addirittura in più. E allora, perché questo succede? Perché c’è questa disparità, perché ci sono i cittadini del Sud, del Sud vero del mondo, che guardano i cittadini del Nord e li credono giardinieri. Intanto, mi sono segnato alcuni punti essenziali. Prima di tutto, una dinamica fra i costi e il valore della produzione che non regge. I costi continuano ad aumentare, il valore della produzione agricola continua a rimanere stabile, il divario si accentua, il reddito agricolo crolla. Dopo indicheremo anche i rimedi, ci proveremo. Secondo: in tempi di crisi, i primi investimenti che si riducono sono gli investimenti pubblicitari, i secondi sono gli investimenti in agricoltura. Gli investimenti che i Governi di tutto il mondo riducono per primi sono gli investimenti nell’agricoltura, e questo è tragicamente sbagliato, eppure avviene in tutti i Paesi, almeno nella stragrande maggioranza, a partire da quelli poveri per finire a quelli ricchi, compresa l’Italia.
Terzo motivo: non si trasferiscono internazionalmente né tecnologie né innovazioni tecnologiche, non si trasferisce nulla che riguardi l’irrigazione, non si trasferisce nulla che riguardi le tecniche di conservazione. Si trasferiscono aiuti, per lo più, tante volte solo parzialmente utili, ma non si trasferisce quello che può per davvero operare una rivoluzione industriale, una rivoluzione agricola. Questo spiega perché la dinamica dei costi resti quella, perché non si trasferiscano che alcuni beni, e non beni materiali: non si trasferisce, non si mette a disposizione dell’uomo e del mondo la ricerca e l’innovazione. Come in tutta la storia dell’umanità, anche in agricoltura a fare il progresso sono ricerca e innovazione. Non si trasferiscono. Addirittura si aboliscono, dalla fine dell’Ottocento a oggi non ci sono più grandi innovazioni. Eppure, sta tutto lì, il mistero e la possibilità di risolvere, dare una soluzione o perlomeno indicare soluzioni per la domanda epocale che è il tema del Meeting, ma anche dell’Expo Internazionale e Mondiale di Milano.
Non si mettono a disposizione le nuove tecnologie. Addirittura, in qualche caso, vanno distrutte quelle che ci sono. L’avete visto il fanatismo con cui il camice bianco distruggeva qualcosa che era stato sperimentato illegalmente? Ma dico: rispondete a questa semplice domanda? Perché a noi piacciono così tanto le tecniche di modificazione genetica, quando sono fatte per costruire farmaci che ci devono salvare la vita? Perché quando abbiamo il diabete ci piace l’insulina, creata con la modificazione genetica? Quando dobbiamo curare il cancro nostro o dei nostri familiari, evviva la manipolazione genetica? Quando dobbiamo curare le malattie ereditarie, ben venga? Eppure, quando questo riguarda l’agricoltura, neppure studiamo. Non c’è un laboratorio in Italia che la studi. Io non sono un fanatico, non dico che è la soluzione, non lo sostengo. Anzi, si può anche dire che i risultati di questi primi anni di sperimentazione non siano così entusiasmanti, così sicuri, così tranquilli come ci si sarebbe aspettati.
Questo va detto, occorre studiare, ricercare, sperimentare, ma viva Dio!, quando viene da me il Ministro dell’Agricoltura dell’Angola non mi chiede di mandargli delle navi cariche di cereali, mi chiede di aiutarlo a sconfiggere con la manipolazione genetica la malattia che distrugge il prodotto base per l’alimentazione del suo Paese! Questo, mi chiede. Venite, mandate qualche tecnico. Piatti – vedi che bravo? – si ricorda anche il nome. Sulla manioca, che è l’alimento base, mi chiedono: per piacere, mandateci qualche tecnico che studi con noi. Allora, come si fa a fermarsi? Mi pare di vedere gli operai protestare quando Pascal inventò la sua macchina: portava via il lavoro. Mi pare di vedere quelle battaglie di retroguardia degli abitanti delle paludi pontine del Lazio, alla fine del secolo, che odiavano i veneti, miei concittadini, che andavano a bonificarle, perché portavano via loro i campi, il lavoro. Sembra di vedere quelle battaglie di retroguardia, alle quali qualche volta capita di assistere anche oggi, quando diciamo no e vogliamo mandare via quelli che vengono a fare quei lavori che noi ci rifiutiamo di fare.
L’oscurantismo! Io credo che vada un po’ rivisto e che il problema non sia soltanto italiano. Non credo che l’Italia possa isolarsi e dire, con una bella immagine: sì, fate pure, fate gli Ogm, noi li mangiamo lo stesso, nella bistecca a mezzogiorno. Cosa hanno mangiato gli animali? Hanno mangiato soia geneticamente modificata, però noi in Italia lasciamo che li faccia tutto il resto del mondo e noi non li facciamo. Bello, ma può un Paese isolarsi dal resto del mondo, dalla ricerca, può vivere senza Internet, può vivere senza televisione? Dopodiché, sarà una libertà nostra. Ecco, ho detto il mio punto di vista, ma spero di avervi fatto capire che non è un’ansia per il biotec in agricoltura. Io credo e sono fermamente convinto che l’agricoltura possa risollevare i suoi destini, insieme ai destini del mondo, non fermandosi di fronte a nulla che riguardi ricerca e innovazione, di cui il biotec è una parte, piccola ma significativa.
Chiaro che, per fare questo, ragiono un po’ da megalomane, lo ammetto. Io sono Ministro di una potenza mondiale, saremo l’ottava potenza mondiale e ragiono con quelli che vogliono ragionare con me. Sì, gli Stati Uniti, non a caso è l’Ambasciatore che ho incontrato più spesso in questi tre mesi di Ministero dell’Agricoltura. Il secondo è ovviamente il francese: soltanto con un grande accordo mondiale, si può dare un senso etico alla propria vocazione di Ministro. Io non credo che la mia funzione sia quella di fare assistenzialismo per prendere più voti, credo che sia un mandato un po’ più significativo, quello che mi è stato attribuito. C’è dentro un qualche problema etico che io sento e su cui, insieme ai colleghi, stiamo ragionando. Ecco il mio rapporto con l’Europa. Io voglio essere leale con l’Europa, leale con le istituzioni, leale con i Trattati che sono stati firmati, con gli impegni che sono stati assunti. Voglio essere leale con l’Europa e anche, per dirla tutta, con i produttori privati e onesti che hanno pagato quello che c’era da pagare, che non hanno imposto a noi italiani di pagare quattro miliardi di euro in venti anni per le multe e le sanzioni che abbiamo preso.
Voglio essere leale e corretto, anche perché ho qualcosa da chiedere all’Europa e al mondo, agli americani, ai brasiliani e agli europei: la difesa dei nostri prodotti. Perché non è concepibile che, di fronte ad un atteggiamento leale, non si abbia altrettanta lealtà da parte dell’Europa. Non è consentito. Non è ammissibile che il mondo e l’Europa non tutelino la specialità dei prodotti tipici, dei prodotti nostri. Non ci conviene. Essere leali conviene sempre, ultimamente comincio a crederlo un po’ meno, ma mi è stato insegnato così e l’insegnamento non va totalmente abbandonato. Occorre, vi dicevo, una rivoluzione agricola davvero di stampo mondiale, tipo quella della fine dell’Ottocento. Occorrono cambiamenti radicali, sia dei Paesi sviluppati, sia dei Paesi in via di sviluppo. Ecco perché io mi sono segnato cinque punti, che mi sembrano comandamenti e su cui cerco di incentrare la mia azione.
Primo: evitare l’assistenzialismo e il trapezionismo. Sono finiti i tempi per cui, a ogni crisi, si apre il cassetto, si aumenta il debito pubblico e si pareggiano momentaneamente i conti. Quei tempi sono finiti. Non fossero finiti per conto loro, ci ha pensato Tremonti, a farli finire. Perché manco sui soldi che erano stati promessi prima del mio arrivo è stato, non dico generoso, che è una parola che non gli si adatta, ma umano. Non diteglielo, quando viene nel pomeriggio, che mi dà un taglio anche allo stipendio, l’ha gia fatto! I primi stipendi tagliati sono stati il mio e quello di Ferruccio Fazio perché, non essendo Parlamentari, ce li ha ridotti lui, senza aspettare che lo facesse il Parlamento con la Finanziaria. Appena sono arrivato, che non sapevo neanche quanto fosse, ecco che l’aveva già ridotto. È stato uno shock, quando l’ho ricevuto. Secondo comandamento: aumentare la produzione. Sembrerà ridicolo, ma è una buona regola dappertutto, nei Paesi sviluppati e nei Paesi in via di sviluppo, dove c’è sovrabbondanza e dove c’è troppa poca produzione. Nei migliori Paesi africani, un ettaro produce due quintali di cereali, lo stesso ettaro in India ne produce quattro, lo stesso ettaro in Cina ne produce ventinove, lo stesso ettaro in Europa lasciamo perdere, meglio non dirlo, ma è spaventosamente enorme, la differenza. Ecco, quindi, aumentare è sempre una buona regola, con i surplus si possono fare tante cose.
E poi un’idea io ce l’avrei, comporta una qualche rivoluzione, ma invece di finanziare, come mondo sviluppato, migliaia e migliaia e migliaia di scuole agrarie nel Terzo Mondo, mandare il grano che avanza. Si investe sempre sul fattore umano, è la persona che determina le sorti del mondo: e allora spendiamo in istruzione, in formazione, migliaia e migliaia di scuole con le quali costringere i Paesi poveri, anzi, in via di sviluppo – io ero bambino ed erano in via di sviluppo anche allora – ad investire di più in interventi strutturali per l’agricoltura, invece di realizzare politiche rivolte soltanto o quasi esclusivamente alle aree urbane, il che crea anche spopolamento nelle campagne e nelle zone già tendenzialmente spopolate. Quarto comandamento: l’agricoltura sia sostenibile. L’Europa nel 2005 ha realizzato una grandissima svolta: basta assistenzialismo, basta protezionismo, basta pratiche d’altri tempi. Al tempo stesso, ogni aiuto deve essere finalizzato alla salvaguardia ambientale, intendendo ovviamente molto di più che la tradizionale concezione di difesa dell’ambiente. Ecco, questo vale per i giardini del Trentino-Alto Adige, vale per quegli agricoltori che sembrano giardinieri, ma deve valere anche per i Paesi in via di sviluppo. Altro che tasse inconcepibili per quei luoghi, tasse sulle esportazioni, altro che misure protezionistiche, altro che misure a difesa di cosa, poi? A difesa della miseria?
Questa è una globalizzazione, perciò, si voglia o non si voglia, esiste ed è bene prenderne atto, cominciare ad abituarsi, per noi sviluppati e anche per quelli che si affacciano, speriamo in tempi rapidi, ad uno sviluppo davvero degno di questo nome. Voglio finire – anche per dimostrare che sono un ragazzo diligente, che si prepara – con don Giussani. Perché in queste parole per davvero c’è l’insegnamento che lui riesce a dare in cinque righe, come capita ai grandi. Ecco le parole: “Perché esista sviluppo, perché esista l’opera delle nostre mani, non è solo necessario per dire fare il risultato, fare più soldi, ma è necessario che questo lavoro abbia un senso. Se il lavoro non ha questa direzione, a un certo punto perde consistenza”. Ecco c’è un po’ tutto qui, c’è il valore etico di quello che noi Paesi ricchi dobbiamo fare nei confronti di chi è ai margini di questo sviluppo e di questo benessere. C’è il contenuto della nostra azione quotidiana, c’è il dovere di dare un senso al nostro impegno. Darlo in agricoltura e darlo anche dentro un ufficio, darlo alle nostre vicende politiche, sulle quali cerco sempre di domandarmi, ogni mattina quando mi guardo allo specchio: primo, sono adeguato a quello che mi è stato dato? La risposta è incerta, dipende dalla giornata. La seconda domanda che mi rivolgo è: che cosa facciamo oggi di utile, perché si stia meglio, che cosa facciamo? A me pare che non sempre questo avvenga e che per molti, anzi troppi, la prima domanda sia: cosa avrà dichiarato oggi Bocchino? Io appartengo probabilmente a un altro mondo, sbagliato. Provo ad occuparmi delle cose di cui mi hanno detto di occuparmi e spero nella vostra comprensione.
ALBERTO PIATTI:
Grazie a Giancarlo Galan, ci sono molti spunti che in qualità di moderatore non posso riprendere, ma a tavola, in quanto aspirante Ministro dell’Agricoltura da giovane, ne riparliamo. Ma ce ne sono due che introducono l’intervento di Letizia Moratti. Il primo è istruzione e formazione. Il secondo riguarda chi sia l’oggetto di questa formazione e istruzione. Ho detto che è un’Expo post-ideologica, ci abbiamo messo tanto tempo a comprenderlo, noi. Winston Churchill, nel 1948, dopo un giro trionfante in America, salutato come colui che aveva liberato l’Europa dalla barbarie nazista, andò al MIT di Boston per ricevere una Laurea in Scienze Umanistiche. Nella prolusione, il Rettore che lo introduceva esaltò la capacità raggiunta dall’umanità nel dominio completo della sua attività, ma anche nel pensiero, nel sentimento. Parlava dell’imminente prospettiva che il mondo potesse essere come una grande fabbrica perfetta. Questa illusione è crollata.
Churchill lo aveva capito subito, tant’è che, essendo pomeriggio e avendo già avuto modo di gustare il suo tradizionale scotch, si alzò un po’ indignato e disse: “Spero che quando lei raggiungerà questo obiettivo, il mio compito in questo mondo possa essere già finito”. Cadute le ideologie, penso che dobbiamo rimettere al centro il fattore essenziale dello sviluppo, che è il titolo del Meeting: questo cuore grande, questo desiderio di bellezza, di giustizia e di verità, per non ricorrere a schemi più o meno ideologici o tecnologici che possiamo trasferire, e cioè l’essere umano, la persona umana. Credo davvero che questa sia la sfida più grande dell’Expo. Nella Caritas in Veritate, al numero 68, il Papa dice: “Il tema dello sviluppo dei popoli è legato intimamente a quello dello sviluppo di ogni singolo uomo. La persona umana per sua natura è dinamicamente protesa al proprio sviluppo”. E’ una grande provocazione che credo valga la pena di raccogliere, per riflettere su come possa diventare il contenuto centrale di questa Expo. Prima di introdurre il mio Sindaco, essendo cittadino di Milano, con un contributo filmato che riguarda Haiti, voglio salutare anche Madame Geri Benoit, Ambasciatrice di Haiti in Italia, che sta seguendo dall’inizio, tra l’attonito e lo stupito, questo grande contenitore di contenuti che si chiama Meeting di Rimini. Può partire il filmato, per cortesia.
Video
LETIZIA MORATTI:
Io vorrei partire da queste parole, perché mi sembra che siano molto in linea con quello che è lo spirito del Meeting. Questa ragazza ha degli occhi bellissimi: avete visto che lavora in questo ospedale che è un’isola felice e che ancora adesso è il luogo dal quale Haiti sta ripartendo, perché è dall’ospedale di San Daniel che si ricomincia a vivere ad Haiti. Si ricomincia aiutando i bambini, aiutando i ragazzi, si ricomincia a vivere grazie a tanti aiuti che vengono da tante associazioni, Avsi, l’associazione Maria Vittoria Rava, aiuti che stanno permettendo di formare dei giovani ragazzi a fare il pane: hanno imparato anche a fare la pizza. Non è La difesa di un prodotto tipico haitiano, ma è comunque una collaborazione molto bella, forse quella di cui Padre Agré parlava, un partenariato Nord- Sud che coinvolge in maniera nuova e diversa tutti coloro che vogliono dare una mano.
Ecco, io voglio partire da queste parole: “C’est bien adjuter les autres”, è bello, è bene aiutare gli altri. Credo sia quello che in fondo ci spinge, noi tutti, quel desiderio delle cose grandi di cui ci parla il Meeting di quest’anno. E’ un desiderio che spinge il nostro cuore, al di là di ogni ideologia, di ogni fede, di ogni storia personale, di ogni appartenenza politica. Ecco, penso che in un momento come questo, un momento di crisi finanziaria, un momento nel quale certamente, come è stato detto, le disparità sono purtroppo sempre più grandi, un momento in cui più di un miliardo di persone vive con un dollaro o anche meno, un momento in cui anche le nostre città sono toccate dalla crisi, un momento non facile per nessuno e non facile per gli Stati, per i governi regionali, per i governi comunali, non sia facile per i cittadini guardare al futuro. Allora, forse, in momenti come questi bisogna andare in fondo al nostro essere, alla nostra persona, andare in fondo per trovare o ritrovare quei valori che sono il motore della nostra vita, quei valori che a volte non riconosciamo, che forse sono offuscati dalla ricchezza, dal benessere, a volte anche dall’egoismo che il benessere e la ricchezza provocano.
Non è un caso che tante volte, purtroppo nei momenti più difficili, si ritrovi una solidarietà che era forse la solidarietà che abbiamo avuto nella ricostruzione, nel dopoguerra. Credo che oggi abbiamo bisogno di nuovo di questa ricerca di solidarietà, di questa ricerca di uno spirito che ci unisca, che ci affratelli, che ci permetta di superare o di non guardare tutto quello che ci circonda con occhi superficiali, soffermandoci sulle dichiarazioni politiche che non aiutano i cittadini a risolvere i propri problemi quotidiani. Soffermandoci a capire che l’impegno che tutti noi dobbiamo mettere, è un impegno sempre più grande ma personale. Sono convinta che ognuno di noi abbia una responsabilità e a quella responsabilità sia chiamato a rispondere con coerenza. Chi è Ministro, deve rispondere del bene collettivo nel settore che gli è stato affidato, nonostante le diminuzioni degli stipendi. Chi è Amministratore Locale, deve fare lo stesso. Ma oltre a questo, esiste una responsabilità personale. Se saremo capaci di ascoltare davvero il nostro cuore e di metterci in gioco, ognuno, personalmente, allora cambieremo il mondo.
Ho fatto un viaggio che qualche giornale ha titolato: “E’ andata nei Caraibi”. E’ vero, sono andata nei Caraibi, ma nei posti più poveri dei Caraibi, sono andata al confine tra la Repubblica Dominicana e Haiti, per un progetto in una scuola, Sant’Ignazio di Loyola, che si propone, come suggeriva giustamente il Ministro, di formare agricoltori capaci di lavorare la propria terra, con i propri prodotti, con le proprie tipicità. In questi viaggi ho visto persone straordinarie, ho visto associazioni straordinarie, ho visto persone che si sono messe in gioco, che si mettono in gioco quotidianamente, per migliorare, per creare una rete fatta di solidarietà ma anche di ricerca e innovazione, perché ha ragione il Ministro quando parla dell’importanza della formazione, della ricerca e dell’innovazione. Sono felice oggi di parlare di questa Expo, perché non è un progetto di infrastrutture, non è un progetto di capannoni, non è se non un progetto di ricerca di un percorso nostro, della nostra città, la ricerca di una nostra identità che Milano ha, Milano, che è il secondo distretto agricolo italiano.
Penso che questa ricerca ci porterà a valorizzare la nostra tipicità, perché abbiamo bisogno di mantenere, anche noi a Milano come voi in Sardegna, le nostre produzioni e valorizzarle. Così come abbiamo la possibilità, attraverso Expo, di valorizzare il turismo enogastronomico, naturalmente non solo a Milano ma in tutta l’Italia, perché Expo è un progetto nazionale, non un progetto milanese. Abbiamo bisogno, soprattutto – ed è il tema che mi sta più a cuore – di mostrare come questa Expo possa essere l’esempio di un’Esposizione Universale che diventa un contributo a risolvere, alleviare, affrontare, magari con piccoli progetti, ma concreti, queste grandi criticità, queste tragedie che il mondo ancora si trova ad affrontare. Siamo lontani dal raggiungere gli obiettivi del Millennio. Il primo obiettivo, la fame e la povertà nel mondo, non sarà sconfitto nel 2015, ma se potremo avvicinarci a questo obiettivo, sarà solo se saremo capaci di impegnarci tutti, di impegnarci personalmente. Ci sono nel mondo associazioni, esperienze, novità straordinarie. Il microcredito è un nuovo sistema che sta dando risultati incredibili in Bangladesh, che era dato come uno dei Paesi dove sicuramente non sarebbe stata sconfitta la povertà, uno dei Paesi più poveri del mondo.
Bene, con il microcredito, con questo sistema straordinario che Yunus ha messo in piedi attraverso Inbank, la povertà si è ridotta del 50%. Ci sono imprese nel mondo che stanno ripensando il modo col quale rapportarsi anche a nuovi mercati. Perché, vedete, io credo che abbia ragione il Ministro quando dice che non dobbiamo parlare di assistenzialismo, non dobbiamo aver paura di lavorare anche su terreni che possono sembrare scomodi. L’assistenzialismo deve essere superato, ma deve essere superato attraverso progetti che aiutino a formare il capitale umano, sociale, che è il capitale più importante di ogni Paese, più importante di qualsiasi industria, perché comunque tutte le industrie sono basate sulla capacità delle persone di lavorare, di imparare, di mettere in gioco le proprie competenze e le proprie capacità.
Allora, Expo vuole essere questo, un contributo a risolvere questi problemi. Come? In tanti modi. In questo momento stiamo lavorando, avete visto Haiti prima del terremoto. Quando guardo questo filmato, mi domando quanti di questi bambini non siano più vivi, però abbiamo ricominciato ad Haiti e stiamo lavorando con tantissimi altri Paesi. Stiamo lavorando con il Niger, per aiutare la produzione del latte attraverso le loro tecniche e la trasformazione in yogurt. Stiamo lavorando in Mali, dove abbiamo dei progetti per la rete idrica, importantissima per l’agricoltura. Stiamo lavorando in Senegal, sui giardini e sugli orti urbani, perché è vero quello che ha detto il Ministro, ma non possiamo non tenere conto che la metà della popolazione già vive nelle città e quindi l’agricoltura urbana, l’agricoltura familiare sono sicuramente alcune delle risposte che possono essere date. E da ultimo, penso che ci possano essere due modi per far sì che Expo possa lasciare un segno.
Uno è quello dell’eredità. Expo non vuole avere un simbolo fisico come le altre Expo, non avremo una Torre Eiffel come l’ha Parigi, avremo un centro per lo sviluppo sostenibile, che sarà un piccolo centro per mettere in rete le conoscenze, le esperienze, la formazione, per aiutare i Paesi in via di sviluppo. A me piace chiamarli Paesi in via di sviluppo, perché penso che comunque dia l’idea di un cambiamento che esiste, che c’è e credo che questo vada sottolineato con forza anche nelle parole. Abbiamo altri progetti. Ne cito ancora uno perché lo stiamo sviluppando con il Ministero dell’Agricoltura: la Borsa Telematica Agroalimentare. La produzione in tanti Paesi c’è, ma è difficile che arrivi sui mercati perché i costi di trasporto e i costi della distribuzione sono elevati. Milano ha la fortuna di avere una Borsa Telematica Agroalimentare che tratta i prodotti italiani, i nostri prodotti. Potremo estenderla, la estenderemo agli altri Paesi che hanno prodotti di nicchia, che vogliono arrivare sui mercati ma che in questo momento non hanno la possibilità di farlo. Credo che queste siano eredità importanti che Expo può lasciare. Ma forse l’eredità più importante sarà quella che potremo creare noi, se saremo capaci di sviluppare, attraverso le nostri reti, uno o due progetti che magari saranno una piccola goccia nel mare, ma na goccia importante. So che ci sono qua, oggi, tanti Amministratori Locali, ci sono tanti Sindaci, tanti colleghi, ci sono professori universitari. Sono convinta che una nostra città si possa collegare con una città di un altro Paese ricco, e insieme potremo aiutare la città di un Paese più povero, una sorta di alleanza tra città. Un partenariato Nord-Sud, come è stato chiamato. Penso al lavoro che possono fare le Università, agli scambi di docenti, di studenti. A me piacerebbe che nell’anno di Expo, Milano, Italia 2015, tutte queste esperienze possano essere mostrate, possano essere patrimonio di tutti. E allora, l’augurio del mio cuore è che ognuno di noi sia portatore di un progetto di solidarietà, di un progetto di aiuto, di un progetto che aiuterà sicuramente a migliorare anche noi. Grazie.
ALBERTO PIATTI:
Voglio esprimere la mia sincera gratitudine a chi è seduto a questo tavolo, perché finalmente abbiamo ricominciato a parlare di contenuti. Perché la prima azione non è il fare, è la capacità di pensare, di riflettere. Le conseguenze ci saranno se abbiamo un’idea sintetica, ma questa idea sintetica comincia a riemergere dopo fiumi di polemiche pressoché inutili: questo è il mio pensiero di comune cittadino. E poi ho capito anche un’altra cosa, che voglio dire soprattutto ai milanesi. Partecipando a qualche tavolo, qua e là, l’Expo, così come è stato indicata, è un’Expo dei popoli e tra i popoli, e non delle burocrazie tra le burocrazie. Diamo un contributo come popolo, l’Expo non è un self service da cui, introducendo pochi gettoni, si spera di averne altri. Non è un supermercato. E’ qualcosa che possiamo costruire insieme con quella che sempre di più si chiama diplomazia economica, tanto cara a Franco Frattini, dove il sistema Italia fatto dall’insieme delle non profit, dalle Ong, dalle imprese, dalle Amministrazioni Pubbliche può dare un contributo reale e fattivo. Spero che questa riflessione diventi una tradizione del Meeting, così, avvicinandoci, possiamo sempre di più e meglio focalizzare l’obiettivo. Grazie a tutti.
(Trascrizione non rivista dai relatori)