Chi siamo
“NON SONO NUMERI, SONO PERSONE”. MIGRANTI, LA SFIDA DELL’INCONTRO
"NON SONO NUMERI, SONO PERSONE". MIGRANTI LA SFIDA DELL’INCONTRO
Partecipano: Romano Prodi, Presidente Fondazione per la Collaborazione tra i popoli; Naguib Sawiris, Chairman of Orascom Telecom Media and Technology Holding; S. Ecc. Mons. Silvano Maria Tomasi, Membro del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace. Introduce Giorgio Paolucci, Giornalista.
GIORGIO PAOLUCCI:
Buongiorno a tutti e benvenuti a questo incontro che ha per titolo “Non sono numeri, sono persone”. Migranti, la sfida dell’incontro. Come sapete c’è una mostra dedicata a questo argomento: sappiamo che molti tra voi l’hanno visitata, forse altri la vorranno vedere. Abbiamo pensato di iniziare questo incontro proponendovi il primo video che c’è nella mostra e che non ha bisogno di commenti, perché fa vedere nella sua crudità e nella sua realtà i viaggi delle persone che vengono verso di noi. Guardiamo questo breve video e poi introdurremo l’incontro.
Proiezione Video
GIORGIO PAOLUCCI:
Forse ci vorrebbe qualche minuto di silenzio davanti a delle immagini così commoventi, e forse in queste immagini c’è già tutto il senso di questo incontro, c’è la chiave che abbiamo voluto offrire nella mostra che abbiamo preparato sui migranti: l’immedesimazione, il sentirsi partecipi dei destini, della sorte di migliaia di persone che, nelle condizioni che avete visto, sfidano il mare per riuscire a compiere il loro destino, per raggiungere la felicità, come dice Papa Francesco. “I profughi non sono numeri, sono persone, volti, nomi e storie e come tali vanno trattati”. È proprio da queste parole pronunciate il 16 aprile scorso da Papa Francesco durante la visita greca di Lesbo che parte la mostra. Una mostra nata senza l’ambizione di sfornare ricette per risolvere i problemi molto complessi legati all’emigrazione, ma che propone anzitutto una posizione umana, un percorso come dicevo di immedesimazione nelle vicende di quanti lasciano la loro terra in cerca di un futuro migliore. I migranti che incontriamo nei nostri paesi o nelle nostre città sono spesso solo l’eco lontana, la punta di un gigantesco iceberg in movimento nel mondo.
244 milioni, secondo le Nazioni Unite, le persone che vivono in un Paese diverso da quello in cui sono nate, 60 milioni i rifugiati. Un fenomeno planetario che ci dice che quanto sta accadendo non è soltanto un’epoca di cambiamenti ma un vero e proprio cambiamento d’epoca. Abbiamo invitato tre persone che, per l’esperienza fatta e per il ruolo che svolgono, possono aiutarci a capire di più quanto sta accadendo e la responsabilità che viene chiesta non solo ai Governi ma a ciascuno di noi.
Ve li presento: Romano Prodi, Presidente Fondazione per la Collaborazione tra i Popoli. Di questi temi si è occupato a lungo come Presidente del Consiglio italiano, più volte come Presidente della Commissione Europea, come inviato speciale delle Nazioni Unite per il Sael, e anche come docente universitario e studioso. Mons. Silvano Maria Tomasi, Segretario Delegato del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace, per molti anni Osservatore della Santa Sede presso le Nazioni Unite a Ginevra. E Naguib Sawiris, imprenditore egiziano, Presidente del Consiglio di Amministrazione di Orascom Telecom Media and Technology Holding, fondatore del partito degli Egiziani Liberi, il primo partito liberale formatosi dopo la rivoluzione del 2011, riconosciuto come uno dei pionieri della difesa dei valori democratici, del pluralismo e della democrazia. Naguib Sawiris ha lanciato alcuni mesi fa la proposta di una singolare iniziativa nel segno dell’accoglienza di cui ci racconterà. Diamo la parola per primo a Mons. Tomasi, perché nella sua lunga carriera ha sempre avuto una particolare attenzione al tema della convivenza tra i popoli, tra le identità, nel solco della Dottrina Sociale della Chiesa. Il suo contributo al catalogo della mostra del Meeting sui migranti definisce i flussi migratori un segno dei tempi, una sfida per capire che siamo tutti parte di una casa comune, della stessa famiglia umana, e ricorda l’importanza del lavoro educativo della Chiesa sulla scia delle parole, dei gesti forti compiuti da Papa Francesco. Lo ascoltiamo.
S. ECC. MONS. SILVANO MARIA TOMASI:
Da mesi e anni ormai le masse di richiedenti asilo provocano paura, rigetto, accoglienza, una gamma di emozioni e di politiche che dividono comunità, creano apprensione e incertezza, rivelano però anche una generosità sconosciuta. La paura del terrorismo, la percezione che l’accresciuta presenza dell’Islam e dei rifugiati minaccino il modo di vivere locale, spingono ad allargare il gap tra i partiti della destra e quelli della sinistra con delle conseguenze disgreganti per l’Unione Europea. Certo, questi nuovi esodi sono la luce rossa d’allarme che il nostro mondo non funziona bene. Se tremila donne, bambini, adulti in cerca di sopravvivenza hanno trovato la loro tomba nel profondo del Mediterraneo solo negli ultimi sette mesi di questo 2016, se migliaia di minorenni vagano dall’America Centrale verso gli Stati Uniti e sono violati per strada, alcuni uccisi, altri semplicemente scompaiono, se siamo arrivati ad avere 60 milioni di persone sradicate violentemente dalle loro case e dal loro ambiente e costrette a fuggire per salvarsi, non possiamo dire che il pianeta terra, la nostra casa comune, goda di buona salute. Eppure abbiamo i mezzi, le risorse, la tecnologia, per rimediare. E allora, perché ci trinceriamo dietro muri e barriere di filo spinato per non incontrare l’altro che bussa alla nostra porta per non morire di fame o sotto le bombe di guerre intestine? O perché le spese militari della comunità internazionale nel 2015 hanno raggiunto la cifra di quasi $1.7 trilioni (cioè 1.7 mila miliardi in valutazione USA), un aumento dell’1% in termini reali rispetto al 2014, mentre per gli aiuti umanitari non si raggiunge la cifra del fabbisogno di 20 miliardi di USD?
L’esperienza di migrazioni forzate non è nuova, ma la lezione della storia sul movimento di popoli non è stata imparata. Ecco un canto degli emigranti nella forma di dialogo tra lupi e pecore, cioè tra ricchi e poveri:
“Noi siamo pecore, figli di pecore.
Di generazione in generazione i lupi si scaldano con la nostra lana e si cibano con la nostra carne.
Un giorno vennero a dirci che in un paese molto vasto, ma molto lontano, noi avremmo potuto campare meno peggio.
Oh pecore, pecore – ci gridarono – badate che c’è il mare da attraversare.
E noi lo attraverseremo.
E se fate naufragio e vi annegate?
Meglio morire d’un colpo che agonizzare tutta la vita.
Oh povere pecore, ma voi non sapete che in quel paese molto vasto e molto lontano ci sono delle malattie tremende.
Nessuna malattia potrebbe essere più tremenda di quella che noi soffriamo di padre in figlio: la fame”.
Potrebbero essere delle righe scritte guardando il telegiornale di questi giorni con le immagini delle carrette del mare piene di richiedenti asilo o dei cadaveri galleggianti o allineati sulle spiagge del sud Europa, guardando nei loro occhi il senso di orgoglio dei sopravvissuti alla traversata dalla Libia a Lampedusa, dalla Turchia a Lesbo.
In realtà, queste righe apparvero su un giornale tedesco nel 1880 e furono tradotte e riportate dai socialisti Dario Papa e Ferdinando Fontana nel loro libro New York pubblicato a Milano nel 1884. Allora si trattava dell’esodo dei braccianti e contadini italiani ed europei verso le Americhe ed altri continenti. Dal 1876 al 1976, 24 milioni di Italiani emigrarono, senza contare i clandestini. Nei quartieri poveri e marginali delle grandi città del Nuovo Mondo, dove la quasi totalità si insediò, venivano presentati con poca empatia. La Relazione dell’Ispettorato per l’Immigrazione al Congresso Americano sugli immigrati Italiani negli Stati Uniti dell’ottobre 1912, cambiato il nome del gruppo nazionale, potrebbe essere la piattaforma politica dei partiti xenofobi dei Paesi europei di oggi. La Relazione recita:
“Generalmente sono di piccola statura e di pelle scura.
Non amano l’acqua, molti di loro puzzano perché tengono lo stesso vestito per molte settimane.
Si costruiscono baracche di legno ed alluminio nelle periferie delle città dove vivono, vicini gli uni agli altri.
Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti.
Si presentano di solito in due e cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci.
Tra loro parlano lingue a noi incomprensibili, probabilmente antichi dialetti.
Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l’elemosina ma sovente davanti alle chiese donne vestite di scuro e uomini quasi sempre anziani invocano pietà, con toni lamentosi e petulanti.
Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti tra di loro.
Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti.
Le nostre donne li evitano non solo perché poco attraenti e selvatici ma perché si è diffusa la voce di alcuni stupri consumati dopo agguati in strade periferiche quando le donne tornano dal lavoro.
I nostri governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma, soprattutto, non hanno saputo selezionare tra coloro che entrano nel nostro paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittura, di attività criminali…
Si privilegino i veneti e i lombardi, tardi di comprendonio e ignoranti ma disposti più di altri a lavorare.
Si adattano ad abitazioni che gli americani rifiutano purché le famiglie rimangano unite e non contestino il salario.
Gli altri, quelli ai quali è riferita gran parte di questa prima relazione, provengono dal sud dell’Italia.
Vi invito a controllare i documenti di provenienza e a rimpatriare i più.
La nostra sicurezza deve essere la prima preoccupazione”.
La memoria nazionale sembra debole e offuscata dalla paura dei nuovi arrivi. Vari Governi di Stati Membri dell’Unione Europea sembrano pure mancare di prospettiva storica anche se non c’è dubbio che il movimento di popoli è alla base dello sviluppo di civiltà, di scambi di conoscenza, di progresso tecnico. Michael H. Fisher, nel suo libro Migration: A World History sviluppa un caso convincente che conclude: “La storia delle migrazioni è al centro della storia del mondo (“migration history is the core of world history”, p.125).
Le Nazioni Unite informano che oggi 250 milioni di persone vivono e lavorano in un Paese diverso da quello in cui sono nate. Il movimento di popoli è un dato continuo, strutturale della storia della famiglia umana, che a lungo andare porta benefici per tutti. Allora ritorna la domanda: perché l’energia per la risposta a questo fenomeno va nella direzione del controllo, della prevenzione dell’arrivo, di politiche di contenimento, tutte iniziative che vanno contro l’evidenza della storia?
Una voce, soprattutto un’azione alternativa a sostegno degli sradicati di ieri e di oggi, però, non manca. È la voce delle donne e degli uomini che, ispirati dal messaggio e dall’esempio di Gesù, o ascoltando la voce del cuore e della ragione, hanno capito le migrazioni come occasione di incontro e di affermazione che, prima delle frontiere, c’è la famiglia umana a cui tutti apparteniamo. L’altro non è tale perché è inferiore o perché la sua diversità lo debba catalogare un gradino o due al di sotto di me, ma è altro da me perché mi dà la possibilità di scoprire me stesso, di prendere coscienza della mia dignità di persona nella relazione che stabilisco con lui. L’altro è una necessità per me. Se l’altro non esiste come termine di paragone, io rimango bloccato nel mio mondo e perdo l’opportunità di sviluppare un’autocoscienza che si apre su orizzonti illimitati. Nell’affrontare le migrazioni contemporanee, non possiamo quindi prescindere da un punto di partenza fondante: l’atteggiamento verso l’altro deve essere anzitutto di reciproca accoglienza. Le diversità che vengono da un passato separato si incontrano per costruire un futuro comune.
Se di fronte all’altro è anzitutto l’atteggiamento di accoglienza reciproca che deve costituire il metodo che rende l’incontro fruttuoso, esso deve essere anche capace di assumere i problemi che emergono. Non è un metodo naïve o indolore. Mentre da una parte ci possono essere chiusure irragionevoli, dall’altra ci può essere un’imposizione aggressiva e ingiusta di tradizioni che violano diritti umani fondamentali. Dall’incontro parte la ricerca comune della verità in un dialogo rispettoso. Oggi, mi pare, ci sono due esigenze particolarmente pertinenti: la coerenza che dovrebbe legare principi e valori affermati alla pratica quotidiana, la distinzione tra politica e religione.
a. L’accoglienza e l’apprezzamento dell’altro, straniero incluso, nella tradizione cristiana, ma non solo, costituisce l’altro versante del culto che i fedeli credenti sono chiamati a rendere a Dio, un atto della loro confessione di fede. Questa coerenza rimane però una sfida. Fondere in uno amore di Dio e del prossimo è una sfida continua che si scontra con gelosie, egoismi, interessi, potere. La stessa storia biblica ce lo mostra: l’azione di Caino verso suo fratello Abele, di Israele verso i popoli vicini, spesso nemici, i fratelli di Giuseppe verso il più piccolo tra loro, i discepoli di Gesù verso quelli che compivano guarigioni e non appartenevano al loro gruppo. La tensione tra l’amore di Dio e l’amore del prossimo si risolve nel riconoscere Dio nel prossimo, nell’altro che incontro (1 Giov. 3, 17). Ecco la chiave dell’accoglienza. Incontrare lo sguardo dell’altro, ascoltarlo, l’altro che i Padri della Chiesa dei primi secoli hanno definito “colui che è la tua propria carne”. Nell’accoglienza non tutto è chiaro. Abramo alle querce di Mamre riceve e rifocilla l’ospite che non conosce e nasce la speranza: a lui e a Sara, vecchi e senza figli, viene promesso un figlio e la storia cambia. Il profeta Elia, migrante, chiede del cibo alla vedova di Sarepta. Questa usa l’ultima manciata di farina e l’ultima goccia d’olio che ha per cucinare un pane per l’ospite, ma da lì nasce il futuro perché la farina e l’olio non si esauriranno per tutto il periodo della fame e della siccità. Se siamo persone di fede, allora coerentemente integriamo accoglienza e culto: La sorpresa del risultato non mancherà.
b. L’accoglienza presuppone reciprocità per rendere la convivenza possibile. I nuovi arrivati dovranno capire che l’ospitalità che ricevono esige certamente per un inserimento rispettoso l’appropriazione anche da parte loro dei valori fondanti la comunità ospitante, quel nucleo essenziale di doveri e diritti ragionevolmente universali come la pari dignità dell’uomo e della donna, la libertà di coscienza e di credo, l’accettazione del pluralismo nella società, la separazione di politica e religione, l’uguaglianza dei cittadini di fronte allo Stato. In realtà, si apre qui un dibattito complesso sull’universalità dei diritti umani, sul ruolo pubblico della religione e sulla natura dello Stato moderno. I flussi migratori dal mondo arabo e africano verso l’Europa ormai obbligano le democrazie occidentali a riproporre all’interno del loro spazio questa discussione che prima era un confronto tra popoli che vivono in regioni geograficamente diverse del globo. Assumendo realisticamente che le migrazioni continueranno, a lungo andare è più saggio pensare alla loro integrazione che consumare tutte le energie in discussioni emotive e poco concludenti sui numeri di richiedenti ospitalità. Una dimensione cruciale dell’accoglienza è appunto l’integrazione che non dovrà essere come lo scontro di due auto quando ambedue sono modificate ma in una modalità di mutua distruzione. Piuttosto, l’integrazione è l’incontro di due esperienze umane vissute che nel dialogo camminano assieme verso il futuro e costruiscono una identità comunitaria più ricca e dinamica attraverso uno scambio di doni. L’altro quindi può divenire una forza propulsiva verso un futuro migliore per tutti.
Ma il rischio di manipolazioni è alto. Il dibattito pubblico sull’impatto dell’immigrazione riguarda tanto la percezione quanto le statistiche attuali. Liberarci dalle deformazioni della realtà provocate dalla paura e da ideologie egoiste, è un passo necessario per incontrare l’altro com’è. Nella campagna elettorale americana l’immigrazione è un tema che provoca reazioni emotive infuocate. Eppure, osserva il Pew Research Center, in termini reali la percentuale di immigrati nella popolazione americana, circa il 14%, è cresciuta solo dell’1% nell’ultima decade. È altrettanto utile e interessante notare che, al di là della commozione creata dai media, il numero di prime applicazioni per asilo nel 2015 su 100 mila persone della popolazione nazionale, è stato così: 1,770 in Ungheria, 1,600 in Svezia, 1,000 in Austria, 540 in Germania, 390 a Malta, 250 in Olanda, 140 in Italia, 60 in Inghilterra. Nel 2016, la percentuale di nati all’estero in Europa è ugualmente significativa, con il 18.3 % in Svezia, 18.5% in Austria, 30.1% in Svizzera, 15.6% in Germania, 15.9% in Irlanda, 13.4% in Francia, 13.0% in Belgio, e 9.8% in Italia, e nei Paesi dell’Est Europa una percentuale molto più bassa.
Allargando lo sguardo sulla mappa delle migrazioni, si scopre una realtà più complessa che ridimensiona le emozioni. Nel 2014, per esempio, i cittadini italiani residenti all’estero sono aumentati di 155 mila unità, attestandosi a quota 4.637.000, con un incremento superiore a quello dei cittadini stranieri residenti in Italia (5.014.00 a fine anno), per i quali l’aumento è stato solo di 92 mila unità. Il UNHCR ci ricorda che più dell’85% dei richiedenti asilo sono accolti nei Paesi più poveri o in via di sviluppo. Si pensi al Libano, grande poco meno del Trentino-Alto Adige, che ha 4 milioni e mezzo di abitanti, accoglie 1 milione e 200 mila profughi, più dell’intera Europa che ha ben più di 500 milioni di abitanti. In conclusione, l’accoglienza che comunità parrocchiali, Comuni, famiglie offrono è la preparazione della nuova società e si contrappone alla sterilità di tanti discorsi xenofobi. L’altro siamo anche noi. Nel mondo globalizzato di oggi, il contributo dell’esempio e del messaggio cristiani si rivela ancora più necessario che in passato nella sua universalità che garantisce convivenza e la costruzione della casa comune: è la strada del futuro.
GIORGIO PAOLUCCI:
Al professor Romano Prodi diamo adesso la parola partendo da alcune affermazioni che lui ha fatto in un’intervista pubblicata pochi giorni fa su Atlantide, la rivista della Fondazione per la Sussidiarietà. E lì, in questa intervista che potete trovare sul sito del Sussidiario nella sezione di Atlantide, il professor Prodi denuncia una carenza di visione da parte dei Governi europei nei confronti delle migrazioni. Parla di un’Unione Europea con la vista corta e con il fiato corto, e mette in evidenza che la paura sta prevalendo sulla ragione e denuncia la mancanza di un progetto, di una visione lunga, di una progettualità nei confronti di un fenomeno che è destinato a durare a lungo, ma che continuiamo ad affrontare sostanzialmente secondo una logica legata all’emergenza. L’Europa invecchia, l’Africa ribolle di giovani in cerca di futuro e non solo di lavoro, ma anche in cerca di libertà, in cerca di compimento del loro desiderio di felicità: come l’Europa è capace di rispondere a questo? Servono interventi lungimiranti. Come stare di fronte a questi cambiamenti epocali, a queste grandi sfide che le migrazioni portano sotto casa nostra?
ROMANO PRODI:
Già Monsignor Tomasi ha sollevato questi problemi e vorrei un attimo rispondere alla domanda di Paolucci. C’è un dato impressionante, cioè che l’Europa ha assorbito in passato più migranti di adesso, prima del la crisi. Oggi il problema diventa drammatico per due guerre, quelle della Siria e quella della Libia, il processo di migrazione diventa assolutamente incontrollato, crea paura, non è regolato e non è accolto. Ma come Mons. Tomasi ha detto, questo fenomeno l’avremo per lungo tempo. Solo un dato: Germania, Italia e Spagna sono ad un livello di decremento demografico impressionante. Dagli ultimi dati, abbiamo 1,29% bambini per ogni donna e che per avere un equilibrio noi dovremmo avere due e due e qualcosa. Con l’immigrazione, abbiamo adesso 1,39, poco di più, perché immediatamente dopo pochi anni gli immigrati prendono le stesse abitudini demografiche della popolazione. Ma questo squilibrio demografico sta provocando degli effetti che non sono molto considerati da parte della nostra gente, cioè che entro metà del secolo la Germania perderebbe intorno ai 10 milioni di abitanti senza immigrazione. L’Italia perderebbe intorno ai 6 milioni di abitanti, cioè più degli abitanti dell’intera Emilia Romagna, più il Trentino Alto Adige. E abbiamo di fronte a noi un’Africa che passerà entro la metà del secolo da 1 a quasi 2 miliardi di abitanti. C’è uno squilibrio che fa impressione (poi con i dati mi fermo, perché non bisogna mai darne troppi), ma l’età mediana è quella: tanti più vecchi, tanti più giovani, in Italia è 46 anni. Cioè, abbiamo tanti italiani che hanno 46 anni quanti ne hanno meno di 46 anni. In Mali, in Niger, in Mauritania, l’età mediana è tra i 17 e i 18 anni. Riflettete voi su questo. Allora, il discorso dell’Europa dev’essere quello del grande piano d’investimento nei confronti dell’Africa, perché se no rimane solo immigrazione. Dovete sapere che già oggi le rimesse degli emigranti sono più importanti di tutta la massa di aiuti, privati o pubblici, che vanno verso l’Africa, e quindi il loro contributo è ritenuto anche per le famiglie che rimangono là l’elemento di vita. Non è solo come abbiamo visto dal documentario e come ci ha detto Mons. Tomasi: “La vita è più importante quando c’è la fame, per vivere si fa qualsiasi cosa”. Attenzione, è rimasto l’unico rimedio anche per la vita di quelli che rimangono in Africa, per le famiglie, quindi è una forza enorme. È chiaro che i singoli Paesi europei, di fronte a questo flusso, da soli non possono fare gli interventi a lungo periodo e nemmeno quelli a breve. Quelli a lungo periodo sono un grande piano di sviluppo e di investimenti in Africa. Non ho usato la parola aiuto, è sottinteso che anche questo ci voglia, ma sia ben chiaro che noi dobbiamo accompagnare e aiutare lo sviluppo economico dell’Africa. Negli ultimi anni il continente africano ha fatto progressi e si sviluppa in modo leggermente superiore alla media mondiale, ma parte da talmente in basso che l’arretrato di fame, di problemi è enorme e sarà enorme anche per il futuro. Quindi, occorre un programma a livello continentale – se no, non basta – di aiuti, ma nel breve, come abbiamo visto dalle immagini e dalle parole: occorre un serio programma di gestione di quello che avviene. La gestione è resa difficile dalle due guerre: la guerra di Siria e la guerra di Libia. Più difficile proprio in un modo drammatico. Voglio dire: quando io ero al Governo, quante volte Gheddafi mi ha minacciato di mandarmi dei barconi di immigrati? Non lo ha mai fatto perché si gestivano le cose da Paese a Paese, perché si trovavano le mediazioni e quindi non si iniettava questa paura e questa migrazione incontrollata. Oggi, noi abbiamo avuto sia dalla Siria che dalla Libia due flussi del tutto incontrollati. Quello siriano è stato recentemente in parte regolato, cioè la parte che arrivava in Europa e non quella che arriva ai Paesi vicini che è quantitativamente molto più grande. La parte che arrivava in Europa è stata regolata un po’ con l’ambiguo accordo – e ripeto la parola ambiguo accordo – con la Turchia ed è rimasto solo questo enorme flusso verso l’Italia. E noi ci troviamo con una grande generosità nell’accogliere e nel salvarli in mare ma con disorganizzazione, chiusura e delle grandi incompetenze quando questi poi vivono nel nostro territorio. Il problema dell’accoglienza è proprio in questa fase: l’insegnamento della lingua, la riorganizzazione, la valorizzazione delle risorse umane: questo è un livello importantissimo. La settimana scorsa ho incontrato degli amministratori locali della regione in cui siamo. A proposito del dato che dava Mons. Tomasi prima dei 150 mila italiani che migrano, quando io chiedevo come sono i nuovi problemi delle migrazioni, la risposta per me è stata impressionante: “Vede, professore, con la crisi ne arrivano meno e soprattutto partono per l’estero i ragazzi più dotati e più preparati della seconda generazione”. Cioè, siamo un Paese che non è capace di assorbire le risorse umane, non dico la destinazione finale di un enorme numero di migranti che non potremmo fare, ma l’aiuto alla valorizzazione delle persone che noi invece abbiamo la possibilità e l’obbligo di fare. Quanto alla destinazione finale, certamente il ritorno non può che essere una politica europea. I singoli Paesi non hanno né la dimensione né la capacità di regolare questo flusso anche in caso di una fine o per lo meno di una diminuzione dei conflitti che abbiamo di fronte a noi. Proprio perché la dimensione del problema è talmente grande che esige un’opera di carattere continentale e non locale.
Qui mi fermo, perché mi era stata fatta una domanda esplicita e voglio limitarmi a questa. In questo momento, i singoli Paesi europei non hanno la forza di una politica che non guardi al problema delle elezioni nazionali. Cioè, il vero problema, la vera crisi della nostra democrazia è il fatto che noi siamo di fronte all’abbreviazione dei tempi di reazione della politica con elezioni sempre più ravvicinate, con le opinion polls che fanno sì che ogni elezione, anche quella di importanza locale, diventino un fatto politico nazionale. Tutto questo sta accorciando i tempi di reazione della nostra politica, e quando dico nostra non è solo italiana ma di tutti i Paesi europei. Quando è successo il caso greco, il governo greco – se vogliamo usare un linguaggio famigliare – aveva imbrogliato, non c’è dubbio, aveva dato dati assolutamente falsi sul deficit. Ma quando è scoppiato questo problema, la sua dimensione era minima perché la Grecia ha il 2% del prodotto lordo europeo con 30 miliardi di euro, una cifra non piccola ma a livello continentale gestibilissima. Noi potevamo regolare un Paese. Ma c’erano delle elezioni locali in Germania, nel Paese che comanda in Europa, tre mesi dopo, e il governo tedesco non ha voluto o potuto prendere un provvedimento. E in tre mesi i 30 miliardi erano diventati 300, perché nel frattempo la speculazione aveva fatto il suo corso: posso moltiplicare questo esempio in tutti i casi della politica dei singoli Paesi. O noi usciamo da questo, oppure la tragedia dei muri diventerà inevitabile perché ogni elettorato, guidato dalla paura, spinge il suo governante a porre dei muri. Tutto il peso viene ovviamente ai Paesi che confinano col mare, verso l’Africa, e quindi rende particolarmente difficile la situazione italiana. Il discorso europeo è un problema, primo, essenziale per il nostro Paese. Secondo, essenziale perché tutti i Paesi europei non vengano presi dalla paura e non adottino quindi la dottrina del muro contro muro.
GIORGIO PAOLUCCI:
Diamo ora la parola a Naguib Sawiris che, per molti versi, incrocia gli argomenti di cui stiamo parlando come imprenditore e come uomo che ha partecipato alla fase successiva alla transizione, dopo la rivoluzione egiziana del 2011, fondando appunto questo partito degli egiziani liberi, e che da sempre è attento anche ai temi legati ai movimenti di popoli, alle migrazioni. Tra l’altro, ha anche lanciato alcuni mesi fa la proposta di cui poi ci parlerà nella seconda parte del suo intervento, di acquistare un’isola nel Mediterraneo per ospitarvi immigrati. Diamo a lui la parola, perché ci racconti questo fenomeno visto da uno dei punti di partenza di questi grandi flussi migratori e visto anche dal punto di vista di una persona che ci aiuta ad avere uno scenario internazionale, visto che lui è presente con le sue imprese anche in Europa
NAGUIB SAWIRIS:
Grazie. Sono onorato di essere qui con voi oggi. Si tratta di un argomento che mi sta molto a cuore. Credo che dobbiamo tornare alla primavera araba per vedere da dove si origina il problema dei migranti. Quando è iniziata la primavera araba, le persone sono andate in strada e si sono ribellate contro i dittatori dei loro Paesi in Egitto, in Libia, in Siria. La loro speranza è sempre stata quella di cercare una vita migliore, una vita democratica e combattere per la propria libertà. Sfortunatamente, gli eventi non sono andati come si era sperato, perché queste persone si sono trovate di fronte a due scelte: adottare un regime religioso, fanatico, oppure accettare una dittatura. Entrambe le scelte sicuramente non sono accettabili e in seguito alla persecuzione delle minoranze con la crescita dell’Isis, c’è un cambiamento strumentale in quello che è il fenomeno dei migranti, perché prima della primavera araba i migranti lasciavano il proprio Paese perché volevano una vita migliore, migliori condizioni di vita, un salario migliore. Ma dopo la primavera araba, i migranti – parlo in particolare delle minoranze nel Medio Oriente – scappano dal loro Paese per salvarsi la vita. Sappiamo tutti quello che lo Stato islamico ha fatto ai cristiani di Siria e Iraq, alle altre minoranze. In questo caso, le persone scappano per salvarsi la vita, quindi bisogna distinguere questi due aspetti, le persone che migrano per cercare una vita migliore o le persone che scappano per salvarsi la vita, perché se si sale su un barcone nella speranza di salvarsi la vita, si rischia un destino peggiore, per cui tutti noi dobbiamo in qualche maniera condividere questo aspetto parlando con il nostro cuore, quindi non considerando le mere considerazioni politiche o le cifre. Credo che il mondo, in particolare quello occidentale, abbia fallito, perché quando abbiamo assistito all’ascesa dell’estremismo di Al-Qaeda e dell’Isis, e a ciò che è accaduto prima in Iraq, poi in Siria e poi in Libia, si stava a guardare, non abbiamo fatto nulla. Magari in passato si andava a guardare, si andava a cercare Bin Laden in Afghanistan; adesso che sapevamo dov’erano, in realtà non abbiamo fatto nulla, soprattutto l’amministrazione americana. Si sono inviati degli aerei per andare a fare ricognizione, vedere dov’erano queste persone ma non si è fatto nulla. Queste persone sono state costrette in schiavitù, tutto il mondo lo sapeva e ha chiuso gli occhi. Quindi, avremmo dovuto affrontare queste persone perché sono soldati del male e non abbiamo fatto nulla nei loro confronti.
Ci sono due aspetti per affrontare l’estremismo e il terrorismo. E non c’è nessuna soluzione che non sia l’uso della forza, non c’è modo di affrontare il terrorismo con le conferenze, bisogna affrontarlo appunto con persone che combattono per una buona causa. E poi c’è un altro modo di agire: creare posti di lavoro per le persone, pagare loro dei salari decenti. Se lo facessimo, queste persone non verrebbero da noi. Quindi, bisognerebbe avere una sorta di Piano Marshall europeo per l’Africa, in maniera da creare dei posti di lavoro nei Paesi africani. E dobbiamo parlare con i Governi di questi Paesi, perché spesso e volentieri ci sono Governi corrotti che spesso non fanno quello che è necessario fare per salvare le loro persone. Per tornare alla mia idea dell’Islam, si tratta di un’idea con la quale volevo pulirmi un po’ la coscienza: sono una persona molto sentimentale e quando guardo la televisione e vedo un video come questo, così toccante, quando guardo il corpo del bambino sulla spiaggia turca, penso: sono fortunato ma questo bambino avrebbe potuto essere mio figlio. Come mi sarei sentito se fosse stato mio figlio? Non voglio restare indifferente di fronte a queste immagini, quindi mi sono detto: una persona come me, un simbolo come me, un imprenditore, cosa potrebbe fare?”. Ho esperienza, per esempio, nel settore dello sviluppo, quindi l’idea dell’isola è stata semplicemente quella di comprarmi un posto in paradiso sulla terra, fare qualcosa di buono per pulirmi un po’ la coscienza e pensare che, di fronte a certe immagini, almeno ho fatto qualcosa. L’idea è stata semplice. Ho visto che c’erano tante isole in Grecia, alcune in Italia, anche: in particolare, le isole greche sono di proprietà privata e alcuni di questi privati le mettono in vendita. Ho fatto un elenco di circa 23 isole e ho fatto dei negoziati con i proprietari. La mia idea è consistita in questo: avrei in qualche maniera comperato l’isola, avrei accolto su questa quanti più profughi possibile e queste persone avrebbero poi costruito e realizzato lì la loro patria, avrebbero costruito le scuole, gli ospedali, ecc., avrebbero creato posti di lavoro. Ci sarebbero stati effettivamente dei medici che avrebbero lavorato negli ospedali, ci sarebbero stati ingegneri, quindi un modello sostenibile con persone che sarebbero arrivate su questa isola e avrebbero realizzato tutte le circostanze per una vita migliore. Il finanziamento sarebbe stato in qualche maniera fornito da me, tutto ciò di cui avrei avuto bisogno sarebbe stato l’approvazione del Governo greco: perché ovviamente ci sarebbe stato bisogno del controllo dei passaporti, dei controlli di sicurezza. Per cui, mi sono rivolto al Governo greco e ho incontrato l’ultimo Ministro greco. All’inizio era entusiasta dell’idea, ha promesso il suo sopporto e io gli ho detto semplicemente: “Non ho bisogno di nulla da lei, mi deve semplicemente dare la sua assicurazione che è disposto ad accogliere 20 mila profughi da mettere su questa isola. Vi fornirò un elenco, cosi lei mi potrà dire qual è la migliore e io farò poi il resto con la collaborazione delle persone”. Ci sono tante persone nel mondo che si sono messe in contatto con me e hanno espresso la loro disponibilità a fare questo. Sfortunatamente devo dire che la mia idea non è stata supportata dal Governo greco, perché la risposta successiva è stata abbastanza vaga. Non posso semplicemente prendere i profughi e metterli sull’isola, ci sono dei diritti di sovranità e io devo ovviamente rispettarli, ci sono pressioni legate alla sicurezza e c’è bisogno di controlli dei passaporti, altrimenti si compirebbero delle violazioni del diritto greco e della sovranità greca.
In Italia, la situazione è diversa, le isole non sono private ma del Governo: però penso ancora che la mia idea sia ottima, molto semplice. C’è solo bisogno della volontà politica per sostenerla, la volontà politica che possa dare il via libera per supportare queste persone e creare una nuova società, un nuovo ambiente in una di queste isole. Se l’esperienza avrà successo, la potremmo moltiplicare, replicare, si potranno creare posti di lavoro e questo anche a vantaggio della Grecia o dell’Italia, con dei fornitori magari locali. E successivamente, in futuro, quando il problema sarà risolto, molte di queste persone saranno sicuramente desiderose di tornare al loro Paese di origine. Non è fantascienza, non è neanche una favola ma una idea fattibile, semplice e concreta. Sono una persona seria, non mi sono mai messo in testa nulla che poi in futuro non abbia realizzato, per cui faccio a tutti un appello: aiutatemi a far pressione su questi Governi, a convincerli, a dire loro: cosa avete da perdere nel supportare questa idea?. Come ha detto il Presidente Prodi, abbiamo bisogno di politici che non guardano solo alle elezioni ma di politici che hanno cuore, che siedono di fronte alla televisione e guardano video come questo e piangono e si sentono male di fronte a queste persone innocenti. Ecco il tipo di politici di cui abbiamo bisogno. Grazie.
GIORGIO PAOLUCCI:
In tutti e tre gli interventi è riecheggiata la parola paura: il diverso, il nuovo fa paura. Ma quando fa paura? E come si sta di fronte a questa paura? Com’è possibile guardarla in faccia? Com’è possibile vincerla? La paura è un sentimento naturale nell’uomo e bisogna, prima di demonizzarla, accompagnarla, come dice uno dei video che abbiamo preparato per la mostra: “Si può accompagnare questa paura guardando chi l’ha vinta, guardando le tante esperienze positive in cui l’incontro con l’altro, l’incontro con lo straniero, l’incontro con il diverso da me diventa occasione di arricchimento, diventa fecondo”. Ecco, allora volevo chiedere ai nostri ospiti – visto che questo tema della paura è molto usato anche politicamente ma comunque appartiene alla dimensione personale dei rapporti che ciascuno ha con chi è diverso -, aldilà delle strumentalizzazioni politiche: come si può stare di fronte alla paura del diverso e come si può vincere questa paura? Monsignor Tomasi.
S. ECC. MONS. SILVANO MARIA TOMASI:
Direi che ci sono almeno due aspetti da prendere in considerazione: il primo è che bisogna conoscersi, il primo passo è conoscersi e conoscere l’altra persona, guardarla negli occhi, capire perché ha preso le decisioni che ha preso: da là si può cominciare una relazione che crea una sintonia di umanità. L’altro aspetto è conoscere la realtà al di fuori delle persone, cioè le circostanze reali che complicano nel dibattito pubblico la questione dell’immigrazione: per esempio, sappiamo che le tasse pagate dal milione e mezzo di migranti che lavorano regolarmente in Italia hanno coperto l’anno scorso le spese del Governo per i servizi di emigrazione, e in più hanno pagato la pensione a 600 mila italiani. Allora, se si comincia a vedere l’aspetto positivo che la presenza degli immigrati comporta si può più facilmente aprire un dialogo che riguarda l’aspetto economico ma poi passa alla questione dello stile di vita, dei valori e dei rapporti umani. In questa maniera i muri calano e le paure spariscono e si comincia a guardare al futuro con più ottimismo.
GIORGIO PAOLUCCI:
Presidente Prodi.
ROMANO PRODI:
Pensavo di tradurre questo messaggio in azione politica, in azione quotidiana, e questo è un grosso problema perché la paura si vince solo con un’azione collettiva. Se i simili individui, anche di buona volontà, si mettono assieme possono fare qualcosa ma occorre un esempio che si moltiplica; occorre, ad esempio, una struttura che insegni la lingua a tutti in modo sistematico, occorre una politica di distribuzione degli alloggi in modo che vi sia un’accettazione e che il peso iniziale, che appunto è la vera paura di insediamenti estranei, non crei una vera ondata di paura che si espanda. Quindi, da un lato è chiaro che si vince la paura con la generosità personale, ma questa solitamente non basta di fronte a un dato di immigrazione così forte: occorre una distribuzione dei pesi fatta dai singoli Paesi a livello europeo e distribuita nel territorio, impedire la creazione di ghetti e di nuclei che rimangano estranei al Paese, chiamare gli enti e le strutture locali per dividere con accordo comune il peso della introduzione delle nuove immigrazioni. Sotto questo aspetto, il Paese che sta meglio affrontando questi problemi, fra i grandi Paesi europei, è proprio la Germania, in cui vi è una tradizione organizzata di condivisione e di distribuzione della paura e del rischio. E debbo però dire che, nonostante questo, anche la politica tedesca è ora dominata dalla paura. Quindi, con grande onestà intellettuale, vi devo dire che lo sforzo deve essere fatto, lo sforzo deve coinvolgere tutti voi ma che il successo è molto difficile e molto complesso. Pensate, c’è stato un momento in cui la signora Merkel, che è sempre così attenta al polso dell’opinione pubblica, ha compiuto un grandissimo atto di generosità, e anche, credo, di interesse per il Paese, aprendosi, proprio perché quell’ondata di migranti siriani era ad un livello intellettuale elevato, era ad un livello di specializzazione diffusa molto forte. E sarebbe stata quindi una scommessa per il Paese che ha quegli aspetti demografici che abbiamo descritto prima. Ebbene, ha dovuto fare marcia indietro perché l’elettorato, anche con tutte queste premesse, è stato invaso dalla paura. Quando sono arrivati alla stazione di Monaco, all’inizio sono stati accolti benissimo, poi, quando questo processo è durato, è intervenuto un aspetto di rifiuto psicologico generale. Per questo insisto sul discorso. O viene fatta una politica europea in cui si dice: benissimo, seminiamo verso l’Africa, lavoriamo per il futuro, come ha detto prima Sawiris, del Continente, O riusciamo a gestire questo problema che oggi ci angoscia, oppure la paura domina. Lo dico anche osservando l’evoluzione politica: i partiti della democrazia tradizionale, destra o sinistra che siano, sono profondamente messi in crisi, se volete per un terzo, per un quarto, dalla crisi economica, ma per i tre quarti o per i due terzi da questo tipo di paura. La paura di perdere l’identità: è un movimento che non ha in questo momento confini, la Le Pen, i 5 Stelle, Trump, è lo stesso tipo di reazione alla penetrazione dell’estraneo nella società e alla paura che non venga gestito. Azioni da contrapporre ne abbiamo, e però è un cammino lungo, difficile, che esige sia un’azione di generosità individuale sia anche un’azione delle istituzioni, che facciano capire che il processo viene gestito e sarà gestito anche in futuro, perché la vera paura è che la gente non sa dove finisca. Hanno proprio l’angoscia di un processo che non verrà mai gestito. E allora la società deve dare degli interventi a breve e delle risoluzioni a lungo, perché solo questo misto di intervento fra breve e lungo può dare al Paese una tranquillità. Altrimenti è chiaro che la paura si esprime anche nel rifiuto della democrazia. Io credo che questo fenomeno sia il più grande rischio per la democrazia, perché si traduce – prendete Brexit, prendete gli ultimi dibattiti – nella paura concreta di perdere tutte le conquiste del welfare state. Se c’è un problema di crisi e di difficoltà nel sistema sanitario, immediatamente avete una reazione della gente che dice: noi dobbiamo pagare più ticket, abbiamo tempi più lunghi per le analisi perché i migranti ci prendono il posto. Se abbiamo un problema di sfratti, è perché noi abbiamo 30 immigrati. E allora capite la complessità della gestione di questo aspetto, proprio perché è contraddittorio rispetto alle vere esigenze economiche che abbiamo: non gestito, crea quell’angoscia che finisce con lo sfibrare anche il dono che ci è stato dato di entrare nei regimi democratici che hanno la capacità di fare esprimere veramente la gente.
GIORGIO PAOLUCCI:
Naguib Sawiris.
NAGUIB SAWIRIS:
Penso che le persone in Europa hanno il diritto di avere paura e le recenti vicende in Germania, dove abbiamo assistito a delle persone che hanno fatto fuoco all’interno di un supermercato o che hanno accoltellato altri sul treno, lo dimostrano. Si tratta di persone il cui scopo era diffondere la paura: questo ovviamente giustifica la paura da parte dei tedeschi e degli europei. Il problema sta nei fanatici che vogliono che abbiamo paura, vogliono che la paura si diffonda. Ovviamente, noi reagiamo nel modo sbagliato, guardiamo con sospetto ogni musulmano, trattiamo i musulmani nei nostri Paesi in modo sbagliato, li accusiamo di essere tutti terroristi e cadiamo nella trappola creata da questi fanatici. Non ci sono dei terroristi musulmani, ci sono dei terroristi. Un vero musulmano non andrà mai ad uccidere degli innocenti. Io vivo in un Paese musulmano, tutti i miei amici sono musulmani non sono terroristi. Abbiamo il diritto ad avere paura ma dobbiamo al tempo stesso essere cauti nei confronti delle nostre reazioni: ecco perché, se andiamo oltre il fanatismo che c’è in noi, potremo riuscire. La paura di perdere il posto di lavoro, perché magari l’immigrato arriva e ce lo può rubare, non è un’argomentazione. In effetti, c’è una storia che ho letto ieri: i migranti hanno creato tantissimi posti di lavoro, hanno istituito delle imprese, hanno dato lavoro a delle persone per cui il problema sta nei mass media. I mass media cantano sulle cattive notizie, sul fatto che c’è una bomba, che c’è un pazzo che accoltella venti persone. Sono storie, ma la storia di un buon musulmano che ha salvato la vita ad altre persone o di persone oneste, buone come quelle che abbiamo visto nel video, che salvano la vita ad altre, non fanno notizia. E non arrivano quindi ai mass media, che diffondono la paura e non ci aiutano a combatterla.
GIORGIO PAOLUCCI:
Proporrei agli altri di prendere la palla che ha alzato Naguib Sawiris e di concludere questo nostro incontro riflettendo proprio su questo aspetto, di cui molto si parla anche tra di noi. L’islam e i musulmani che vivono in Europa: amici o nemici? Minacce o alleati? Preparando la mostra, abbiamo dialogato per esempio con il professor Wael Farouq che è un’intellettuale islamico che insegna qui in Italia da un po’ di anni, il quale sostiene che il principale nemico, il principale anti-virus per fermare il terrorismo di matrice islamista, cioè la degenerazione in ideologia di potere di un’esperienza religiosa, sono i musulmani europei. Una tesi che può far discutere ma che certamente ha un fondamento. Anche perché lui conosce bene quello di cui parla. Ecco, come stare di fronte a quello che può essere visto solo come una minaccia o può diventare quello che ci diceva adesso Naguib Sawiris, un alleato, un amico, uno con cui fare fronte comune di fronte a questo virus che sta entrando, che è entrato spesso nelle comunità islamiche, soprattutto nelle seconde e terze generazioni, nelle generazioni di persone nate in Europa, cresciute in Europa che sono andate nelle scuole europee? Non sono persone che vengono da lontano ma che sono nate e che vivono tra di noi, che forse non sono state contagiate, contaminate da un virus positivo, dalla civiltà europea, che forse ha dimenticato che cosa la tiene in piedi, e hanno lasciato spazio a questo virus negativo. Come stare di fronte a questa tragedia?
S. ECC. MONS. SILVANO MARIA TOMASI:
Papa Francesco è stato molto chiaro quando ha detto che non si tratta di una guerra di religione, questi atti di violenza hanno altri motivi e altre spiegazioni. Il colore delle motivazioni, partendo dalla fede islamica, è solo per nascondere obiettivi di potere e di interesse. Quindi, bisogna che siamo molto cauti nel giudicare le motivazioni o il ruolo che l’Islam ha in questi atti di aggressione che sono stati commessi in Francia e in altre parti del mondo. Però, direi che se guardiamo al fenomeno dell’integrazione, forse c’è stato lo sbaglio, in qualche politica passata, di rilegare le comunità immigrate in quartieri a parte, creando sobborghi come a Marsiglia, a Berlino o a Parigi, dove crescono questi giovani della seconda e terza generazione in maniera tale che non sono davvero in contatto con la realtà nazionale del Paese in cui vivono. Questo è un aspetto che porta a frustrazioni, vedono un benessere nel Paese cui loro non hanno accesso, la capacità di andare a scuola per i loro coetanei, a livello universitario per esempio, che loro non hanno e questo può portare alle reazioni radicali. L’altro punto che bisognerebbe tener presente è che se noi chiediamo agli emigrati che arrivano e a cui si dà ospitalità e accoglienza di sottoscrivere alcuni principi fondamentali, senza dei quali la convivenza sociale non è possibile, non è che facciamo un atto di violenza contro di loro, rispettiamo le loro libertà ma diciamo anche che per vivere assieme in maniera pacifica dobbiamo rispettare alcuni valori di fondo. La democrazia, l’accettazione dell’altro, la separazione fra religione e politica. Alcuni di questi orientamenti sociali importanti dovranno essere accettati. Quindi, la questione dell’Islam è estremamente complessa però può diventare una speranza se le comunità di fede islamica in Europa accettano lentamente una modernizzazione come è stato fatto per esempio nella tradizione cristiana, il passaggio da una tradizione letterale a una meno letterale. Se arrivano a fare questo passaggio, allora anche le comunità di fede islamica possono diventare una risorsa per costruire un futuro comune di pace, per avere la religione come base per risolvere i problemi attraverso il dialogo e non attraverso la forza.
GIORGIO PAOLUCCI:
Presidente Prodi
ROMANO PRODI:
Il rapporto con l’Islam prima di tutto deve essere fondato sul senso della realtà. Diceva prima Sawiris che qui i media hanno reso talmente primario e forte lo scontro che diventa molto più difficile il dialogo. Guardate, vi do un esempio. Andando a parlare ai ragazzi della scuola media sull’immigrazione, faccio la prima domanda: “Sa che Paese vengono soprattutto gli immigrati?”. Sapete cosa mi rispondono tutti? Sono libici. Non abbiamo un solo migrante libico in Italia, ma questa è la visione dei media che ha dato completamente l’idea che, primo, vengono tutti dalla Libia, secondo, sono tutti islamici, e quindi che i due problemi vanno legati assieme. Allora, guardate che ben pochi sanno che il grande flusso di immigrazione in Italia, prima di tutto, è romeno, quindi cristiano ortodosso e che tra gli altri grandi Paesi di immigrazione abbiamo la Cina, le Filippine, il Sud America. E poi abbiamo evidentemente anche il Marocco che è islamico, abbiamo una minore presenza egiziana, abbiamo l’Albania che è mista, ma l’obbligazione islamica rappresenta una frazione minore di questo. L’attenzione su questo sta esasperando il problema delle immigrazioni. Riguardo certamente al mondo islamico, è chiaro quello che ha detto prima Monsignor Tomasi, cioè c’è un problema di dialogo sulla modernizzazione reciproca. Sul come si intende il rapporto, noi diremmo, fra peccato e reato, cioè quello che è un problema è la divisione fra l’aspetto civico e sacro nella vita collettiva. Quindi, qui occorre un dialogo di profondo chiarimento. Quando penso a queste diversità, penso che siamo in un ambiente in cui l’aspetto religioso è importante, il pensiero di Gesù è importante: e mi viene sempre in mente un aneddoto che mi raccontava il Cardinale Tauran qualche anno fa. Era andato a Bordeaux a fare una lezione agli adolescenti, tra l’altro una scuola legata al mondo cattolico. Chiede: “C’è qualcuno di voi che mi sa dire cos’è la quaresima?”. Sono adolescenti del mondo cattolico e nessuno lo sa. Finalmente si alza un ragazzino con aria sveglia e dice: “Lo so io, lo so io, è una specie di Ramadan”. Guardate che il confronto fra le fedi si fa con la comprensione della fede altrui ma anche con una profonda convinzione che noi andiamo al dialogo con una nostra fede, e questo è un problema tremendo riguardo alla gente comune, gli intellettuali. Noi lo risolviamo abbastanza bene perché abbiamo studiato questi problemi, verificato, ecc. Ma quando c’è il confronto a livello popolare, c’è proprio una paura della diversità che deve essere mediata sia dai leader religioso-islamici che dai leader religiosi del mondo cattolico. Secondo me, questo è importantissimo: c’è questa diversità, siamo partiti da queste radici, ma tutti e due abbiamo un concetto profondo di comprensione e di rapporto. Occorre anche essere però sinceri, ci sono deviazioni date dagli interessi di cui parlava prima Mons. Tomasi: non possiamo negare che un certo tipo di radicalismo sia finanziato non ufficialmente dagli Stati, dalle fondazioni che in qualche modo sono legate quasi ufficialmente a questi Stati. Quindi, c’è anche un bisogno di chiarezza politica. Quindi, tre livelli: il livello di comprensione dei rapporti diretti, un livello di dialogo serio tra le fedi ma anche un discorso chiaro, politico, tra i Paesi. Perché evidentemente tutti questi episodi di terrorismo, soprattutto nella prima fase, adesso sono diventati anche atti molto più individuali, ma in una prima fase sono stati apertamente gestiti da aiuti e finanziamenti semiufficiali di determinati Paesi. Quindi, il dialogo ha tre livelli: uno personale, il livello dei responsabili delle fedi religiose, il livello governativo in cui i principi vengono tradotti in azione seria, leale e aperta. Grazie.
GIORGIO PAOLUCCI:
Inaugurando il Meeting pochi giorni fa, il Presidente Mattarella ci ricordava che “non ci difenderemo alzando muri verso l’esterno o creando barriere al nostro interno. Non sarà questa la difesa efficace”. E Papa Francesco, nel messaggio che ha inviato al Meeting, ricorda che troppe volte si cede alla tentazione di chiudersi nell’orizzonte stretto dei propri interessi, così che gli altri, dice Papa Francesco, diventano qualcosa di superfluo o, peggio ancora, un fastidio, un ostacolo. Ma questo non è conforme alla natura umana. L’uomo è fatto per incontrare l’altro, ogni vera identità si costruisce nella vera relazione con l’altro. L’altro mi è necessario per compiere pienamente la mia identità. L’immigrazione certamente rappresenta una grande sfida, una sfida epocale, sia per le dimensioni che i flussi hanno assunto, come abbiamo visto nella relazione di Mons. Tomasi, sia perché ripropongono un interrogativo fondamentale: chi è l’altro per me? E cosa rende possibile incontrarsi e convivere? E mi piace ricordare in conclusione alcune parole pronunciate da Papa Francesco quando gli è stato consegnato il premio Carlo Magno nel maggio di quest’anno. Ha messo in luce lo smarrimento che pervade il vecchio continente tentato – diceva – di voler assicurare spazi più che generare processi di inclusione e trasformazione. E si è domandato: “Cosa ti è successo, Europa umanistica, paladina dei diritti dell’uomo, della democrazia e della libertà?”. E ha auspicato un’Europa capace di dare alla luce un nuovo umanesimo basato su tre capacità: la capacità di integrare, la capacità di dialogare e la capacità di generare, invitando a riscoprire l’ampiezza dell’anima europea nata dall’incontro di civiltà e popoli diversi. Questo è il segno di un nuovo umanesimo che accetta la sfida dell’incontro che è sottesa ai grandi spostamenti migratori ed è una sfida che riguarda i governanti, i grandi decisori, ma che non può lasciare indifferente nessuno di noi. E’ il lavoro che ci aspetta, che va ben al di là della sfida dell’immigrazione, ma che passa anche attraverso questa sfida. Io voglio ringraziare i nostri ospiti per avercelo ricordato e a tutti voi auguriamo buon cammino lungo questo percorso, un percorso impegnativo, necessario e insieme affascinante perché ci fa misurare con il titolo del Meeting: “Tu sei un bene per me”.