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NON CI SONO PIÙ CRISTIANI TRANQUILLI
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Jean de Saint-Cheron, scrittore e saggista francese, premio Giuseppe Toniolo 2023; Paolo Prosperi, sacerdote della Fraternità San Carlo Borromeo. Introduce Francesco Magni, docente di Pedagogia Generale e Sociale, Università degli Studi di Bergamo
«Non c’è nulla di più lontano dal cristianesimo che l’ottimismo vuoto e il sentimentalismo che affligge tanti cattolici e che nasconde il male nel mondo» (Flannery O’Connor). Un percorso sul lieto compito di consegnare alla storia la compiuta bellezza della fede cristiana e sul compito di rispondere alle sfide culturali della modernità.
NON CI SONO PIÙ CRISTIANI TRANQUILLI
NON CI SONO PIÙ CRISTIANI TRANQUILLI
Mercoledì 21 agosto 2022
Ore 19:00
Sala Gruppo FS C2
Partecipano:
Jean de Saint-Cheron, scrittore e saggista francese, premio Giuseppe Toniolo 2023; Paolo Prosperi, sacerdote della Fraternità San Carlo Borromeo.
Introduce:
Francesco Magni, docente di Pedagogia Generale e Sociale, Università degli Studi di Bergamo
Magni. Bene, buonasera, benvenuti a tutti. Questo incontro, dal titolo *Non ci sono più cristiani tranquilli*. Nel suo messaggio al Meeting di quest’anno, Papa Francesco al Meeting ha scritto: “Ritornare all’essenziale, che è Gesù, non significa evadere dalla realtà, ma, al contrario, è la condizione per immergersi davvero nella storia, per affrontarla senza fuggirne le sfide, per trovare il coraggio di rischiare e di amare, anche quando sembra che non ne valga la pena, per vivere nel mondo senza timore alcuno”. E allora, questa sera proveremo a riflettere su che cosa voglia dire, nel nostro mondo contemporaneo, nell’Europa del 2024, immergersi davvero nella storia da cristiani, riscoprendo la bellezza della fede e la sua incidenza fin dentro le sfide culturali e sociali della realtà a cui siamo chiamati a rispondere.
In questo ci aiuteranno i nostri illustri e graditi ospiti: Jean de Saint-Cheron, scrittore e saggista francese, che con il suo recente volume *Chi crede non è un borghese* ha vinto il Premio Giuseppe Tognolo del 2023, e con il suo ultimo volume, da poco pubblicato anche in Italia, *Elogio di una guerriera*, ha vinto il Premio Victor Noury dell’Accademia Francese. Grazie per essere qui. Insieme a lui dialogherà don Paolo Prosperi, teologo e sacerdote della Fraternità San Carlo Borromeo. Grazie.
Il primo tema che vorrei condividere con i nostri relatori parte da un’affermazione che ho trovato nel volume di Saint-Cheron, dove, citando Pascal, si dice: “Sono pochi i veri cristiani”. Nel frattempo, nelle ultime settimane e negli ultimi mesi, pensiamo a quello che abbiamo visto durante le Olimpiadi anche in Francia e in altri contesti, tante volte sembra che il mondo contemporaneo in cui viviamo possa fare a meno della fede. È una storia antica, in qualche modo. Già Tocqueville scriveva, proprio con riferimento alla Francia, che: “Possiamo dire che in generale, nel XVIII secolo, il cristianesimo aveva perso gran parte della sua forza in tutto il continente europeo, ma in nessun luogo l’irreligione era diventata una passione generale, ardente, intollerante e oppressiva come in Francia”. E allora, se da un lato l’era della cristianità in Europa è finita da un pezzo, quale è lo spazio del cristianesimo dentro la società contemporanea? Riprendendo la provocazione del titolo del volume di Jean de Saint-Cheron, siamo forse anche noi, a volte, cristiani un po’ tiepidi, un po’ borghesi? Rischiamo anche noi di correre questo decadimento all’interno del contesto contemporaneo? Grazie.
Cheron. Grazie mille dell’invito per questa sera. Voglio rispondere alla sua domanda con un aneddoto personale. Il vecchio curato di campagna che mi ha battezzato in Francia — avevo solo tre settimane, quindi non posso ricordarmene — diceva a mio padre, con cui aveva parlato, che quando lui era uscito dal seminario, a 25 anni, tutto il villaggio e tutta la regione andavano a messa in quella parte dell’Ovest della Francia. Io sono stato battezzato 38 anni fa, e il curato diceva: “Beh, oggi la maggior parte delle famiglie del villaggio non vanno più a messa, e anzi, ho l’impressione di predicare ormai di fronte solo a qualche vecchia signora la domenica”. Questo vecchio curato continuava a dire a mio padre: “Beh, sono felice di questa situazione, tutto sommato, perché posso testimoniare del fatto che quando ero giovane c’era una tale pressione sociale nel mondo in cui vivevo, una tale pressione, una tale esigenza sociale, non scelta, di andare a messa la domenica, che la pratica cristiana era meno autentica”. Era quasi contento della nuova situazione. Questa storia me l’ha raccontata mio padre e mi ha fatto pensare a un’altra frase di un altro sacerdote molto più famoso, il Cardinale Lustiger. Lui stesso aveva fatto una constatazione provocatoria simile con un giornalista che gli aveva fatto delle domande sul declino del cristianesimo nella vecchia Europa alla fine del XX secolo, quindi alla fine degli anni ’80 per la precisione, e gli aveva detto: “Il cristianesimo è solo all’inizio della sua storia, il cristianesimo comincia in un certo modo”.
Trentotto anni dopo, quindi nel 2024, non so se il vecchio curato della mia infanzia confermerebbe la sua interpretazione, perché le cifre della pratica domenicale in realtà hanno continuato a ridursi in modo drastico. Uno storico francese che si interessa soprattutto alla storia del cristianesimo in Francia e in Europa, ma soprattutto in Francia, Guillaume Cuchet, dà dei numeri vertiginosi: il 40% della popolazione francese a metà del XX secolo, all’inizio degli anni ’50, andava a messa; oggi siamo al 2% circa. Quindi, si può continuare a dire in modo ottimista che il cristianesimo è solo all’inizio della sua storia? Non lo so. Però, questa mattina, in occasione di un’intervista che ho rilasciato per una pubblicazione, l’interprete che ha facilitato la comunicazione ha fatto una traduzione dall’italiano al francese e viceversa, ma è brasiliana, parla almeno tre lingue. Mi ha detto: “Beh, dopo avermi sentito parlare, anche del vecchio curato di campagna che mi ha battezzato, posso dirti che in Brasile ho spesso la stessa impressione, almeno nella parte del Brasile da cui provengo: tutti vanno a messa, e mi dico, quando parlo con i miei amici, che anch’io forse penso a qualcosa di non autentico e di forzato in questa pratica”.
Ma, tuttavia, per rispondere alla sua domanda in modo più diretto: che cosa significa avere la fede? Che cosa significa? E soprattutto: se il Figlio dell’uomo tornerà sulla terra, troverà ancora la fede? Di cosa parliamo? Parliamo di sentimento? Quando parliamo di fede, parliamo di una convinzione intellettuale, di un atto, forse? Beh, al catechismo si impara che la fede è una virtù teologale, ma cosa significa davvero per la mia vita, per la nostra vita oggi, concretamente? Ebbene, non ci sono più cristiani tranquilli. Lei ha citato questa frase di Charles Péguy che ho scelto come epigrafe al mio primo libro e che dà anche il titolo a questa tavola rotonda di questa sera. Mi sembra che questa frase incisiva possa essere letta in due modi: o da un punto di vista strettamente storico, nel mondo moderno, quando Péguy ha scritto questa frase, non era nel 2024, ma molto più di un secolo fa, e quindi aveva constatato che c’erano cristiani per conformismo sociale. Anche nella Francia c’era stata una scelta non comoda quella di essere cristiani. Essere cristiani nel mondo moderno non può essere una scelta di tranquillità, è una scelta scomoda. Ma c’è anche un senso profondamente ironico in questa frase, perché è come se “non ci sono più cristiani tranquilli” fosse una frase contro il cristianesimo borghese, quello che si adegua alle esigenze sociali. Ma è anche una battuta, perché in realtà non ci sono mai stati cristiani tranquilli, dai martiri nelle catacombe romane più di 2000 anni fa fino ad oggi. Ebbene, da allora, scegliere di essere cristiani non è mai stata una scelta votata alla tranquillità.
Se si decideva, allora, di essere cristiani per vivere tranquillamente, forse non si era capito bene che cosa significava davvero essere cristiani. Come mai? Perché il cristianesimo disturba sempre, così come l’amore disturba sempre, ci disturba sempre. Ovviamente, siamo cristiani tiepidi e borghesi, almeno io lo sono, e resisto con tutte le mie forze a farmi disturbare dall’amore, piuttosto che da tutto quello che mi circonda—dalla famiglia, dal lavoro. Non voglio farmi disturbare da tutto ciò che mi supera, che va al di là dei miei piccoli problemi personali. Forse non sono un buon cristiano, ma forse ce ne sono, non so, forse ce ne sono in questa sala, e sarei davvero felice di incontrarne dopo questa tavola rotonda, per avere un esempio sotto i miei occhi di un vero e buon cristiano.
Tuttavia, quello che vedo in modo concreto è che, anche se sono cresciuto in una famiglia cristiana, dalla mia conversione, per così dire, cioè verso i 20-25 anni, quando ho cominciato a prendere seriamente la parola di Cristo, per qualche mese ho smesso di andare a messa, forse per qualche anno. Però poi mi sono detto: se quello che è scritto nel Vangelo è vero, non posso farne a meno. E allora ho fatto una piccola inchiesta personale: ho interrogato il mio cuore, la mia ragione, forse prima il mio cuore, ma anche la ragione è stata interpellata, e ho deciso di prendere la parola di Cristo seriamente. Sono passati 18 anni, ed è come se ogni giorno cercassi di convertirmi e non ci riuscissi mai completamente, perché è troppo difficile lasciarsi disturbare dall’amore.
Tuttavia, credo che un vero cristiano, anche se non è magari un buon cristiano o un santo, non debba mollare questa lotta, non debba mollare la presa. Ogni mattino, alzandosi, si cerca ogni giorno di lasciarsi disturbare dall’amore. La fede senza le opere è ancora fede? San Giacomo ci ha insegnato che non è così. C’è una frase bellissima nella prima epistola di San Giovanni, in cui scrive: “Chi dice di amare Dio, che non vede, è un bugiardo”. Una frase lapidaria, senza tanti mezzi termini. Si può dire che si è cristiani, si ama Dio, si può andare a messa tutte le domeniche, ma se poi non si ama concretamente il proprio fratello, quello che si vede, allora si è bugiardi. Non è una frase mia, è di San Giovanni; non avrei mai osato dire una cosa del genere, ecco perché posso citarla. Gesù ci ha insegnato che saremo riconosciuti come suoi discepoli dall’amore che abbiamo gli uni per gli altri, e solo così saremo riconosciuti come suoi discepoli. Partendo da questi fatti così chiari, che vengono dalle Sacre Scritture, non ci si può più nascondere. È chiaro che oggi possiamo essere tristi dal fatto che poche persone vanno a messa, ma posso chiedermi: io sono un buon discepolo? Un buon testimone? Cerco di incoraggiare gli altri, col mio esempio, a entrare in una chiesa?
Magni. Grazie, grazie. E rilancerei la questione posta a Paolo Prosperi, in particolare su questo tema che occorre lasciarsi disturbare dall’amore, citato ora da Saint-Cheron. Questa possibilità di una vita che è al tempo stesso una battaglia, una battaglia quotidiana, dentro le sfide che ciascuno di noi affronta.
Prosperi. Ti ringrazio molto per il tuo intervento e anche per avermi dato la possibilità di leggere il tuo libro, *Chi crede non è un borghese*, che mi ha permesso di riflettere su questo tema da due diverse prospettive. È chiaro che in questo tema della “non tranquillità” del cristiano oggi, come è stato detto, risuona, se vogliamo, l’idea per cui, con la fine della cristianità, essere cristiani sta sempre più diventando qualcosa di scomodo. Tuttavia, non voglio soffermarmi subito su questo; magari ci tornerò alla fine del mio intervento. Preferisco concentrarmi sull’altro aspetto o su un altro modo in cui questa frase può essere intesa, ossia, come mi sembra tu abbia ben evidenziato nel tuo libro, in realtà, questa tua “non tranquillità”, questa scomodità, appartiene al DNA della vita cristiana, di quel che è essere cristiani, di ciò che la fede, nella sua più intima natura, è e dovrebbe essere.
Mi ricordo che Don Giussani, alla fine degli esercizi spirituali di un anno che non ricordo, concluse proprio così: “Vi auguro di non essere mai tranquilli”. Quasi come se questa “non tranquillità” fosse, per così dire, una virtù cristiana, se non la somma delle virtù. In questo senso, appunto, il cristiano, il credente, non è un borghese. Vorrei ora provare a reagire a questa provocazione, a questa suggestione che ho colto, che ho ricevuto così potentemente soprattutto leggendo il tuo libro. Che cosa significa questa frase? Innanzitutto, in senso profondo. Che cosa significa sempre, non solo oggi?
La prima idea che mi è venuta è questa: chi è il borghese? Per dire che il cristiano non è un borghese o che dobbiamo superare un’idea borghese di vita e di fede, dobbiamo chiederci: chi è il borghese? Si potrebbe dire molto, però certamente la prima cosa che viene in mente quando si pensa all’ideale della vita borghese è una vita il cui ideale è il comodo, una vita agiata, avere una bella casa con giardino in cui ci sia tutto il necessario; insomma, una vita in cui si può andare avanti sentendosi tutto sommato soddisfatti di sé, soddisfatti di ciò che si è e si ha.
Chi è l’antiborghese? Chi ha vissuto, magari tra i più anziani tra noi, il ’68, lo sa bene. Il borghese è l’insoddisfatto, il borghese è colui che per vocazione vuol… scusate, l’antiborghese è l’insoddisfatto, l’antiborghese è colui che vuole cambiare le cose, che vuole rivoluzionare la situazione presente, chi sogna in grande, chi vuole cambiare la realtà presente in qualcosa di migliore e più grande. In questo senso associamo tutti un po’ l’antiborghese, cioè l’opposto del borghese, al rivoluzionario, all’anarchico, almeno nell’immaginario collettivo.
Ecco, mi pare che una delle intuizioni di Don Giussani che mi hanno fatto più camminare da questo punto di vista (rileggendo ciò che diceva proprio negli anni caldi dopo il ’68) sia proprio questo capovolgimento di prospettiva, se vogliamo un po’ ironico, per cui in realtà il rivoluzionario non è così antiborghese come sembra, o comunque lo è sempre troppo poco. Perché? Perché in fondo è come se non andasse fino in fondo alla radicalità dell’insoddisfazione che caratterizza la condizione umana. È come se rimanesse in superficie di questo abisso di insoddisfazione che ci caratterizza in quanto uomini in ricerca, in quanto uomini, e che fa la grandezza della nostra umanità e che è la vera ragione di questa inquietudine, direbbe Agostino, di questa “non tranquillità”.
E perché? Perché in fondo il rivoluzionario, nel senso moderno del termine, che sia di destra o di sinistra, che sia comunista o che sia un rivoluzionario di altra pasta, oggi c’è un nuovo pathos rivoluzionario, che è quello della tecnologia, che pretende di cambiare l’uomo con la forza della scienza, ma sempre si tratta di un tentativo di superare quest’insoddisfazione con le proprie forze, con la forza dell’uomo. E quindi, in realtà, questa apparente insoddisfazione maschera in fondo, è, una nuova versione comunque sempre di un egocentrismo soddisfatto dell’uomo, per cui tu hai in mano il know-how per risolverla. In fondo, ecco l’ironia, solo l’uomo autenticamente religioso è veramente antiborghese, perché ha il coraggio di guardare fino in fondo l’abisso della sua insoddisfazione, fino a coglierla come qualcosa che non ha le forze di riempire, non ha le forze di risolvere. Diciamo, solo l’uomo autenticamente religioso abita fino in fondo la scomodità dell’esistere. Vive fino in fondo la vertigine di questo desiderio di qualcosa che non posso ottenere da me, con le mie forze.
In questo senso, la vera figura dell’antiborghese è il supplice, è il mendicante, cioè colui che, da una parte, sente tutto l’abisso di un desiderio che non può colmare, ma non si rassegna, tende la mano, grida al cielo nell’attesa che il compimento di questo abisso di insoddisfazione venga da un Altro. Si mette in ginocchio, che, se ci pensiamo, esistenzialmente è in effetti la posizione più scomoda che ci sia. Il supplice è il vero antiborghese. Perché? Perché non c’è posizione meno soddisfatta di sé, meno egocentrica di quella di un uomo che accetta di riconoscere che ciò che veramente può colmare il suo bisogno, la sua insoddisfazione, può solo riceverlo in dono, in elemosina da un Altro.
Faccio notare che tanto il liberalismo quanto il comunismo, che sembrano due opposti, hanno avuto in comune culturalmente una cosa, e questo leggendo Dostoevskij lo si capisce benissimo: eliminare l’elemosina, eliminare la mendicanza, cioè eliminare la figura di un uomo che non si basta da sé, che ha bisogno della gratuita carità di un altro per vivere, per poter essere se stesso.
Ecco, quindi mi pare che il primo punto sia capire chi è davvero il cristiano. Il cristiano è colui che riconosce che la pienezza della vita è qualcosa che non può raggiungere da sé, che può ottenere solo se si apre a un dono gratuito, al dono di un Altro. E questo è meno facile di quel che sembra, è più scomodo di quel che sembra. Mi pare che ridare ai giovani il gusto, il sentimento, restituire l’aroma di questa trasgressività, potremmo dire, o carattere antiborghese della posizione del supplice, sia veramente un compito oggi importante dell’educatore. Il vero cristiano è tutt’altro che un soddisfatto, uno che si rifugia nel comodo di risposte preconfezionate. In un certo senso, è l’unico che ha il coraggio di lasciar sanguinare la ferita del cuore in tutta la sua copiosità.
Allora, mi si lasci finire… Ho ancora un secondo. Con un’altra citazione di Péguy, autore che mi sembra caro al nostro amico, e lo è molto anche a me, che non è tratta tra l’altro dai suoi scritti mistici e poetici, ma è presa da uno dei suoi primi scritti in cui parla della tragedia greca e di Edipo, come di questa figura paradossale che, in un certo senso, proprio nell’essere spogliato di tutto – lui che era re di Tebe, il più felice degli uomini – si innalza alla vera statura, alla vera grandezza dell’uomo. Perché in fondo l’uomo vero, l’uomo che in un certo senso si erge in tutta la sua grandezza, in tutto il coraggio di guardare in faccia senza sconto la propria condizione umana, è appunto il supplice, è appunto questo Edipo spogliato di tutto che, rimasto senza nulla, grida al cielo in attesa di una parola, di una salvezza che potrebbe anche non arrivare. Un uomo che all’inizio della tragedia era un uomo come noi, un borghese, un re, un normale uomo di potere, un potente come tanti, diremmo noi. Un uomo ordinario e volgare, attraverso il ministero del dolore, attraverso la non riuscita del suo avvenimento, il fallimento come grazia, più particolarmente, più tragicamente, più scenicamente, per la scoperta di questa sua non riuscita nello sviluppo di questa tragedia (la tragedia è lo scacco, è l’essere di fronte a una vita che desideri, ma che non puoi avere, da te non puoi, puoi solo gridare, è questo essere in scacco, questa è la condizione tragica) nello sviluppo di questa tragedia, ecco che non solo è promosso, ma è scoperto e promosso alla dignità di supplice.
Ecco, io penso che se c’è una grazia che ci è data oggi, in questa esperienza di fine della cristianità, in questa esperienza di apparente tracollo della fede dal punto di vista esteriore quantitativo, in fondo è la grazia di essere rimessi quasi violentemente in questa posizione, in questa consapevolezza che ciò che dà sale alla vita cristiana è vivere ogni istante, ogni giorno, con la consapevolezza che la salvezza deve continuamente riaccadere come avvenimento di grazia in me e nella realtà attorno a me.
Magni. Vorrei proseguire il dialogo riprendendo questo tema, che è stato citato adesso, dell’abisso delle insoddisfazioni. Nel libro Saint-Cheron scrive: “Ma se tutti gli uomini desiderano essere felici, si può essere davvero felici facendo i buoni borghesi? Non c’è qualcosa che sfugge?” E poi, in un altro passaggio, scrive: “Che soddisfazioni sono queste che non soddisfano?” Per riprendere anche il tema della mendicanza citato. E allora, accanto e quasi contrapposta alla figura del borghese, che poi si trova insoddisfatto, emerge un’altra figura, un’altra storia, che è la figura dei santi, uomini compiuti nell’incontro con la fede. E nel libro c’è spesso questa formula: “La nostra Chiesa è la Chiesa dei Santi”. E allora forse è questa la traiettoria da percorrere anche noi oggi? È questa tensione, questa continua conversione, un punto di ripartenza per ciascuno di noi?
Cheron. Grazie per questa domanda e anche per l’intervento. È vero che questo abisso di insoddisfazione che anima l’uomo mi fa pensare (ebbene, ho cercato di metterlo al centro del mio libro) ho pensato a Blaise Pascal, il grande convertito della storia, che ha evidenziato come la ricerca di pace e di felicità da parte sua non potesse essere realizzata solo con le proprie forze. Alla fine, Pascal ha compreso che se era stato animato e abitato da questo abisso, in realtà ogni persona, ogni uomo che cerca la felicità, è animato dallo stesso abisso. Questo significa che l’uomo è talmente grande che solo Dio può riempire questo abisso. O almeno, questa è la risposta che Pascal ha trovato a questa sua lunga meditazione su questo abisso che è il cuore dell’uomo. Un cuore talmente grande che questa insoddisfazione dell’uomo non è altro che sinonimo della sua grandezza, e non della sua miseria, o almeno non solo della sua miseria.
E i santi, mi sembra, sono proprio coloro che sono stati capaci di riconoscere e mettere insieme la loro grandezza e la loro miseria: la conoscenza del loro destino eterno, divino, ma anche la loro incapacità di realizzare tutto questo da soli, con le proprie forze. Allora diventano mendicanti, supplici, si inginocchiano e chiedono al Signore di essere aiutati nel riempire questo abisso, per poi rivelarlo, per rivelare anche chi sono davvero, autenticamente. Quindi, per rispondere alla domanda, sì, sicuramente i santi sono la migliore risposta, anzi il miglior esempio di ciò che è il cristianesimo. Ed è per questo, fra l’altro, che la Chiesa da tantissimi secoli tiene moltissimo a valorizzarli.
E come diceva anche Bergson, un grande filosofo ebreo che aveva compreso molto del cristianesimo, forse più di molti altri cristiani, e che parlava proprio del mistero del cristianesimo, era affascinato dai santi, in particolare dai santi mistici del cristianesimo. Egli arrivò al punto di affermare che i santi del cristianesimo facevano parte, nella storia dell’umanità, di coloro che avevano compiuto al meglio la vocazione di qualsiasi uomo e donna, perché erano andati fino in fondo all’amore. Ne parlava come filosofo, e non come mistico, in modo molto concreto, dicendo: ebbene, l’ingiunzione di Cristo ad amare anche il proprio nemico è qualcosa di talmente contrario al funzionamento naturale di un uomo, nonché di tutte le società umane nella storia, che il Vangelo e il Cristianesimo hanno consentito all’uomo di raggiungere la riva dell’amore assoluto, una riva che non sarebbe mai stato raggiungibile al di là di questa realtà e di questo mondo. Ebbene, Bergson conclude uno dei suoi testi di meditazione o di riflessione proprio sui santi del cristianesimo dicendo che la loro stessa vita parla della grandezza del cristianesimo. Non c’è bisogno che facciano grandi discorsi, non discorsi come quelli che sto facendo io; io, invece, ho bisogno di parlare per poter fare un discorso su Dio, mentre a loro bastava vivere, la loro stessa vita è un appello, un’esortazione. La vita di un santo è qualcosa che ci parla, ci attira, ci sorprende. Quindi non servono grandi trattati teologici per parlare di Dio; loro hanno vissuto l’amore. E qui torniamo anche al punto che citavo poc’anzi, verso la fine della mia risposta alla prima domanda.
Per illustrare questo, vorrei raccontarvi una storia. Ho avuto il grande onore di incontrare qualche volta nella mia vita un gesuita francese davvero straordinario, forse qualcuno di voi lo conosce, Pierre Serac. Padre Serac era partito come missionario in India all’inizio della sua vita da gesuita, dopo aver vissuto qualche anno a Lione durante il suo noviziato. Poi fu inviato in India come missionario, dove trascorse quasi tutta la sua vita, 60 anni. È vissuto a lungo ed è stato studioso in India per una quindicina d’anni; è stato lui stesso mendicante e ha dedicato la sua vita al servizio dei poveri, delle persone più povere di Madras, anche degli orfani, prima decine, poi centinaia, poi migliaia, poi decine di migliaia. Poi, per una quindicina d’anni, partì in Cambogia nei campi di profughi e poi tornò, verso la fine della sua vita, in India. Dopo questa parentesi, lavorò per un’associazione che lui stesso aveva creato, lavorando con tantissimi indiani che lo aiutavano in tutte le sue attività e soprattutto lo aiutavano a ridare dignità alle persone più miserabili, più abbandonate in India, le più povere, che hanno una vita durissima. Cercava anche di aiutare gli orfani che non avevano né genitori né una casa, e questo ci impressiona moltissimo. Quando si ascolta una storia del genere, ci si può dire: lui sicuramente è stato un santo, ma io non sarei in grado di fare una vita del genere, e anzi forse non è nemmeno quello che la vita mi chiama a fare, lui è un sacerdote, è celibe, io magari posso avere una moglie, un marito, avere dei figli, non posso abbandonare tutto per occuparmi di orfani dall’altra parte del mondo, e, forse, non è nemmeno quello che il Signore mi chiede. Ma la storia che voglio raccontarvi di Padre Serac è una storia che possiamo vivere tutti.
Mi ricordo che una volta Pierre Serac raccontò una storia che lo riguardava quando aveva 18 anni, prima di diventare gesuita. Come ogni giovane francese della sua età, fu chiamato al servizio militare. Quindi, lui arriva in caserma, assegnato a una certa caserma per il suo anno di servizio militare, per la leva. La prima mattina di leva, al risveglio, il caporale che si occupava del suo contingente, quindi di giovani al servizio di leva, entra nella baracca in modo vigoroso per spiegare a questi giovanotti che nell’esercito bisogna passare alle cose serie e chiede subito a qualcuno di andare a pulire i bagni. Siamo negli anni ’40 o ’50 forse, e quindi era una corvée piuttosto scomoda, piuttosto antipatica. Ebbene, ci voleva qualcuno che andasse a pulire gli escrementi, la corvée degli escrementi, ma nessuno si muove, nel dormitorio nessuno si muove, tutti guardano per terra, evitano lo sguardo e sperano che sia il vicino a essere mandato a farlo. Dopo qualche secondo, Pierre Serac alza la mano e il caporale gli dice: “Bene, Serac, allora vai tu a pulire gli escrementi”. E il giorno dopo, dopo una giornata di servizio nel reggimento, succede la stessa cosa. Il caporale entra nella camerata e dice: “Di nuovo oggi ci vuole qualcuno per pulire i bagni”. Avviene la stessa cosa del giorno prima: per qualche secondo regna il silenzio, e poi Serac alza la mano. “Ok, Serac, nei bagni”. Il terzo giorno, il caporale entra di nuovo nella camerata e chiede chi andrà a pulire i bagni, ed è Pierre Serac che alza la mano. Il quarto giorno, di nuovo, poi il quinto, e sempre Pierre Serac va a pulire i bagni. Poi il sesto, sempre Serac. Poi, il settimo giorno, il caporale entra di nuovo nella camerata e chiede chi va a pulire i bagni, il silenzio regna, Pierre Serac, ormai abituato, alza la mano e il suo vicino gli abbassa la mano e dice: “No, questa volta è il mio turno”. Pierre Serac non ha più dovuto pulire i bagni per il resto del suo anno di leva, così è raccontato.
Che cosa significa questo? Pierre Serac, che era già molto fervente e innamorato del Vangelo, non aveva dato lezioni di catechismo ai suoi compagni di camerata in quei giorni, non aveva fatto grandi discorsi in sette giorni. Semplicemente, era andato ogni mattina a lavare i bagni, a pulirli per sei giorni. Non aveva previsto che il settimo giorno qualcuno sarebbe andato al suo posto. Forse sarebbe potuto durare più a lungo, ma lui concludeva questa sua piccola testimonianza personale, con grande umiltà, dicendo: “Nessuno resiste all’amore”.
Mi sembra che a volte la Chiesa può far paura, può suscitare timore nelle persone. L’istituzione ecclesiale, con tutta la sua storia politica, tende a volte ad allontanare alcune persone dalla fede o dalla possibilità di fede, o dal dialogo con i cristiani. Le persone, invece, non hanno paura dei santi, non hanno mai avuto paura dell’amore. E se a volte anche la Chiesa scandalizza – e ne sappiamo qualcosa in Francia, con i numerosi scandali a sfondo sessuale, a volte coinvolgendo anche grandi figure del cattolicesimo francese del XX secolo come Jean Vanier, i Fratelli Philippe e, più recentemente, la Bepiére – ebbene, le persone continuano comunque a essere commosse, toccate dai santi. Non parliamo solo di santi mediatizzati. Vi assicuro che anche i santi più ordinari di tutti i giorni, come dice Papa Francesco, quelli della porta accanto, gli sconosciuti, a volte invisibili, la cui generosità, semplicità e bontà è capace davvero di conquistare tutti i cuori.
Teresa di Lisieux, ad esempio, a cui ho dedicato un libro, è una figura che ha attratto incredibilmente davvero centinaia di migliaia di persone che sono state attratte dalla sua figura. Thérèse di Lisieux potremmo definirla una star del XX secolo, quasi come Marilyn Monroe. Eppure, da viva non è stata affatto una star. Thérèse di Lisieux, durante la sua vita, non ha attirato né giornalisti né luci dei proiettori, né luci della ribalta. Viveva nella campagna della Normandia con un’altra quindicina di giovani donne, giovani come lei. Ma quello che ha attratto della sua figura è la testimonianza di questa vita dedicata all’amore. Credo che il grande successo di Teresa di Lisieux, che visse in questo convento di Carmelitane, sia proprio una vita che ancora oggi è una testimonianza fortissima. Me ne sono reso conto scrivendo questo libro e parlando con tanti lettori. Bene, Thérèse arriva a parlare anche a non cristiani, che sono affascinati dal suo desiderio di felicità, ma anche dalla risposta che lei ha trovato a questo desiderio di felicità, una risposta che non consiste nella frenesia della soddisfazione di pulsioni o desideri, ma nel rinunciare a se stessa per amore verso l’altro, qualcosa che l’ha portata a una felicità più grande. Le persone non sono necessariamente affascinate dalla cultura giansenista o dalla rinuncia, o ancora meno dal masochismo, ma sono affascinate dal fatto che i santi, le grandi figure cristiane, propongono una felicità che è credibile, perché questa gioia è sensibile, non è finta, non è fittizia.
E quindi, Teresina, come viene chiamata, e per rispondere, cercare di rispondere alla domanda e concludere, è un’immagine che ci ha insegnato a diventare noi tutti dei veri cristiani del quotidiano, dell’ordinario.
Magni. Un’altra espressione che ho trovato nel libro, che riprende questi ultimi aspetti, dice che i Santi non sono superuomini. Citando John Henry Newman, si afferma che il popolo in cammino è composto dalla vedova, dall’orfano, dall’infermo, dall’emarginato, che uniti nella preghiera costituiscono la forza della fede. Paolo Prosperi, la prospettiva della santità è la vocazione di ciascun cristiano.
Prosperi. Sì, cercherò di essere breve. La domanda è stimolante su questo tema enorme: chi è un santo e di che tipo di santi abbiamo più bisogno oggi? Mi ha molto provocato, ma per non dilungarmi troppo riduco all’osso la risposta, che in questi giorni, pensandoci, mi è salita nel cuore. Se dovessi dire qual è l’originalità della santità cristiana, cioè dell’immagine di uomo compiuto che il cristianesimo, in particolare la fede cattolica, propone direi che Don Giussani diceva che il Santo non è un supereroe, ma è l’uomo vero, è l’uomo realizzato. In cosa sta l’originalità? È la figura dell’uomo ideale, dell’uomo vero che nasce dalla fede. Cosa direi come prima e fondamentale cosa se dovessi rispondere di schianto a questa domanda? Forse può aiutare, diciamo così, nell’era del pluralismo religioso a mettere a fuoco questa originalità, guardare al santo sullo sfondo delle grandi figure di geni religiosi, di giusti, che non mancano in tutte le grandi religioni. Pensiamo a Gandhi, pensiamo a Mosè. Dove sta l’originalità del santo cristiano? Io risponderei così: quello che ha in comune con il senso religioso di ogni grande cultura è appunto il fatto che il Santo vive fino in fondo, con serietà, questo suo desiderio inestinguibile, come dicevamo prima, di qualcosa, dell’assoluto. È fedele a quest’inquietudine, a quest’insoddisfazione, che è ciò che fa la nobiltà del suo cuore. Ma il Santo cristiano non è santo solo per questo, ma innanzitutto perché è abitato, direi, dallo stupore per la scoperta che questo suo desiderio non è che una pallida eco, un’eco di un desiderio, di una voragine, di una fame e sete infinitamente più grande, più ardente, più misteriosa della sua che è quella di Dio. Il desiderio, la nostalgia, la sete che Dio ha del suo cuore, che Dio ha di comunione con lui. E questo è quello che il Santo ha scoperto in Cristo. Chi è Cristo alla fine? In tutti i grandi Santi questa mi sembra la cifra comune: questo stupore inesauribile di fronte a questo Dio che non ha bisogno di nulla, che è l’assoluto, che è perfetto, e scende, scende lui. Prima che l’uomo si innalzi, scende e mendica il cuore dell’uomo. Questo Cristo al pozzo, i discepoli che tornando vedono questo Gesù che parla con la Samaritana e si stupiscono. Il cristianesimo, diceva Peguy, è tutto qui: questo stupore per questo Dio che si è scomodato, che si siede stanco al pozzo a chiedere da bere alla sua creatura, come se aspettasse di essere beneficato lui, che è il benefattore, dal sì della sua creatura. Ecco, questo essere amati. Per me il Santo è innanzitutto l’uomo che si riconosce infinitamente amato dall’infinito e che è dominato più e prima che dalla preoccupazione di rispondere a questo amore, dallo stupore, più e prima che dall’ansia di cercare Dio. Questa sua ricerca non è che, per così dire, il rimbombo in lui della memoria di questa ricerca, di questa sete che Dio ha dimostrato di lui in Cristo, nella carne di Cristo. Leggendo il messaggio del Papa al Meeting, mi sembra che le parole che ha citato di Don Giussani dicano questo in modo meraviglioso e semplice, le rileggo: “Siete amati”. La descrizione perfetta dell’autocoscienza del Santo. “Siete amati. Questo è il messaggio che arriva nella vostra vita. Questo è Gesù Cristo nella storia dell’uomo. L’inizio continuo di questo messaggio: ‘Siete amati’. Cos’è la vita? Essere amati. E l’essere che abbiamo addosso? Essere amati”. E adesso sottolineo quest’ultima frase che è diversa dalle precedenti: “È il destino?” Cioè il fine, cioè la perfezione, cioè la santità per cui siamo fatti? Ancora “Essere amati”. Consentimi di finire con quest’ultimo accenno. Insisto: il destino, cioè l’essere amati. Forse questa è l’originalità del giusto cristiano, cioè del santo, che questo essere amati non è solo il principio, non è solo il motore che ti dà la forza di camminare, ma è anche il punto di arrivo. La vita è … Questo lasciarsi amare e allora questo ricevere è tutto. In fondo, tutta la libertà per il Santo cristiano si gioca in questo entrare sempre di più in questa ricettività infinita che in fondo è la vita di Cristo. Perché chi è Cristo? Cristo non è un Dio monade, ma è il figlio. Entrare in Cristo vuol dire non diventare sempre più, per così dire, autonomi e chiusi in sé, come spesso pensiamo dell’idea di santità, ma al contrario, entrare in questo lasciarsi generare senza fine. La vita è lasciarsi amare. Questa, direi, è l’immagine nuova e rivoluzionaria di perfezione che nasce dal cristianesimo, che nasce cioè dalla rivelazione di un Dio che non è appunto una monade chiusa in sé, ma è comunione di persone, è scambio di dare e ricevere. E questa, in fondo, forse è la buona novella che più di ogni altra il cristianesimo ha da dare all’uomo di oggi, perché in fondo non corrisponde a ciò che noi siamo, alla vulnerabilità, alla fragilità, al bisogno che noi siamo già per natura. Mentre il mondo di oggi ti propone sempre di più una perfezione disumana, perché appunto l’idea di perfezione che il liberalismo oggi propone è l’idea di un uomo autonomo che è capace di rendersi indipendente da tutto e da tutti.
Magni. Grazie. Un’ultima domanda che vorrei rivolgervi riguarda il tema della testimonianza nella società contemporanea. Questo lasciarsi amare è una fede che si fa carne, che diventa storia, società, popolo. E allora, come rendere testimonianza, come rendere ragione della speranza che è in noi con la propria vita personale, con la propria vita comunitaria, nel mondo del lavoro, della cultura e all’interno della società plurale in cui siamo chiamati a vivere? Saint-Cheron, grazie.
Cheron. Grazie mille. Innanzitutto, credo che sia necessario chiedere la grazia oggi, nel mondo in cui viviamo, di non vergognarci di essere cattolici. Noi tutti, nella nostra esperienza quotidiana personale, in particolare in alcuni dibattiti o di fronte a certi temi della società, legati anche alla bioetica, a volte troviamo difficile o anche molto difficile dichiararsi cattolici. Vorrei tornare anche a quello che dicevamo prima nella risposta alle prime due domande: è sempre la carità che è il punto cruciale, bisogna chiedere la grazia di non vergognarsi ma anche chiedere la grazia di essere sempre benevolenti, buoni. E poi attenzione, attenzione (visto che oggi, se guardiamo appunto le cifre degli storici contemporanei) siamo diventati una minoranza. Sembra così anche nella vecchia Europa, la cui civiltà è stata forgiata dal cristianesimo e da tanti cristiani, anche se non solo da loro. Ebbene, in questo mondo siamo diventati una minoranza, come se la cultura scaturita dal Vangelo stesse sfuggendo anche a coloro che continuano ad essere fedeli al Vangelo o che cercano almeno di esserlo. E credo che sia necessario dire chiaramente: attenzione, attenzione a non sprofondare, a non annegare in quella che chiamerei una sottocultura, la sottocultura cristiana. Sappiamo che c’è sempre una tentazione da parte delle minoranze di rinchiudersi in se stesse, di ripiegarsi su se stesse, ebbene mi sembra invece che questo andrebbe contro l’essenza stessa del cristianesimo. Cedere a questa tentazione, appunto di ripiegamento identitario, sarebbe contrario alla sua essenza, eppure questa tentazione di ripiegamento identitario è lì, è come in agguato. Ebbene, se ripenso a quando avevo 20-22 anni, mi ricordo, non so, dei giovani cattolici in una grande parrocchia del centro di Parigi: avevamo tutti gli stessi codici, gli stessi vestiti, gli stessi riferimenti letterari, cinematografici, ma non potevamo condividerli col resto del mondo perché già allora appartenevano a una sorta di sottocultura, di subcultura. Il resto del mondo non vedeva gli stessi film, non leggeva gli stessi libri, non conosceva i nostri artisti, quelli che per noi erano sacri. Ecco, questo rischio di sottocultura è un rischio che dobbiamo prendere molto seriamente. Un cristiano dovrebbe avere la sincerità, secondo me, e la capacità di dire che sì, Dio passa attraverso la bellezza di una tela di Van Gogh, di un brano di Schubert, molto di più di quanto passi da un’arte sacra mediocre o da una pessima musica sacra. Ebbene, è chiaro che non voglio fare di tutta l’erba un fascio e soprattutto non voglio sminuire chi continua a produrre arte sacra che cerca di avere un valore, ma c’è stata una rottura enorme: per migliaia di anni i più grandi artisti europei sono stati artisti sacri, ebbene oggi gli artisti sacri non sono più guardati nemmeno come artisti dal mondo che ci circonda. E non credo sinceramente che sia perché sono cristiani, credo che, anzi, i più grandi artisti siano di fatto al di fuori da questo. Ad esempio, tra gli invitati, tra gli ospiti del Meeting c’è uno scrittore francese di cui non cito il nome, ma che vende moltissimi libri ed è un cristiano. Eppure viene letto da migliaia di persone, centinaia di migliaia di persone che non condividono necessariamente la sua fede. I suoi libri però non vengono considerati come libri di un cristiano. Mi sembra che, ebbene, un cristiano anche se quello che scrive non è esplicitamente cristiano, è comunque sempre un libro di un cristiano. Ma dobbiamo uscire da questa tentazione della sottocultura, di esibire bandiere di cristianesimo, di voler dare lezioni morali a un mondo che non è lì ad aspettare le nostre lezioni morali. Sono altri i mezzi e gli strumenti. La vera cultura è un luogo che può continuare a toccare, a parlare al mondo ed è così che il cristianesimo potrà continuare appunto a alimentare il nostro mondo. Ebbene, una civiltà non può crescere senza cultura, lo leggiamo anche qui, ebbene diffidiamo della sottocultura e invece viviamo la cultura autentica dei grandi artisti. Ebbene, forse il mondo in cui viviamo, che ha radici culturali cristiane, ha rinunciato un po’ a queste radici, ma cerchiamo di non cadere nella trappola della produzione di una cultura che appunto sia sterile, perché se ci ripieghiamo su noi stessi sarà questo il destino.
Magni. L’ultima battuta, Paolo Prosperi, sempre su questo tema.
Prosperi. Grazie per la pazienza, cercherò di essere breve anche se il tema è molto impegnativo, quindi per dire qualcosa devi darmi qualche momento…
Allora, testimonianza? Grande, grandissima questione, certamente aperta e su cui è giusto che riflettiamo e continuiamo a riflettere. Direi due cose. La prima, ovvia, citando il mio romanziere preferito, Dostoevskij: la bellezza salverà il mondo. Dio, la Parola si è fatta carne e, risplendendo attraverso la bellezza della carne di Cristo, ha conquistato il mondo. Il primo metodo rimane lo stesso: è attraverso la bellezza dell’esistenza trasformata, cambiata da Cristo nei cristiani, che la fede continua a poter affascinare gente di ogni provenienza.
Però evidentemente Cristo non ha solo compiuto gesti, non ha solo seminato sguardi e abbracci, ha anche parlato, ha anche portato un annuncio, una verità carica di proposta. E quindi certamente il secondo grande tema, e direi quello più complesso quando si parla di testimonianza, e anche più aperto, su cui è giusto che ci sia dibattito, è il tema, direi, del dialogo col mondo. Cosa vuol dire per la Chiesa di oggi, che è una Chiesa minoritaria e anche spesso osteggiata per il tipo di immagine di uomo e di esistenza umana che propone, essere in dialogo col mondo? E su questo voglio dire solo questo: mi sembra che nella Chiesa di oggi io vedo due linee un po’ contrapposte, in tensione l’una con l’altra, di tentativo di affrontare e di rispondere a questo problema.
Da una parte potremmo dire che ci sono i tradizionalisti, che sono quelli che dicono: la dottrina cristiana è già tutta chiara, la verità c’è stata rivelata, dobbiamo proporla, continuare a dirla senza paura, con coraggio al mondo. Chi ci sta, ci sta, chi non ci sta, chi s’è visto s’è visto, lasciamoli al loro destino. Questa è una possibile risposta al problema: non dobbiamo lasciarci invischiare in inutili tentativi di dialogo con un mondo che alla fine è contro Cristo. Punto e a capo.
La seconda posizione, potremmo dire, è quella che a me piace chiamare “catto liberale,” almeno così la chiamavamo quando ero in America. Cioè, riduciamo all’osso, al nucleo più essenziale, l’annuncio del Vangelo, l’annuncio del Dio misericordioso, del Dio buono, del Dio che incondizionatamente accoglie tutto e tutti che è fondamentale, è una dimensione fondamentale, e cerchiamo di mettere tra parentesi tutti quei temi divisivi su cui il mondo non è pronto ad accogliere il Messaggio Evangelico, non necessariamente negandone la verità, ma non mettendoli a tema perché certamente non è da lì che si può partire se si vuole andare incontro al mondo. E questa posizione, diciamo, “aperturista,” ha certamente una sua radice evangelica, biblica e neotestamentaria assolutamente sacrosanta. San Paolo diceva: “Greco coi greci, giudeo coi giudei,” e non puoi incontrare l’altro se non parti da dove l’altro è, se non ti pieghi, non cerchi di capire, non cerchi di trovare un linguaggio per parlare con l’altro. Il rischio però, evidentemente, lo si capisce subito qual è: alla fine, per incontrare l’altro, si finisce per sacrificare l’integralità della proposta cristiana e quindi alla fine si diventa politici, si vuole un accordo e si finisce per disperdersi nella mentalità del mondo.
Qual è l’alternativa? Esiste un’alternativa? Io direi che esiste, ed è quella che io chiamerei la via di un dialogo umile e audace col mondo. Qual è la premessa, a mio avviso, erronea, inconsapevole (forse spesso), che accomuna sia la posizione conservatrice o tradizionalista che la posizione che ho chiamato “catto liberale” (mettiamo tra parentesi) parliamo solo di quel che il mondo può capire. Cosa che, peraltro, Gesù non ha fatto, sennò non l’avrebbero messo in croce (scusate, apro e chiudo la parentesi). Il discepolo non è da più del Maestro. Ma comunque, qual è la premessa, a mio avviso, erronea di queste due posizioni ma che le accomuna? L’idea che la dottrina cristiana sia già tutta chiara. C’è l’idea che noi sappiamo già tutto, poi c’è il mondo che, poveretti, sono degli idioti, non capiscono, hanno il cuore spappolato, le evidenze sono crollate e quindi non si può entrare in dialogo col mondo. Io so, ma loro non possono capire. Perché dico che questa premessa è erronea? Perché in realtà il cristiano non possiede la verità, è posseduto dalla verità, appartiene alla verità, diceva Papa Ratzinger. Il che vuol dire, mi piace usare questa immagine, almeno questa è quella che io ho maturato negli anni: è come essere in una casa piena di tesori immensi, talmente grande, che tu hai esplorato solo una stanza. Cioè, la ricchezza della verità contenuta in Cristo non basterà l’intera storia della Chiesa a esplorarla. Certo che in Cristo sono già racchiusi tutti i tesori della scienza e della sapienza, dice San Paolo, ma è anche vero che lo Spirito rivela alla Chiesa tutta la ricchezza contenuta in Cristo nel tempo, anche grazie (attenzione!) alle sfide e alle domande sempre nuove, alle provocazioni sempre nuove che vengono dal mondo.
Allora, per far capire cosa intendo con un dialogo audace e umile, faccio questo esempio. Quando io sono andato in America, cioè nel 2010, io ero convinto che tutte le questioni legate alla sessualità, alla differenza sessuale, eccetera, fossero questioni di morale di cui non mi interessava niente, perché l’importante è l’avvenimento di Cristo, il dogma, io sono un dogmatico. Poi sono andato in America, in una cultura dove evidentemente tutto questo era messo in discussione, dove mi sono accorto che la questione della differenza sessuale, della sessualità, eccetera, eccetera, non era più una questione morale, era una questione di ontologia, di antropologia, e ho cominciato a farmi delle domande: ma perché la Chiesa porta avanti un certo pensiero? Allora, mi sono accorto, per esempio, che ci sono degli aspetti del mistero stesso di Cristo su cui la Chiesa non ha mai riflettuto per secoli. Per esempio, perché Dio si è fatto uomo maschio e non uomo femmina? Questa è una domanda che San Tommaso d’Aquino non si è mica fatto. Trovarsi davanti alle sfide del gender diventa un’occasione magnifica per noi cristiani di oggi di farci domande che ci permettono di approfondire tutta la ricchezza, per esempio, del significato della femminilità e della mascolinità, su cui la Chiesa non ha riflettuto. Allora, la sfida che viene dal mondo, la provocazione che mi lanci tu, teologa femminista, tu, teologo gender, aiuta me ad andare più a fondo di tutta la ricchezza di significato di quello che ho incontrato. Allora io imparo grazie a te, perché tu mi costringi a una riflessione che non ho fatto prima. Allora io devo ascoltare la tua domanda, prenderla sul serio, lasciarmi interrogare senza paura, ma per andare più a fondo. Mentre tante volte noi pensiamo che la dottrina è già tutta chiara, l’unico problema è come entrare in dialogo con gli altri, ma non è vero! La verità è che se io ascolto veramente le tue domande, mi lascio provocare, mi lascio ferire dalle tue domande, magari scopro qualcosa di nuovo anch’io del cristianesimo, come diceva ieri in modo straordinario il Cardinal Pizzaballa, parlando a un livello diverso del dialogo con gli ebrei e con i musulmani. Io penso veramente che abbiamo bisogno di questo, abbiamo bisogno di questa autentica, non clericale, umiltà nel dialogo col mondo, per cui le domande e le provocazioni che vengono le ascoltiamo veramente, ma nello stesso tempo con la certezza che dentro quello che abbiamo ricevuto, implicitamente (ed ecco il bello, ecco il non essere tranquilli, non essere borghesi) c’è di più in Cristo di quello che abbiamo già scoperto.
Magni. Grazie. Io ringrazio i nostri ospiti. In questi ultimi 30 secondi, davvero, abbiamo affrontato sfide epocali di questo cambiamento d’epoca in cui siamo immersi e abbiamo provato a farlo con questo dialogo umile ma allo stesso tempo audace. L’invito che vorrei farvi, riprendendo una frase del messaggio del Papa al Meeting, è dove ci ha invitato a diventare protagonisti responsabili del cambiamento, collaborando attivamente alla missione della Chiesa per dare vita insieme a luoghi in cui la presenza di Cristo si possa vedere e toccare. Il dialogo di questa sera ne è un tentativo, ne è un esempio, e quindi la possibilità che luoghi come questo e come il Meeting possano continuare a esistere è grazie anche all’aiuto di ciascuno di noi. Vi invito quindi a prendere in considerazione di sostenere il Meeting attraverso i punti del “Dona Ora”. Grazie di cuore per la vostra attenzione, buona serata e buon Meeting a tutti. Grazie.