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“NIENTE DI CIÒ CHE È UMANO MI È ESTRANEO” (Terenzio). Testi pagani e cristiani sul rapporto con l’altro
“NIENTE DI CIÒ CHE È UMANO MI È ESTRANEO”. Testi pagani e cristiani sul rapporto con l’altro
Reading a cura di Zetesis. Partecipano: Moreno Morani, Docente di Glottologia all’Università degli Studi di Genova; Giulia Regoliosi, Direttore Responsabile di Zetesis. Preparazione dei lettori a cura di Adriana Bagnoli, Regista e attrice.
MORENO MORANI:
Questo incontro di lettura di testi classici dell’antichità greco-romana è diventato ormai un appuntamento fisso e consueto nell’ambito del Meeting. Il tema che abbiamo scelto quest’anno si intitola: “Niente di ciò che è umano mi è estraneo”. La scelta dei testi è stata curata da Zetesis e ringrazio in particolare gli attori che ci hanno fornito la loro prestazione che vedrete all’opera questa sera. I nomi sono indicati nel foglietto che abbiamo distribuito, la regia e la scelta delle immagini è stata curata dalla regista Adriana Bagnoli, che per motivi personali non è presente questa sera. Ringrazio tutte le persone che sono intervenute e iniziamo con la lettura. Il titolo del Meeting, Tu sei un bene per me, invita a riconoscere nell’altro una positività. Non si tratta della semplice cooperazione dettata da esigenze di carattere pratico, ma della possibilità di trovare nella persona vicina a me un fratello che condivide con me la mia stessa umanità. Posizioni di questo genere sono già presenti nei pensatori antichi. Scrive il filosofo Seneca, ravvisando in padroni e schiavi la stessa sostanza di umanità effimera: “Sono schiavi, ma sono anche uomini, sono schiavi, ma sono anche commilitoni, sono schiavi, ma anche umili amici, sono schiavi, ma anche compagni di schiavitù, se pensi che la fortuna ha uguale potere su entrambi”. Tuttavia vi è nel mondo antico anche un’altra linea di pensiero che tende a limitare la solidarietà all’interno di un cerchio di appartenenza più ristretto: gli uomini della Grecia classica o di Roma nell’età repubblicana partecipano in modo vivo delle vicende della loro città e sono anche disponibili a sacrificare la vita per essa. Ma percepiscono una minore affinità con quanti si trovano al di fuori di questa cerchia: sono barbari, gente che parla una lingua diversa dalla nostra e quindi meritano meno interesse. Non sempre è necessariamente un sentimento di gretto egoismo che spinge in questa direzione: al fondo vi è il riconoscimento di un’identità culturale, di una comunanza di valori, di istituzioni, di un modo di pensare che ti lega con i tuoi concittadini. Questa percezione di più stretta affinità può anche essere idealizzata: per il romano del II secolo a.C. il cittadino romano, il civis romanus, rappresenta la sintesi ideale di elementi positivi. Nel pensiero dell’epoca l’idealizzazione del civis romanus era spinta per un impegno morale che deve realizzare nel mondo la filantropia, che non è a Roma un concetto astratto, ma si traduce nella creazione di norme giuridiche e di garanzie per la civitas, l’ambito, cioè, di chi condivide la cittadinanza. Il mondo antico dunque oscilla continuamente tra questi due ideali, ora coscienza di identità e appartenenza, ora solidarietà e capacità di aprirsi all’altro e in particolare all’uomo bisognoso. Va detto, infatti, che tra i concetti più comuni e diffusi fra tutte le tradizioni e le stirpi non solo nell’ambito greco-romano, ma in tutte le stirpi di lingua indoeuropea, vi è il dovere dell’ospitalità: lo straniero è privo di diritti, né la sua persona né i suoi beni godono di alcuna garanzia. Ma lo straniero che chiede ospitalità e si mette sotto la protezione di una tribù gode di piena protezione e di diritti. Alcune lingue esprimono questo concetto in modo molto nitido: in latino straniero si dice originariamente hostis, parola il cui significato si deteriora progressivamente fino a significare alla fine nemico. Ma lo straniero che viene accolto è portatore degli stessi diritti che hanno i membri della comunità, è hostipoti, da cui hospes, termine composto con una parola, poti, che vale propriamente signore, quindi “straniero con pienezza di diritti”. Ritroviamo la parola nel termine slavo “gospodi”, di identica formazione. Sia Cesare sia Tacito narrano che non vi è gente più ospitale dei Germani che ritengono sacri e inviolabili, santi i loro ospiti. E notizie analoghe ci vengono date dei celti, degli slavi, dei baltici, degli indiani. In alcune di queste popolazioni si fa a gara nell’ospitalità e si ritiene gravemente lesivo del proprio onore il fatto che l’ospite se ne vada da una casa senza essere stato pienamente soddisfatto in tutti i suoi desideri.
GIULIA REGOLIOSI:
C’è una frase dell’Odissea che sintetizza tutto un concetto fondamentale. È una frase che la principessa dei Feaci, Nausicaa, dice a proposito di Odisseo capitato come naufrago nella loro terra. La frase, come poi sentiremo, è: “questi è un misero naufrago che ci è capitato e dobbiamo curarcene. Vengono tutti da Zeus gli ospiti e i poveri”. Con queste parole Nausicaa conforta Odisseo che si è presentato davanti a lei chiedendo aiuto e asilo. Odisseo si presenta in assoluta nudità, nulla gli è rimasto perché negli anni del lungo viaggio di ritorno da Troia ha perso tutto: le navi, i compagni, ogni avere. L’ultimo naufragio lo ha gettato sulla spiaggia di una località sconosciuta dove un gruppo di ragazze stanno giocando allegramente a palla. Si presenta in mezzo a loro, cercando pudicamente di coprirsi con un ramo. Nel suo peregrinare ha affrontato situazioni difficili, pericoli, ma anche dichiarare la propria povertà, il proprio bisogno è difficile. Chiedere è pur sempre un’umiliazione, tanto più grande in quanto si sollecita un favore non dovuto e si ha la consapevolezza di non avere i mezzi per ricambiare. Odisseo si risveglia solo, frastornato sulla spiaggia, non è l’eroe “bello di fama e di sventura” di cui ci parla Foscolo, ma è un essere umano abbrutito dalle peripezie, dalla salsedine e dalla fame, soprattutto dalla disperazione. Il suo mostrarsi improvviso davanti alle ragazze è paragonato alla comparsa di un leone affamato in mezzo a un gregge. Nulla di strano, quindi, se la reazione delle ragazze è la fuga disordinata. Solo Nausicaa trova in sé la forza per corrispondere alla richiesta di Odisseo, ubbidendo alla lunga e diffusa tradizione che fa dell’ospitalità e dell’accoglienza dello straniero un dovere, come si è visto per tutti i popoli dell’area indoeuropea. L’ospite è sotto la protezione di Zeus Xenio: l’ospitalità che è un legame fortissimo, che supera le divisioni antiche e politiche, si prolunga attraverso le generazioni. Lo si vede anche nell’Iliade dove due nemici, incontrandosi sul campo di battaglia, scoprono di avere una tradizione di ospitalità nella propria famiglia, decidono di non combattere e si scambiano doni.
LETTORE 1:
Odisseo divino, e pensava. Nell’animo e nel suo cuore.
LETTORE 2:
Ah, alla terra di quali uomini sono arrivato? Forse violenti, selvaggi, senza giustizia? Oppure ospitali, che hanno mente pia verso i numi? Mi è giunto un grido femmineo, come di giovanette. Ninfe che vivono sulle cime erte dei monti, nelle sorgenti dei fiumi, nei pascoli erbosi? Oppure sono vicino a esseri di voce umana? Via dunque! Io stesso vedrò e lo saprò.
LETTORE 1:
Così dicendo, sotto i cespugli sbucò Odisseo glorioso. Dal folto ramo fronzuto con la mano gagliarda stroncò per coprire le vergogne del corpo
LETTORE 3:
E mosse come il leone nutrito sui monti che va tra il vento e la pioggia e i suoi occhi son fuoco. Tra vacche si getta, tra pecore, tra cerve selvagge e il ventre lo spinge a entrare anche in ben chiuso recinto.
LETTORE 4:
Così Odisseo tra le fanciulle dai bei riccioli stava per mescolarsi, nudo, perché aveva bisogno, pauroso apparve a quelle, orrido di salsedine, fuggirono qua e là per le lingue di spiaggia, sola la figlia di Alcino restò, perché Atena le infuse coraggio nel cuore. E il tremore delle membra le tolse. Dritta stette, aspettandolo. E fu in dubbio Odisseo se le ginocchia toccando pregar la fanciulla dai begli occhi, o con parole di miele fermo così da lontano pregarla che la città gli insegnasse, gli desse una veste. Così pensando gli parve cosa migliore pregar di lontano, con parole di miele, che a toccar le ginocchia non si sdegnasse in cuore la vergine. Subito dolce accorta parola parlò.
LETTORE 2:
Io mi t’inchino signora. Sei dea o sei mortale? Se dea tu sei di quelli che il cielo vasto possiedono Artemide certo, la figlia del massimo Zeus, per bellezza e grandezza e figura mi sembri. Ma se tu sei mortale di quelli che vivono in terra, tre volte beati il padre e la madre sovrana, tre volte beati i fratelli, mai cosa simile ho veduto con gli occhi e riverenza a guardarti vince. Ieri scampai dopo venti giornate dal livido mare, fin qui l’onda sempre m’ha spinto alle procelle rapaci dall’isola Ogigia. E qui m’ha gettato ora un dio, certo perché soffra ancora dolori, non credo che finiranno, ma molti ancora vorranno darmene i numi. Ma tu signora abbi pietà. Dopo tanto soffrire a te per prima mi prostro, nessuno conosco degli altri uomini che hanno questa città e questa terra. La rocca insegnami e dammi un cencio da mettermi addosso. A te tanti doni facciano i numi quanti in cuore desideri.
LETTORE 4:
Gli replicò Nausicaa braccio bianco
LETTORE 1:
Straniero, non mi sembri un uomo malvagio o stolto. Ma Zeus Olimpo, lui stesso divide la fortuna tra li uomini, buoni e cattivi, a ciascuno come egli vuole. A te ha dato questo e quindi lo devi sopportare. Ma ora che sei giunto alla nostra terra e alla nostra città, né panno ti mancherà né ogni altra cosa che giusto ottenga il misero che supplica. Costui è un misero naufrago che ci è capitato e noi dobbiamo curarcene. Vengono tutti da Zeus i poveri e gli ospiti. E anche un dono piccolo è caro. Via ancelle, date all’ospite da mangiare e da bere, e lavatelo nel fiume, ma dove è al riparo dal vento.
GIULIA REGOLIOSI:
Il dovere dell’ospitalità impone di accogliere chi si rivolge supplice e richiede protezione. È un dovere non solo individuale, ma anche politico. Deve essere messo in atto anche se il rischio è quello della guerra, con conseguente spargimento di sangue. Il brano che segue è tratto da una tragedia di Eschilo, Le supplici, rappresentata nel V secolo a.C. Le figlie di Danao insieme col vecchio padre sono in fuga dall’Egitto, perché rifiutano di andare in spose ai loro cugini che le perseguitano. Arrivano ad Argo e chiedono al saggio re della città di essere accolte. Il re sottopone al voto popolare l’accoglimento della richiesta, perché in democrazia la decisione finale è demandata al popolo. Non è prerogativa del solo capo per quanto saggio e autorevole. Si pone un dilemma dai risvolti delicati e non privo di conseguenze: accogliere le supplici significa esporsi alle possibili ritorsioni dei nemici che non rinunceranno alle loro pretese, anche a costo di scatenare una guerra fra la loro terra ed Argo. D’altronde rifiutare di ospitare queste ragazze significa suscitare la collera di Zeus protettore dei supplici e scatenare sulla città un miasma, una maledizione che rende ostile la divinità e procura sciagura e contaminazione agli abitanti. Nell’incertezza di una decisione comunque dolorosa l’unico rimedio è affidarsi a Zeus, signore non secondo a nessuno, oltre che mitico fondatore della stirpe delle Danaidi.
LETTORE 5:
È un caso difficile da superare. Una moltitudine di mali si abbatte su di me come un fiume. Sono entrato in questo mare abissale di sciagure e non c’è porto per i dolori. Se non compio la vostra preghiera minacciate una contaminazione insuperabile, se invece resisto ai tuoi figli d’Egitto, ai tuoi consanguinei postomi davanti alle mura con una battaglia, non è forse amara la perdita di sangue d’uomini per la pianura a causa di donne? Ma è inevitabile rispettare la collera di Zeus, protettore dei supplici, fra i mortali e il supremo timore. Tu, un anziano padre di queste vergini, prendi subito tra le braccia quei ramoscelli e ponili su altri altari dei nostri dei, perché tutti i cittadini vedano la tua testimonianza e le mie parole non siano respinte. La gente ama accusare il potere, ma forse qualcuno, preso da compassione a tale vista, proverà odio per la colpa dello stuolo di maschi e il popolo sarà più benevolo verso di voi. Ciascuno è ben disposto verso i più deboli.
LETTORE 2:
Non c’è maggior fortuna che trovare chi ti accolga e ti protegga.
LETTORE 3:
Quale degli dei potrei giustamente invocare per avere maggiore equità?
LETTORI 1-3-4:
Zeus è il padre signore, che di sua mano piantò il nostro ceppo, il grande artefice della stirpe di antica saggezza. Il rimedio per ogni cosa. Zeus ha il soffio propizio, non siede sotto il comando di nessuno, e ha potere sui poteri inferiori a lui. Non onora dal basso nessuno più in alto di lui. È pronta come parola la sua azione per realizzare ciò che la mente delibera.
LETTORE 2:
Coraggio figlie! Tutto bene da parte degli abitanti. Le decisioni del popolo sono finalmente prese.
LETTORI 1-3-4:
Narraci tutto!
LETTORE 3:
Qual è la conclusione?
LETTORE 1:
Come si è orientata a maggioranza la mano sovrana del popolo?
LETTORE 2:
Argo si è espressa senza disparità di pareri ed ha fatto ringiovanire il mio vecchio cuore. L’aria vibrò per le destre alzate all’unanimità ad approvare questa proposta: noi possiamo stabilirci da liberi in questa terra senza timori di rapimenti e con il comune diritto di immunità. E nessuno né fra gli abitanti né fra gli stranieri ci può condurre via. Se poi si ricorre alla forza chi fra i cittadini non ci aiuterà sarà privato dei diritti ed esiliato per pubblico bando. Tale proposta su di noi presentò e fece accettare il signore dei Pelasgi esortando la città a non alimentare ora e per sempre la collera di Zeus protettore dei supplici. Il popolo dei Pelasgi ha ascoltato persuasive scaltrezze oratorie, ma è Zeus che ha determinato l’ultima decisione!
GIULIA REGOLIOSI:
La vicenda di Edipo si compie nell’ultima tragedia composta da Sofocle ormai novantenne, l’Edipo a Colono. Edipo ha commesso i misfatti peggiori che un uomo greco potesse immaginare: ha ucciso il padre, si è unito in un legame incestuoso con la madre da cui ha anche avuto dei figli. È vero che in questi avvenimenti non vi è stata una responsabilità del personaggio che ha tentato di sottrarsi al progetto che gli dei avevano stabilito su di lui. Ma gli oracoli negativi si sono avverati e questo è l’unico aspetto importante in una società in cui l’idea di responsabilità personale e la possibilità di perdono sono concetti dai contorni ancora molto vaghi, se non ignoti. Edipo dunque nel momento in cui la sua colpevolezza viene alla luce è trattato come un essere indegno, viene detronizzato, escluso dalla convivenza civile, lui stesso si acceca perché rifiuta di vedere l’essere orrendo che è divenuto e viene allontanato dalla nativa Tebe. Giunge esule a Colono alla periferia di Atene accompagnato dalla figlia Antigone. Gli abitanti del luogo temendo l’impurità che potrebbe versarsi sulla città a causa della sua presenza, vorrebbero senz’altro cacciarlo. Ma Edipo si appella alla tradizione di accoglienza della città e convince Pretesio a ospitarlo. A questo punto si opera un capovolgimento improvviso della situazione. Un nuovo oracolo preannuncia la salvezza alla città che ospiterà Edipo. Sembra la suprema contraddizione: gli dei che hanno portato alla rovina Edipo quando era nel pieno della sua fortuna donano ora importanza alla sua persona. Adesso i tebani che lo hanno allontanato vorrebbero riportarlo ai loro confini, minacciano anche azioni di forza pur di riaverlo. Mentre emerge il carattere misterioso di un disegno divino superiore ai progetti umani, si delinea l’importanza dell’atteggiamento di benevolenza nei confronti del supplice per quanto aborrito e detestabile possa sembrare. La stessa responsabilità di Edipo viene rimessa in discussione e il superamento dei pregiudizi porta con se una ricompensa ben più grande: un bene che non soffrirà vecchiaia.
ATTORE:
Già da tempo udendo da molti lo scempio sanguinoso dei tuoi occhi Edipo, so di te, ma ora ti conosco meglio figlio di Laio, sentendo parlare di te per queste vie poiché le tue vesti e il tuo misero aspetto ci rivelano chi sei e ho pietà di te infelice Edipo per questo voglio chiederti quale preghiera sei venuto a rivolgermi tu e la tua sventurata compagna, dimmelo, cose ben terribili dovresti dirmi perché io ti opponessi un rifiuto. Anch’io come te lo so bene crebbi in una casa straniera e in terra straniera ho affrontato moltissimi pericoli nella mia persona più di ogni altro per questo nessun ospite come tu ora, scaccerei senza dargli aiuto, sono un uomo e so che a me non più che a te è incerto il domani.
ATTORE:
Teresio, tu infatti hai scoperto chi sono e di che padre, e da che terra sono giunto, a me non resta altro che dirti cosa chiedo.
ATTORE:
Dunque dimmelo ora perché lo sappia
ATTORE:
Vengo a farti dono del mio povero corpo, non è attraente a vedersi ma il suo vantaggio è superiore al bell’aspetto.
ATTORE:
E quale vantaggio pensi di venire a portare?
ATTORE:
Col tempo lo saprai, non nel presente
ATTORE:
Quando si rivelerà la tua offerta?
ATTORE:
Quando io morirò e tu mi seppellirai, ti svelerà figlio di Egeo che bene verrà a questa città un bene che non soffrirà vecchiaia, subito io stesso senza essere toccato da guida mostrerò il posto in cui debbo morire. Ma tu non dire mai a nessuno degli uomini dove è nascosto, in che luogo si trova poiché questo costituirà una difesa per te più di molti scudi e lance mercenarie e poi sempre tu serba il segreto e svelalo quando giunga la fine della tua vita al primogenito e questi al successore. Sempre. Così abiterai questa città senza timore da parte della stirpe degli uomini tebani, perché la maggior parte delle città anche quando sono bene amministrate facilmente giungono agli eccessi ma gli dei benché tardi bene però vedono quando uno disprezza le divine leggi e si volge alla follia. Tu non volere che ti capiti questo, figlio d’Egeo, io i precetti li insegno solo a chi li sa, andiamo nel luogo, mi incalza il segno presente dell’io, io qui vostra nuova guida seguimi o figlia come voi fossi dal padre venite, non toccatemi, lasciate che io da me trovi la mia tomba sacra dove è destino che la terra mi nasconda, O luce oscura che un tempo eri mia or per l’ultima volta tocchi il mio corpo già vado a celare l’ultima mia vita nell’Ade e tu degli ospiti il più caro e questa terra, e i tuoi sudditi abbiate fortuna e quando sarò morto felici nella vostra buona sorte ricordatevi di me.
MORENO MORANI:
Quali erano nella Roma antica i sentimenti dell’uomo della strada nei confronti dello straniero? Ci rifacciamo a un testo del poeta comico Plauto. Siamo a Roma nel II secolo a.C. Da pochi anni è terminata la prima guerra punica che ha visto la vittoria romana dopo anni di dure battaglie. Cartagine rimane ancora una potenza politica e commerciale temibile, una rivale da eliminare. La propaganda esalta il carattere infido dell’uomo cartaginese, si usa proverbialmente l’espressione “fides punica” per indicare la perfidia e l’inattendibilità. Proprio in questo momento storico, Plauto porta in scena una commedia intitolata Il Cartaginese Poenulus. Protagonista è un ricco uomo di Cartagine che si mette in viaggio alla ricerca del nipote e delle figlie che sono stati rapiti. Nello svolgimento della commedia, il protagonista Annone si configura come l’unico personaggio positivo circondato da una umanità di persone squallide, che si fanno notare solo per la loro meschinità, uomini e donne collerici o avidi o vanitosi o desiderosi di comparire o petulanti o pronti all’imbroglio per pochi soldi. Nella rappresentazione dello straniero vi sono tratti che ne mettono in risalto l’alterità, la sua parlata incomprensibile, il modo diverso di vestire, gli anelli alle orecchie e vi sono battute che richiamano sia pure senza malevolenza i luoghi comuni sulla scarsa affidabilità dei cartaginesi. Con una scelta coraggiosa Plauto mette in bocca ad Annone una serie di battute in cartaginese. Lo spettatore romano viene messo di fronte alla lingua del nemico. Ma alla fin fine questo gugga (così sono chiamati per decisione i cartaginesi), è un uomo onesto, generoso e rispettoso degli dei che vengono invocati con devozione. L’infido cartaginese è in realtà il solo che mantiene fede ai patti e non è pronto a mentire e a ingannare gli altri. In sostanza è l’unico personaggio che richiede rispetto e ispira simpatia.
ATTORE:
Prego i dei e le dee che abitano questa città di aiutarmi a portare a buon fine l’impresa che mi ha condotto fin qui. Aiutatemi o dei aiutatemi a trovare la figlia che mi è stata rapita. Un tempo aveva questa città un ospite Antidamate dove dicono ha finito la vita come un giorno doveva pur fare. Io sono qui per consegnare a suo figlio Agorastide questo contrassegno della nostra ospitalità mi dicono che abita in questa città, chiederò informazioni a quei tre che stanno uscendo di casa.
ATTORE:
Oh, ma chi è quell’uccellaccio lì che vien qua vestito soltanto con la tunica che si sono fatti soffiare il mantello ai bagni.
ATTORE:
Ma quella è una faccia di cartaginese, per Polluce!
ATTORE:
Sembra scemo, per Polluce, e ha pure tutta una serva vecchia che gli va dietro, tutta ringrinzita.
ATTORE:
E tu come lo sai?
ATTORE:
Guardala lì tutta china non ha neanche le dita delle mani.
ATTORE:
Perché mai?
ATTORE:
Perché ha gli anelli nelle orecchie no?
ATTORE:
Ah, io andrò incontro a costoro e li interpellerò in cartaginese e se loro mi risponderanno in cartaginese io continuerò a parlare in cartaginese, se no parlerò in latino e mi adatterò ai costumi loro.
ATTORE:
Oh, ma di un po’, ma ti ricordi mica qualche parole in cartaginese?
ATTORE:
Ma nessuna, per Polluce, mi hanno rapito per Cartagine che c’avevo 6 anni.
ATTORE:
Tra noi mortali molti bambini cartaginesi sono spariti per questo motivo.
ATTORE:
Ma di un po’, Agorastocle vuoi che ci rivolgiamo a lui in cartaginese?
ATTORE:
Ma perché voi due sapete la lingua.
ATTORE:
Non c’è cartaginese più cartaginese.
ATTORE:
Allora vai e chiedigli chi è, cosa vuole, da dove viene, perché è venuto, di quale famiglia, su vai, non risparmiare domande, forza!
ATTORE:
Avo, di che paese siete? Di quale città?
ATTORE:
Annon Muthunbale bechaedre anech…
ATTORE:
Cosa ha detto?
ATTORE:
Ha detto che si chiama Annone, è di Cartagine ed è figlio del Cartaginese Mutumbale.
ATTORE:
Avo.
ATTORE:
Ti saluta.
ATTORE:
Donni.
ATTORE:
Ah vuole farti dono di qualcosa.
ATTORE:
Me ar bocca.
ATTORE:
Ha detto che… forse gli fa male la bocca.
ATTORE:
Mi sa che crede che siamo dottori.
ATTORE:
Muphursa.
ATTORE:
Cosa ha detto?
ATTORE:
Ah, parla di topi africani da dare agli edili per la sfilata dei giochi.
ATTORE:
Laech lach ananim limini chot.
ATTORE:
Ha detto che ha portato cucchiai, canne e noci e ti chiede se puoi aiutarlo a venderli.
ATTORE:
Ma a me cosa me ne importa…
ATTORE:
Vuole che tu sia informato perché non pensi che abbia merce rubata.
ATTORE:
Mufonnim secoratim.
ATTORE:
Ha detto di metterlo sotto un graticcio, coprirlo di sassi e ammazzarlo. Ah, ma tu non farlo!
ATTORE:
Gunebel balsameni erasan.
ATTORE:
Cosa sta dicendo, non capisco niente neanche io.
ATTORE:
Dato che non sapete parlare cartaginese, parlerò latino.
ATTORE:
Ma dovete proprio essere dei birbanti, dei furboni, degli schiavi per trattare così uno straniero che viene da lontano.
ATTORE:
E tu sei un insolente, un imbroglione, per venir qua a prenderti gioco della nostra buona fede, meticcio che non sei altro con la lingua biforcuta.
ATTORE:
Smettetela, frenate la lingua non voglio che vi prendiate gioco di un mio compatriota io sono cartaginese perché tu lo sappia.
ATTORE:
Salute mio caro compatriota!
ATTORE:
Carissimo, mi raccomando se hai bisogno chiedi domanda, in nome della nostra patria comune.
ATTORE:
Sono qua venuto per incontrare il figlio di Antidamate, Agorastocle, ho un legame di ospitalità con lui.
ATTORE:
Eh, ma se è il figlio adottivo di Antidamate che cerchi, eccolo qua.
ATTORE:
Mio padre Antidamate mi ha adottato dopo che ero stato rapito da Cartagine, mi ha comprato e poi sono diventato suo figlio.
ATTORE:
Ricordi per caso i nomi dei tuoi genitori?
ATTORE:
Allora mia madre si chiamava Psigora e mio padre Iaccone.
ATTORE:
Ma tua madre era mia cugina.
TUTTI
No!
ATTORE:
E tuo padre, io sono venuto qua perché tuo padre in punto di morte mi ha lasciato la sua eredità. La sua morte mi addolora molto.
ATTORE:
Ma zio carissimo, benvenuto.
ATTORE:
Ma se vuoi un consiglio bisognerebbe restituire al figlio ciò che era del padre perché è giusto che il figlio abbia i beni paterni.
ATTORE:
Non la penso diversamente. Riceverà il suo patrimonio intatto, anzi, avrà anche del mio.
GIULIA REGOLIOSI:
Al di là di tutte le differenze, gli esseri umani condividono una comune umanità: ancora una commedia, Il pulitore di se stesso di Terenzio, rappresentato a Roma nel 163 a.C. in un momento in cui si fanno più stretti contatti con la cultura e il sapere greco dove esiste una ormai lunga tradizione di riflessione sull’umano. C’è il dialogo con i contadini: uno dei due, Benedemo, conduce una vita dura e senza alcun risparmio dalle fatiche per punirsi dell’aver trattato in modo troppo severo il figlio Clinia, fino a costringerlo a partire per il fronte di guerra in Asia. L’altro, Cremete, è il vicino di casa che cortesemente gli chiede le ragioni di questo suo comportamento autopunitivo. Alle rimostranze di Benedemo, che ha un carattere chiuso sino alla misantropia, Cremete risponde con una frase che riassume tutto l’interesse per l’umanità.
ATTORE:
Cremete: E’ vero che questa nostra conoscenza è piuttosto recente, esattamente da quando hai comprato il podere qui vicino ed è anche vero che tra di noi non c’è stato nulla di più, eppure, sarà per le tue doti, sarà per la vicinanza che io considero prossima all’amicizia che io mi sento spinto a consigliarti per il meglio con franchezza e familiarità perché mi sembra che tu per la tua età lavori troppo e più di quanto richieda la tua condizione, ma in nome degli dei e degli uomini, ma cos’è che vuoi, cos’è che cerchi? Avrai 60 anni, a quanto mi sembra, e hai moltissimi servi e ti assicuro che nessuno in questa zona ha un podere più bello e più curato del tuo. Come se non avessi nessuno fai tu stesso con tanto zelo il compito dei tuoi servi. Non esco mai così presto al mattino o rincaso così tardi la sera senza che ti veda lì ad arare, tagliare l’erba, lavorare e tu dirai: “non mi piace come si lavora qui”, ma se spendessi la fatica che fai lavorando per mettere all’opera i servi, sono sicuro che otterresti molto di più.
ATTORE:
Senti, Cremete, ti avanza tanto tempo dei fatti tuoi da occuparti di quelli di estranei che non ti interessano per nulla?
ATTORE:
Sono uomo e niente di ciò che ho in mano mi è estraneo. Facciamo così, pensa che se io ti do un consiglio o ti chiedo un’informazione è per fare anch’io così, se è giusto, per distoglierti se non lo è.
ATTORE:
A me va bene così, ok? Tu fai come ti conviene.
ATTORE:
Ma c’è qualcuno cui conviene tormentarsi?
ATTORE:
A me.
ATTORE:
Ma se hai qualche problema mi spiace, dimmi che cos’è questo guaio, scusa, che colpa hai commesso così grave. Non piangere, dimmelo. Qualunque cosa sia, non continuare a tacere. Non aver paura, affidalo a me ti dico, o confortandoti o consigliandoti o con un’azione concreta io ti posso aiutare.
GIULIA REGOLIOSI:
La chiusura nei confronti dell’altro, il rifiuto di vedere nell’altro un bene e una risorsa e riconoscerne una comune umanità ha come contrappeso la solitudine e un tenore di vita squallido. L’amara vicenda del contadino Cnemone, protagonista di una commedia portata in scena dal commediografo ateniese Menandro, Il misantropo, è esemplare. Cnemone ha volontariamente interrotto ogni rapporto con il resto del genere umano. Ormai anziano, condizionato da sentimenti di gretta avidità, vive con la figlia e una serva. Della figlia è innamorato Sostato, ma il giovane non ha nessuna speranza di sposare la ragazza. Durante una festa, una piccola folla si raduna attorno alla casa di Cnemone per celebrare un sacrifico in onore del dio Pan in una grotta nei paraggi. Quando giunge la notizia che il vecchio è caduto in un pozzo, mentre tentava di recuperare un’anfora lasciata cadere dalla serva, Sostato pretendente della ragazza, e Gorgia il figliastro di Cnemone, sempre respinto, corrono per salvarlo. E’ come una scoperta inattesa. Cnemone capisce che non ha senso una vita rinchiusi in se stessi e ammette il proprio errore.
ATTORE:
Cnemone: Allora non mi farà cambiare idea nessuno e su questo mi darete ragione anche voi. L’unico errore è forse stato quello di credermi autosufficiente, di non aver bisogno di nessuno. Ma ora che ho visto la morte rapida, imprevedibile, ho capito che sbagliavo. Bisogna sempre avere vicino qualcuno che ti possa dare un aiuto. Ma per Efesto, sono stato messo fuori strada dal vedere il modo di vivere degli altri, i loro calcoli, l’attenzione esclusivamente rivolta al guadagno. Non avrei mai pensato che ci fosse tra tutti una persona capace di fare il bene altrui. Questo era l’ostacolo che avevo davanti, e solo Gorgia mi ha ora dato con i fatti la prova di essere un uomo generoso, io non lo lasciavo neppure avvicinare alla mia porta, non l’ho mai aiutato, non gli ho mai dato neppure una parola di saluto, una parola gentile, eppure mi ha salvato. Un altro avrebbe detto con ragione: non mi vuoi nella tua casa, io non ci vengo. Non mi hai mai fatto un piacere, io non lo faccio a te. Che c’è ragazzo, se muoio e credo proprio di sì, io non sto molto bene, ti affido tutto. Ti adotto come figlio, tutto quello che ho fai conto che sia tuo, ti affido mia figlia, trovale un marito, io non potrei farlo neanche se fossi sano, perché nessuno mi piacerebbe. Quanto a me, se fossi vivo, lasciatemi vivere come mi piace, e anche il resto curalo tu al posto mio, hai senno abbastanza, grazie agli dei, del resto è giusto che sia tu ad occuparti di tua sorella. Dalle in dote metà dei miei beni, l’altra metà deve servire al mantenimento mio e di tua madre. Però se fossero tutti come me non ci sarebbero tribunali, né prigioni, né guerra e tutti si accontenterebbero i poco, ma a voi piace vivere così, allora comportatevi come vi pare e il vecchio bisbetico se ne torna fuori dai piedi.
GIULIA REGOLIOSI:
Quella dei romani è una storia che nasce dall’accoglimento dei profughi. Secondo il mito di cui l’Eneide virgiliano si fa interprete autorevole e poeticamente elevata, Roma nasce dall’integrazione fra l’elemento indigeno latino e l’apporto dei troiani. Ai primordi della storia vi è Enea profugo, per volere del fato, come dice il secondo verso del poema. Alle spalle della vicenda sta dunque un progetto dettato dal destino in modo misterioso, orientato verso il bene dell’uomo e della storia. Giove garantisce il suo avverarsi, mentre Giunone cerca di opporsi o quanto meno di ritardare il compiersi del fato. Nel brano che leggiamo ora siamo al termine della vicenda. Giunone deve chinare la testa e accettare l’avverarsi definitivo del destino ma può dettare alcune condizioni. I troiani vincitori in guerra saranno accolti ma dovranno rinunciare alla propria diversità, il nome latino non dovrà scomparire e le stirpe del Lazio conserveranno la lingua e i costumi degli avi. Il patto suggellato in cielo fra Giove e Giunone ha piena corrispondenza con il giuramento solenne fatto da Enea nel sacrificio che precede l’ultimo duello. “Non chiederò che gli itali obbediscano ai teucri, non pretenderò il regno, i due popoli, invitti entrambi, si uniranno con alleanza eterna e leggi uguali”. L’accoglienza dell’altro trova uno spazio per una pacificazione tra vincitori e vinti.
LETTORE:
Siamo arrivati alla fine per terra e per mare, hai potuto inseguire i troiani, un’empia guerra far nascere, rovinare una casa, le nozze bagnare nel pianto. Di più tentare proibisco.
LETTORE:
Questo è il discorso di Giove e così chinando il capo la dea Giunone rispose.
LETTORE:
Ma ti chiedo per la maestà dei tuoi e per il Lazio, ciò che non è stabilito da alcuna legge del fato, quando ratificheranno la pace con felici nozze sia pure, quando si metteranno d’accordo sul trattato disponi che i latini non cambino l’antica denominazione, che non siano troiani neanche di nome, che non mutino lingua né moda, ci sia il Lazio con i re albani, nei secoli dei secoli ci sia la stirpe romana, potente per il valore italico, Troia è caduta, lascia che cada anche il suo nome.
LETTORE:
sorridendo l’autore degli uomini, delle cose, così disse.
LETTORE:
Sei la sorella di Giove, sei la figlia di Saturno davvero, lo vedo dalla forza del furore che in petto ti bolle, ma va bene, calma questa ira inutile, ti accordo ciò che vuoi, mi arrendo volentieri. Gli ausoni serberanno il modo di parlare e i costumi dei padri, il nome rimarrà quello che è, i troiani si uniranno con loro solo nel corpo, io in persona darò loro col culto e i riti sacrificali, e farò in modo che siano tutti latini con un’unica lingua. Vedrai nascere un popolo che grazie al sangue ausonio crescerà, salirà al di sopra degli uomini, al di sopra dei numi per religiosità. E nessun altra gente ti sarà tanto devota.
LETTORE:
Accettò il patto Giunone e contenta la mente volse altrove.
MORENO MORANI:
Al di là del mito, quella di Roma è sempre stata una cultura multietnica, accoglimento e integrazione procedono di pari passo con l’affermazione della propria tradizione culturale. Per accogliere lo straniero è necessario essere consapevoli della propria identità e amarne i contenuti. Nel 48 d.C. l’imperatore Claudio pronuncia in Senato un discorso in favore della concessione della cittadinanza romana a quella parte di Gallia che ancora non godeva dei privilegi legati all’essere cives romani. Il discorso è riferito in modo molto ampio dallo storico romano Tacito ma ne abbiamo anche una copia epigrafica conservata nel museo gallo romano di Lione. Claudio sottolinea come Roma abbia sempre svolto una politica di progressiva integrazione fin dalle origini, lui stesso ha origini sabine. Molte importanti famiglie venivano da diverse regioni del Lazio e poi dall’Etruria, dalla Lucania e via via da tutte le regioni dell’Italia. In sostanza Roma ha realizzato sul terreno politico quegli ideali di cosmopolitismo che sul piano del pensiero filosofico si erano affermati nel mondo greco a partire dalle conquiste di Alessandro. In Occidente, l’espansione del dominio romano e il suo progressivo allargarsi a tutto l’ambito del bacino mediterraneo creano le premesse per una integrazione culturale sempre più profonda tra popoli che fino al allora avevano avuto legami tenui e instabili. Vari decenni dopo, nel 212 l’imperatore Caracalla emanerà una legge che concederà la cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell’impero. Una delle ultime voci della latinità pagana, Rutilio Namaziano, potrà sintetizzare poeticamente in pochi ma incisivi versi questo processo di assimilazione condotto da Roma.
LETTORE:
Fecisti patriam diversis gentibus unam, profuit iniustis, te dominante, capi; dumque offers victis proprii consortia iuris, urbem fecisti, quod prius orbis erat. Hai fatto una patria comune a partire da genti diverse giovò ai popoli senza legge l’essere conquistati dalla tua determinazione. E mentre offri alle genti sottomesse di partecipare alla tua legge, hai reso città quello che prima era un mondo.
MORENO MORANI:
Anche i cristiani non la pensavano diversamente, così si esprime Agostino.
LETTORE:
Si è fatto in modo che la città dominatrice offrisse alle genti sottomesse non solo giogo ma anche una lingua unitaria, così da avere la pace nella società.
LETTORE:
I mei antenati, il più antico dei quali Clauso, di origine sabina, fu accolto sia tra i cittadini romani che nel patriziato, mi esortano ad agire con gli stessi criteri del governo dello stato, trasferendo qui quanto di meglio vi sia altrove. Non ignoro infatti che i giuli sono stati chiamati in senato da Alba, i cornucani da Camelio, i proci da Tusculo, e a parte i tempi più antichi dall’Etruria, dalla Lucania e da tutta l’Italia, l’Italia stessa ha da ultimo portato i suoi confini alle Alpi, in modo tale che non solo gli individui, ma le regioni, i popoli, si fondessero nel nostro nome. Abbiamo goduto di una solida pace all’interno, sviluppando tutta la forza contro i nemici esterni. Proprio quando accolti come cittadini transpadani si poté risollevare l’impero stremato, assimilando le forze più valide delle province con il pretesto di fondare colonie militari in tutto il mondo. C’è forse da pentirsi che siamo venuti i balbi dalla Spagna e forse uomini meno insigni dalla Gallia Narbonense?
LETTORE:
Ci sono qui i loro discendenti, che non ci sono secondi nell’amore verso questa nostra patria. Cos’altro costituì la rovina di spartani e ateniesi per quanto forti sul piano militare se non il fatto che respingevano i vinti come stranieri? Romolo fondatore della nostra città ha espresso la propria saggezza quando ha considerato molti popoli nello stesso giorno prima nemici poi concittadini. Stranieri hanno regnato su di noi e affidare le magistrature ai figli di liberti non è, come molti sbagliano a credere, una improvvisa novità, ma una pratica normale del popolino antico. Ma voi dite, abbiamo combattuto con i Senoni, come se Volsci ed Equi non si fossero mai scontrati con noi in campo aperto. Siamo stati conquistati dai Galli ma non abbiamo dato ostaggi anche agli Etruschi e subìto il gioco dei Sanniti?
LETTORE:
Eppure, se passiamo in rassegna tutte le guerre nessuna si è conclusa in un tempo più breve che quella contro i Galli. Da allora la pace è continua e sicura, ormai si sono assimilati a noi per costumi e cultura e parentele, ci portano anche il loro oro e le loro ricchezze invece di tenerle per sé. O senatori, tutto ciò che crediamo vecchissimo è stato nuovo un tempo, i magistrati plebei dopo quelli patrizi, quelli degli altri popoli di Italia dopo quelli latini. Anche questa decisione si radicherà e invecchierà e ciò per cui oggi ricorriamo ad altri esempi sarà un giorno annoverato fra gli esempi.
GIULIA REGOLIOSI:
Con l’avvento del cristianesimo le divisioni etniche sociali, anche le più profonde, dovrebbero essere composte in unità. Cristo è morto in croce per redimere tutta l’umanità, il suo messaggio è rivolto a tutta l’ecumene, il mondo dove abitano e vivono e operano gli esseri umani. “Non c’è più giudeo né greco, non c’è più schiavo né libero, non c’è più uomo né donna poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù”, proclama Paolo nella lettera ai Galati. Ma l’essere umano è condizionato dal peccato originale e anche l’annuncio cristiano non può eliminare difficoltà e pregiudizi. La condotta dei primi cristiani descritta nei capitoli iniziali degli Atti degli apostoli, è come la prefigurazione di un ideale di rapporti salvati che troverà il suo compito definitivo solo negli ultimi giorni. Ma anche nella Chiesa primitiva esistevano lacerazioni e incomprensioni, in particolare sul rapporto fra il popoli di Israele e i pagani. E tocca all’autorevolezza di Pietro, mosso e confortato da visioni, intervenire per sanare le difficoltà con la conferma dello Spirito.
LETTORE :
Gli apostoli e i fratelli che stavano in Giudea vennero a sapere che anche i pagani avevano accolto la parola di Dio e quando Pietro salì a Gerusalemme i fedeli circoncisi lo rimproveravano dicendo.
LETTORE:
Sei entrato in casa di uomini non circoncisi e hai mangiato insieme con loro. Allora Pietro cominciò a raccontare loro con ordine dicendo:
LETTORE:
Mi trovavo in preghiera nella città di Giaffa e in estasi ebbi una visione, un oggetto che scendeva dal cielo simile a una grande tovaglia calata per i quattro capi e che giunse fino a me. Fissandola con attenzione osservai e vidi in essa quadrupedi della terra, fiere, rettili e uccelli del cielo. Sentii anche una voce che mi diceva:
LETTORE:
“Coraggio, Pietro, uccidi e mangia”.
LETTORE:
Io dissi: “Non sia mai Signore perché nulla di profano e di impuro è entrato nella mia bocca”. Nuovamente la voce riprese:
LETTORE:
“Ciò che Dio ha purificato tu non chiamarlo profano”.
LETTORE:
Questo accadde per tre volte e poi tutto fu tirato su di nuovo nel cielo ed ecco in quell’istante tre uomini si presentarono alla casa dove eravamo mandati da Cesarea a cercarmi. Lo spirito mi disse di andare con loro senza esitare, vennero con me anche questi sei fratelli ed entrammo in casa di quell’uomo. E lì ci raccontò come avesse visto l’angelo presentarsi in casa sua e dirgli: “Manda qualcuno a Giaffa e fa venire Simone detto Pietro, egli ti dirà cose per le quali tu sarai salvato con tutta la tua famiglia”.
LETTORE:
“Avevo appena cominciato a parlare quando lo Spirito Santo discese su di loro come in principio era sceso su di noi. Mi ricordai allora di quella parola del Signore che diceva:
LETTORE:
“Giovanni battezzò con acqua, voi invece sarete battezzati in Spirito Santo”. Se dunque Dio ha dato a loro lo stesso dono che ha dato a noi per aver creduto nel Signore Gesù Cristo, chi ero io per imporre impedimento a Dio?”.
LETTORE:
All’udir questo si calmarono e cominciarono a glorificare Dio dicendo: “Dunque anche ai pagani Dio ha concesso che si convertano perché abbiano la vita”.
GIULIA REGOLIOSI:
Abbiamo così potuto sentire alcune tappe di una riflessione in cui il pensiero dei pagani attinge una profondità persino sorprendente nell’affermazione di valori ideali, di solidarietà umana. I dialoghi di questo genere sono consoni alla coscienza cristiana, anche il cristiano viene continuamente richiamato all’apertura verso l’altro e all’attenzione verso chi ha bisogno. Ama il prossimo tuo come te stesso, recitava un comandamento noto già al popolo dell’antica alleanza. “Ma chi è il mio prossimo?” viene chiesto a Gesù, che peraltro dà risposte e indicazioni che superano la stessa distinzione fra chi è prossimo e chi non lo è: amate i vostri nemici, benedite coloro che vi maledicono, fate del bene a coloro che vi odiano e pregate per coloro che vi maltrattano e vi perseguitano. A differenza di quanto può avvenire per i pagani, per il cristiano la solidarietà non è un valore fine a se stesso perché richiama ed è richiamato da un valore più alto: ce lo ricorda Papa Francesco nell’Angelus del 2 agosto 2015.
MORENO MORANI:
“Gesù invita ad aprirsi ad una prospettiva che non è soltanto quella delle preoccupazioni quotidiane del mangiare, del vestire, del successo, della carriera, Gesù parla di un altro cibo, parla di un cibo che non è corruttibile, che è bene cercare e accogliere. Egli esorta: datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane, per la vita eterna che il figlio dell’uomo vi darà. Cioè cercate la salvezza, l’incontro con Dio. Con queste parole ci vuole fare capire che oltre alla fame fisica l’uomo porta in sé un’altra fame. Tutti noi abbiamo in noi questa fame, una fame che non può essere saziata con un cibo ordinario. Si tratta di fame di vita, di fame di eternità che lui solo può appagare in quanto è il pane della vita. Gesù non elimina la preoccupazione e la ricerca del cibo quotidiano, no, non elimina la preoccupazione di tutto ciò che può rendere la vita più progredita, ma Gesù ci ricorda che il vero significato del nostro esistere terreno sta alla fine nell’eternità. Sta alla fine nell’incontro con lui che è dono e donatore e ci ricorda anche che la storia umana con le sue sofferenze e le sue gioie deve essere vista in un orizzonte di eternità, cioè nell’orizzonte dell’incontro definitivo con lui. Incontrare e accogliere in noi Gesù pane di vita, dà significato e speranza al cammino spesso tortuoso della vita. Ma questo pane di vita ci è dato con un compito, cioè perché possiamo a nostra volta saziare la fame spirituale e materiale dei fratelli annunciando il Vangelo ovunque. Con la testimonianza del nostro atteggiamento fraterno e solidale verso il prossimo, rendiamo presente Cristo e il suo amore in mezzo agli uomini”. Con queste parole di Papa Francesco, terminiamo questo incontro e di nuovo ringrazio tutti quelli che sono intervenuti.