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NACQUE IL TUO NOME DA CIÒ CHE FISSAVI
Guadalupe Arbona Abascal, Docente di Letteratura Comparata e coordinatrice Master in Scrittura Creativa all’Università Complutense di Madrid. Introduce Emilia Guarnieri, Presidente Fondazione Meeting per l’amicizia fra i popoli.
Nacque il tuo nome da ciò che fissavi
Guadalupe Arbona Abascal, Docente di Letteratura Comparata e coordinatrice Master in Scrittura Creativa all’Università Complutense di Madrid. Introduce Emilia Guarnieri, Presidente Fondazione Meeting per l’amicizia fra i popoli.
EMILIA GUARNIERI:
Buon pomeriggio a tutti. Siamo arrivati all’incontro sul titolo del Meeting: Nacque il tuo nome da ciò che fissavi. Abbiamo appena cominciato questo Meeting, ma credo che stiamo entrando nel cuore di quello che vorremmo vivere e vorremmo si comunicasse veramente a tutti in questa settimana. Innanzitutto do il benvenuto a Guadalupe Arbona Abascal, che ha accettato di accompagnarci oggi in questo percorso. Introduco questo incontro dicendo che siamo solo al secondo giorno ma a me pare che s’intravveda un punto distintivo di questo Meeting. È stato il tono, l’accento, la nota di questi giorni che ne hanno preceduto l’inizio e di questi primi due giorni che stiamo vivendo insieme. Mi pare che ci sia un punto distintivo che è proprio lo struggimento – lo chiamo così caricandolo di ogni aspetto anche di coinvolgimento affettivo – lo struggimento per l’incontro, per il dialogo, per i rapporti, per la relazione. Credo che mai come quest’anno sia evidente che facciamo il Meeting perché è questo che ci sta a cuore, è questo che vogliamo realizzare e costruire. Già il titolo di questo Meeting indica un rapporto, “Nacque il tuo nome da ciò che fissavi”, il nome che nasce da un rapporto, da qualcosa che viene fissato, da un rapporto intenso, non da un guardare o da un vedere, ma da un fissare, cioè da un rapporto carico di affetto, da un rapporto carico di intensità. Guadalupe ci illustrerà la dinamica e il fascino di questo fissare, da dove nasce questo fissare e che cosa genera. Io voglio solo sottolineare che in questo Meeting tutto è all’insegna della relazione, tutto è veramente all’insegna della scoperta dell’altro come un bene, tutto è all’insegna della valorizzazione di ciò che è diverso come condizione, unica condizione per andare avanti. Il conoscersi nella diversità, lo stimarsi nella diversità. Questo vale per tutte le questioni, anche quelle più prossime. Pensiamo anche solo ai rapporti interpersonali, quanto in essi la stima, la pre-stima, il riconoscimento della diversità dell’altro come ricchezza, cambi o possa cambiare le relazioni. Pensiamolo anche in una visione più macro, nella politica. Tanto si parla di politica in questi giorni. Ebbene, come cambia lo sguardo sulla politica se la diversità dell’altro diventa non un’origine di conflitto ma diventa una possibilità di costruzione comune. Pensiamo anche alle grandi questioni internazionali, alla convivenza tra uomini di fede e culture diverse, pensiamo al bisogno di pace, di benessere per tutti gli uomini, pensiamo al tema del rispetto della Terra in cui viviamo, pensiamo al grande tema dell’accoglienza: tutto questo può trovare una possibilità di affronto all’interno di una relazione e non all’interno di una prospettiva individualistica. Credo che non ci sia punto nel Meeting che non sia segnato da questo. Non c’è nessun punto – e questo ci colpisce perché già chi ha cominciato a visitare il Meeting in questi giorni se ne è accorto e lo ha sottolineato – in cui non si percepisca la ricchezza e il miracolo di questo lavoro fatto insieme. Se voi visitate le mostre, le aree del Meeting, se ponete attenzione a come sono stati costruiti gli incontri stessi e gli spettacoli, vi accorgete che dietro ad ognuno di questi non c’è un rapporto con un agente, c’è il rapporto con una storia, con delle relazioni, con dei rapporti. Credo che questo sia veramente una peculiarità del Meeting, e in particolare del Meeting di quest’anno. Perché abbiamo invitato Guadalupe? Guadalupe è professoressa di Letteratura spagnola all’università Complutense di Madrid, visiting professor all’università di Harvard, lo è stata a Cambridge e in altre importanti università straniere. La sua ricerca è concentrata sulla letteratura spagnola del XX e XXI secolo nella relazione con le altre letterature. Lavora con i media, ha ricevuto borse di ricerca, è membro di tanti comitati scientifici. Vive tutto questo non come un puro impegno accademico, ma come un grande impegno educativo, nel senso che ciò con cui ha a che fare, la bellezza della poesia e della letteratura, diventa ciò con cui si misura nel rapporto con i suoi studenti. E questo credo che sia la cosa più bella che della poesia si possa dire, quando serve al rapporto e al dialogo educativo e non solo alla solipsistica ed estetica contemplazione di sé. Abbiamo invitato Guadalupe perché la poesia ha tanto a che fare e da dire rispetto al tema di quest’anno, perché il fissare non è un gesto meccanico, il fissare è una commozione prima che un’azione. La commozione di fronte al mistero della realtà è ciò da cui nasce la poesia. Allora abbiamo pensato che una persona che fa della poesia lo strumento fondamentale del suo rapporto educativo con i più giovani, che fa della poesia un fattore della ricchezza della sua vita, potesse accompagnarci adeguatamente all’interno del titolo di quest’anno. Quindi, Guadalupe Arbona Abscal, “nacque il tuo nome da ciò che fissavi”. Grazie.
GUADALUPE ARBONA ABASCAL:
Grazie Emilia. Vengo al Meeting da anni e devo dire che qui ho imparato a guardare quello che mi circonda e ad abbracciare gli altri. Questo è l’effetto che ha avuto su di me. Si potrebbe chiedere di più? Quel che oggi mi dispiace è di non parlare bene la vostra lingua e di dovermela cavare con il mio itagnolo. Ma anche così, devo dirvi con le parole di Cervantes che: “La penna è la lingua dell’anima”. E dentro di me ci sono cose che posso dire solo in italiano. Grazie a tutti e a ciascuno di coloro che hanno contribuito ad allargare la mia anima.
Il verso citato nel titolo del Meeting è pieno di suggestioni e offre molti elementi che interessano tutti noi. In primo luogo prenderò in considerazione i due termini iniziali. Il nome e la nascita. Tutti noi abbiamo ricevuto un nome quando siamo nati. Sappiamo bene che al neonato viene imposto un nome perché dall’essere nessuno diventi qualcuno, diventi lui, con il suo nome, unico e irripetibile. In quasi tutte le culture sono i genitori, sapendo che un nuovo essere verrà al mondo, a pensare a un nome per il loro figlio. Ci hanno chiamati con il nostro nome già da piccoli, quando ancora non sapevamo parlare, e ci dicevano: Clara, Andrea, Carlo. Quando abbiamo cominciato a camminare ci chiamavano – Ana, Emilia, Cecilia, Javier – per avvertirci di qualche pericolo. E quando siamo cresciuti ancora un po’. la mattina ci svegliavano per andare a scuola e cominciare la giornata: “Su, Guadalupe, alzati che devi andare a scuola”. Con il nome ci identificano, ci chiamano: abbiamo un nome fin da quando abbiamo visto la luce per la prima volta. Ricevendo un nome smettiamo di essere nessuno o un semplice qualcuno, e diventiamo Mikel, Martina, Pepe o Fernando. Man mano che cresciamo ci abituiamo a sentire il nostro nome, a rispondere quando qualcuno lo pronuncia e ci chiama. “Nacque il tuo nome da ciò che fissavi”. Wojtyła fa riferimento alla Veronica, la donna che, asciugando il volto di Gesù con un panno di lino mentre saliva al Calvario, conservò l’immagine del volto sporco di sangue e di sudore. Per questo l’espressione riferita alla Veronica suscita in noi questa domanda: se abbiamo ricevuto il nome già alla nascita, se è un bene che ci è stato dato e confermato man mano che crescevamo e scoprivamo le cose, per quale motivo dovrebbe nascere da quel che guardiamo, anzi, di più, da quello che guardiamo intensamente? Il fatto curioso è che in Veronica il nome si è generato non dalla nascita ma da un incontro. Allora forse è necessario un altro nome, un nome che indichi la necessità di rinascere e rinominarsi? Non sappiamo come si chiamasse Veronica – secondo certe tradizioni era l’emorroissa che toccò il mantello di Gesù per guarire -, ma sicuramente aveva un nome. Quel che ci dice il racconto evangelico è che fu segnata da Colui che aveva accudito; compatita per i suoi dolori, è diventata un tutt’uno con l’Uomo di cui aveva avuto pietà. E così Veronica acquisì un nome, tornò a nascere. La sua storia fu la storia di una seconda nascita. Il verso arriva direttamente al cuore del nostro tempo, perché credo che in nessuna epoca come nella nostra si sia provato tanto, e tanto intensamente, la nostalgia della propria nascita. Mi verranno in aiuto alcune opere letterarie che ho letto e riletto perché parlavano di me, della mia esperienza umana. Sviluppo il mio intervento in quattro punti scandite dalle immagini di Guillermo Alfaro.
- “Non sono ancora nato”
Gli uomini e le donne del nostro tempo esprimono il loro desiderio di nascita con un grido interno, un anelito che sorge dalla radice più profonda del vivere. A volte, si manifesta come una lieve nostalgia o un sentimento fugace che si insinua nel cuore: il sussurro di qualcosa che si è perduto vivendo e al quale si vorrebbe tornare. Altre volte, può manifestarsi come un bisogno esasperato o un gemito doloroso. In entrambi i casi, nasce da un sentimento di malinconia riguardo a un mondo che nel momento in cui è stato scoperto si è percepito come ordinato e armonico, senza macchie, provvido, felice.
Quando il primo giorno delle lezioni chiedo ai miei allievi di scrivere un’autobiografia, consiglio di scegliere un episodio che ritengono fondamentale per la loro vita. La maggior parte di loro recupera un evento dell’infanzia: una percentuale piuttosto alta fa riferimento alla nascita. Quasi tutti parlano delle persone che hanno accompagnato i loro primi momenti nel mondo; in particolare, generalmente descrivono la loro madre. A partire da quei momenti iniziali e primordiali, le esperienze che raccontano cominciano a diventare una serie di delusioni e disastri. I miei allievi stanno entrando nella vita – hanno vent’anni – e hanno già cominciato a piangerne il declino.
Il regista cinematografico Pedro Almodóvar descrive la nostalgia della sua infanzia nel suo ultimo film. Il protagonista di Dolor y gloria, così si intitola la pellicola, è un regista esaurito. Dopo anni di fama e successo, si sente vuoto e depresso. La sua vita trascorre in una profonda apatia, niente riesce più a interessarlo. Ha smesso di scrivere, non dirige più film, non esce di casa, non risponde agli inviti. Vive in una perenne e tormentata insonnia. Ritrova un po’ di vita solo se ricorda l’infanzia, le scene di quando era bambino e viveva in un paesino poverissimo della Spagna degli anni Cinquanta. Un periodo in cui vivere riparandosi in una grotta o sopravvivere con pochissimo non gli impediva di sentire l’amore di sua madre. Gli odori e le prime parole dell’infanzia gli fanno ricordare l’inconfondibile accento della gioia che poi, tristemente, si è persa per strada. Dolor y gloria è il racconto della perdita di un bene. È possibile tornare all’infanzia? Nel desiderio del regista spagnolo si può rispecchiare il nostro: la voglia di sentire di nuovo le cose come se si fossero appena scoperte, di sapere che la vita è in buone mani, come quando eravamo bambini e sapevamo che nostra madre vigilava per proteggerci. Eravamo figli.
Il poeta spagnolo Federico García Lorca, in una lettera scritta a ventidue anni e indirizzata al chitarrista Regino Sáinz de la Maza, confessa una cosa che considera terribile, che può dire soltanto in segreto:
«Ora ho scoperto una cosa terribile (non dirlo a nessuno) Io non sono ancora nato. Io vivo in prestito, quello che ho dentro non è mio, staremo a vedere se nasco. La mia anima non si è per nulla aperta. A volte credo con ragione di avere il cuore di latta!».
Lorca sente di essere estraneo a se stesso e di vivere “in prestito”. Per fortuna, allo stesso tempo, desidera tornare a nascere: «Staremo a vedere se nasco». La mancanza di questa nascita fa sì che il suo cuore gli sembri di latta, non di carne, è di metallo! E aggiunge: «La mia anima non si è per nulla aperta». Come si può aprire l’anima?
Ascoltiamo come altre coscienze acute del nostro tempo hanno percepito l’urgenza di nascere di nuovo. Lo scrittore francese Albert Camus, uno degli uomini più impegnati del suo tempo, ha vissuto questa urgenza, per questo ha scritto pagine magnifiche sulla sua nascita. Lo ha fatto nell’ultima opera a cui stava lavorando: Il primo uomo. Il manoscritto fu ritrovato in un quaderno che lo scrittore aveva nella tasca della camicia quando lo estrassero dalle lamiere dell’auto in cui morì, vittima di un incidente. Tre anni prima aveva ricevuto il premio Nobel per la letteratura. È sorprendente che, dopo aver ottenuto il premio Nobel e raggiunto la massima gloria riservata a un letterato, egli scrivesse a proposito della sua umile, discreta, silenziosa nascita. Camus, al centro delle polemiche culturali europee, consacrato dai media e dalle riviste dell’intellettualità francese; Camus, che aveva fatto tremare i lettori con le sue storie dell’assurdo; quello stesso Camus immagina la sua nascita, torna indietro per indagare sul senso di un inizio. Lo fa mettendo in scena un suo alter ego, Jacques Cormery. Il capitolo di apertura del Primo Uomo racconta l’arrivo dei genitori di Jacques Cormery in una casa fatiscente ad Algeri. Viaggiano su un calesse sgangherato. La madre era «vestita poveramente ma avvolta in un grande scialle di lana grossa […] aveva un viso dolce e regolare, capelli da spagnola neri e ondulati, un nasino diritto e occhi marrone, belli e limpidi». Scende la sera e lei sta per partorire. Nasce Jacques. La madre guardando il figlio appena nato si lascia sfuggire un «sorriso che […] aveva riempito e trasfigurato la misera stanza». Né la fatica, né la povertà, né la stranezza di generare un figlio in un Paese straniero riescono a spegnere il sorriso della madre al figlio, sorriso che trasfigura tutto l’ambiente circostante. Così Camus racconta com’è nato. Ricrea con l’immaginazione il suo primo pianto, appena venuto al mondo, e il sorriso di sua madre.
Permettetemi un breve commento su questo. Quando ho letto questo romanzo, mi è tornata in mente una conversazione tra lo scrittore Giovanni Testori e don Giussani. Il libro che la contiene si intitola Il senso della nascita[1] e trascrive il dialogo che Testori e Giussani ebbero nel febbraio del 1980 sul tema della nascita. Ho confrontato le date e ho pensato che a Testori sarebbe piaciuto leggere il libro di Camus. Non riuscì a farlo perché Testori morì nel 1993, ossia un anno prima che la figlia di Camus desse alle stampe il libro postumo dello scrittore francese. Non so se l’ho sognato, ma mi sarebbe piaciuto partecipare a un dialogo con questi tre interlocutori su quel tema. La conversazione dei due italiani parte dal “gemito” di Camus e di un’intera generazione di europei che soffrono per un’assenza. Giussani scopre la profondità del grido:
«Io dico che l’aspetto di gemito che c’è nella gioventù […] è proprio questa assenza. È come se la nascita non fosse presente; e come se non avessero ancora raggiunto la coscienza di questa dipendenza. Vale a dire dell’essere stati voluti». (pp. 66-67).
Anche Testori sembra rispondere al Camus lacerato. Testori sente con la sua generazione quella «assenza, che forse non è assenza, bensì malinconia, nostalgia terribile…» (p. 69) e si lamenta perché abbiamo «lasciato che si allontanasse sempre di più dalla sua folgorazione originaria, […] dal punto della perdizione; che è il punto della nascita, della sperdutezza» (p. 69). Perché secondo lui la perdita di quel momento ci ha portati a dimenticare di «essere stati voluti».
- “Twenty-four voices with twenty-four hearts”
Questo desiderio di rinascere – ricordiamo l’espressione di Lorca «non sono ancora nato» – può nascondere l’insicurezza del non sapere chi si è, del sentire crudelmente la mancanza di identità. Il dolore può diventare così insistente che il desiderio si moltiplica e si frammenta, al punto che si può cercare di essere qualcuno essendo centomila, come diceva il vostro Pirandello. La ricerca diventa frenetica e si pretende di nascere a ogni istante. Si passa dalla percezione della nascita come dono alla ricerca guidata da una volontà furiosa e vorace di essere molti. Persa di vista la prima nascita, si prova a nascere tante volte. Di mattina si è certe persone, altre a mezzogiorno, altre ancora la sera e altre, differenti, di notte. Diceva Lorca, nella lettera che ho citato prima, che lui stesso si sentiva frammentato in mille io diversi. Gli io del passato e quelli del futuro sono mutevoli: «Vi erano mille Federico Garcías Lorca, distesi per sempre nella soffitta del tempo; e nel magazzino dell’avvenire, ho contemplato altri mille Federico Garcías Lorca ben piegati, gli uni sugli altri, in attesa di essere gonfiati con il gas per volare senza una direzione» (p. 158).
Questa stessa impressione di disgregarsi in molti volti si ritrova nella musica che ascoltano, canticchiano e ballano i nostri giovani. La perdita di quel sentimento della nascita, dell’unità donata dal primo palpito, li fa scomporre in frammenti. Questa esperienza della frammentazione è cantata dagli Switchfoot in Twenty-four. Tutto si rompe in 24 pezzi, una cosa diversa per ogni momento del vivere. Vedono le cose separate e alla fine ogni cosa vista o vissuta (gli oceani, i cieli, i luoghi, i tentativi, i fallimenti, le voci, i cuori) deve essere abbandonata per essere sostituita dalla seguente, a meno che qualcuno non riunisca le parti.
Lorca descrive se stesso come mille «Federico García Lorca», mille pupazzi gonfiabili che il vento si può portare via. Mentre il cantante degli Switchfoot chiede allo Spirito di abbracciare i frammenti per riunire quel che si era disgregato. Come si può trovare, tra tutti i pezzi, quello vero? Come riunire le parti? Come impedire di essere portati via dal vento, seguendo le sue mutevoli correnti?
Gli Switchfoot terminavano la loro canzone, chiedendo che qualcuno abbracciasse i 24 pezzi in cui si era separato. Se guardiamo i nostri giovani, la loro ricerca si è spostata persino al di fuori dell’io. Percepisco uno scarto generazionale che non mi è estraneo. Oggi si cerca di essere se stessi nelle possibilità e nei riflessi che offre la realtà virtuale. Cercano il numero di like che compare sotto una foto caricata in Instagram, ogni nuovo like è un modo – o un surrogato – per esprimere una preferenza. Vogliamo sentirci appagati, vogliamo che qualcuno ci dica che ci ha visto nell’istante di una foto scattata e caricata in rete.
Stiamo vivendo un periodo in cui si dice che gli algoritmi possono definire chi siamo. Certi scienziati affermano che lo fanno meglio di quanto possiamo definirlo noi stessi. Nel best-seller intitolato Homo Deus. Breve storia del futuro, Yuval Noah Harari si domanda: «Che cos’è l’io?», e conclude che il calcolo dell’algoritmo permette di conoscere una persona addirittura meglio di quanto la conosce il partner con cui convive e, naturalmente, meglio di quella persona stessa.
«Un algoritmo che monitora ciascuno dei sistemi attivi nel mio corpo e nel mio cervello potrebbe sapere chi io sia realmente, come mi senta e che cosa desideri. Allora l’algoritmo saprà cosa è meglio, l’algoritmo avrà sempre ragione e la bellezza risiederà nei calcoli dell’algoritmo».
La validità dell’algoritmo per la conoscenza è una delle questioni fondamentali della cultura attuale: posso essere definita da un algoritmo?
Harari parla di una cultura datacentrica. Secondo questa affermazione si potrebbe pensare che il mistero dell’io, quella vibrazione che ci accompagna da quando ci alziamo finché non andiamo a dormire, sia interamente risolto. Il calcolo dei nostri like, la collezione dei nostri acquisti su Amazon, delle nostre ricerche su Google, o l’analisi delle foto che carichiamo su Instagram, oltre ai tweet che seguiamo, sono già un materiale sufficiente per definire chi siamo. Può essere una risposta al tema proposto al Meeting: “Nacque il tuo nome da ciò che fissavi”? I dati che lasciamo in rete sono sufficienti per dire chi siamo? In effetti, i dati per l’algoritmo li forniamo noi: l’algoritmo è lo strumento per misurare la nostra attività. Ma l’origine della nostra realtà – materiale, psicologica, spirituale – dove si trova?
La nostra ricerca dell’identità si svolge tra pixel, tra vere e proprie foreste di pixel. Ed è questo il lato appassionante del momento che stiamo vivendo: che ormai nessuno può dare per scontato chi è. Si cerca e ricerca nelle molteplici possibilità. Ma, allora, si può sperare che sia un pixel, un punto di colore, brillante, luminoso, a permetterci di rinascere, a riportarci alla nostra origine?
- Che pixel ha la realtà?
L’ipotesi della modernità – con le sue varianti e declinazioni – proponeva una riflessione interiore per risolvere la questione dell’identità. Una delle conseguenze del fallimento moderno è che si cerca di essere preferiti nella rete. Quanto più percepisco l’esigenza che io sia unica e irripetibile, tanto più mi rendo conto che non posso risolvere da sola questo bisogno. In un certo senso, l’evoluzione dalla modernità alla postmodernità, ossia dall’analisi alla ricerca di una misura esterna, provoca un cambiamento interessante. Mette in luce una incrinatura nella ricerca moderna. Vogliamo essere preferiti e seguiti. Abbiamo bisogno di qualcuno che ce lo dica. Vediamo se nella realtà, osservata intensamente e scoperta nei suoi pixel, può esserci qualcosa che valga la pena scoprire.
La proposta che voglio presentare è quella di Luigi Giussani nel capitolo decimo del volume Il senso religioso. La rilancio personalmente perché per me è fondamentale per capire chi sono. In particolare, partirò da uno degli esempi che propone Giussani: quello di immaginare noi stessi nel momento della nascita, quando apriamo gli occhi e vediamo le cose per la prima volta, ma all’età che abbiamo oggi. È vero: può sembrare una proposta un po’ assurda. Io stessa l’ho considerata così la prima volta che ho letto questo esempio: mi è sembrata una fantasia quasi ridicola. Ma nello stesso tempo intuivo l’indicazione di una possibilità diversa; che, da allora, non ho più potuto dimenticare. Riconoscevo l’acume dell’esempio che non mi lasciava indifferente. Ma allora perché il disagio? La verità è che nutrivo un senso di ribellione verso l’idea che esistesse qualcosa di preesistente a me. Provavo un rifiuto verso l’ordine in cui l’io e la realtà entrano in rapporto e si scoprono. Per Giussani l’ordine delle scoperte è fondamentale e, per questo, insiste diverse volte sul tema nel capitolo che abbiamo citato. Molti di voi conoscono questo libro, ma permettetemi di insistere su di esso. Giussani, come ho già detto, invita a immaginare una nuova nascita. Domanda: se aprissimo gli occhi per la prima volta con la coscienza che abbiamo ora, che cosa sarebbe più importante? «Le cose!», dice lui. «Lo stupore di una presenza» (p. 140). In altre parole, per scoprire il vero io, ossia quell’insieme di esigenze e di certezze che siamo noi, per le quali ci muoviamo, è necessario vivere intensamente il reale. Le cose sono qui e sono una presenza di cui occuparsi. Questo è il primo fattore, e viene prima della possibilità di dire “io”. Per molto tempo, leggendo questo capitolo, mi sono detta: «Ma perché dice così?»
Io quando mi sveglio penso a me, alle mie cose, a quello che devo fare, e cioè ancora una volta a me. E Giussani dice che vengono prima le cose. Io pensavo, quasi senza osare confessarmelo: «La realtà è qui, e allora? Le cose sono uno scenario molto bello, commentavo tra me e me, ma in realtà si dovrebbe rovesciare il capitolo, e cominciare con la definizione dell’io per poi vedere come sono le cose». In quanto donna moderna, mi ribellavo contro quest’ordine: «No, non è possibile che prima venga la sorpresa per le cose e poi la scoperta dell’io che dipende da questo dono». Tuttavia non potevo liberarmi da quell’esempio, che riaffiorava sempre tranciando le mie segrete ribellioni. Cominciavo a rendermi conto delle occasioni in cui quello che avevo davanti diceva di me molto più di qualsiasi pensiero. Incominciai a guardare in faccia le cose che riuscivano ad affascinarmi, le cose che mi attraevano e mi commuovevano. Ho cominciato a vedere che “il mio ordine” era più pensato che reale. Così ho cominciato ad apprezzare le cose che dissipavano la mia confusione o mi facevano scoprire qualcosa di me. Si trattava di verificare l’ipotesi proposta da don Giussani con lealtà. Mi rendevo conto che ciò che propone Giussani rappresenta una svolta antropologica di tale levatura da meritare di essere esaminata seriamente. In realtà, Giussani, oggi posso dirlo per esperienza personale, proponeva questo lavoro per arrivare a quel Fattore che rivela l’unità tra i pixel. Una Presenza che rende le cose vive e attraenti. Una grazia che esalta l’umano e permette che l’io si conosca in un incontro, senza bisogno di ricorrere alla scomposizione dei pixel né all’autoanalisi.
Permettetemi di riferire due esempi, tra i molti che ho raccolto, in cui si vede come questa svolta antropologica proposta da Giussani funzioni. Ossia, come a partire da un incontro con un fattore, un Tu presente nella realtà, emerga l’io.
Il primo si riferisce al caso di un universitario di Madrid, la cui vita si ricompone e rinasce a partire dall’incontro con una professoressa. Citerò stralci di lettere scritte dallo studente a proposito di quel che gli era successo: «Più o meno un anno fa ho conosciuto una persona che oggi apprezzo come se fosse mia madre, e che avrebbe cambiato per sempre la mia vita». Grazie a questo incontro, il suo io si rivela, ed egli scrive alla sua professoressa: «Tu hai risvegliato l’umanità che dormiva nella mia persona». Riconosce il suo io più vero: «Il mio cuore è quel che è perché ti ho conosciuto». Non era facile uscire da dove lui veniva: «La mia storia è quella di un bambino triste e infelice che non si è mai sentito amato». Stimolato da questo risveglio, decide di scriverle la sua storia:
«Il bambino – si riferisce a se stesso – aveva conosciuto molto bene che cos’era la paura, purtroppo grazie alle mani pesanti di suo padre, un povero anziano, un militare nostalgico della dittatura. Il ragazzo conobbe presto l’alcol e poco tempo dopo le droghe».
Continua:
«È complicato riassumere tutti questi anni in poche righe, forse l’enorme quantità di litri di lacrime con cui allora inzuppavo il cuscino potrebbe spiegarlo meglio di quanto lo faccia io. Volevo gridare, gridare per esprimere un milione di emozioni e di sentimenti che non potevo raccontare a nessuno perché non mi fidavo di nessuno. È allora che ho compreso che pregare era una necessità reale, non un mero rituale, un dovere che si pratica di routine ogni domenica pronunciando parole vuote, prive di significato. Io allora non credevo in un Dio da pregare, e mi sarei sentito ridicolo se l’avessi fatto».
Racconta il suo arrivo all’Università:
«E così sono giunto all’università, senza sapere realmente che cosa ci facevo lì, senza avere voglia di rimanerci. Con il cuore pieno di paura e con l’inerzia con cui affrontavo le cose e con molta amarezza dentro di me. Era una fase di alti e bassi e ho cominciato a pensare seriamente al suicidio. È una sensazione veramente dura vedere il treno arrivare ogni mattina e avere la certezza che se mi buttavo sui binari a nessuno sarebbe importato un cavolo».
E, allora, accadde qualcosa, qualcosa di tanto fragile che poteva non accadere e che non corrispondeva a nessun programma o a nessuna idea preconcetta di come sarebbero dovute andare le cose. Lo studente descrive l’incontro con la professoressa come una seconda nascita – quella che rimpiangevano Camus e Lorca -, ossia come l’ingresso in un luogo in cui ti stanno aspettando:
«Il tuo ufficio è stato l’unico posto in cui mi sono sentito completamente inserito, in cui sentivo che facevo parte di qualcosa, che, per la prima volta, qualcuno contava su di me, qualcuno mi aspettava».
E conclude così la lettera alla professoressa:
«Io esisto da ventiquattro anni, ma vivo solo da quattro. Io, Tizio, nasco perché tu, Caia, hai raccolto la lettera di un bambino che senza saperlo chiedeva aiuto, hai risposto a questa lettera e gli hai dato il dono della vita, la volontà di vivere. Per questo, anche se non mi hai generato né mi hai visto crescere, ti chiamo madre».
Questa lettera di uno studente alla sua professoressa dimostra quello che stavo dicendo, ossia che è possibile incontrare, nell’ambito della vita normale, qualcuno che ricomponga i frammenti dei pixel della realtà. Una presenza che ha il potere di far rinascere l’io, e verso la quale ci si sente riconoscenti.
Il secondo esempio è contenuto in un lungo poema del poeta spagnolo Pedro Salinas. Si intitola “La voce a te dovuta”. Il poeta racconta la sua esperienza amorosa. L’incontro con l’amata è un avvenimento. Si tratta di una presenza che ha scelto il poeta e, grazie a questa scelta, lo ha fatto uscire dal nulla:
Quando tu mi hai scelto
– fu l’amore che scelse –
sono emerso dal grande anonimato
di tutti, del nulla. (LXII, vv. 2150-2153)
Quel momento si identifica bene nell’esperienza perché si condensa in una data precisa, che segna un prima e un dopo, il tempo cambia grazie a quel momento:
È stato, accadde, è vero.
Fu in un giorno, fu una data
che segna il tempo al tempo. (V, vv. 127-129)
Ma arriva il momento in cui il poeta teme e si rammarica perché qualcosa di così meraviglioso potrebbe perdersi o essere una menzogna:
E sto abbracciato a te
senza chiederti nulla, per timore
che non sia vero (XXXIX, v. 1397-1399).
Questi ultimi versi ci costringono a fare un altro passo; se si teme per la verità dell’amore incontrato, se si hanno dubbi sulla sua continuità, come si può scoprire un amore duraturo? Come conoscere la sua verità? Dove e a quale realtà affidarsi, che possa resistere al disincanto alla distanza, alle delusioni e al passare del tempo? Lo studente lo intuiva, e concludeva la sua lettera con delle domande e con il desiderio di cercare delle risposte. Da parte sua, Salinas, che sentiva la distanza dall’amata e la sua caduta nelle ombre, si domandava se ci fosse “al mondo un’altra luce” (LXIX, v. 2418). Esiste qualcosa che si può trovare e che non si perda?
Il nome: una voce sulla terra, uno scritto nel cielo
Rivolgiamo il nostro sguardo alla storia per cercare di trovare questo Pixel. Sì, nella storia c’è un uomo che ha calcato questa terra che ha detto ai suoi amici: «Rallegratevi, i vostri nomi sono scritti nel cielo». Lo ha detto sulla terra, e pronunciando il nome di ciascuno dei suoi amici allo stesso tempo annunciava un permanere nel cielo. Questa frase ha importanza più in là del dove e quando fu proferita? Potrebbe rispondere a Salinas che teme la perdita della sua amata? Risponde allo studente universitario di cui abbiamo citato le lettere? Può abbracciare la nostalgia di Almodóvar, il regista cinematografico spagnolo che voleva tornare all’infanzia? Perché i nomi siano scritti in cielo è necessario che in primo luogo siano detti sulla terra. Ma questa frase ha la forza di soddisfare l’attesa della nascita da parte di Lorca? E il desiderio di Camus di essere figlio? E a noi dice qualcosa il fatto che i nostri nomi siano scritti in cielo? A me, personalmente, lo dice se prima mi sono sentita chiamata sulla terra.
Torniamo a colui che ha promesso che il nome sarà scritto nel cielo: Gesù di Nazareth. Lo ha promesso soltanto perché ha pronunciato il nome di alcuni uomini e donne mentre camminava in Palestina. E l’intensità con cui lo ha fatto è commentata da Julián Carrón:
«Gesù pronunciò il loro nome: Maria!, Zaccheo!, Matteo!. “Donna, non piangere!”. Che comunicazione di Sé deve essersi in quel momento riversata in loro per segnarne così potentemente la vita, fino al punto che non potevano più rivolgersi a niente, non potevano più guardare la realtà, guardare se stessi, se non investiti da quella Presenza, da quella voce, da quella intensità con cui era stato pronunciato il loro nome».
Ciò significa che li ha chiamati sulla terra per iniziare con loro un rapporto pieno di stima. Una storia così radicale da essere destinata a giungere fino in cielo. Soffermiamoci su come viene raccontato questo modo di chiamare per nome o, ed è lo stesso, che cosa conteneva quella maniera di chiamare che faceva emergere i tratti più caratteristici di ognuno. Luca parla di un personaggio, il cui nome è passato alla storia per il rapporto che ebbe con il Nazareno: si tratta di Zaccheo. La storia di quest’uomo non molto alto poteva rimanere confinata nel suo tempo: era un capo dei pubblicani, piccolo e avaro. Ma gli successe qualcosa che ha fatto tramandare il suo nome di generazione in generazione. Il suo gesto – salire su un sicomoro per vedere, tra la gente – si poteva perdere tra i meandri della storia; poteva anche sparire il giorno stesso in cui qualcuno lo chiamò, con una sonorità e una stima che non aveva mai udito. E tuttavia la sua storia è giunta fino a noi. Luca, che ricorda la frase di Gesù «i vostri nomi sono scritti nel cielo», seppe che il nome di Zaccheo è fra questi perché il suo nome fu udito sulla terra.
Tutti sapete quale fosse il mestiere di Zaccheo: era un pubblicano, un esattore delle imposte per conto dei romani. Era ricco. Per gli esattori che operavano lontano da Roma, era facile ricavare lauti margini dalle imposte. Zaccheo viveva a Gerico, una piccola e bella città, un’oasi in mezzo al deserto cui si scende da Gerusalemme, circondata dalle mura più antiche che si conoscano. Adorna di palme con grappoli di datteri gialli, rossi, arancio e violacei; ricca di fichi bianchi e neri, di sicomori centenari. Zaccheo non era benvoluto, viveva in una casa molto più bella di quelle dei suoi vicini. La sua non era di fango, aveva le fondamenta di pietra ed era ornata da capitelli romani. Era riuscito, Zaccheo, a portare fino al patio centrale l’acqua. Cadendo in una vasca rivestita di piccole piastrelle, quest’acqua si udiva da tutte le stanze, rallegrava con il suo mormorio l’interno della casa e rinfrescava le notti d’estate. Intorno alla casa, un giardino verde e frondoso. E tuttavia, Zaccheo si annoiava. I servi gli obbedivano, facendo tutto quello che lui voleva. Andavano al mercato a comprare per l’esattore i migliori prodotti: vino, frutta, carne, conserve e spezie. Ma quando i bottegai riconoscevano i servi di Zaccheo cambiavano i prezzi per vendere le merci a un prezzo più caro. Era un modo per fare giustizia. I suoi vicini serbavano rancore contro di lui: non solo Zaccheo era impuro, perché al servizio dei romani, ma come se non bastasse aumentava le somme dovute, per ricavare un maggior guadagno. I venditori dimostravano così la loro antipatia verso quell’uomo. Facevano come potevano, cercando di dimostrare la loro avversione verso di lui nei piccoli dettagli della vita quotidiana. Le donne, che sono sempre più ardite, evitavano Zaccheo: quelle anziane non esitavano a maledirlo quando vedevano che usciva e passava per strada; quelle sposate lo guardavano con rabbia che montava perché si prendeva la metà del salario dei mariti; le giovani si giravano dall’altra parte quando lui le salutava. Non lo sopportavano nemmeno le bambine, che gli tiravano piccole pietre per ferirgli le caviglie. Nessuno voleva stare con lui. I rabbini nella sinagoga alludevano a lui quando accusavano chi estorceva le imposte al popolo. Si scagliavano del resto contro tutti i pubblicani, invitando a evitarli. Chi si mescolava con gente del genere si sarebbe contaminato. Tanto più se fraternizzava con il loro capo! Per questo fu ben strano che Zaccheo uscisse di casa quel giorno, ma si annoiava a stare solo, in mezzo a servi e schiave. Certo, era necessario prendere le debite precauzioni. Zaccheo era sempre circospetto: si copriva il volto con un mantello, entrava di nascosto nel tempio, per evitare gli sguardi di disapprovazione, si sedeva nella parte più appartata della sinagoga, sempre negli angoli bui o riparandosi dietro le colonne. La sera precedente aveva sentito dire dalle serve della cucina che quel giorno il Galileo sarebbe passato per la città. Un uomo che faceva prodigi. Veniva da Gerusalemme e la sua fama lo precedeva. Zaccheo passò la notte sveglio. Né i guadagni di quel giorno, né il ripasso dei crediti riuscirono a distrarlo. Aveva tutto e non aveva niente. Si sentiva vuoto. Il mattino dopo si decise: sarebbe andato in piazza per cercare di vederlo. L’attenzione di tutti sarebbe stata attirata dal Nazareno e lui, Zaccheo, sarebbe passato inosservato. Indossò una tunica di stoffa più scadente del solito per non essere riconosciuto. Si coprì anche la testa e parte del volto. Quando uscì dalla porta di casa, si rese conto della ressa; sembrava un giorno di festa. Seguì la corrente della folla. Aguzzò gli orecchi. Chiese informazioni ai bambini, coprendosi il volto perché non lo riconoscessero. Questi gli dissero, in mezzo alla confusione, che Il famoso rabbi avrebbe attraversato la piazza dei sicomori. La raggiunse passando per stradine poco frequentate. Siccome era molto basso di statura, non riusciva a vedere niente. Sorrise scorgendo i bambini che giocavano alla guerra tirandosi i frutti del sicomoro, ricordava i suoi giochi d’infanzia. E gli venne un’idea: salire su uno di quegli alberi. Lì sarebbe rimasto indisturbato e avrebbe potuto vedere comodamente lui. Era l’unica cosa che desiderava: vederlo. Provava una specie di inquietudine. Era la curiosità. Ultimamente, aveva sempre più paura, non si sentiva sicuro; aveva fatto perfino alzare il recinto del giardino perché nessuno lo potesse vedere. Pensava di essere come prigioniero nella sua stessa casa. Temeva le donne, i bambini e i sacerdoti del tempio. Non dormiva bene. Parlava soltanto con quelli che lo adulavano, temendo il suo potere o desiderando del denaro. Si stupì di se stesso, non sapeva bene che cosa stesse facendo, avvinghiato al tronco dell’albero, mentre aspettava che passasse uno sconosciuto che non aveva niente a che fare con lui. Si sentì un verme. «Magari, pensò, cerco la confusione per dimenticare le mie paure e la mia terribile noia. Sono stanco di stare sempre rinchiuso». E poi, come rispondendo a se stesso: «Non c’è altro rimedio, è una reclusione la clausura è necessaria per custodire il mio denaro e aumentare le mie proprietà» e cercava di nascondere la sua espressione triste con pensieri dettati dall’avarizia. A quel punto vide il gruppo di bambini che precedeva la sua figura. Lo seguì con lo sguardo. Si avvicinava. Ormai il rabbi era lontano soltanto qualche metro, ma Zaccheo non poteva vederlo in volto. Il Nazareno camminava in silenzio. Guardava intensamente quelli che si avvicinavano, ma il suo sguardo non si aggirava intorno cercando il consenso generale. Si mise a guardare una bambina. Zaccheo provò un senso di invidia: il maestro concentrava la sua attenzione su quell’essere magro e insignificante, come se fosse l’unica bambina al mondo. No, decisamente quello che veniva considerato un maestro non aveva uno sguardo generico. Continuò ad avanzare e si avvicinò al tronco del sicomoro. Zaccheo si arrampicò un po’ più in alto, si sporse e si spostò sui fragili rami che si piegarono sotto il suo peso. Voleva vedere il suo volto e non ci riusciva dall’alto. In quel momento vide che alzava lo sguardo verso il ramo a cui era appeso. «Che strano!» pensò Zaccheo che se ne intendeva di sguardi, soprattutto perché voleva evitarli, quando vide che quell’Uomo alzava lo sguardo. «Non è necessario che sollevi gli occhi, ha molto da guardare intorno a lui e non è naturale che si metta a fissare la chioma del sicomoro». Alzare gli occhi in quel momento era il gesto più strano che si potesse fare. Ma era proprio quello che il Nazareno stava facendo. Zaccheo vide che i suoi occhi lo scoprivano e sentì dire:
«Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua».
(Luca 19,5)
Possiamo immaginare che cosa passasse per la testa di quell’omino. Zac-che-o. Sì, era il suo nome e quell’uomo lo pronunciava in un modo che non aveva mai sentito. Neanche da piccolo lo avevano chiamato così. Anche se quel tono gli aveva ricordato la voce di sua madre e le voci dei suoi fratelli quando giocavano nella piazza o facevano il bagno nella cisterna; e suo padre che di sera li chiamava, stanco dopo una giornata di lavoro nei campi; e quella ragazza che gli aveva parlato con tenerezza e che lui aveva sognato per tante notti… Lo sguardo, la voce di quel rabbi aveva in sé queste cose, e anche di più. Diceva qualcosa di profondo di lui stesso, come se conoscesse le sue sofferenze degli ultimi tempi, come se abbracciasse la sua insonnia e le sue insoddisfazioni. Ma come faceva a sapere il suo nome? Forse lo aveva domandato ai sacerdoti del tempio? In tal caso, ora lo avrebbe rimproverato. Ma era impossibile: la sua voce non era severa, ma gioiosa, piena di simpatia e di affetto. Il cuore gli diede un balzo. Che cosa stava succedendo? Sentiva il cuore pieno di quella musica con cui l’uomo che aveva davanti a sé pronunciava il suo nome. Era come se i muri che da anni stava costruendo intorno alla sua casa, e anche intorno al suo cuore, stessero crollando. Sembrava che il tempo si fosse fermato, non aveva più in mente la paura della notte precedente, l’angoscia era svanita. E nemmeno si preoccupava del modo di proteggere le sue ricchezze perché non gliele rubassero. Esisteva solo quel momento. Il passato e il futuro, che normalmente lo tormentavano, erano scomparsi. Quel modo di dire il suo nome, quell’Uomo: «quella cosa lì era tutto», «quell’uomo era diventato tutto, l’orizzonte di tutto». «Zaccheo s’è sentito investire da quello sguardo». Non ricordava il giorno in cui qualcuno lo aveva guardato così; e ancor più se cominciava a ripensare agli anni precedenti, prima che accettasse il posto di capo degli esattori, nessuno lo aveva mai guardato così. Si scoprì il volto, voleva guardare meglio, identificare i tratti del maestro, vedere il colore dei suoi occhi. Se avesse potuto sentire anche il suo odore! «Fu guardato e allora vide». E per di più quel maestro voleva venire a casa sua! Non a casa dei sacerdoti del tempio, né a quella delle pie donne, né a quella dei discepoli. Ma a casa sua! A casa di un reietto sociale, a casa di uno straniero nella propria città, a casa di un esecrabile esattore di imposte! Allora Zaccheo scese, senza pensarci più di tanto, scese precipitosamente, lasciandosi vedere e scostando la stoffa che gli copriva la faccia per non essere riconosciuto. Scese «dall’albero e corse a casa per riceverLo». Notava di avere un’energia insolita, una voglia di vedere più da vicino, di andare verso di lui, scopriva che tutti i suoi arti riprendevano vigore, che i suoi sensi diventavano acuti. I colori delle cose erano più brillanti! Zaccheo nasceva di nuovo, era diverso, si muoveva in un altro modo. Prese a camminare eretto, sciolto, non si nascondeva, sorrideva perfino. Andava dritto a casa per preparare il pranzo in onore del suo ospite. Che cosa era cambiato? Tutto e niente. Portava qualcosa dentro di sé, camminava con un tesoro che non si poteva calcolare né accumulare. Portava dentro di sé la «faccia e il cuore di quello sguardo».
Così Luca racconta come Zaccheo nacque di nuovo. Quel pizzico di curiosità lo condusse verso qualcosa che superò ampiamente ciò che sperava. Guardato da Qualcuno che gli restituì il modo di vedere tutto il resto. «Nel perimetro chiuso della sua vita si era introdotta la prospettiva del Destino».
E arriviamo alla conclusione. Vi invito nuovamente a usare l’immaginazione. Pensate a cosa succederebbe se fossero qui gli interlocutori con cui ho dialogato questa sera, seduti accanto a noi, disposti a conversare con Emilia e con me, a riprendere le nostre domande, a incrociare i nostri desideri più veri. Immaginate un dialogo in cui improvvisamente apparissero le cose che ci portiamo dentro e di cui abbiamo bisogno; un momento in cui l’amicizia diventa più intensa e, riscaldati dalla sincerità e dalla fiducia, i cuori si aprono. Non è difficile da immaginare, perché sono come noi: Federico García Lorca, Albert Camus, Salinas, i musicisti degli Switchfoot e Almodóvar sono in noi, sono come nostri compagni di lavoro e nostri vicini, come nostri genitori e nostri figli. Supponete che ci fosse, qui e ora, Federico García Lorca che mi sussurra all’orecchio che non è ancora nato: «Caro Federico, si può uscire dalla paura e dalla solitudine, si può nascere di nuovo. Guarda Zaccheo». Immaginate che ci fosse Camus piangere perché è orfano: «Albert, comprendo le tue lacrime, è possibile essere figlio. Anch’io ho pianto e qualcuno mi ha preso per mano rendendomi figlia». E se avessimo invitato Almodóvar al Meeting di Rimini, gli direi: «Pedro, sì, anche a 54 anni è possibile vivere come bambini, è possibile dipendere da una tenerezza e da una gioia nel presente». Riviviamo per un momento l’intensità dell’amore di Salinas, immaginatelo mentre parla della bellezza della sua amata per ore e alla fine, confidenzialmente, ci dicesse, con un’ombra di nostalgia, che vuole di più: «È vero, Pedro, l’amore risveglia in noi un desiderio insaziabile di infinito e in questo mondo esiste una bellezza che parla dell’infinito. Io vivo di questo amore». E se il gruppo degli Switchfoot ci canticchiasse la sua canzone chiedendo che qualcuno riunisse i suoi frammenti: «Ragazzi, c’è qualcuno che chiamandoci unisce i pezzi, a me è successo e adesso le mie ore e i miei giorni sono uniti perché rispondono a Lui». Sono risposte ardite, molto ardite, ma le direi lealmente a questi amici, non con l’intenzione di insegnare qualcosa, ma lasciando che da me scaturisca l’esperienza di una Presenza che mi rende figlia. Grazie.
EMILIA GUARNIERI:
E’ bello che qualche volta le domande lascino lo spazio alla commozione. Mentre parlavi, tante domande mi affioravano, ma credo che sia bello che qualche volta sia la commozione a dominare, sia l’infinito silenzio a dominare. Credo che ne abbiamo bisogno, credo che ci sia un modo di commuoversi che mette in moto. La commozione mette in moto. Un cuore commosso è un cuore che si muove e se è vero che tante volte la parola che sentiamo suscita domande, suscita un desiderio di approfondimento, è anche vero che tante volte la suggestione poetica crea una commozione e un silenzio che rende grati e che rende mossi da quello che si è sentito. Questa è l’esperienza che io ho fatto oggi e che mi fa rinunciare a fare qualche domanda che forse avrei avuto in mente di farti. Mentre tu parlavi mi immaginavo i giovani che tanto ti stanno a cuore, che tanto mi stanno e ci stanno a cuore, questi giovani… io credo che oggi il bisogno più grande sia quello di essere commossi, di lasciarsi commuovere e allora credo che oggi abbiamo guardato in faccia come questo sia possibile. La forza della poesia comunque, la forza della poesia è sempre in questa direzione. Credo che il modo con cui hai costruito il tuo intervento di oggi ci faccia capire quanto ne abbiamo bisogno. Non è un caso che tanti di noi sono stati educati e sono stati tirati su dalla musica e dalla poesia, non sarà un caso questo. E siamo molto grati di questo.
Anche qui al Meeting cerchiamo di riproporre questo linguaggio e questi linguaggi non come una appendice, non come qualcosa di meno importante o di meno nobile rispetto ai dibattiti, alla parola, ai convegni, qui al Meeting c’è tanto di spettacolo, c’è tanto di mostre e tante di queste cose: la bellezza delle mostre ad esempio è fruibile gratuitamente, altrove non è così. Ci sono mostre bellissime, ci sono mostre d’arte qui al Meeting con opere importanti che altrove non sarebbero fruibili gratuitamente. Al Meeting sì. Perché? Perché crediamo che la bellezza abbia davvero questo grade valore. Allora l’appello finale è questo: tutto questo esiste perché insieme lo stiamo costruendo da quarant’anni come ripetutamente diciamo in questi giorni. Per poter continuare a costruirlo con la stessa libertà con cui l’abbiamo costruito fino ad oggi, chiediamo a tutti, secondo la modalità che ognuno ritiene, chiediamo a tutti di contribuire con una propria donazione. Le donazioni diventano sempre più decisive e sempre più fondamentali e sono in qualche modo un gesto di responsabilità nei confronti di questa costruzione comune. Nella fiera avete visto ci sono tantissime postazioni caratterizzate dal cuore rosso e dal “dona ora”, vi chiediamo di contribuire liberamente con le vostre donazioni, unicamente nei punti dedicati dove ci sono i nostri volontari. Grazie e buona continuazione a tutti.
Trascrizione non rivista dai relatori