Chi siamo
Muri e ideali nell’Italia di Guareschi.
“Giovannino Guareschi, una storia italiana” di Alessandro Gnocchi (Ed. Rizzoli). Hanno partecipato: l’Autore, Giornalista e Scrittore; Carlotta Guareschi, Figlia di Giovannino Guareschi; Alberto Guareschi, Figlio di Giovannino Guareschi.
Gnocchi: Sul tema di questo Meeting, Guareschi scrisse almeno un racconto, uno dei più belli e più intensi di tutta la sua produzione, intitolato “Il sangue non è acqua”. È il racconto, intenso e drammatico, di un agricoltore della Bassa che vuole trovare a tutti i costi l’acqua nel suo podere; non vi riesce fino a quando non arriva un rabdomante che con un bacchettino di ulivo va in cerca di qualche vena e dice di trovarla a pochi metri sotto il suolo. A pochi metri sotto il suolo però si trova il cadavere di un soldato della Repubblica sociale, il cadavere di un ragazzo di quindici anni che è proprio il figlio di questo rabdomante. Le ricerche dell’acqua continuano, si trova l’acqua a 200 metri sotto il suolo, e si fa una grande festa; l’acqua viene riportata in superficie, comincia a scorrere, si fa l’inaugurazione del pozzo. Un bel giorno don Camillo arriva nel luogo da cui sgorga l’acqua, e vede un giovanotto seduto in riva all’acqua, immerso in un sogno, in qualcosa che lo esclude dalla vita, immerso in qualcosa che non è suo: questo qualcosa è l’odio ideologico, il muro dell’ideologia che lo tiene separato dalla vita. Don Camillo arriva vicino al giovanotto e si ferma ad aspettare che succeda qualcosa; ad un tratto il giovanotto dice, come parlando a sé stesso: questa non è acqua, ma sangue. Lo so ben io – continua il giovanotto – che l’ho toccato quando quel sangue era ancora caldo; ho eseguito un ordine, credevamo fosse una spia. Sangue, questa non è acqua, è sangue. Acqua insiste dolcemente don Camillo, prova a toccarla. Il giovane ritrae inorridito la mano, ma don Camillo insiste ancora con voce suadente, e il giovane lentamente, esitando, avvicina la mano all’acqua. Immergila tutta la mano, sussurra don Camillo. Il giovane immerge la mano nell’acqua gelata, con i nervi tesi; ad un tratto gli occhi si riempiono di pianto e due lacrime gli scivolano sulle guance, andando a cadere nell’acqua. Il giovane ritrae la mano e la guarda gocciolare, poi d’un tratto si riscuote come se fosse svegliato da un sogno e guarda con occhi sbalorditi don Camillo. Sta tranquillo, lo rassicura don Camillo, Dio soltanto sa quel che è successo, se pur è successo qualcosa. Il giovane si alza e se ne va; fatti pochi passi si volta a guardare il tubo del pozzo. Acqua gli dice ancora don Camillo, non sangue, ma acqua benedetta. E il giovane riprende il cammino, passa fra i ciotoli roventi del canalaccio, fino a scomparire fra le gaggie. Don Camillo riempie d’acqua fresca la solita borraccia, per innaffiare l’aiuola fiorita sotto la quale riposa in pace il ragazzo assassinato nella guerra civile. E mentre riempie la borraccia mormora: chissà mai dove sono andate a finire quelle due lacrime che io poco fa ho visto scivolare nell’acqua. Ma Dio lo sapeva, e fece entrare le sue lacrime nella borraccia assieme all’acqua.
Questo racconta esemplifica il risveglio, l’abbattimento del muro dell’ideologia; ma le ideologie non sono gli unici muri che si frappongono fra l’uomo e la vita, ce ne sono molti altri e Guareschi li ha sempre voluti abbattere tutti, li ha sempre voluti frantumare tutti. E quello a cui andò incontro fu l’essere amato, allora come oggi, dai lettori, dalla gente, dalle persone, dalle singole persone, non da qualcosa di collettivo ma da incontri personali, incontri che hanno sempre qualcosa da dire a tutti. Ma fu avversato, fu bersagliato, fu odiato, ne vide di tutti i colori da parte di chi invece questi muri continuava ad ergerli. Quando morì fu salutato, come è possibile immaginare, non troppo bene da un giornale come “L’Unità”, ma fu salutato con un livore ancora peggiore da un certo giornalismo cattolico che gli rimproverava proprio il fatto di aver voluto essere cattolico con la propria testa, cioè di aver voluto amare la Chiesa e la fede con la propria testa.
Il modo di scrivere, di pensare e di vivere di Guareschi andava contro tutto quello che dominava. Nella mia biografia, l’ho definito un modo di essere antimoderno, una testimonianza che va contro quello che è il peccato originale del mondo moderno. Il mondo moderno ha infatti creato una grossa spaccatura all’interno dell’uomo, all’interno della società, di conseguenza tra l’uomo e Dio: l’uomo, secondo la cultura moderna, o è solo spirito o è solo materia. Questo è un muro, è un sogno, non è la realtà, e da qui nascono tutte le divisioni. Guareschi invece ha voluto dire sempre e comunque che l’uomo è qualcosa di intero, qualcosa che non si spezza, l’uomo è insieme materia e anima, è spirito e corpo, è uomo, è creatura ma è anche figlio di Dio. Questo non gli è stato perdonato e, purtroppo, non gli è stato perdonato neanche da certa cultura cattolica la quale ormai andava poco interessandosi al fatto che l’uomo fosse figlio di Dio, si interessava molto di più al fatto che fosse figlio del mondo, perché essendo solo figli del mondo è molto più facile venire a compromesso con la realtà del mondo.
Guareschi era una persona vera, e le persone vere sono quelle che quando fanno cultura e quando vivono sanno tenere insieme gli altri. Sono quelle persone che fanno esattamente il contrario di quanto indica di fare la cultura moderna, cioè dividere. Guareschi andò nei lager tedeschi perché volle mantenere il giuramento di fedeltà al re dopo l’8 settembre; avrebbe avuto le possibilità di non andarci, ma non lo fece; rimase là perché quello era il suo posto, rimase là a tenere insieme, anzitutto se stesso, la sua anima e il suo corpo, per fare in modo che non schizzassero uno da una parte e uno dall’altra, ma anche a tenere insieme tutti i suoi compagni di prigionia.
Lo stare insieme che descrive Guareschi, che viene esemplificato dal punto di vista letterario e anche nell’immaginario collettivo all’interno dell’amicizia tra Peppone e don Camillo, non è lo stare insieme che somiglia al compromesso storico: spesso ancora si tende a dire che don Camillo e Peppone furono l’anticipazione del compromesso storico. Il compromesso storico invece non è nient’altro che il recedere da qualcosa per ottenere un beneficio superiore, il recedere dai principi. L’amicizia fra don Camillo e Peppone invece va nella direzione opposta: si recede dal sogno ideologico e dalla sovrastruttura ideologica per incontrare la persona. Per questo non ha nulla a che fare con questa sorta di cattocomunismo strisciante a cui assistiamo ancora oggi: quello che insegna Guareschi è l’amicizia vera tra due persone vere. E questa amicizia e questo modo di essere non recede di fronte a nulla, soprattutto da parte di don Camillo ma successivamente anche da parte di Peppone.
Carlotta Guareschi: Ciò che mi colpisce e che più ho studiato della vita di mio padre è l’esperienza del lager. Mio padre ha raccontato quello che gli è successo nel lager nel Diario clandestino che è il libro che per noi è più chiaro, perché è come la radiografia dell’anima di nostro padre: per conoscerlo bisogna partire da lì. Letto quello, si capisce come non avrebbe avuto vita facile, perché un uomo fatto così non può stare bene al mondo, starà bene nell’altro mondo, ma in questo non tanto. Oltre ad avere letto Diario clandestino, ho raccolto le testimonianze di chi lo ha avuto compagno nel lager. Non stava neanche in piedi perché la fame era tanta; parlava pochissimo, perché risparmiava tutte le sue forze, che erano poche, così da poter andare di sera nelle varie baracche a leggere quello che lui aveva pensato sdraiato sul suo lurido castello, per tenere su il morale ai suoi amici e compagni di lager. Ha svolto un lavoro molto importante: lui era ormai un uomo fatto, aveva 36 anni, aveva moglie e figli a casa, aveva un lavoro, quindi aveva anche forse più equilibrio, ma c’erano dei ragazzi di 19 o 18 anni, che soffrivano una fame ancora maggiore di quelli che erano uomini già fatti, e erano anche meno motivati moralmente. Lui li esortava a non cedere, oppure se li vedeva ridotti male, diceva loro di andare a casa, altrimenti sarebbero morti. Li ha aiutati tanto a sentirsi sempre vivi dentro, a non morire, a non lasciarsi andare.
Alberto Guareschi: Il modo più immediato per conoscere la cultura di mio padre sono i suoi film. Questi film sono nati in un periodo non facile, nel primo dopoguerra – il primo film è stato girato nel ’52 -, quando c’erano molte conflittualità sociali e politiche. Per il primo film, non si è trovato nessun regista italiano che si impegnasse a girarlo, ed infatti il produttore ha dovuto cercare un regista francese. E perfino questo francese, regista dei primi due film, ha cercato in ogni modo di evitare di dare fastidio ai partiti di sinistra, perché aveva paura che il libro di nostro padre potesse offendere in qualche modo i partiti di sinistra. Il produttore voleva invece la qualifica di film per tutti, quindi per poter essere sicuro che il film potesse ottenere questa qualifica e girare in tutti i circuiti, aveva un consulente del Centro cattolico cinematografico, un consulente ecclesiastico, con tutte le limitazioni che ciò comportava. Infine c’erano gli sceneggiatori ufficiali, che pretendevano di fare le punte all’umorismo di nostro padre, con risultati piuttosto scadenti.
Anche girare il film era quindi una lotta: nostro padre aveva tutti contro, e si arrabbiava sempre perché non riusciva a tenere vivo tutto il messaggio che voleva trasmettere con i suoi racconti. Ciò nonostante, i film sono molto piacevole e decorosi, pur essendo tutt’altra cosa rispetto ai racconti, perché nei racconti c’è il messaggio vero di nostro padre, che traspare in ogni momento. Il messaggio era quello di cercare in ogni caso di comporre le fratture, il dissidio dell’uomo moderno – allora più forte che mai – con il buon senso e la buona volontà e soprattutto nel pieno rispetto delle libertà degli altri. Per questo penso che sia una buona cosa che chi è interessato ai film dia un’occhiata anche ai libri, per trovare qualcosa di più.