Chi siamo
MODELLI ORGANIZZATIVI DEI NUOVI OSPEDALI
Modelli organizzativi dei nuovi ospedali
Partecipano: Maurizio Amigoni, Direttore Generale Azienda Ospedaliera di Desio e Vimercate; Carla Dotti, Direttore Generale Azienda Ospedaliera “Ospedale Civile di Legnano”; Mario Colombo, Direttore Generale Istituto Auxologico Italiano; Costantino Passerino, Direttore Centrale Fondazione Salvatore Maugeri. Introduce Carlo Lucchina, Direttore Generale Sanità Regione Lombardia.
CARLO LUCCHINA:
Questa è un’occasione per riflettere sui modelli organizzativi dei nuovi ospedali. Credo che ognuno di noi, operatori del settore, quando è interessato, direttamente o indirettamente, con l’azienda per la quale lavora, progetta e costruisce un nuovo ospedale, abbia una dimensione di tipo urbanistico, di costruzione immediata. Passiamo a camere di ricovero finalmente a misura d’uomo, con due letti e servizi, senza le situazioni critiche con cui eravamo abituati a convivere, passiamo a una dotazione di strumentazioni, di diagnostica all’avanguardia e diventa un sogno. Però, il problema poi si pone sul valutare come si faccia a far funzionare questo sogno. L’argomento di riflessione ad alta voce di oggi pomeriggio è il capire, nel momento in cui si costruisce un nuovo ospedale, con le tecnologie più avanzate, con tutte le dimensioni urbanistiche più adatte, con tutti i sistemi all’avanguardia, se il modo di lavorare in ospedale che abbiamo avuto fino a ieri resti ancora valido oppure se non sia l’occasione per aggiornare i propri modelli, che tipo di problematiche ponga e che tipo di problemi poi si pongano nel momento in cui si comincia veramente ad usare il nuovo ospedale, sia dal punto di vista pratico che dal punto di vista operativo, con i progettisti e con chi ci ha aiutato. Capire come si poteva sviluppare meglio, questo ospedale, in una necessità di confronto con tutti gli operatori medici del comparto amministrativo, con le persone che poi vengono curate ed il territorio circostante.
Oggi pomeriggio, di questi aspetti parliamo con il dr. Amigoni, Direttore Generale della A.O. di Desio e Vimercate, che tra poco si trasferirà nel nuovo ospedale, con la dott.ssa Carla Dotti, Direttore Generale della A.O. di Legnano, con il Dr. Passerino, Direttore Centrale della Fondazione Maugeri, un IRCC noto a livello nazionale ed internazionale, e con il Dr. Colombo, Direttore Generale dell’Istituto Auxologico di Milano. Darei al parola al Dr. Amigoni.
MAURIZIO AMIGONI:
Grazie, ho cercato di riassumere un po’ di considerazioni in alcune slides che spero possano essere utili per comprendere la problematica del nuovo ospedale, che ovviamente obbliga a ripensare le modalità con cui abbiamo sempre lavorato. Questa è l’immagine del nuovo ospedale di Vimercate, l’immagine che vedete alla vostra sinistra è l’area delle degenze divisa in quattro settori: questo serve perché, già solo questo fatto – ciascun piano comprende 50 posti letto -, induce a riflettere su come portare i reparti che normalmente hanno 30 posti letto nel nuovo ospedale: avremmo dovuto portare un reparto e mezzo in ciascun piano, e la cosa non aveva senso. Sono già alcune delle ragioni per cui ripensare all’organizzazione dell’ospedale. Certamente, avere un nuovo ospedale obbliga a ripensare le modalità di lavoro.
Le nuove possibilità tecnologiche. Fra poco avremo una tecnologia quasi totalmente nuova, anche dal punto di vista logistico. Avremo innovazioni importantissime, senza piccoli depositi nei reparti, ma una logistica centrale e per la distribuzione dei farmaci, di tutti i presidi e degli alimenti.
Altre motivazioni sono il quadro epidemiologico.
Un secondo elemento molto importante, che obbliga a modificare l’organizzazione, è l’evoluzione delle professioni. Oggi in ospedale non c’è più solo il medico, con altre figure di supporto, ci sono diverse professioni sanitarie di pari dignità, diverse ma con una autonomia professionale. La normativa degli inizi degli anni 2000 ha introdotto anche in Italia queste nuove figure professionali. Quindi, l’evoluzione delle professioni obbliga a ripensare il modo di lavorare all’interno dell’ospedale e, come vedremo poi, una integrazione interprofessionale.
Abbiamo anche maggiori aspettative e informazioni da parte del cittadino utente, che quando arriva nei nostri ospedali spesso ha già guardato su Internet qual è il suo problema, ha già i mente alcune soluzioni, si aspetta sempre di più. Perciò, anche qui, l’esigenza è provare ad immaginare un’organizzazione dell’ospedale che metta il cittadino più al centro rispetto a quanto non sia normalmente oggi.
E infine, le problematiche di sostenibilità economiche che ben conoscete.
Quali sono i punti su cui abbiamo provato a pensare l’organizzazione del nuovo ospedale? Innanzitutto, la centralità del paziente, l’idea che il paziente venga collocato, assegnato all’equipe medica in base alla patologia, quindi alla sua problematica clinica principale, ma poi venga messo nell’area della degenza più appropriata dal punto di vista dell’intensità delle cure, della complessità dell’assistenza di cui ha bisogno. Oggi, se il problema è di tipo cardiologico, viene affidato alla cardiologia, indipendentemente dalla intensità di cura o dalla complessità di assistenza di cui ha bisogno. E all’interno di un reparto come quello di cardiologia, ci possono essere situazioni molto diversificate. La letteratura su questo è ormai abbondante, per dire che i livelli di intensità di cura e di complessità di assistenza, anche all’interno del reparto della singola disciplina, sono molteplici.
Il secondo punto su cui incentrare l’organizzazione è comunque la valorizzazione del sapere specialistico, non, come qualcuno scrive su qualche quotidiano, “il medico tuttologo”, anzi. Semmai, una valorizzazione delle competenze specialistiche, un approfondimento delle competenze specialistiche.
Il terzo aspetto prevede di lavorare per processi con alta integrazione multi professionale. E’ la questione delle diverse professioni che operano oggi all’interno dell’ospedale – il medico, l’infermiere, il tecnico -, la riorganizzazione e la differenziazione delle responsabilità cliniche rispetto alle responsabilità gestionali.
Per affermare e per attuare pienamente il principio della centralità della persona, dobbiamo assolutamente lavorare su una maggiore informazione al cittadino. Anche qui, diciamo che la maggiore informazione al cittadino passa anche attraverso la comunicazione al cittadino delle caratteristiche della struttura. Saper comunicare al cittadino che cosa sappiamo fare nell’Ospedale di Vimercate, qual è il catalogo delle prestazioni, quali sono i profili dei professionisti che vi operano: ad esempio, mettere in linea i curricula dei professionisti che operano nell’ospedale. In caso di ricovero, poi, il paziente è assegnato all’equipe medica in base alla patologia indice e all’area di degenza in base all’intensità delle cure necessarie.
Il dipartimento internistico dell’Ospedale di Vimercate ha messo a punto questa modalità di funzionamento che poi proveremo sul campo a capire se sia o meno la soluzione ai problemi e quindi se risponda ai principi che vi ho esposto, se effettivamente metta il paziente al centro, se consenta di valorizzare il sapere specialistico. Sono i professionisti, che hanno prodotto questa ipotesi, non è stata la Direzione Generale. Il dipartimento interni stico, e analogamente il dipartimento chirurgico, di cui però non vi faccio l’esempio perché sarebbe troppo lungo, hanno proposto una suddivisione di tutte le attività lavorative complesse, che afferiscono al dipartimento internistico, in sub-unità specialistiche costituite da tre, quattro medici, che abbiano in comune un sapere specialistico. Queste aggregazioni che abbiamo chiamato “Unità di responsabilità di cura” esprimono un tutor a rotazione, e gli altri medici hanno funzioni di supporto.
Il dipartimento internistico di Vimercate sarà composto, quindi, da queste sub-unità specialistiche, sei Unità di responsabilità di cura per le due Medicine: fino ad oggi, ci sono due medicine che fanno più o meno le stesse cose. Nel nuovo ospedale, ci saranno 6 sub-Unità specialistiche, poi vi dico quali, e la pneumologia che si dividerà in due Unità: sub-unità specialistiche, la neurologia in due sub-unità, la nefrologia in una Unità.
Per quanto riguarda le medicine, in particolare, le sei sub-unità specialistiche sono queste: due cardiovascolari, una infettivologica immuno-patologica, una endocrino-metabolica, una gastoenterologica e patologica, una onto-ematologica.
Ve lo dico solo per sottolineare il fatto che, in questa ipotesi organizzativa, vi è la valorizzazione del sapere specialistico, a fronte di una realtà dove oggi ci sono due Medicine che fanno sostanzialmente le stesse cose: tant’è che, dal Pronto Soccorso, il ricovero in una o nell’altra Medicina avviene in base al giorno. Nei giorni pari si ricovera in una Medicina, nei giorni dispari in un’altra, indipendentemente dalle competenze specialistiche che hanno i medici che compongo le equipes delle due Medicine. La nostra proposta, cioè la proposta che hanno messo a punto i professionisti è questa: mettiamo assieme i medici che abbiamo, all’interno delle Medicine, una maggiore competenza cardiovascolare, una maggior competenza infettivologica, e via discorrendo.
Queste sub-unità specialistiche esprimono a rotazione un tutor. Tutti i medici della sub-unità di questa Unità di responsabilità di cura, a turno svolgono questo ruolo, l’ipotesi è che sia un turno mensile, quindi deve essere un turno abbastanza lungo, durante il quale il medico tutor è esonerato da responsabilità di guardia o da altri servizi: la sua unica funzione è quella di seguire i pazienti che gli sono assegnati.
Che cosa fa il medico tutor? Rappresenta per il paziente la figura di riferimento. Il paziente viene informato per iscritto su chi sia il suo medico tutor. Quindi, il medico tutor è responsabile in prima persona dei pazienti che sono a lui affidati, garantisce la continuità della cura dei pazienti, garantisce la corretta informazione al malato e ai suoi familiari, coordina l’attività di tutti i medici specialisti il cui parere sia necessario e sia indicato nell’ambito del percorso diagnostico-terapeutico del paziente.
E, infine, non meno importante, tiene i rapporti con il medico curante, perché questo è, ancora oggi, un punto assolutamente debole nel funzionamento dei nostri ospedali: il rapporto con i medici curanti. Se ci deve essere integrazione tra ospedali e territorio, non inizia se non da questo punto, da un rapporto tra gli specialisti che lavorano in un ospedale e i medici curanti.
I pazienti di competenza, quindi, dell’Unità di responsabilità di cura, sono attribuiti, lo dicevo già, in base ad una patologia indice: sono al massimo 10, 12 pazienti per ciascuna Unità di responsabilità di cura. Questa è un’elaborazione grafica di come sono stati distribuiti nell’ultimo mese i casi di pazienti ricoverati in Medicina, quindi, quanti afferiranno alla Unità di responsabilità di cura gastro-enterologica, infettivologica, e via discorrendo.
In pratica, le modifiche organizzative significative: il Direttore di Dipartimento assume piena responsabilità organizzativa, mentre il Direttore di Unità operativa complessa ha prevalente responsabilità clinica, quindi, torna a fare soprattutto il medico. I posti letto non sono assegnati alla singola disciplina, all’Unità operativa complessa, ma al Dipartimento che li mette a disposizione di chi ne ha bisogno.
E’ indispensabile una maggiore integrazione tra professionisti: uno strumento centrale di questa integrazione è la cartella clinica. Quindi, bisogna introdurre una cartella clinica condivisa tra medici, infermieri e quanti altri hanno il compito di prendersi in carico il paziente. Possibilmente, questa cartella clinica deve anche essere elettronica.
Quindi, maggiore competenza e integrazione dei professionisti, cambia la relazione tra team medico e team infermieristico, potremmo non vedere più – almeno per le prime settimane, poi vedremo cosa succede – l’infermiere che accompagna il medico nel suo giro. Vi sono compiti diversi, l’integrazione avviene con strumenti che vanno cercati: citavo la cartella clinica, ma un altro strumento può essere la riunione congiunta all’inizio della giornata, piuttosto che ogni due giorni. Va comunque cercata questa integrazione tra professionisti.
Come funzionerà l’area della degenza? Questo è il layout di un piano dell’Ospedale di Vimercate: su questo piano saranno ricoverati i pazienti assegnati a equipe specialistiche differenti. Come vedete, compaiono figure nuove, del medico tutor vi ho già detto, ma assieme al medico tutor noi avremo un infermiere di processo, un infermiere di modulo. Oltre all’operatore socio-sanitario, un infermiere coordinatore delle risorse materiali e un infermiere coordinatore delle risorse umane.
Velocissimamente, un infermiere coordinatore delle risorse umane ogni 50 letti, quindi, per ogni piano che vi ho fatto vedere, ci sarà un infermiere coordinatore delle risorse umane, il cui compito è gestire e assegnare il personale infermieristico e di supporto in base all’intensità di cura e alla complessità assistenziale dei pazienti ricoverati. Il coordinatore infermieristico delle risorse logistiche, che gestirà tutti i processi di supporto in base alle esigenze del processo primario di cura e assistenza, con particolare attenzione al flusso e al sincronismo dell’attività, perché la logistica, nel nuovo ospedale, sarà un punto assolutamente nuovo e quindi da monitorare attentamente.
L’infermiere di processo è l’infermiere che assegna il posto letto al paziente, garantisce la presa in carico della persona assistita sin dall’ingresso, redige il piano di assistenza. Quindi, all’infermiere di processo è richiesta una competenze un po’ più ampia rispetto a quella che aveva prima, lavorando sempre nello stesso reparto. Segue il percorso diagnostico-terapeutico del paziente, dall’inizio alla fine, ha competenza specialistica nel settore, partecipa all’erogazione dell’assistenza.
Infine, l’infermiere di modulo è l’infermiere che assicura l’attuazione delle prescrizioni diagnostico-terapeutiche e, con il personale di supporto, garantisce la realizzazione del piano assistenziale.
Allora, come si pongono i professionisti rispetto a queste innovazioni molto rilevanti? Certamente, non mancano dubbi e perplessità, soprattutto da parte dei medici. Devo dire che il personale infermieristico, in questi due anni ha fatto un lavoro di preparazione certamente molto approfondito. Vi è una forte richiesta di partecipazione, da parte di tutti i professionisti, alla definizione del cambiamento, ma vi è una certa impreparazione alla progettazione del cambiamento e la necessità di comprendere i nuovi ruoli. Quello che io, molto telegraficamente, ho detto, va comunque capito provando a farlo, con le modalità, poi, di evoluzione del sistema. Naturalmente, c’è anche il timore di una perdita di identità e di ruolo.
In conclusione, il cambiamento è necessario per tutte le ragioni che abbiamo detto prima e riguarda tutti. Non ci sono alternative al lavorare insieme, dove lavorare insieme vuol dire progettare e sperimentare, trattenere ciò che si dimostra buono e cambiare ciò che non si dimostrerà altrettanto buono. Grazie.
CARLO LUCCHINA:
Bene. Ringraziamo Maurizio Amigoni che, tra l’altro, portando l’esperienza di Vimercate, ha esposto cose importanti e novità notevoli. Le ha esposte a cominciare dall’organizzazione per intensità di cura diverse, parlando soprattutto del coinvolgimento di tutti gli operatori che si dimostra essere, ancora una volta, la chiave di volta di tutti questi modelli organizzativi. Carla Dotti, l’intensità di cura, il coinvolgimento degli organizzatori, qualcuno ha scomodato il modello Toyota sui nuovi ospedali. A Legnano, come siamo messi?
CARLA DOTTI:
Beh, il modello Toyota non è l’impronta che Legnano vuole dare al suo nuovo modello organizzativo. L’impronta che vuole dare Legnano al suo modello organizzativo è nata da un pensiero che tante volte ci siamo scambiati, soprattutto alla fine della passata legislatura, quando si diceva: “La Lombardia si è data tanti buoni servizi, tanti nuovi servizi, si è data tante buone cure, tante nuove cure, adesso bisogna fare in modo che tutte queste cose che sono state create siano messe a disposizione delle persone”. E si aggiungeva: “Rifacciamo la strada dei nostri servizi, usando le gambe di coloro che li devono utilizzare”. Ecco, il pensiero che sta alla base del nuovo Ospedale di Legnano è proprio questo, rifare tutti i percorsi, in primo luogo il percorso del malato, del paziente, e quindi il percorso diagnostico-terapeutico, ma anche il percorso di coloro che incrociano i passi del paziente tutti i giorni, 365 giorni l’anno. Quindi, il messaggio che passa, che parte, il cuore del messaggio di questo nuovo ospedale è stabilire ordine nei flussi e stabilire una priorità a partire dal malato, ma anche per tutte le persone che vivono in questo ospedale.
Questo ospedale è nato privilegiando e valorizzando l’idea del setting. Il setting vuole dire, come tutti sappiamo, un contesto, un’ambientazione, più che un ambiente, si pensi al set cinematografico. Un setting non necessariamente solo di tipo assistenziale, non necessariamente la graduazione delle cure, ma anche un setting pensato per coloro che vivono nell’ospedale ma che malati non sono.
Questo è il primo piano del nostro ospedale, che non ha il piano interrato. Il nostro ospedale è in mezzo al verde, in aperta campagna, anzi, in aperto parco dell’Alto Milanese. E’ in una posizione, sempre nel Comune di Legnano che, per un milanese, sarebbe appena fuori, per un legnanese è fuori. E’ un percorso verde adatto a chi sta poco, i percorsi verdi, in genere, vengono dati per le lungodegenze, quando sappiamo tutti che chi è in lungodegenza desidera invece ritornare nel cuore della città. Quindi, un percorso verde completamente fuori terra, il primo piano è però vicino alla terra, quindi con meno luce, e non è riservato, contrariamente alla tradizione, alle diagnostiche, ma è riservata agli stanziali, cioè al personale cosiddetto amministrativo. Gli studi dei medici sono in open space, quindi la luce è sfruttata al massimo, ci sono gli spogliatoi, i magazzini. Le diagnostiche le troviamo invece al primo piano, dove la luce è già molto forte, e troviamo dei laboratori, troviamo la radiologia, tutte situazioni che in genere sono buie e tetre, e che invece qui sono in piena luce. Anzi, addirittura la radiologia, forse, in certe zone è anche troppo illuminata.
Questo primo piano è destinato a contenere l’80% delle persone che arrivano all’ospedale ogni giorno, perché è dedicato a tutti i visitatori con quei servizi classici che sono all’entrata degli ospedali: l’ufficio informazioni, il CUP, il punto prelievi, tutti gli ambulatori, anche il Day Hospital e tutta una serie di centri commerciali che vanno dal parrucchiere al supermercato, dal ristorante al bar.
Quindi, l’80% delle persone sta a questo livello: in questa maniera, il percorso verticale, che è quello che lasciamo nel vecchio ospedale e che ci ha dato tanto disagio, e molto spesso dà anche tanta ansia ai pazienti e agli operatori, è eliminato.
A questo stesso primo piano, dalla parte opposta, c’è l’ingresso del Pronto Soccorso, in stretta continuità con la Medicina d’Urgenza che, come ha detto Maurizio Amigoni, ha una funzione di stabilizzazione ma anche di selezione dei percorsi, poi posteriori all’ingresso. La Medicina d’Urgenza è dotata di letti esattamente identici a quelli di tutte le altre degenze. I letti di questo ospedale, proprio per privilegiare il percorso rapido del paziente, non hanno colore, mentre le varie degenze hanno tutte un colore. Qui i letti non hanno colore perché si possono spostare rapidamente in diversi punti dell’ospedale, a seconda dell’esigenza del paziente e anche della velocità con cui queste esigenze cambiano.
Le diagnostiche. Un’altra novità molto importante per la separazione dei flussi e per una fruizione più ordinata delle nostre tecnologie, che sappiamo sempre migliori ma sempre più costose, è proprio il posizionamento delle degenze a cavaliere. Gli igienisti – ce ne sono in sala – sono abituati a parlare delle autoclavi a cavalieri, ecco, queste diagnostiche a cavaliere hanno un ingresso diverso, a seconda che il paziente sia di tipo ambulatoriale o sia il paziente del Pronto Soccorso o che venga dai vari reparti.
Questo è il primo piano che diventa il cuore dell’ospedale.
I piani successivi, che diventano sempre più luminosi ma anche più compatti, sono quelli delle degenze. Diventano sempre più compatti perché in tutte le degenze il punto più lontano, il percorso più lungo che deve fare un infermiere per raggiungere il malato più lontano, non supera mai i 25 metri. Le esigenze sono tutte identiche, noi cominceremo a popolarle secondo una logica dipartimentale e non secondo una logica di intensità di cure. Perché? Perché non siamo ancora perfettamente padroni della logica dipartimentale, c’è solo un Dipartimento, nell’attuale Ospedale di Legnano, che funziona bene, in maniera corretta, grazie anche ai buoni rapporti che ci sono tra il cardiochirurgo e il cardiologo che, sappiamo tutti, non è una cosa così scontata. Allora, l’idea è portare questo buon funzionamento anche in altri dipartimenti, che sono quelli classici, quindi è inutile che li racconti.
Queste degenze sono assolutamente identiche una all’altra, per cui, nel caso che valutazioni iniziali non siano soddisfacenti, il tiro può essere corretto in qualsiasi momento.
Un’altra caratteristica di queste degenze è che hanno due cavedi, esattamente identici in tutte: uno porta i fluidi, vale a dire l’acqua e il vapore, l’altro porta invece i flussi di corrente elettrica o i dati. Questi cavedi sono sempre esplorabili e sempre modificabili, per cui anche quella che oggi è una degenza, domani potrebbe diventare un servizio, e viceversa. Le stanze sono tutte a due letti ma molte hanno un solo letto, se l’evoluzione della medicina andrà nel senso che vediamo tracciato, probabilmente diverranno un giorno tutte a un letto: ci aspettiamo ragionevolmente che questo nostro ospedale diminuisca il numero dei posti letto ma aumenti i servizi.
Allora, questo modello così compatto, soprattutto quello delle degenze, così ordinato ma così diverso, ha improntato il primo atto di trasloco che abbiamo fatto. Attualmente abbiamo trasportato alcune attrezzature, alcuni arredi, alcuni presidi: abbiamo molti presidi nuovi ma ne abbiamo anche alcuni che abbiamo trasferito. Soprattutto, abbiamo invitato tutti i primari e tutti quelli che io chiamo sempre caposala, a prendere familiarità con la nuova struttura, perché questi percorsi così compatti spesso confondono. Il pericolo del wondering, anche in piena integrità cognitiva, c’è. Questa prima parte del nostro trasloco è dedicata a favorire un senso di partecipazione, non so fino a che punto spontanea: nessuno ha imposto nulla, ma dal 16 di agosto ad oggi tutti i primari e tutti i caposala sono presenti, stanno facendo il loro percorso di familiarizzazione. Il loro compito, da qui all’inizio di settembre, sarà proprio quello di accompagnare tutti i propri collaboratori a rifare i percorsi, i percorsi del paziente, i percorsi degli operatori, dallo spogliatoio alla mensa, perché riteniamo che la sicurezza del trasloco, prima che essere l’ambulanza o il centro mobile, sia la sicurezza di quello che poi ti accoglie, quando tu arrivi in un ambiente nuovo.
Un’altra caratteristica del nuovo ospedale, e anche dell’ospedale del dottor Amigoni, è quella di avere distinto assolutamente il non core dal core, nell’ottica della evoluzione tecnica e tecnologica anche dei servizi che non sono il care della Sanità. Il personale sanitario ha già i suoi problemi a seguire il passo dell’evoluzione sanitaria, e quindi l’evoluzione degli altri servizi che fanno parte della vita ospedaliera la lasciamo ad altri. Il problema, come ricordava anche il dottor Lucchina questa mattina, è che dire quali sono veramente i servizi non core, decidere quanto una cucina c’entri con la terapia, o il grado di umidità di un lenzuolo con la sopravvivenza di un paziente, non è facile, quindi noi dobbiamo anche pensare – e ci stiamo pensando, ma siamo agli inizi – a un gruppo di persone del nostro ospedale che possa essere in grado di fare i controlli e di programmare i controlli di quello che è un servizio ormai destinato a sfuggirci di mano. E va bene che sia così, ma occorre attrezzarsi.
Termino, con quello che per me è il punto più critico di tutta questa organizzazione, che trovo molto bella, di grande soddisfazione, anche non di facilissima comprensione. Ma sono sicura che, dal momento in cui si sarà operativi, sarà molto più semplice da capire che da descrivere: è il fatto che i medici sono lontani dai pazienti. Allora, noi abbiamo delle degenze anche al VI piano, come dicevo in apertura, e i medici sono negli open space al piano zero.
Io vengo da una scuola di medicina del secolo scorso, quindi sicuramente questo ospedale non è stato costruito per me: noi eravamo abituati a un rapporto col paziente anche spazialmente più prossimo. Il pericolo che si può intravedere è una tendenza che, anche grazie alla medicina difensiva, è invalsa, quello di non visitare il paziente ma di visitare la cartella e gli esami. Su questo bisogna, secondo me, vigilare molto, anche se devo dire che la medicina del secolo scorso, che ho imparato io e qualcuno anche della mia età che è qui in sala, basata sull’evidenza, qualcosa ha detto. Ci sono anche pratiche semeiotiche la cui ignoranza determinava l’essere cacciati fuori da un esame, che poi sono state sfatate dalla nuova diagnostica. Io credo che uno dei punti da presidiare di più sia il rapporto col paziente. Grazie.
CARLO LUCCHINA:
Bene, fa anche piacere conoscere qualche disagio, qualche criticità, perché in un’organizzazione così complessa come quella sanitaria, soprattutto quella ospedaliera, un passaggio tutto bello, tranquillo, completo, non ci credo manco se lo vedo. Quindi, mi sembra giusto che questa attenzione, questa tensione continui, per fare in modo poi di provare sul campo i vari modelli. A proposito di questo, Costantino Passerino è un autorevole esponente della Fondazione Maugeri, una struttura, anzi, una Fondazione che ha nella sua storia l’attività di riabilitazione. Vogliamo sapere da lui l’approccio, in questo caso, di natura monospecialistica per cui, quando la Maugeri costruisce, perfeziona, intraprende nuove attività ospedaliere, il problema è fondamentalmente la riabilitazione. Questo comporta una differenza con gli altri ospedali generali, apre nuovi problemi, nuovi modelli, oppure no?
COSTANTINO PASSERINO:
Ho ascoltato prima le esperienze dei due relatori precedenti, che riguardano essenzialmente esperienze tipicamente lombarde. Se noi parliamo dei modelli dei nuovi ospedali, gli ospedali non ci sono solo in Lombardia ma in tutta Italia. E d’uopo fare una premessa a quello che dirò successivamente. L’Italia, come ha detto l’Organizzazione Mondiale della Sanità, è dopo la Francia il secondo migliore sistema sanitario al mondo. E l’Italia è lunga: se è il secondo sistema sanitario al mondo, molto probabilmente il merito forte è della Lombardia. Noi lavoriamo in otto Regioni d’Italia, principalmente in Lombardia, più del 50% dell’attività è in Lombardia, oltretutto la facciamo in una veste particolare che è quella dell’istituto di ricovero e cura a carattere scientifico. Diciamo che il 50% della nostra attività non è prettamente clinica ma di ricerca clinica. Quindi, ha sue specificità particolari. Ma ho fatto questa premessa perché, quando si parla di modelli organizzativi di nuovi ospedali, bisogna pensare anche che l’ospedale fa parte di un sistema sanitario, e in Italia fa parte di un sistema sanitario regionale: la diversità è enorme. Abbiamo portato la nostra esperienza, i nostri sistemi che adesso descriverò, in tutta Italia, li abbiamo approcciati in un certo modo, però in condizioni totalmente diverse. Sicuramente, quando si vuole parlare di ospedali d’avanguardia o di una sanità di avanguardia, che ha applicato totalmente sia la 833 che la riforma del ’92, ci si deve rivolgere alla Lombardia e a pochissime altre Regioni. Per quanto riguarda la contrattualistica, in particolare, forse solo alla Lombardia.
Questo è molto importante perché vuole dire che, tutto sommato, in Italia siamo un’isola, ma perché? E’ un altro interrogativo molto importante a cui rispondere. Gli ospedali sono veramente l’espressione materiale di quello che è la cultura, il sistema economico di una Regione, perché è stata l’economia che nei secoli si è sviluppata, il sistema sociale delle varie Regioni, che hanno modellato la rete ospedaliera. Dico l’economia, perché se la filantropia è stata molto forte in Lombardia, non ha potuto esserlo altrettanto in altre Regioni per enne motivi. E se in Lombardia esiste un Terzo Settore così forte, come di fatto è, che ha potuto investire delle risorse al di fuori delle strutture pubbliche, lo si deve al fatto che l’economia lombarda è la prima economia d’Europa.
Ho letto sui giornali di oggi che tutti lodano l’economia tedesca: mi permetto sommessamente di dire che la prima Regione europea, dal punto di vista economico, è la Lombardia. Credo che il sistema sanitario lombardo sia comunque uno dei migliori d’Europa. Lo misuriamo coi dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, tenendo presente che, comunque, i cittadini lombardi ricevono la stessa quota pro-capite di tutta l’Italia, e questo è un dato. Non voglio cadere in facili localismi, ho detto questa cosa perché è la genesi storica, ma come in tutte le cose, sono forse i dati materiali la cosa più importante. E dai dati materiali, consegue anche il fatto che, per esempio, oggi, e quindi forse arriviamo a tempi vicini a noi, la Regione Lombardia, negli ultimi 15 anni, ha preso delle strade precise nel rispetto del cittadino paziente.
Si è detto tante volte, qui, è la sede per dirlo, della persona. Come ci approcciamo alla persona? Devo dire come forse ci siamo sempre approcciati alla persona. Noi abbiamo incominciato all’inizio come Istituto Scientifico di Medicina del Lavoro: vicino ai lavoratori, c’erano le malattie professionali, malattie che stanno venendo fuori ancora adesso, che creano problemi in contesti sociali totalmente diversi, perché l’immigrazione non è la stessa cosa di una malattia professionale degli anni ’50. Però i problemi sono venuti fuori, e abbiamo cominciato da allora una strada che andava a vedere cosa servisse alla persona dopo il fatto acuto, che era curato solo negli ospedali. Che cosa succedeva dei pazienti? Come Istituto di ricovero e cura a carattere scientifico, dovevamo studiare dei modelli da passare poi al Sistema Sanitario Nazionale. Lo prevedeva già la vecchia Legge, la 617 del 1980.
Viaggiando su questa strada, siamo stati fortunati negli ultimi due decenni, perché abbiamo incrociato una scelta filantropica aziendale con una scelta regionale. Noi abbiamo sempre cercato di accompagnare il paziente, soprattutto quello professionale dopo la fase acuta, quando lo stesso Sistema Sanitario lo abbandonava. Non era previsto. Ha cominciato a parlarne la Riforma del ’78, parlando di prevenzione, cura e riabilitazione. Abbiamo cominciato a mettere ordine – e questo è un altro passaggio importante – con l’autorizzazione, l’accreditamento, i contratti, dando specificatamente i parametri che dovevano esserci negli ospedali. Non è buono tutto. Perché sennò tutti fanno sanità, in qualunque modo, con qualunque problema. Noi abbiamo studiato, nel corso di questi decenni, modelli che riguardavano ovviamente anche la parte acuta, perché siamo nati con un ospedale per acuti sulla parte dell’oncologia professionale, della nefrologia e di tutte le altre malattie professionali, quindi avevamo uno skill di acuti che abbiamo trasferito poi nella riabilitazione specialistica intensiva, che è quella che ci ha caratterizzato negli anni passati.
Che cosa abbiamo fatto anche negli ospedali che nel corso di questi 50 anni abbiamo costruito? Beh, è chiaro che non ci siamo mai staccati da quella che era la realtà pubblica, perché è col pubblico che noi dovevamo continuare, ce lo imponeva addirittura la Legge, in quanto gli istituti di ricovero e cura a carattere scientifico sennò non ci davano il riconoscimento. E quindi, su questo abbiamo continuato a dialogare e a costruire. Ci siamo consentiti, anche perché la riabilitazione era materia nuova – e consentitemi, sulla riabilitazione specialistica, era materia nostra – di andare a vedere che cosa facevano fuori, che cosa succedeva nelle altre nazioni. Devo dire che abbiamo trovato molto poco, molto ma molto poco. È per questo che l’Italia, non a caso, ha la posizione che ha, e la Lombardia ha la posizione che ha nella Sanità nazionale. Perché abbiamo visto, e tipicamente sono gli Stati Uniti, che spendono il 16%, quasi tre volte quello che si spende in Italia pro-capite, con una Sanità molto più scarsa e che sta continuando a costare sempre di più.
Noi abbiamo dato un servizio che negli altri Paesi non davano, se non a pagamento negli Stati Uniti e anche in Europa, davamo quindi una giusta continuità secondo criteri che poi sono diventati di accreditamento da parte della Regione Lombardia, specifici al post-acuto. Nel frattempo, la storia è andata avanti, sto cercando di arrivare velocemente ad oggi: la medicina è cambiata. Le esigenze sono cambiate, la domanda sociale è cambiata in maniera totale, è cambiata persino la composizione della popolazione. Noi non ci nascondiamo gli immigrati, perché dicono che negli Stati Uniti ci sono 40 milioni di persone fuori dal Sistema Sanitario Nazionale, più gli immigrati che loro non riconoscono, perché non li contano neanche, che vengono su dalla frontiera del Messico e portano malattie a loro incomprensibili. Poi, se hai i soldi, ti curi, se non hai i soldi, sono affari tuoi.
Questo non è il nostro sistema, non lo è mai stato. Il nostro è un sistema solidaristico come in tutti gli altri Paesi europei, e su questo siamo andati avanti. Come siamo andati avanti? Incominciando con degli assaggi, perché noi non abbiamo neanche la potenza finanziaria per studiare e fare dei modelli. E allora, abbiamo cominciato dalla riabilitazione, che era fatta già negli anni ’60, a studiare cose nuove, per esempio le malattie sistemiche. Il dottor Melazzini ci conosce bene, da questo punto di vista, perché abbiamo cominciato già negli anni ’80, a Veruno, a parlare di malattie sistemiche e di malattie tipo la Sla. Parliamo degli anni ’80, non del 2000. Abbiamo cominciato a parlare di certi tipi di malattie, a fare ricerca in questi campi, a studiare i modelli per vedere come si potevano curare questi malati.
È chiaro, piccoli reparti, piccole cose, perché più di tanto… Io faccio Frate Cercone, ma siamo nati con i soldi di benefattori che ogni tanto ce ne danno: quando eravamo piccoli, erano tanti, adesso che siamo grandi, sono molto pochi, rispetto alle nostre esigenze. Però insomma riusciamo a contabilizzare un po’ di soldi agli industriali qua e là, e sono quelli che ci hanno fatto crescere in questi anni, accompagnati soprattutto dalla Regione Lombardia, anche per motivi di dimensione: prima dallo Stato poi, negli anni, dalla Regione. E quindi abbiamo cominciato a studiare quali fossero i sistemi per collegarci sempre meglio agli ospedali pubblici, con le loro esigenze. E allora, riabilitazione specialistica, riabilitazione generale geriatrica, tutte quelle cose che per i lombardi sono molto conosciute ma che nelle altre Regioni non sono conosciute per niente.
Abbiamo cominciato a fare tutte quelle sperimentazioni sul territorio che riguardavano le cure domiciliari, a fare la domiciliare negli anni ’70, i primi esperimenti nelle vallate del Piemonte, perché il Piemonte è fatto a vallate, e la BPCO. Chi aveva l’ossigeno non poteva continuamente andare al Pronto Soccorso, sennò crepava prima, bastava che si rompesse: bisognava educare le famiglie. Abbiamo cominciato a fare questi primi assaggi, e a mettere in piedi questo discorso. Abbiamo cominciato anche a pensare che cosa fare al malato quando lasciava l’ospedale, la famosa integrazione ospedale-territorio, trovando degli ospedali, specialmente nelle Regioni del Nord, e sistemi sanitari, soprattutto della Lombardia, molto ricettivi, da questo punto di vista.
E qui arrivo al dunque. Perché fare questo, significa risparmiare dei quattrini. È questo il segreto. E questo è stato il segreto della Lombardia. Noi siamo cresciuti in Lombardia perché negli anni, litigando anche spesso, siamo andati a dimostrare che fare della buona Sanità vuole dire anche avere costi più bassi. Costi più bassi di quelli di prima, ma non costi più bassi di quelli che dice lui. Perché lui cosa fa? Ti abbassa sempre i costi, bravo, adesso hai 100, da domani 80. Ecco, non è così che facciamo. Non era questo il senso delle mie parole: il senso del discorso è che dobbiamo cercare quali siano i modelli. Allora, per arrivare al tema di oggi, abbiamo l’ultima applicazione specialistica geriatrica. Ma abbiamo fatto, adesso, nel nostro nuovo centro di Milano, una prima esperienza delle cosiddette cure intermedie, di cui non esiste, anche in letteratura, qualcosa di specifico. Siamo andati a cercarle, e devo dire che una delle cose me la sono anche portata, perché l’ho riletta ieri sera, è del 2008.
C’è una bellissima Delibera della Regione Lombardia dove spiega il perché delle cure intermedie, documentando il perché ce ne sia l’esigenza. E, giustamente, la Regione Lombardia a questo punto ha fatto un bando, dicendo: “Cerco qualcuno che mi monitorizzi queste cose”. Perché ? Perché io sono del ’47, non ho problemi a dirlo. Dal ’46 in poi, gli italiani hanno cominciato a fare più figli, quindi gli ottantenni del futuro saranno molti di più di quelli che vanno dal ’40 al ’45. Saranno quelli della mia generazione, che avranno il problema, a 80, 90 anni, di essere curati. E saranno tanti. Il problema non è di essere curati ma di essere in tanti, ad essere curati. Come lo affronteremo? Ecco, e allora lì è nato un modo nuovo, un modello nuovo, anzi, lo studio di un modello nuovo che dovrà essere visto passo passo, dal punto di vista dell’intensità che devi dare alla cura intermedia, al tipo di casistica, tenendo presente una cosa fondamentale, però, il mandato che la Regione ci aveva dato: gli ospedali per tutti, e che i Pronto Soccorso si liberino il prima possibile. La gente – e quindi il tempo è una variabile importantissima – deve cominciare a uscire dal letto il prima possibile.
E queste sono due cose fondamentali a cui dovete rispondere. Mi dovete dire cosa costa fare questa cosa. Naturalmente, costi quel che costi, basta che costi poco. Costa quel che costa, ecco. E su questo stiamo lavorando. Allora, che cosa succede? Noi abbiamo utilizzato tutti gli strumenti: stamattina c’è stato un bellissimo dibattito sull’ospedale-territorio, sulla telemedicina, sulle cure domiciliari, ecc. A quelli attingeremo come attingeremo ai nuovi ospedali, con i quali ci dobbiamo mettere in contatto, perché noi costruiamo modelli che poi devono andare al Sistema Sanitario Nazionale, alle strutture pubbliche.
Abbiamo persino imparato: vedo il dottor Cannatelli, quando lui ha cominciato col discorso Sla e c’erano problemi, ci siamo detti: lo studiamo anche noi, perché sarà una cosa importante. Grazie a lui, abbiamo cominciato a studiare anche alcuni modellini su malattie sistemiche che sono molto diffuse, purtroppo. Allora, tutte queste cose, noi le stiamo studiando come Istituto di ricovero e cura a carattere scientifico, con un approccio che consiste nel tenere presente una cosa fondamentale: gli ospedali, ma le strutture sanitarie, sono fatte per aiutare qualcuno che soffre a fare in modo che non soffra, o che comunque si allevi il suo disagio. Nessuno si deve sentire solo, la solitudine è una bruttissima cosa, soprattutto per i pazienti. Questa è una cosa da affrontare, non solo dal punto di vista spirituale ma anche in modo materiale e soprattutto clinico. Quando si parla di Sanità, questa deve essere un’esigenza fondamentale. E’ chiaro che la scienza è al servizio dell’uomo, non l’uomo al servizio della scienza. E la scienza ci deve aiutare in queste conoscenze, tutte le scienze, che non sono solamente quelle mediche ma anche quelle organizzative. Grazie.
CARLO LUCCHINA:
Bene, il dottor Colombo è il Direttore Generale dell’Istituto Auxologico Italiano: per chi non vive a Milano e non è lombardo, ricordo che è una struttura estremamente significativa del panorama sanitario lombardo, ha una storia importantissima dietro di sé, fa parte dell’area religiosa, sanitario-religiosa. Al dottor Colombo, però, faccio una domanda un po’ cattivella, visto che siamo nell’ambito del privato, sia pure accreditato, sia pure lombardo. Non è che eventuali modelli organizzativi di nuovi ospedali siano meno complicati che nel pubblico?
MARIO COLOMBO:
Inizio il mio intervento con una premessa, forse scontata, ma a mio avviso utile. Un po’ di semiotica del linguaggio e della comunicazione non è mai superflua, evita di fare esporre lunghe argomentazioni senza avere certezza del senso, del significato che diamo alle parole, a concetti chiave che stanno alla base di questa mia argomentazione. Parliamo dunque di organizzazione. Cosa è l’organizzazione, almeno quale è il significato che io do ad organizzazione: l’organizzazione è un insieme di uomini e donne, risorse umane, risorse materiali ed immateriali, conoscenze, competenze ed esperienze, volutamente messe in relazione e coordinate per raggiungere un obiettivo o più obiettivi predeterminati, obbiettivi ultimi ed obiettivi intermedi, per vincere delle battaglie e per vincere la guerra. Stiamo discutendo di Sanità, l’obiettivo può prendere il nome di sfida.
Modelli organizzativi sono le diverse modalità con cui vogliamo mettere in relazione i fattori della organizzazione per raggiungere degli obiettivi definiti. Possiamo cambiare i fattori della organizzazione come si cambiano gli ingredienti di una ricetta, ma il risultato che vogliamo raggiungere deve essere fermo, almeno per un determinato periodo di tempo, sapendo però che tutto cambia e tutto muta, e che quindi i modelli organizzativi devono avere una buona propensione alla flessibilità ed al cambiamento.
Ma quale è l’obiettivo di un ospedale, meglio di una organizzazione sanitaria in senso ampio, comprendente tutte le forme di offerta intra ed extra ospedaliera, in due parole: del Servizio Sanitario?. Per non essere contraddetti, e per essere chiari nella comunicazione, possiamo rifarci alla Carta Costituzionale, l’art. 32: la tutela della salute come diritto fondamentale dell’individuo ed interesse della collettività, garantita, nel rispetto della dignità e della libertà della persona umana, attraverso il Servizio Sanitario Nazionale, che ha carattere universalistico e solidaristico.
Possiamo anche dire, per tentare di esemplificare, che l’obiettivo di una organizzazione sanitaria in senso lato è quello di:
-salvare vite ed estenderne la durata;
-lenire il dolore fisico e la sofferenza;
-ridurre mortalità, morbosità e disabilità;
– prendersi cura dell’uomo, della qualità della sua vita, più precisamente per chi è cristiano della “sacralità della vita” che rimane sempre tale.
Per parlare di organizzazione, di modelli organizzativi finalizzati al raggiungimento di un obiettivo così importante ed ampio come quello della tutela della salute, occorre non sbagliare nella analisi dello scenario attuale in cui ci si deve muovere e nella previsione della situazione futura. C’è il rischio di commettere degli errori, che andrebbero oltre quello che è comunemente considerato ed accettato come rischio imprenditoriale: stiamo parlando della vita e della salute dell’uomo, e la tensione emotiva nella analisi degli scenari, della scelta degli obiettivi da raggiungere, della loro graduazione e priorità, e dei modelli organizzativi che sono il veicolo per raggiungerli deve essere ancora più intensa.
Quale è lo scenario che ci si presenterà in modo sempre più evidente nel prossimo futuro? C’è una buona concordanza nella previsione, quindi la tensione emotiva a cui accennavo prima si può, su questo punto, leggermente abbassare. Quello che ci aspetterà è sufficientemente definito.
Dovremo tenere quindi conto di vari fenomeni, tra cui:
– fenomeni demografici: invecchiamento popolazione, grandi anziani, ultracentenari
– fenomeni epidemiologici: diffusione di patologie croniche, soprattutto tra gli anziani
– fenomeni tecnologici e terapeutici: nuove modalità di diagnosi e cura faranno sì che ci troveremo davanti ad una crescita della popolazione affetta da cronicità, solo in parte autosufficiente, che andrà a chiedere nuovo impegno ai sistemi sanitari sia in termini quantitativi che qualitativi.
Con la diffusione della quota di cronicità, alla tradizionale componente sanitaria si affiancheranno con sempre maggiore prevalenza le componenti socio-sanitarie e socio-assistenziali, con necessità di trovare una integrazione tra questi vari momenti, con dei modelli organizzativi nuovi, che dovranno coinvolgere tutti i livelli assistenziali, non solo per dare la migliore risposta clinico-assistenziale, ma anche per intercettare il livello del bisogno, non sempre capace di tradursi in domanda esplicita quando si hanno come interlocutori anziani soli, sganciati da un solido nucleo familiare.
Può anche essere prevedibile che la diffusione di stili di vita salutari (le campagne per stili di vita corretti, una fra tutte la sfida della obesità da cui discendono una moltitudine di complicanze mediche di rilevante impatto clinico, sociale ed economico) porterà all’aumento del numero di anziani in buono stato di salute, che richiederanno sempre più servizi – non sempre di stretto carattere sanitario, almeno non di tipo acuto od intensivo – volti al mantenimento della loro condizione psico-fisica, servizi che oggi sono al limite di quanto è garantito dal Servizio Sanitario.
Maggiori aspettative ed informazione da parte dell’utente: da cui derivano pazienti più esigenti, più impazienti, più conflittuali, più informati. Il rapporto paziente medico è cambiato, anche senza arrivare ad esempi emblematici e paradossali: un grande anziano mi raccontava che, quando si andava dal medico, ci si faceva il bagno e si indossava il vestito della domenica. Il paziente, spesso e volentieri, mette in discussione il responso del medico, sintomo che anche lo status, lo standing del medico all’interno della società è cambiato.
Fattori di compatibilità economica: in un sistema dove i soggetti da tutelare aumentano, i bisogni sanitari si sviluppano verso esigenze nuove, i costi tecnologici aumentano, i costi farmaceutici esplodono, il fattore economico non deve essere sottovalutato, soprattutto in periodi in cui la ricchezza generata dall’economia è ridotta ed i margini di manovra che i vari Governi hanno di spostare l’allocazione di risorse verso la salute è molto limitata.
Questo è lo scenario all’interno del quale muovere i fattori dell’organizzazione per intraprendere le scelte che possano portare all’obiettivo ultimo del prendersi cura in modo migliore possibile del bene primario della vita.
E’ evidente, date le premesse, che la nuova domanda di salute richiede un differente equilibrio fra ospedale e territorio, differente rispetto al passato, perché:
-il quadro demografico, epidemiologico era differente
-le conoscenze mediche, anche come risultante dello sviluppo tecnologico e della ricerca bio-medica, sono aumentate
-ma anche perché i riferimenti socioeconomici e culturali sono cambiati.
Una delle leve organizzative poggia sicuramente sulla definizione dell’ospedale come struttura per acuti, percorso sicuramente già avviato, con risultati non definitivi e molto diversificati da Regione a Regione.
Ma l’ospedale, anche se riclassificato, ridefinito, riorganizzato per acuti, non potrà mai operare in modo efficace, forse non potrà mai esistere, se non si attuerà una altrettanto importante leva organizzativa mirante a ricomporre la dualità ospedale/territorio, oppure, per dirla in una ottica propositiva, la ricomposizione dell’articolazione dei servizi sanitari in una ottica di rete ospedale e territorio.
Ci sono leve organizzative interne all’Ospedale, ma altrettanto importanti e forse più importanti perché sono state nel tempo meno indagate ed approfondite, ci sono leve organizzative da azionare all’esterno dell’ospedale per ottenere una costituzione in rete efficiente dell’offerta sanitaria considerata nel suo complesso.
Non sottovalutiamo la dualità ospedale e territorio, il problema esiste ed è tutt’altro che superato, tanto è vero che in tutti i Piani sociosanitari regionali esiste almeno un capitolo che riguarda l’integrazione ospedale e territorio, non vi è convegno che parli di organizzazione dei servizi sanitari, dove l’integrazione ospedale e territorio non occupi un posto nel programma degli interventi. Vogliamo integrare, è necessario integrare sempre di più, ciò che in passato era stato separato.
Qualche anno fa ebbi la fortuna di assistere ad un intervento di un anziano professore che, anche obbligato dalla necessaria sintesi che impone la presentazione tramite le diapositive, diceva che l’ospedale è nato, nasce come separato dal territorio, nasce come luogo di confinamento dal territorio: i lazzaretti, le epidemie, la carità evangelica che portava a curare gli appestati. L’ospedale si configura poi anche come luogo separato nell’interesse del malato: ospedale come luogo pulito, riscaldato, protetto, con assistenza continua che non è possibile trovare altrove, oppure come luogo necessario per avere un intervento.
L’ospedale, in tempi recenti, si impone come luogo di concentrazione delle conoscenze mediche, della tecnologia, come luogo dove trarre i migliori risultati da questa integrazione. Indubbiamente la nozione di ospedale come luogo della concentrazione della tecnologie, delle conoscenze, della eccellenza medica e tecnologica è oggi predominante.
Certamente l’aumento della tecnologia, della sua complessità va nella direzione di rafforzare una nozione dell’ospedale separato dal territorio: è difficile pensare di avere unità chirurgiche di altissima specializzazione, i trapianti, diffuse sul territorio, oppure la compresenza di una casistica statisticamente e clinicamente rilevante per determinate patologie rare e complesse se non all’interno di un grande ospedale.
Ma l’eccellenza è necessariamente e sempre collegata alla ospedalizzazione? Perché è ancora raro sentire parlare di eccellenza di processo, dove tutti gli attori devono essere qualificati come eccellenti: e tra gli attori sanitari non vi sono solamente quelli ospedalieri. Ospedale di eccellenza, unità operativa di eccellenza, chirurgo eccelso, tecnologia di eccellenza presente in un determinato ospedale. L’esasperazione di questi concetti e’ evidente che non porti alla integrazione con il territorio, probabilmente nemmeno ad una integrazione tra una presunta rete di ospedali di eccellenza. Ma non è questo il filone del discorso che mi promettevo di seguire.
Occorre lavorare non solo sulla appropriatezza dei ricoveri (è un problema clinico, economico, etico), ma anche sulla appropriatezza dei servizi territoriali per contrastare una opinione comunemente diffusa di una maggiore affidabilità dell’ospedale. Questa inversione di tendenza si potrà realizzare nella misura in cui si trasferiranno concretamente sul territorio quei servizi sanitari, che per tradizione vengono svolti nell’ospedale, con lo stesso grado di affidabilità in termini di sicurezza e livello di specializzazione.
Tale riequilibrio dovrebbe sostanziarsi in una ulteriore transizione dell’ospedale come luogo per il trattamento delle fasi acute (intensività delle cure e del trattamento riabilitativo) e nel trasferimento a strutture di cure intermedie, più leggere e diffuse nel territorio delle prestazioni meno complesse e dei servizi più legati ai bisogni di assistenza (disabilità da mantenere e/o non peggiorare, cronicità) con un ruolo centrale degli operatori che stanno sul territorio.
Ma per parlare di riequilibrio tra ospedale e territorio occorre prima realizzare una vera integrazione tra le parti, che nei decenni passati hanno beneficiato di attenzioni differenti da parte delle scelte di politica sanitaria. L’integrazione si realizza concretamente nel momento in cui le varie figure che fanno parte di una rete comunicano in modo ottimale rispetto all’intero percorso di cura di un paziente, dall’accesso alla dimissione dalle strutture sanitarie, al fine di erogare un servizio socio-sanitario adeguato, in modo efficace ed efficiente, senza generare duplicazioni, ridondanze. In caso contrario, non si parlerebbe di vera integrazione, ma si tratterebbe solo di alleggerire i servizi erogati dagli ospedali delocalizzandoli al livello territoriale, con il rischio concreto di una duplicazione dei costi sul territorio o, quanto meno, di un impegno non ottimale delle risorse disponibili.
La riduzione dei ricoveri si ottiene solo lavorando sulla appropriatezza, ma anche potenziando le attività preventive, riorganizzando la medicina del territorio, reinterpretando il ruolo degli attori extra-ospedalieri non solo come soggetti che devono regolamentare l’accesso al ricovero ospedaliero. Si è andata diffondendo, anche tra gli operatori, e tra questi metto pure gli Amministratori, che durante l’episodio di ricovero è possibile prevenire successivi riammissioni tramite una corretta gestione del paziente ed una adeguata programmazione (meglio disciplina) delle dimissioni, momento non di abbandono del paziente ma di start up di un percorso assistenziale appropriato.
Ridurre i ricoveri, diminuire la degenza vuole anche dire diminuire i rischi connessi alla ospedalizzazione, impegnare la struttura a mobilizzare il paziente in tempi rapidi, adottare tecniche diagnostiche rapide; preferire tecniche operatorie mini-invasive, attivare percorsi riabilitativi immediati rispetto all’evento acuto o indice. L’appropriatezza dei ricoveri si realizza anche attraverso una riorganizzazione dell’assistenza extra-ospedaliera, finalizzata a costituire unità di cure primarie operanti in modo continuo e qualificato, potenziamento dell’assistenza domiciliare e delle strutture intermedie.
Da qui, anche una ricaduta operativa. Da una parte, una integrazione settoriale: vissuta all’interno dell’ospedale o del territorio come tentativo di ribaltare all’esterno problemi che non si riescono a gestire in modo adeguato e che non si vogliono controllare. L’integrazione diventa la giustificazione di un “non sono in grado di”, “non ho le risorse per”, preferisco dedicarmi a cose differenti. Oppure, sull’altro versante del modello di integrazione in chiave di processo, una integrazione globale: un percorso assistenziale programmato e gestito globalmente.
In linea generale, si può pensare a due modelli di integrazione, uno figlio di un concetto di malattia separata nelle sue fasi, ed uno che si radica in una visione di processo, dove vari momenti si succedono, si integrano all’interno di un unico percorso assistenziale, perché unico e definito l’obiettivo, la persona, la sua salute, la sua vita.
Come dicevo all’inizio, la scelta strategica per l’integrazione è presente in tutti i piani sanitari. E’ così uniforme questa scelta strategica, che c’è pure il rischio di considerarla al pari di una dichiarazione obbligata alla quale si dà per scontato che non segua una scelta di cambiamento ed innovazione, ma lo scenario che abbiamo di fronte ci obbliga a considerare in termini organizzativi e pragmatici il problema.
CARLO LUCCHINA:
Allora, chiedo dieci minuti perché, se i miei colleghi mi danno due minuti a testa di risposta, volevo fare una domanda ai pubblici e una ai privati. Quindi, a Dotti e ad Amigoni, la domanda è questa. Nella programmazione territoriale dell’edilizia sanitaria ospedaliera, uno dei primi concetti che portò alla predisposizione dei piani di edilizia sanitaria fu quello che costruire un nuovo ospedale voleva dire risparmiare sui costi di gestione, per una possibilità di sinergie estremamente significative sia dal punto di vista delle risorse umane che dal punto di vista dei beni di consumo. La realtà dimostra che non è così, anche perché nel frattempo, fra il momento iniziale della programmazione e il momento dell’attivazione dell’ospedale, nonostante uno faccia in fretta, fra finanziamenti e cose di questo tipo, passano in genere 6, 7 anni. Allora, a voi due chiedo: nel momento in cui si ritiene di dover sopportare questi maggiori costi, che tipo di valutazione si fa all’interno dell’azienda? Si cerca di capire se questi maggiori costi rispondono effettivamente ad un’esigenza fondamentale di servizio, o possono rappresentare il punto di mediazione per riuscire a risolvere qualche tensione nei modelli organizzativi? Tenendo conto che le risorse disponibili, come sappiamo tutti, sono poche.
Ai due privati faccio una domanda ancora diversa. Oggi ho ascoltato due persone che conosco bene, che sono autorevoli rappresentanti di due strutture private che nel panorama regionale lombardo sono estremamente importanti, ma sono private. Nel momento in cui loro decidono i loro investimenti, non possono fare conto su risorse a fondo perduto, così come fanno i pubblici. Questo può rappresentare per loro un vincolo, in considerazione del fatto che devono acquisire finanziamenti, crediti, evidentemente pagando tassi di interesse e restituendo capitale, o la loro organizzazione da questo punto di vista riesce comunque a garantire l’appropriatezza e la qualità delle prestazioni?
Ecco, queste sono le due domande, partirei da Carla Dotti, da Amigoni, poi da Colombo e infine da Passerino.
CARLA DOTTI:
Proprio per essere sincerissima, non sono così certa, dottor Lucchina, che aprire un nuovo ospedale sia alla fine più costoso, non ne sono certa. Nel momento in cui ci stiamo parlando, sì.
CARLO LUCCHINA:
Ti prendo in parola, in presenza di circa 250 testimoni ai quali riferirò, anche personalmente, eventuali richieste di integrazione di budget.
CARLA DOTTI:
Io ho detto “alla fine”. E in ogni caso, sono assolutamente convinta che si debba parlare di soldi, che non è assolutamente vero che le risorse diminuiscono perché ogni anno, qualsiasi Finanziaria, anche le nostre, mette sempre più soldi. Il fatto è che ogni anno sembra che aumenti il gap fra quello che noi chiediamo – me compresa, che chiedo a te, quando apri i cassetti e dici: “Come li vuoi, da 50 o da 100?” – e quello che invece c’è di disponibile. Però le risorse che si mettono a disposizione, per tutti i Governi degli Stati evoluti, sono sempre di più. Quindi, si tratta di trovare il ritmo giusto.
D’altra parte, sembra chiarissimo a tutti che adeguare tutti gli ospedali è impossibile senza interrompere la corsa. Ammesso che sia fruttifero adeguare un ospedale come quello che io lascio, che non è poi così tremendo, ma l’adeguamento presupporrebbe di fermarlo, fermarlo completamente. Io vedo che già l’ipotesi di fermare il nostro ospedale, per quello che mi serve per trasportare il Pronto Soccorso, crea problemi, e parliamo di pochi giorni.
Adeguare gli ospedali che lasciamo diventerebbe, secondo me, un costo insopportabile.
In più, quello che noi facciamo di nuovo è un investimento per riuscire a tenere il passo con tutto quello che ci viene offerto di nuovo, di tecnologico, di tecnico, sennò saremmo tagliati fuori. Quindi, da qualche parte andrebbero, questi soldi: poi, certo, la politica regionale deve decidere se li vuole spendere, e in che parte, ma vanno spesi. E ripeto, a costo di sfidare 250 persone, io non sono così sicura che alla fine non ci saranno dei risparmi.
CARLO LUCCHINA:
Amigoni.
MAURIZIO AMIGONI:
Io comincio con una certezza: l’ospedale nuovo costa di più, almeno il 20% in più del vecchio. Però devo dire che – con quello che è stato detto prima, non potevo fare diversamente -, al di là del 20%, poi lo vedremo, soprattutto nel 2011, quanto sarà il costo maggiore, però un costo maggiore c’è sicuramente. Cominciamo col dire che, per Vimercate, l’ospedale che è stato progettato ha una superficie doppia rispetto a quella attuale, lo stesso numero di posti letto, 500, ma una superficie doppia. Cosa vuole dire?
Innanzitutto, che il servizio che diamo alle persone che usano l’ospedale comunque è migliore, sia dal punto di vista della logistica dei posti letto, tutte camere da uno o due letti, con servizi interni, praticamente è un albergo a cinque stelle, e bisogna dirlo, ma anche dal punto di vista dei servizi diagnostici.
Ci sono dei servizi diagnostici nel nuovo ospedale che non ci sono nel vecchio. Il Pronto Soccorso che tu hai visto ha una superficie doppia, ma d’altronde il numero di accessi all’ospedale di Vimercate adesso è arrivato a 70.000 all’anno, mentre qualche anno fa non superava i 50.000. Quindi, bisogna prendere atto del fatto che c’è un maggior accesso all’ospedale, il numero dei ricoveri si mantiene costante ma le prestazioni di diagnostica e ambulatoriali crescono costantemente.
CARLO LUCCHINA:
E quindi questo significa, per chi ha partecipato alla chiacchierata di questa mattina, che se non invertiamo il percorso della persona, ogni persona finisce per arrivare in ospedale comunque, non necessariamente per ricoverarsi.
MAURIZIO AMIGONI:
Si, sicuramente. Però, la prima cosa che a me è molto chiara: il nuovo ospedale non è il vecchio rinnovato, è una cosa molto diversa, e dobbiamo renderci conto che offrire ai pazienti, a chi usa l’ospedale, un nuovo ospedale, corrisponde a un’offerta qualitativamente incommensurabile rispetto a quella di prima. Una seconda considerazione dei maggiori costi, però, la introduco come elemento critico, che deve far riflettere. Noi siamo abituati a gestire direttamente i fornitori: se tu hai un bravo provveditore, coi fornitori riesci a spuntare delle economie notevoli. Il project financing prevede che chi costruisce l’ospedale, e lo ha fatto in tempi da record, tre anni anziché la media precedente di dieci anni in Italia, poi gestisca tutti i servizi non strettamente sanitari per un certo numero di anni. Nel caso di Vimercate, per 21 anni. Questo fatto, di avere un unico gestore per tutti i servizi non sanitari, aumenta i costi perché il gestore, comunque, su quei servizi fa una ricarica che, se va bene, è del 5%, perché è quella dichiarata nel contratto. Se poi tu non riesci a spuntarla, ed è una guerra tutti i giorni col gestore unico, la ricarica che ci fa è anche maggiore.
CARLO LUCCHINA:
Grazie. Colombo.
MARIO COLOMBO:
La domanda è posta ad un ente privato non profit, e questo a mio avviso è la chiave di lettura sia della domanda che della risposta. E rispondo con una perifrasi: quando incontriamo, con i colleghi della Direzione, i neoassunti ogni anno, cerchiamo di fargli capire dove sono capitati, cosa sia l’ente non profit. Una delle paroline che qui confesso di dire ai colleghi nuovi che entrano è: “Signori, voi non siete all’interno di un ospedale pubblico, quindi tutto ciò che noi realizziamo non è finanziato a livello infrastrutturale, a fondo perduto, dalla Regione o dal Ministero della Salute. È frutto della nostra capacità di fare bene il nostro lavoro e di trovare anche un’economia, nel nostro lavoro, tale da poter fare degli investimenti nuovi”.
Ecco, vedo che è qualcosa che motiva molto tutti, anche il sottoscritto, però c’è da fare anche una riflessione oggettiva: qualcuno ha detto prima di me che gli enti non profit vivono anche con il sostegno dei donatori, delle Fondazioni che finanziano la ricerca. Ho qui davanti il dottor Melazzini, di recente siamo stati beneficiati di due grosse donazioni sulla ricerca della sclerosi laterale miotrofica. Ecco, in un sistema come l’attuale, dove la crisi è un pochino palpabile, i donatori sono di meno, i fondi sulla ricerca che sono istituiti dal Ministero della Salute sono sempre di meno, e quindi anche realtà come le nostre, dove non c’è il padrone che alla fine dell’anno vuole il 15% del margine operativo – non so, per comprarsi la barca a Montecarlo o a Portofino -, i margini di manovra sono sempre inferiori. Però, siamo in un luogo positivo, la motivazione di chi lavora e sa che deve reggersi sulle proprie capacità è un elemento forte.
CARLO LUCCHINA:
Grazie. Passerino.
COSTANTINO PASSERINO:
Mi associo a quello che ha detto lui, però volevo dire che ad un cambio di quantità c’è anche un cambio di qualità. Il problema che ci riguarda è che noi, fra lavoratori diretti e indiretti, abbiamo circa 10.000 persone di cui la metà in Lombardia. Noi applichiamo oltretutto il contratto pubblico e abbiamo la stessa copertura del pubblico, quindi abbiamo fatto nel tempo una politica che era basata all’inizio esclusivamente sulle donazioni, ma poi i nostri investimenti devono passare prima di tutto attraverso una copertura. Se aspettassimo la copertura di tutti gli investimenti, ci bloccheremmo. Allora, cosa succede?
Voglio essere molto veloce, noi dobbiamo avere una copertura, su un investimento che ammortizziamo in 30 anni, almeno dei primi 5 anni. Dopo di che facciamo conto sulla nostra capacità di fare Fund Rising per andare a cercare i soldi, tenendo presente che, nel tempo, siamo stati in questo fortunati. Prima dicevo che mi associavo a quello che ha detto Colombo, perché anche noi riceviamo dal Ministero e dalle Fondazioni, ma ogni tanto qualche colpetto grosso arriva.
Adesso, un noto professore che è morto ci ha lasciato un immobile nel centro di Cremona il cui valore non è indifferente. È chiaro che questi soldi, essendo noi un’organizzazione non profit, dovranno essere investiti in attività, in ambulatori. La Fondazione è nata negli anni ’70 perché una signora che era stata curata dal vecchio professor Maugeri ci aveva lasciato, vicino al Lago Maggiore, una vallata intera, prima come donazione e poi come legato, dove lavorava il dottor Melazzini, tra l’altro. E quindi lì siamo cresciuti. Invece devo dire un’altra cosa, abbiamo una grossa fortuna, parlando sempre di cose pratiche. Abbiamo costruito, per esempio, il nostro nuovo Centro di Pavia, che ormai non è più nuovo perché ha 13 anni: 40.000 mq di cui 12.000 sono dedicati alla ricerca di base e altri 10.000 ai laboratori di valutazione che servono alla clinica.
Questo istituto è stato costruito dal dicembre del 1994 e ha iniziato a lavorare a metà del 1997, con dentro i malati. Quindi, il tempo è un gioco importante. So che questo fa invidia: avevamo invitato parecchi esponenti pubblici, noi abbiamo procedure di gare molto più agevoli, molto più snelle e molto più veloci, e la volontà politica la fa il Consiglio di Amministrazione, la cui maggioranza sono quelli che hanno messo i quattrini, perché sono sempre i produttori, i sostenitori, i rappresentanti di chi fa le donazioni. È chiaro che da questo punto di vista siamo fortemente agevolati.
Nel tempo, abbiamo accumulato un patrimonio che oggi è di circa 500 milioni di euro, in 50 anni, ed è chiaro che fa la garanzia: abbiamo anche parecchi debiti, ma questo fa da garanzia sugli altri 15 anni che non ho coperto. Male che vada, i dipendenti sanno che il TFR lo prendono. Certo, io ho un debito verso i dipendenti, perché non ho lo Stato che garantisce, io devo pagarlo. Non voglio adesso fare qui una lezione di economia, ma in una logica di equilibrio fra attivo e passivo patrimoniale, cerchiamo di mantenere nel breve un attivo e un passivo patrimoniale equilibrato. Da qui a cinque anni, non ve lo so dire. Basterebbe che, non so, lo Stato o le Regioni cominciassero a fare bancarotta e noi avremmo lo stesso problema. Però deve essere una calamità finanziaria piuttosto grossa.
CARLO LUCCHINA:
Bene. Grazie a tutti e buon proseguimento.
(Trascrizione non rivista dai relatori)