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METTERSI ALL’OPERA: QUANDO IL LAVORO NON DIVENTA PERFORMANCE
Organizzato da Compagnia delle Opere
Riccardo Capecchi, presidente Fondazione Lottomatica; Giacomo Perletti, fondatore Contrada Bricconi; Paolo Prosperi, sacerdote della Fraternità San Carlo Borromeo. Modera Francesco Cassese, consulente manageriale, Miror Consulting
Nella società odierna, la vita lavorativa viene spesso concepita come una performance continua, portando gli individui a un auto-consumo che sfocia inevitabilmente nel burnout. Questo fenomeno invita a una riflessione profonda su come possiamo interpretare positivamente l’equilibrio tra vita lavorativa e personale, soprattutto alla luce dei cambiamenti indotti dal post-COVID.
METTERSI ALL’OPERA: QUANDO IL LAVORO NON DIVENTA PERFORMANCE
METTERSI ALL’OPERA: QUANDO IL LAVORO NON DIVENTA PERFORMANCE
Organizzato da Compagnia delle Opere
Mercoledì 21 agosto 2024
Ore 14:00
Arena Cdo C1
Partecipano:
Riccardo Capecchi, presidente Fondazione Lottomatica; Giacomo Perletti, fondatore Contrada Bricconi; Paolo Prosperi, sacerdote della Fraternità San Carlo Borromeo.
Modera:
Francesco Cassese, consulente manageriale, Miror Consulting
Cassese. Buon pomeriggio a tutti, benvenuti all’incontro qui nell’arena della CDO. Il titolo dell’incontro è “Mettersi all’opera: quando il lavoro non diventa performance”, un titolo intrigante. Parto innanzitutto dalla sinossi: nella società odierna, la vita lavorativa viene spesso concepita come una performance continua, portando gli individui a un autoconsumo che sfocia inevitabilmente nel burnout. Questo fenomeno invita a una riflessione profonda su come possiamo interpretare positivamente l’equilibrio tra vita lavorativa e personale, soprattutto alla luce dei cambiamenti indotti dal post-Covid.
Allora, abbiamo quattro relatori. Essendo il Meeting dei Popoli, abbiamo fatto un incontro perché originariamente erano tre relatori, ma a pranzo abbiamo scoperto, insomma, la presenza di Umberto che abbiamo coinvolto all’ultimo momento perché ci sembrava potesse raccontare anche lui una storia interessante a riguardo. Parto dalle persone più vicine a me. Sulla mia sinistra c’è Riccardo Capecchi, che è presidente di Fondazione Lottomatica. La Fondazione Lottomatica è un’organizzazione autonoma, indipendente e senza scopo di lucro, espressione dell’impegno sociale del gruppo Lottomatica, di cui rispecchia i principi fondamentali di attenzione alla responsabilità e alla legalità, alle persone, alla comunità e al territorio. Poi abbiamo l’ultimo arrivato, Umberto Callegari, che ci racconterà di come la sua vita professionale ha avuto una svolta improvvisa. Lui adesso è amministratore delegato della sua società, che si chiama Terre d’Oltrepò. Oltre Umberto, abbiamo Giacomo Perletti, che è fondatore di Contrada Bricconi, un’azienda agricola che fa rivivere la montagna. La Contrada Bricconi è un agriturismo che si trova in Valseriana. E infine, abbiamo Don Paolo Prosperi, che è milanese, sacerdote della Fraternità Sacerdotale San Carlo Borromeo. Ha vissuto alcuni anni a Mosca, altri anni a Washington, oggi vive a Roma e insegna teologia sia presso il seminario della Fraternità San Carlo, sia in diverse facoltà pontificie in qualità di visiting professor. Ed è un amico.
Perché questa compagine? Perché un reverendo in un tema di questo tipo? Perché Don Paolo, soprattutto nell’ultimo anno e mezzo, ci ha accompagnato, molti giovani, esattamente sul tema della performance sul lavoro. E quindi chiederò cosa fanno, una sorta di testimonianza imprenditoriale e manageriale ai primi tre, e poi porrò una domanda a Don Paolo. Questo pomeriggio partiamo dalla fondazione, una fondazione che lavora sia in verticale che in orizzontale, capace di fare rete, capace di creare una filiera per aumentare la propria efficacia. Si tratta di un modello stabile, un modello che permette una programmazione economica, una programmazione di risorse legata all’attività imprenditoriale di Umberto e poi quella di Giacomo e poi Paolo. La domanda che pongo a Riccardo è la seguente: come è nata la Fondazione Lottomatica? Quali sono i capisaldi, i principi del vostro agire? In cosa consistono i vostri modelli di presenza all’interno della società? E se ci racconta un esempio di cosa fanno.
Capecchi. Grazie, buongiorno a tutti. Vi vedo belli presenti a un evento che parte da un assunto che è particolarmente interessante, soprattutto in un luogo come il Meeting: il lavoro e la performance. Mentre eravamo a pranzo, abbiamo parlato anche della parabola dei talenti, cioè della capacità di mettere a valore le capacità che ci sono date nella vita e saper restituire valore e valori grazie al nostro talento. Ecco, questo è in qualche modo anche l’elemento di riferimento che ha portato alla costruzione e costituzione della Fondazione Lottomatica. Qualche tempo fa, con l’amministratore delegato del gruppo, ci siamo messi un po’ a riflettere su come sarebbe stato bello provare a costruire dei progetti che, utilizzando risorse economiche, potessero offrire, nel modo più ampio possibile, a tanti soggetti diversi la possibilità di operare in una logica di costruzione e di restituzione, perché il valore è implicito e insito in ciascuno di noi, però il valore, per crescere e appunto per diventare elemento che è un po’ il sale della terra, il sale della costruzione della vita delle persone, ha bisogno di uno sforzo organizzativo.
Questo assunto, che è in qualche modo molto ampio e filosofico, porta poi a delle implicazioni significativamente concrete, ovvero quella di identificare, insieme a persone esperte – con noi nella fondazione c’è un advisory board formato da persone con esperienze le più diverse: ci sono professori universitari, manager, campioni dello sport, persone che hanno svolto la loro professione come magistrati – tutte persone che ci aiutano a riflettere sulle cose da fare. E questa riflessione ci ha portato alla fine a scegliere alcune iniziative che noi, nel primo anno e mezzo di attività, abbiamo provato a mettere in campo, sempre comunque nella logica di dire: facciamo delle cose insieme a qualcun altro. Perché è facile mettere a disposizione di qualcuno una propria organizzazione e realizzare delle cose in modo molto autonomo. La sfida è farla insieme ad altri, perché se si fa insieme ad altri si mette in condizione un partner, un amico, un’impresa di diventare soggetti che promuovono nuove iniziative.
La domanda che mi veniva fatta è: quali sono le cose che si possono mettere in campo? Io vorrei partire da un progetto che a me sta particolarmente a cuore, su cui stiamo lavorando già da diverso tempo e che qui al Meeting in qualche modo trova terreno fertile, che è quello del percorso di recupero di persone che sono state nella loro vita in contrasto con la legge. Ecco, questo mondo è un mondo importante, vasto e che talvolta viene percepito da noi persone normali – fatemi usare questo termine in modo ovviamente improprio – come un mondo distante, chiuso, al di là di un grande portone. In Italia, secondo i dati di una ricerca del CNEL dei primi di marzo, ci sono circa sessantaduemila detenuti, più o meno un terzo dei quali stranieri, e di tutte queste persone sei su dieci sono recidivi. Il carcere per la grande maggioranza di queste persone è una scuola di formazione alla delinquenza. Questo è un flusso che però può essere spezzato. L’esperienza che anche qui al Meeting spesso si incontra, come quella di Giotto ad esempio, ma molte altre, dimostra che nel sistema carcerario si può e si deve lavorare.
Di questi 62.000 detenuti, circa il 33% lavora, cioè circa 20.000 su 62.000. Tuttavia, la grande maggioranza di questi lavora per incarichi che gli dà l’amministrazione penitenziaria, i cosiddetti lavoretti che vengono fatti all’interno delle case circondariali. Solo l’1% lavora in favore di imprese e il 4% in favore di cooperative sociali. Vi do un ultimo numero, poi entriamo nel merito del nostro ragionamento: se tutte queste persone lavorassero, la recidiva dal 60% andrebbe a numeri molto più bassi; le stime variano dal 2 al 4%. Inoltre, il mancato lavoro delle persone detenute ha un impatto negativo sul PIL di circa mezzo miliardo di euro, secondo i dati del CNEL. Tutto questo per dire che si può provare, e quello che stiamo facendo insieme a delle reti di impresa in particolare, a creare dei progetti per cui persone che vivono l’esperienza detentiva e in particolare sono vicini alla fine della pena detentiva – ci sono una grande parte di queste persone che sono condannate a titolo definitivo e hanno un residuo di pena dai quattro ai cinque anni – possano beneficiare di percorsi formativi e di assunzione all’interno del sistema delle imprese. Di fatto, è un grandissimo vantaggio per i singoli e per la collettività, visto che un detenuto che recidiva e rimane a lungo dentro costa mediamente quanto un ospite di un albergo a quattro o cinque stelle, considerando che per ogni detenuto c’è una guardia penitenziaria che deve gestirlo.
Questo per dire che il lavoro è un elemento che può determinare il cambiamento, può aiutare le imprese a crescere, può dare quel livello di restituzione grazie al quale la costruzione di un mondo diverso è quindi possibile. E su questo stiamo lavorando con la rete d’imprese che fa capo in particolare in questa fase al consorzio Elis, e spero che potremo farlo anche con Compagnia delle Opere, ragionando per costruire delle filiere di formazione insieme al Dipartimento Affari Penitenziari che provochino la definizione di una serie di profili professionali utilizzabili all’interno delle aziende, con le aziende che si fanno carico di garantire un percorso assunzionale e grazie a questo creare un volano che si perpetua e che garantisce alle imprese di avere personale di qualità che peraltro, grazie anche alla legge, è defiscalizzato.
Quindi, facendo le cose per bene e facendo del bene, si fa del bene ai singoli ma anche alle organizzazioni. Questo credo sia un esempio importante con il quale ci si può confrontare. Poi abbiamo altri progetti, se vuole ne parliamo ancora, che riguardano il lavoro per i disabili, la formazione finanziaria perché se a un disabile diamo formazione finanziaria e alla famiglia possiamo creare un percorso per il “dopo di noi” che non deve rimanere una parola vana, perché per fortuna la sanità ha fatto molto, ma poi dobbiamo garantire condizioni di vita salubri. Inoltre, abbiamo lanciato dei progetti importanti anche qui a rete con le forze di sicurezza per garantire alle giovani donne, in particolare alle donne vittime di violenza domestica, la possibilità di accedere a degli strumenti di difesa preventiva, attraverso questi device che vengono forniti dalla Procura della Repubblica nella logica di consentire elementi di difesa preventiva rispetto a nuovi attentati.
Questi esempi servono a dire che anche con risorse non illimitate si possono fare delle cose, se ci mettiamo in testa che dobbiamo guardare al risultato, ma un risultato che deve essere di natura collettiva e appunto a rete.
Cassese. Mi sembra un bellissimo esempio, e diciamo anche per ridare il contesto rispetto al titolo dell’incontro, un esempio di modello di presenza come abbiamo visto: orizzontale, capace di fare rete; verticale, capace di costruire delle filiere, che è in grado di lavorare sul lungo termine, che significa che non abbiamo, diciamo, dei risultati immediati, ma abbiamo la possibilità di costruire nel tempo. Ed è un modello di restituzione, capace di impiegare le risorse che sono presenti sul mercato e utilizzarle per quello che sono. Che è un po’ difficile. Adesso passerei la parola a Umberto. Umberto, a cui chiedo di, diciamo, arrivare velocemente al punto, lo snodo che a un certo punto è stato uno snodo centrale da un punto di vista professionale, cioè: cosa ti ha mosso?
Umberto. Avermi voluto qui è stata una cosa inaspettata, quindi cerco di essere il più schematico possibile, chiaro possibile, e di rispondere magari anche alla domanda che avete in testa: “Ma questo chi è? Cosa ci sta qua a fare?” Credo che la domanda più importante sia: cos’è l’Oltrepò? L’Oltrepò, veramente velocissimamente, è la punta meridionale della Lombardia ed è un territorio vinicolo dove storicamente in Italia è nato il Metodo Classico, il Vermouth, eccetera, eccetera. Era vecchio Piemonte, patria del Metodo Classico, e fino alla fine degli anni Ottanta è stato uno dei territori più ricchi d’Italia per la veicolazione del vino in un mercato che era essenzialmente quello nazionale, perché l’Oltrepò è a un’ora da tutto: un’ora da Parma, un’ora da Torino, un’ora da Milano. Primo punto: cos’è Terra d’Oltrepò? Terra d’Oltrepò è il più grande gruppo di produzione vinicola dell’Oltrepò, che ha un impatto diretto sulla vita di 600 soci, quindi se fai 4 o 24, circa 3.000 persone, e un impatto indiretto su un territorio, essendo l’azienda più grande, di circa 150.000 persone. Fino alla fine degli anni ’80, come abbiamo detto, il territorio era incredibilmente ricco, oggi è uno dei più poveri d’Italia per quanto riguarda la valorizzazione per ettaro di vite: è un sesto della media. Se noi pensiamo alla Franciacorta, che è l’altro benchmark lombardo, la Franciacorta, che produce spumanti su 2.200 ettari, vale circa 115.000 euro all’ettaro; l’Oltrepò vale 13.000, solo la nostra azienda ne processa 5.000, il valore è 20.000. Capite che le condizioni di vita delle persone che vivono lì, rispetto a quelle che vivono in Franciacorta, sono molto diverse, quindi c’era un problema. Io chi sono? Io sono meno importante. Io sono nato in Oltrepò e ho 42 anni. Fino a un anno fa ho fatto il manager in giro per il mondo in alcune delle aziende più importanti del mondo, da Accenture a Deloitte. Fino alla fine sono arrivato in Microsoft, ero uno dei responsabili dell’advisory strategica del mondo di Microsoft. E quindi lavoravo in una bellissima azienda. A un certo punto, quello che dicevamo, io mi sono chiesto – e qui ritorna il tema, la performance, il lavoro, il burnout, no? – io credo, e si parla molto oggi di voi che siete giovani, io sono diversamente giovane, voi siete giovani, del work-life balance, no? L’equilibrio vita-lavoro. Io credo che sia un equilibrio fondamentale e che vada però letto correttamente. Secondo me non è una funzione del tempo libero che tu hai a disposizione, ma è quanto tempo tu passi a lavorare creando performance, perché il lavoro è performance, per qualcosa in cui tu credi veramente. Come fai a riconoscere qualcosa in cui tu credi veramente? I tuoi valori. Perché se tu passi 20 ore al giorno a fare qualcosa che ti interessa più o meno, poi vai in burnout. Se tu fai qualcosa, hai la missione, la famosa calling. Io sono fortunato perché sono figlio di due medici e loro hanno sempre lavorato per passione, perché hai questa missione nella vita di aiutare le persone. Io facevo il manager, fortunato, ho girato il mondo, ho guadagnato bene, stavo bene. Ed ero uno dei responsabili dell’utilizzo etico della tecnologia dell’intelligenza artificiale di Microsoft nel mondo. Però poi, se uno si guarda dentro, dice: “Ho capito, sono entrato che l’azione valeva 135, adesso vale 450, però…”. E quindi a un certo punto ho deciso, visto che c’era questo… io sono nato a Casteggio, c’era questo problema ricorrente, ricorrente con questa azienda, ho deciso di lasciare tutto, di tagliarmi lo stipendio dell’80%, non dell’8, dell’80. E poi è tutta una cosa bella la calling, però poi quando ci fai i conti inizia a diventare un po’ meno naïve come problema. E ho deciso di fare questo turnaround, ho creato la prima filiera verticale in Lombardia, abbiamo creato un advisory board con dei managing importanti che, guarda caso, sono tutti della zona, ma erano sempre stati un po’ lontano. È stata dura, mi sono sposato due mesi fa, credo, ho lavorato anche in viaggio di nozze, quindi non ho mai… mia moglie è qui, cioè questo è il viaggio di nozze, pensate quanto è lì, felice. La famiglia dice: “Dove andiamo, amore, due giorni?”. “Andiamo al Meeting di Rimini, che devo parlare”. Quindi, grazie. Grazie, nella vita si vuole qualcuno che ti supporti e che ti sopporti, perché sennò è dura.
Cassese. La moglie non applaude.
Umberto. La moglie non applaude, non lo so se ha applaudito, infatti non sto guardando di là perché non voglio vedere. Però non l’ho mai rimpianto un giorno nella vita, è stato il primo anno, un anno veramente intenso, stiamo andando bene, siamo oggi ritornati a essere uno dei brand… Non so chi di voi è diversamente giovane, era la Versa, che è quello che è oggi Ferrari, quindi il primo brand spumantistico italiano che era fallito, oggi è ritornata ad essere la bollicina più premiata d’Italia secondo il Wine Hunter. C’è un percorso culturale difficilissimo, perché tutte le rivoluzioni, sia quelle sociali che quelle dentro di voi, sono essenzialmente culturali. E quindi per creare un humus fertile per questa rinascita del territorio sarà lunga ed è un percorso di coltivazione di valori, eccetera, eccetera. Ma, come ho detto, non credo che rischierò il burnout, nonostante io lavori veramente più di quanto… ho più occhiaie che ore di sonno, quindi questo è evidente. Però credo che la fortuna di ogni persona nella vita possa cercarla, si tratta di lavorare per qualcosa in cui credi veramente. E quindi adesso il modello della filiera, il modello… Poi c’è un tema del vinicolo e poi chiudo perché sennò sono tante cose, ho passione, come si sente, quindi parlerei per delle ore. Il tema vini, il vino… l’Italia è un paese agricolo, grandemente, no? Quindi un problema… un paese manifatturiero. Siamo dei bravissimi imprenditori, dei bravissimi artigiani, non siamo dei bravissimi manager, perché il nostro paese è talmente diverso ed è talmente orgoglioso che ha più di cento centri culturali, e quindi noi non riusciamo a sentirci veramente uniti. Questa cosa ci porta a essere molto creativi ma ad avere un sistema, cioè il famoso Made in Italy. Qual è la proprietà di un sistema? Il valore di un sistema è il quadrato degli utenti connessi. Quindi non è una somma lineare, non è 1+1+1, ma è 10 alla seconda. Quindi, se sono 10, non è 10, è 100. La Francia ce la fa perché fa sistema, pensate al vino, noi un po’ meno, noi lavoriamo e andiamo avanti. Quindi la necessità di realizzazione della parte storicamente agricola e manifatturiera italiana è fondamentale. Adesso sentiremo dalla parte dell’hospitality. Voi pensate che le M&A, cioè le Merge and Acquisition nel paese, si stanno concentrando sulla creazione di catene, eccetera, eccetera, perché la costituzione di leva operativa è fondamentale. Quindi ho finito. Come vedete, la performance è fondamentale, bisogna darsi da fare. L’importante è fare quello in cui si crede veramente, perché non è facile, nessuno vi dirà che è facile, però non c’è niente di facile nella vita. E come diceva Marchionne, a un Meeting di Rimini: “Noi oggi abbiamo la sensazione di essere una società di diritti, no? Il diritto al posto fisso, a scioperare, ad avere tutto qui subito immediatamente”. E i diritti vanno tutelati, ma in una società che di soli diritti vive, di soli diritti muore. Bisogna scoprire il senso del dovere e la possibilità di dare qualcosa indietro. E quindi cerco di farlo come piccola cosa, speriamo di riuscirci. Grazie a tutti. Grazie
Cassese. Grazie, Umberto, per l’energia e per il coraggio anche di essere qui. Giacomo Perletti, fondatore di Contrada Bricconi, sono andato a cercare su TripAdvisor e leggo gli ultimi due commenti. Luglio 2024: “Vale il viaggio” si intitola il commento. “Eccellente mix di tradizione, innovazione, sperimentazione in una location davvero speciale, ottima l’idea, la realizzazione anche meglio. Accoglienza squisita, tutto buono, ma una nota di merito ai formaggi. In un futuro si crei una rete sempre più fitta tra questi progetti capaci di offrire grandissima qualità”. Potrei andare avanti perché ci sono, insomma, altre osservazioni che lodano questa Contrada Bricconi. Ehm… ho avuto occasione di ascoltare un intervento di Giacomo che ha fatto sul Lago di Como, ehm… di ascoltarlo su YouTube e, ehm… voglio riprendere la sua prima frase e vorrei che lui, ehm, andasse avanti su: “La vita mi ha consegnato un’evidenza. Il desiderio che abita il nostro cuore, quello per cui a volte stiamo svegli la sera, che ci fa tentennare, che ci fa essere insoddisfatti e mai paghi, mai quieti, è in realtà il motore più prezioso che noi abbiamo per le mani”. Di che cosa stiamo parlando? Cos’è questo motore e come nasce la tua avventura imprenditoriale?
Perletti. Ci proviamo, guardo l’ora perché ho questo problema e niente, ringrazio per questo invito al Meeting. Ci proviamo. Quando servo al ristorante certi Riesling Renani, certi Buttafuoco, certi Gutturni, lo faccio sempre con orgoglio, perché dico alle persone che fanno centinaia di chilometri per venire a mangiare nel ristorante con l’effigie rosse, si vedono nel peri in degustazione servire un calice di Oltrepò. La reazione spesso è così, e noi diciamo: vedete, quella lì è una terra che cerca orgogliosamente un riscatto, e questo ci rende profondamente amici dell’Oltrepò. E dopo questo tuo racconto, saremo ancora più orgogliosi.
Allora, quello che hai detto del desiderio, provo a fare un breve accenno alla giovinezza, alla fanciullezza, una alla giovinezza e poi parliamo del presente. La fanciullezza è questa. Io ho avuto la grande fortuna di essere cresciuto in una bella famiglia, con un papà e una mamma che ci hanno sempre stretto attorno a una tavola, facendoci sentire la forza, il potere, la bellezza di una condivisione del cibo, del vino. A nove anni, andando in vacanza in Alto Adige, mio papà mi ha avvicinato un calice di – non posso dire, non posso dire – Pino Nero, di Kloburgunder, ok? Quindi zona di Mazzone, e io rimasi estremamente colpito. Per me quella è stata la prima volta in cui, da bambino, ho pensato che la vita doveva essere sempre spesa davanti a qualcosa di grande. In quell’assaggio ho visto una complessità, qualcosa di estremamente dirompente, coinvolgente, ammaliante. Mi sono chiesto: cos’è questa cosa che mi sento addosso? Cos’è la potenza di questa reazione, stupore, malinconia? Quella cosa che si è accesa si è declinata in una passione per me molto chiara. Mi sono sempre piaciute tante cose, però voglio dire una su tutte: se a 14 anni, al posto dello scooter, mi sono fatto regalare delle capre, è perché quello che ha iniziato a dominare nella mia vita è questa grandissima attrattiva per gli animali, le vacche soprattutto, le vacche da latte, la montagna, la tavola, il paesaggio, il paesaggio agrario, l’idea che la nostra Italia possa essere letta – con buona pace di chi parla di ambiente in modo asettico – come un andirivieni di azioni dell’uomo, un interagire continuo dell’uomo con la natura, che ha disegnato un paesaggio straordinario, dalle Dolomiti alle Madonie.
Questa cosa qua, la capacità di incollarmi al finestrino e saper leggere cosa c’è lì fuori, è sempre stata una cosa che mi ha acceso dentro questa idea che l’uomo possa essere protagonista della realtà. E l’agricoltore è questo: l’agricoltore è il più grande artefice di bellezza che noi abbiamo nella nostra società, ma non lo sappiamo, non lo riconosciamo. Noi ci vantiamo di questo amore per il paesaggio agrario, e a un certo punto doveva tradursi in una scelta: la scelta agraria all’università. E a un certo punto, perché parliamo di desiderio, io ho incontrato un’amicizia, dato che è l’amicizia che anima un po’ questo luogo, che mi ha aiutato a prendere così sul serio la mia passione che per me è stata subito chiara una cosa: la distinzione – diciamo, espressione poco poetica – fra ciò che è un pallino da coltivare nell’intimità della propria cameretta e una passione come un cartello luminoso, per capirci, un pepe là dove ti siedi, che diventa quel motore, quell’acceleratore della possibilità che la vita sia diventare ogni giorno più grande, ogni giorno più appassionato di quello che fai, ogni giorno tentativamente più uomo. Per me la passione è sempre stata un motore per questo. E ho scelto Agraria, l’università di Agraria per me è stata questo. Sono stati anni di un’intensità tale che, a pensarci, mi viene la stanchezza adesso. Anni di un’intensità dirompente, di studio, non perché fossimo per forza persone da 30 e lode, ma io avevo l’impressione, in quegli anni, di avere il mondo per le mani, di avere a che fare col mondo.
Via Celoria 2, sede striminzita, vicino al più grande Politecnico a Milano e tutto quanto, per me quello era il centro del mondo. Noi eravamo il baco di quel luogo, i rompipalle di quel luogo; facevamo politica, abbiamo avviato un’associazione per andare a vedere le aziende agricole e conoscere imprenditori, fare quello che l’università non è mai stata in grado di darci fino in fondo. Quindi eravamo anche antipatici in questo, ma i docenti venivano con noi al sabato, autopagandoci il pullman, in giro per l’Italia a vedere le aziende. E quindi, immaginate dentro questa situazione, questa febbre di vita incontenibile. Un giorno, in università, perdendo tempo su Google Earth, ho trovato una fotografia in bianco e nero di questa benedetta Contrada Briconi. In quegli anni covavo già un po’ questo desiderio di dire – non ero ancora laureato alla triennale – però dicevo: cacchio, a me piacerebbe fare un’azienda, vorrei mettermi a fare qualcosa di mio. Ho visto quella fotografia, non chiedetemi perché, perché non è che fosse chissà che fotografia, ma sono andato a vedere quel luogo. Era il 23 settembre 2009, in una giornata che sembrava novembrina, c’erano 12 gradi, pioveva, le nuvole basse. Ho detto: questo è il posto della mia vita. È incredibile, è bellissimo. Ero con quattro amici che mi guardavano come per dire: questo qua è matto, vede l’oro dove non c’è, e l’oro non c’è comunque.
E da lì è iniziato un cammino. Ci ho fatto la prima tesi di laurea, la seconda. Da lì a un anno ci sarebbe stato il bando del Comune, questa ridente cittadina di 148 abitanti. Da lì è iniziato tutto questo cammino per verificare quello che lì a un anno avrei dovuto fare, cioè applicare a questo benedetto bando, diventare finalmente una partita IVA agricola e avviare un progetto in quel luogo, che per me da subito è stato dire: bene, questi edifici, questa borgata del ‘Quattrocento che fino al primo dopoguerra brulicava di vita, era fatta di saperi, c’erano i forni del pane, c’erano i prati terrazzati, si coltivava segale, si coltivava frumento, si coltivava orzo. Queste borgate di mezza montagna, rette dalle donne, le “regiure”, con queste famiglie numerosissime mentre i mariti erano in Francia o in Svizzera a lavorare, hanno creato e custodito una civiltà. E io, quando ero lì e dicevo: devo fare qualcosa qua, mi veniva il magone, la commozione a pensare che il nostro compito sarebbe stato perpetuare quella cultura e quel sapere in chiave assolutamente moderna. L’esempio dell’architettura è un tema.
Questa idea del desiderio cosa vuol dire? Vuol dire che per me quello non è mai stato un… Io sono desiderio di bellezza, io sono desiderio di affettività, sono desiderio di gusto, sono desiderio di costruzione, sono desiderio di servizio, e ho sempre provato a declinarlo in quel luogo con le opportunità che avevo davanti. E tre giovani audaci ragazze architette hanno fatto la tesi di laurea sulla stalla nuova costruita nella Contrada Briconi, che è stata premiata come architettura di montagna eccetera, perché abbiamo fatto una stalla che poteva costare la metà e che poteva rispecchiare dei connotati molto più classici. Io non ho mai capito niente di architettura, ma capivo due cose: che la nostra storia ci ha educato a dare credito agli incontri. La Contrada Briconi è un luogo di incontri, e dopo lo declino ancora. Secondo, che per anni alzarsi alle 4:15 del mattino, fare 50 km di macchina, andare a mungere le vacche – che è una cosa molto poetica, ma la prima frustata di coda negli occhi vi assicuro che vi passa la poesia – fa la differenza vivere in un luogo bello, fa la differenza farlo in una stalla bella, fa la differenza avere i fiori alle finestre. Quando ci sono sempre stati gerani alle finestre, non avevamo un euro. La gente mi diceva, pensava che fosse venuta su la mamma a mettere i gerani alle finestre. No, io rispondevo: il mio animo femminile ha messo i fiori alle finestre, perché io ho bisogno della bellezza, per sopportare il dramma della fatica che faccio, perché quel dramma c’è. Perché quella vita è faticosa, perché le decine di migliaia di euro di debiti pagati a suon di stracchini sono stati un’impresa da pancia a terra e coltello fra i denti. Qualcuno fra i presenti ha dovuto mangiare un po’ di stracchini per sostenere il debito, ma questa interezza… Capite che quando ancora, ad Amorosi – faccio un balzo indietro – io e Arianna, mia moglie, confidavamo i passi cruciali della nostra vita a un prete che in quel tempo era alla Cattolica. Un giorno mi ha fatto la domanda più cruciale della mia vita. Mi ha guardato, ha guardato Arianna velocemente, come per dirle: le cose sono chiare, stiamo un attimo al problema. Mi guarda profondamente e mi dice – io che raccontavo dei Briconi, la cosa era già partita, il primo mutuo già c’era, ormai i buoi erano fuori dalla stalla – mi guarda e mi fa: ma tu per lei rinunceresti a tutto questo?
Vi assicuro che a me è venuto il magone. Poi, con lui bisognava essere un po’ virili, non ho pianto, ma un piantino l’avrei fatto. Sono stato un minuto in silenzio e ho detto un sì che per me è stato di una pesantezza e di una non scontatezza incredibile, perché quando uno spende tutto per un progetto, il pensiero di perderlo… possiamo farci tutti i discorsi di questo mondo, ma tu hai vissuto per costruirlo. E allora, cosa è cambiato in quel momento? Che per me dire quel sì lì, in maniera seria, ha introdotto una cosa nuova. Cioè, dire: ah, io faccio i Briconi e li faccio al 100%, e faccio il treno in corsa che vengo accusato di essere, ma la mia salvezza è un punto di fuga al di fuori di questo. E allora capite perché l’impresa, l’azienda può non essere dominata – tentativamente, siamo tutti peccatori – ma tentativamente può non essere dominata da quelle problematiche che noi in maniera astratta proviamo un po’ ad analizzare, cioè il denaro, la performance, l’egoismo. Questo è, secondo me, spazzato via dal fatto che c’è qualcosa che ti ricorda che tu stai facendo un’impresa, un’impresa che è un ambito di totalità. Cioè, il mio maître è una persona che, quando io ho scommesso su di lui, qualcuno mi ha detto: non ce la farà, cadrà, non ce la farà. Io oggi gli darei il mio ristorante in mano per un mese. È una persona che ha ritrovato una fermezza, una statura, una capacità di responsabilità. Ma questo perché? Perché, secondo me, un’azienda, se è il luogo in cui c’è quasi un dar credito smisurato, che parte anche da una necessità – cioè, oggi è facile salire sul carro dei vincitori, noi riceviamo 20 curricula alla settimana – però un anno prima che aprisse il ristorante, la persona in questione è venuta su a mille euro al mese ad aiutarmi a impostare la partenza. In quel momento lì potevo urlare dai tetti che non sarebbe venuto nessuno. Quindi, c’è questo da dire. Però questo, secondo me, è fondamentale: il balance di cui parlavi prima, per me è un equilibrio impossibile. Io ogni tanto mi scervello a provare a ipotizzarlo, a cercarlo, eccetera, ma in ultima analisi cosa dà equilibrio alla mia vita? La certezza di una vocazione, la certezza di un compito, la certezza di prendermi cura di me, la certezza che quel poco tempo che io sono a casa e sono per mia moglie e sono per i miei figli, io possa essere una persona intera. La certezza che tu lavori, ti spendi tutto quanto, e sebbene, come ogni imprenditore penso un po’ lo sia, in fondo sei un po’ orgoglioso e tutto quanto, ti stai educando, vieni educato a mandare avanti gli altri. Sapete che ogni tanto io sono nella mia azienda, sono piegato a fare l’orto o a pulire le faraone, e mi passa davanti la gente e mi chiede se può salutare lo chef. E io dico: certo, lo chef va pure a salutarlo. E noi diremmo: “Ma io sono il padrone!”. Questo esiste per me, e perché in ultima analisi, sebbene questo possa far girare le scatole, non è un problema. Perché qual è la soddisfazione più grande? La soddisfazione più grande è che accogliamo 70-80 stagisti all’anno. Ho un ragazzo che lavora da noi da un mese, che esce da un esaurimento nervoso, e i suoi genitori ci hanno chiesto di farlo lavorare. Ed è fuori di sé, è fuori come un balcone. Ma questo qua, uno all’ora, la mattina va e mi chiude la fontana, e ogni mattina gli dico: se non la lasci aperta ti do una testata. Ogni santa mattina cura l’orto, fa delle cose. Cosa ne sarà di lui? Perché ha valore questo? Perché ha valore che oggi Michele, che è lo chef, che è cresciuto in questo mondo di eccellenza, di performance – perché non raccontiamocela, i risultati vengono da un rincorrere alla performance – non in cucina microscopica, un miracolo, sotto l’orologio preso da una serie tv o non so cosa, lui ha appeso un cartello e c’è scritto “Every second counts”. È un pazzo furioso, ma per lui ogni secondo conta. Voi dovete vederlo a lavorare, dovete vederlo come mi chiama in continuazione.
Però, quando io scherzosamente, dopo un anno di lavoro, gli dico – non perché questo sia il mio merito, eh, sia chiaro – io gli dico: lui ha questo gergo nelle cucine, oggi fra i trentenni ha questa abitudine di chiamarsi “vecchio”, non so perché: vecchio, vecchio, vecchio. Lui magari parla con un ragazzo, arriva da me e mi dice: “Vecchio, gli ho detto cosa hai fatto, hai fatto danni?” E lui: “No, vecchio, ho parlato come se avessi parlato tu. Gli ho spiegato, gli ho detto, gli ho fatto, e gli ho detto che ti ho reso un ragazzo migliore”. E ci prendiamo in giro, ma io non l’ho reso un ragazzo migliore. Io sono figlio di qualcosa che mi rende un ragazzo migliore. Io sono figlio di qualcosa che puoi prendere la stella Michelin – e capite cosa vuol dire per un agriturismo in un paese di 148 abitanti, dopo un anno e tre mesi dall’apertura – e posso convocare tutti, e posso aprire una magnum di spumante dell’Oltrepò Pavese – non è vero, scusami, però la prossima volta sarà dell’Oltrepò – e poter ringraziare tutti. E poi la gente ti delude sempre, perché nessuno ti ringrazia. Questa è la solitudine dell’imprenditore, e chi lo è lo sa. Però tu sei quello che fa il gesto per tutti, ma va bene, va bene, perché questo educa. E in quel momento apri quella bottiglia lì, e gli puoi dire quella cosa di Pavese che ci hanno sempre detto, no? Poi io magari l’ho parafrasata male, quella del premio Strega, quella che dice: “Allora è tutto qui?” Come se la tua missione in un’azienda che diventa una comunità è quella di cui noi siamo stati oggetto. È di quel papà che ti serve il Pino Nero, è di quell’amico in università che ti aspetta per bere una bottiglia alla cieca e ti educa a guardare alla profondità di quella cosa, è di quel prete che ti fa quella domanda che va oltre.
Per me l’azienda è questa cosa. E non è un problema che trattiamo di cose affascinanti che oggi piacciono a tutti, per cui vent’anni fa col cavolo che mi avreste invitato al Meeting uno che alleva le vacche e fa i ristoranti, ma oggi ci sta. Queste cose abbiamo capito tutti che sono importanti, e non l’abbiamo capito ancora abbastanza, ma vale per tutto. E questa, secondo me, è la differenza.
Cassese. Abbiamo lasciato Don Paolo Prosperi alla fine, adesso non so cosa ci combinerà. Io provo a imbastire una domanda, ma gli input sono parecchi. Parto da questo testo che lui ha citato in questo incontro che abbiamo fatto ad Assisi un anno e mezzo fa. È un testo di un filosofo coreano, si chiama Chun Lan, e parla della società della prestazione. La società del ventunesimo secolo non è più la società disciplinare, è invece una società delle prestazioni. I suoi stessi cittadini non si dicono più soggetti d’obbedienza, ma soggetti di prestazione. Sono imprenditori di se stessi. L’autocostrizione è più fatale della costrizione esterna poiché contro se stessi non è possibile alcuna resistenza, e così via. Don Paolo Anciordomunto ci diceva questa cosa: questo è il paradosso. L’imprenditore e l’operaio, lo sfruttatore e lo sfruttato sono diventati la stessa persona. Sei tu che ti sfrutti, nel senso che ti sfibri non più per compiacere un altro ma per obbedire al tuo stesso bisogno di sentirti prestante, bravo, un grande. Diciamo che l’alternativa teoricamente a questa società di prestazione potrebbe sembrare una sorta di lassismo, quindi “non vale tanto, mi ritiro un po’ dalla realtà”. Ma purtroppo abbiamo avuto delle testimonianze, tutte e tre con molta energia, che mi sembra spingano in un’altra direzione, e vorrei anche capire in che cosa consiste il crinale per cui ci può essere una modalità di impegno con la realtà che ci distrugge, l’uomo che si autodistrugge. Dall’altra parte, mi sembra che ci sia una concezione cristiana della perfezione, della bellezza che, invece della performance, abbia a che fare con la realizzazione dell’uomo. Ecco, in che cosa consiste questo crinale?
Prosperi. Domanda da un milione di dollari, però ti ringrazio di farla perché mi consente di fare un affondo che disambigua magari alcuni accenti posti nella lezione che avevo fatto ad Assisi e poi anche in tante conversazioni in giro per l’Italia è venuto fuori. Le testimonianze così potenti che abbiamo ascoltato stasera, secondo me, già aiutano a rispondere. Potrei anche star zitto, perché mi sembra che quello che i nostri amici Riccardo, Umberto e Giacomo hanno raccontato contenga già la risposta. Forse io posso tentare di elaborarla un po’ di più per quel che mi compete. Perdonatemi un po’ più l’aspetto di riflessione, se volete, anche contestualizzazione culturale direi. Però prima permettetemi due note in calce a quello che abbiamo ascoltato.
La prima cosa che voglio dire, per coincidenza, mi sono commosso ascoltando Umberto, che appunto è una sorpresa nel senso che non era prevista la sua presenza. Lui forse non lo sa, ma mia mamma è di Mornico Losana, cioè oltre Po Pavese, e il mio nonno faceva il vino San Rocco e zii viticoltori. Quindi, insomma, sentirti parlare è stata un’emozione; mi sento conterraneo, almeno per metà. L’altra metà è toscana di origine. Mio padre è sepolto a Mornico.
La seconda cosa che mi veniva in mente: è difficile parlare dopo un fiume in piena come Giacomo. Sentendo la sua voce, vedendogli gli occhi brillare, mi sono commosso una seconda volta, perché mi è venuto in mente un testo che ho studiato a lungo per varie ragioni che non racconto. È il racconto della creazione di Adamo nella Genesi e di fatto, qual è il lavoro di Adamo nell’Eden? Coltivare, fare il giardiniere. Il primo lavoro dell’uomo nella condizione più beata che ha vissuto, come dire, il vertice dell’espressione dell’uomo è coltivare. C’è custodire e coltivare la terra, il giardino in cui il Signore mette Adamo, pone Adamo. Poi il tocco sublime, ancora più bello, è che il primo giardiniere è il Signore stesso e quindi invitandolo, è Lui che ha piantato il giardino per primo. Il messaggio dell’autore biblico è chiaro: in realtà il lavoro, a differenza di tutte le culture antiche dell’epoca, il lavoro della coltivazione, che è un lavoro faticoso come tu hai insistito e ci hai raccontato, nella visione biblica si trasforma da pena, quasi castigo, in onore, l’onore di imitare Dio, di collaborare nel lavoro più grande che esiste, che è quello di rendere questa terra, già così bella, ancora più bella.
C’è stato un incontro ieri con Antonio Socci, che ha scritto questo libro, “Dio abita in Toscana”. Se uno va in Toscana, che è l’altra mia patria, perché mio papà era toscano, ci sono terre, che tra l’altro sono le terre – penso a certe zone dell’Umbria o della Toscana o della Francia – dove il cristianesimo si è radicato più in profondità, dove tu vedi che, in barba all’ecologismo contemporaneo, che predica un amore per la natura in cui l’uomo non fa nulla e non modifica in nulla la natura, come se questo fosse il vertice dell’amore per la natura. Di fatto, la storia cristiana dimostra che là dove l’uomo lavora in un modo che corrisponde alla natura autentica del lavoro, non solo non distrugge la natura, ma può renderla ancora più bella di come l’ha fatta Dio. Questo in fondo è la gloria ed è il senso vero del lavoro.
E quindi qui già entro un po’ nel tema su cui vorrei riflettere brevemente, secondo me, per rispondere, perché ovviamente si dovrebbe parlare a lungo, per come posso, alla tua domanda, dottor Cassese, partirei da questa semplice, elementare domanda: mi sembra che sia sempre importante partire dal fondamento, cioè cos’è il lavoro. Indubbiamente una prima risposta basica, “basic”, come dicono gli amici americani, è questa: è l’espressione del potere dell’uomo di cambiare la realtà, di trasformare la realtà, ovviamente anche facendo uso della tecnica, cioè di quella elaborazione, anche con l’uso della scienza, diciamo così, di metodologie che rendono questa trasformazione sempre più efficace ed efficiente.
Tornerò sul tema della tecnica perché, secondo me, è decisiva per rispondere alla tua domanda, a questo cambiamento del significato del lavoro che progressivamente si è sempre più affermato, direi, nella modernità e poi nella postmodernità con l’esplosione del potere tecnologico in modo sempre più radicale. Indubbiamente già nella Bibbia Dio dice “soggiogate la terra e dominatela”. Il lavoro è potere, è dominio, non c’è niente da fare. Solo l’uomo ha questa capacità di trasformare la natura secondo un’immagine ideale che in qualche modo l’uomo stesso detta alla realtà. Ora, qual è l’uso adeguato di questo potere? Questa mi sembra la domanda interessante. Sia Umberto che Giacomo hanno insistito su questo tema della direzione, del motivo che dà al lavoro un’impronta veramente corrispondente al desiderio di realizzazione dell’uomo. Qual è? Il potere è potere, il potere c’è, si dà, ma qual è un uso di questo potere che può produrre, può portare reale soddisfazione anziché frustrazione, anziché alienazione? Perché questa mi sembra la vera domanda. Perché ovviamente, certo, c’è un’alienazione che è quella dello schiavo – purtroppo si dà ancora anche questa situazione, chi lavora perché deve portare a casa lo stipendio e basta, e dà una sua nobiltà – ma il dramma di cui stiamo parlando è un altro, è un’altra alternativa, è il dramma di chi ha la possibilità, come ci raccontava Umberto, di fare un lavoro anche gratificante, anche di alto livello, eppure non prova questa soddisfazione, non trova questa esaltazione della propria umanità in questo fare, in questo lavorare. La testimonianza di Umberto, in questo senso, mi è sembrata veramente emblematica.
La tua domanda è: che cosa fa la differenza tra una performance alienante, cioè tra questa ansia del fare, del fare sempre meglio e sempre di più che disumanizza e produce il burnout e tutto quello che abbiamo detto, e invece un tipo di tensione all’eccellenza e anche a una instancabilità quantitativa come ci ha testimoniato così appassionatamente Giacomo, che non solo non ti sfibra, ma è come, no, c’è il salmo che dice, no, l’aquila che rimette le ali continuamente, no, come questa auto rigenerazione di questa gioia, di questo impeto per cui – ma anche Umberto ce l’ha detto – ma anche Riccardo parlando appunto della bellezza di questo darsi da fare per dare lavoro ai carcerati, no?
Ecco, io propongo sinteticamente mi sembra queste due visioni del lavoro che, a mio avviso, sono queste sì, incompatibili l’una con l’altra e si scontrano oggi. E mi sembra importante avere chiaro che, alla fine, in fondo, è come se nello stare davanti al lavoro ogni giorno noi fossimo davanti continuamente a questo bivio: o l’uno o l’altro. Io direi: o il senso del lavoro è la manifestazione, l’esercizio e la ricerca di un potere sempre maggiore, dell’affermazione e della dimostrazione del mio potere sulla realtà, dove in fondo la mia dignità sta nella celebrazione e nell’espansione di questo potere. Io posso. Cioè il potere non è un mezzo, ma è un fine. Potremmo dire che è l’affermarsi di quello che mi piace chiamare il paradigma dell’homo omnipotens, non più l’homo sapiens, ma l’homo omnipotens, cioè l’uomo è tanto più uomo, è tanto più realizzato, è tanto più grande quanto più ha potere, quanto più espande le sue possibilità. È in fondo l’idea di libertà che è il presupposto della cultura, diciamo, neoliberale radicale, che è il pathos che guida anche tante battaglie di oggi. Per cui anche la tecnologia, anche la tecnica che scopo ha? L’espansione delle possibilità dell’uomo.
Quindi ipotizziamo che in un futuro forse neanche troppo distante si potesse, con la biotecnologia, creare l’uomo alato, quindi permettere all’uomo di compiere il sogno di sempre, no? Incarnazione delle chimere psicanalitiche di Icaro e perché no? Perché no? Facciamoci questa domanda. Se l’ideale, se l’uomo è fatto per diventare sempre più potente, la parola potere indica che cosa? Una potenza, una capacità di fare A, B, C, D, una moltiplicazione indefinita delle possibilità. Capiamo qual è la conseguenza di questa concezione. La conseguenza di questa concezione, a mio avviso, è proprio l’alienazione di cui abbiamo parlato. Perché se la mia perfezione sta nell’espandere sempre di più le mie possibilità, allora si capisce che io non posso mai essere soddisfatto. E divento schiavo del mio fare sempre di più. Ma perché? Perché il bene che cerco è il potere stesso. A me pare che, senza accorgerci, in tanta nostra ansia di fare, fare, fare sempre di più, in fondo è presupposto che cosa? Questa idea di uomo vero, di uomo compiuto, di uomo realizzato, che la mentalità dominante ci inculca.
Ora la cosa interessante, questo lo dice bene anche se su altre cose sono in totale disaccordo, un altro Umberto, Galimberti, nel suo ultimo libro “L’etica del viandante”, nell’introduzione dice proprio così, che l’ironia qual è? Che cosa rende possibile questa espansione del mio potere? La tecnica, la tecnologia. E quindi paradossalmente il mezzo diventa il fine, cioè poiché è la tecnica che rende l’uomo sempre più potente, l’uomo diventa schiavo della tecnica. Tolkien lo ha detto in modo geniale attraverso il simbolo dell’anello, che è l’anello del potere, che per me è proprio il simbolo o il fondo della macchina. La macchina è creata per rendere l’uomo più capace di, più velocemente, però di fatto poi rende l’uomo schiavo. Mi sembra che questo ci apra prospettive interessanti per leggere tanti fenomeni di questa alienazione dell’uomo contemporaneo.
Quindi da una parte abbiamo questa idea dell’uomo onnipotente che porta all’alienazione, che porta la schiavitù, cioè in fondo alla non soddisfazione nell’esercizio di questo potere che è tale, perché il lavoro è questo. La seconda posizione è inutile girarci attorno, l’hanno esemplificata meravigliosamente tutti i nostri relatori, non è la negazione del lavoro come potere di cambiamento della realtà, ma è l’idea che il senso del lavoro è il servizio del bene. Cioè il mio lavoro, mentre nel primo caso la realtà è strumentale alla celebrazione del mio potere, quindi io alla fine non amo altro che me stesso. La realtà è un mezzo, è un palcoscenico per celebrare quanto sono un grande. Ma io in fondo non amo altro che me stesso. Ed è questa, alla fine, la fonte della frustrazione. Perché l’uomo è fatto per amare, per donarsi, e trova soddisfazione quando si sente utile all’altro, al mondo e agli altri. Lo hanno detto benissimo. Allora, il punto non è performance o non performance, darsi o non darsi. Il punto, come ha detto benissimo Umberto, è se lo scopo che informa la mia dedizione è servire l’aumento del bene, del bello che c’è già in nuce nella realtà. Per così dire, è tirare fuori dalla realtà il potenziale di bene, di bellezza che già contiene in sé.
In fondo, l’ideale del vero lavoratore, qualunque lavoro faccia, è l’artista. Il modo con cui Giacomo parlava della cucina, quando ha parlato della bellezza, è l’artista. E qual è la differenza? L’artista da che cosa è mosso? L’ha detto lui parlando della sua storia, della sua infanzia, della sua adolescenza. È mosso innanzitutto da uno stupore, da uno stupore contemplativo per la bellezza della cosa data che c’è nella creazione, che è ricevuta da chi l’ha fatta, che innanzitutto suscita un movimento di venerazione, di rispetto, di adorazione e allora la mia energia è messa al servizio di che cosa? Dell’aumento, dell’accrescimento di quel bene, di quella bellezza che già c’è nella realtà. Questo qui invece è il paradigma dell’homo sapiens, potremmo dire, che innanzitutto interviene sulla realtà, ma è come una risposta amorosa a una bellezza che innanzitutto è vista e mi precede. Quindi è un servizio ed è questo che genera un impeto inesauribile, perché la forma dell’agire è l’amore, allora il senso del lavoro è l’amore.
La domanda da un milione di dollari è come si è arrivati da una concezione del lavoro in cui più o meno dominava – ma non facciamo i nostalgici tradizionalisti – comunque si dominava questa concezione. È interessante il modo con cui Giacomo raccontava di queste, come si chiamano? Le giurie, no? Come si è arrivati a questa concezione, chiamiamola tecnologica, del lavoro sempre più dominante? Ecco questa è una domanda da un milione di dollari, si dovrebbe fare una lezione di storia della modernità, la nascita del capitalismo, il protestantesimo, un certo modo di vedere la realtà. Io però voglio fare solo un’osservazione unica a questo proposito che mi sembra molto interessante. Per me uno spunto che io ritengo prezioso e geniale di riflessione su questa domanda me l’ha dato Papa Ratzinger nel famoso discorso al Bundestag sull’ecologia dell’uomo, in cui Ratzinger parla del cambiamento che, diciamo così, lo scientismo – che non vuol dire una condanna della scienza moderna in quanto tale – ma la mentalità scientista, che indubbiamente si è imposta nella modernità e che comunque ancora domina nella cultura contemporanea, penso soprattutto all’America, ha cambiato innanzitutto noi, potremmo dire, consciamente o inconsciamente, culturalmente, quel che si intende per conoscenza della realtà, soprattutto della natura.
Questo me lo ispirano, lo dico soprattutto alla luce degli ultimi due interventi, cioè mentre per l’uomo classico e poi cristiano conoscere la realtà significava penetrarne il significato profondo, l’essenza potremmo dire, e quindi anche la finalità, lo scopo per cui c’è questa cosa, per cui Dio ha fatto questa cosa. Conoscere la natura nella modernità diventa imparare a conoscere le leggi di funzionamento delle cose e quindi imparare a dominarla. Nel momento stesso in cui la domanda che io mi faccio davanti alla realtà non è più “che cos’è, che senso ha?”, e quindi il modo di muovermi sarà cercare di servire la sacralità di questo significato e farlo e glorificarlo sempre di più. Se la natura è puro “stuff”, è pura roba che mi è messa nelle mani perché io la modifichi come mi pare e piace, secondo un progetto che nasce da me, allora è chiaro che siccome non c’è più un senso nelle cose che io devo servire, allora sono io che devo dare, che devo, mi spiego, inventarmi se si vuole, le cose diventano strumentali all’esprimersi di un mio potere di cambiare la realtà in un meglio che però… che cos’è? Chi dice che cos’è questo bene? No? Io. E quindi io ho anche il fardello di dare alla realtà un significato.
Per me il dramma in cui noi siamo è questo, perché paradossalmente quello che invece ci corrisponde di più – l’abbiamo detto prima – e che anche ti dà un’energia molto più inesauribile nel lavoro è quando invece ti rendi conto che la tua mossa non sta affermando un tuo dominio o un tuo progetto arbitrario, ma è servizio di un bene nella cosa. Paradossalmente, diceva Seneca, devi vivere per un altro se vuoi vivere per te stesso.
Capecchi. C’è un tema che era anche uscito a pranzo, non so cosa volessi dire, io credo sì, il tema dei talenti e dei valori è un tema che è emerso nel nostro dibattito. Il tema di questa chiacchierata—non lo chiamerei convegno—è mettersi all’opera. Allora, se mettersi all’opera vuol dire valorizzare i nostri talenti, questo significa che, sia come singoli, come imprenditori, come manager, abbiamo una fortissima responsabilità: quella di non nascondere le nostre capacità, ma di farle crescere, avendo sempre però a mente il fatto che dobbiamo fare quelle che io definisco le 4 R, ovvero un progetto che preveda la restituzione del talento che ci è stato dato, un modello che veda la resilienza nella nostra azione individuale in ciascuna cosa che facciamo, una attitudine alla ripartenza, perché spesso si cade, ma se si cade ci si può rialzare e si può ricostruire. Tutto questo deve essere però dentro un contesto di regole, perché le regole sono la guida, sono l’attenzione morale, sono l’attenzione alla costruzione di un modello in cui, in particolare, io qui parlo da uomo d’impresa, si possono dare risorse per progetti nella certezza che questi progetti verranno realizzati secondo uno stile e un modello valoriale che sarà quello che noi abbiamo dato. Ecco, credo che questo sia un po’ l’esito della nostra discussione di oggi, in cui io credo di aver partecipato in qualche modo anche oltre l’aspettativa, a un dibattito di straordinario valore in cui abbiamo messo in gioco il valore delle opere come opportunità di costruzione di un mondo migliore.
Cassese. Bene, io chiudo l’incontro dicendo che è stata una bellissima chiacchierata. Mi sembra che ci siamo messi all’opera, nel senso che veniamo fuori tutti edificati e abbiamo colto un valore, insomma, dentro questo dialogo. È sempre bello quando ciò accade nei nostri incontri. Buon Meeting a tutti, buona continuazione.