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MANAGEMENT E IMPRENDITORIALITÀ: PROSPETTIVE DI UN CONNUBIO NECESSARIO
Managment e imprenditorialità: prospettive di un connubio necessario
In collaborazione con Unioncamere. Partecipano: Domenico Arcuri, Amministratore Delegato di Invitalia; Fabio Cerchiai, Presidente di Autostrade per l’Italia e di Atlantia Spa; Sandro De Poli, Presidente e CEO di Ge Italia e Israele; Roberto Snaidero, Presidente di FederlegnoArredo. Introduce Bernhard Scholz, Presidente della Compagnia delle Opere.
MANAGEMENT E IMPRENDITORIALITÀ: PROSPETTIVE DI UN CONNUBIO NECESSARIO
Ore: 19.00 Sala C1 Siemens
BERNHARD SCHOLZ:
Dopo questa piccola liberazione un benvenuto a voi tutti, specialmente a Domenico Arcuri, Amministratore Delegato di Invitalia, a Fabio Cerchiai, Presidente di Autostrade per l’Italia, a Sandro De Poli, Presidente di Ge Italia e Israele e a Roberto Snaidero, Presidente di FederlegnoArredo. Ci troviamo in una situazione dove tutti parlano di crescita, e si parla anche a livello politico, com’è successo gli ultimi giorni e anche oggi, di cosa la politica può fare per la crescita. La politica può fare tanto, ma questa sera il primo tema è che le imprese stesse sono i veri soggetti della crescita, perché le politiche possono creare e devono creare condizioni più favorevoli, ma la crescita stessa la fanno le imprese. Aggiungo: non solo imprese profit, ma anche quelle non profit; ma questo è oggetto di altre discussioni. Per fare questo occorre un alto livello di imprenditorialità, di capacità di intraprendere, di rischiare, di essere innovativo, di avere alti livelli di motivazione, e questo è la parte imprenditoriale senza la quale non è possibile nessun tipo di impresa, tantomeno di crescita. Al contempo sappiamo bene che un’azienda, piccola o grande che sia, deve essere gestita: ci vuole una capacità organizzativa, ci vuole una capacità di controllo di gestione, una capacità di comunicazione, una capacità di produzione che è presente solo se c’è un certo livello di conoscenza e di esperienza; chiamiamo questo managerialità. Infatti, la produttività, che in Italia purtroppo è in calo – la produttività delle aziende è in calo, i dati oscillano fra meno 7, meno 10% – dipende da un ottimo connubio fra imprenditorialità e managerialità, che in parte può essere suddivisa nella stessa azienda, ma meglio si presenta nelle stesse persone, perché ho sempre sostenuto che anche un collaboratore di un’impresa dovrebbe essere massimamente immedesimato con uno spirito imprenditoriale per portare avanti il suo lavoro. Allora questo è il tema di cui vogliamo parlare questa sera. Cominciamo con Fabio Cerchiai, che è da due anni alla guida di Autostrade per l’Italia, dopo che è stato per quasi una vita manager di grandi aziende nel mondo dell’assicurazione. Autostrade è il più grande investitore in Italia in questo momento, investitore privato, con 1,5 miliardi, una cifra notevole. Io non lo sapevo, l’ho letto, che voi ogni anno gestite circa tremila chilometri di autostrada, alcune grandi opere sono molto conosciute: la Variante del Valico e il nodo A1 di Firenze, solo per ricordare alcune opere importanti di questo momento. La domanda è: come è possibile che in una azienda, dove comunque lavorano diecimila persone, sia presente uno spirito imprenditoriale e – proprio per le autostrade mi sembra molto importante – anche una capacità manageriale capace di curare grandissime opere con un’attenzione a tutti i dettagli?
FABIO CERCHIAI:
Grazie e buonasera a tutti. Grazie per avermi invitato a questa occasione di confronto, nella quale io penso di poter dare un contributo certamente non rilevante, ma che trasmette l’esperienza che io ho fatto. Scholz cortesemente ha ricordato che io ho due importanti esperienze manageriali; ne ho fatte anche in imprese più piccole, quindi sono in grado di seguire un po’ le considerazioni che faceva e che condivido profondamente, e cioè che non è la dimensione dell’azienda che fa differenza sulle caratteristiche fondamentali che occorre porre per far sì che la crescita dell’azienda sia una crescita duratura. Perché sia una crescita duratura – l’azienda è per sua definizione un’organizzazione complessa, finalizzata a tempi lunghi – deve avere una condizione fondamentale: la sua sostenibilità. E la sua sostenibilità è funzione di una serie di fattori. Credo effettivamente che sia fondamentale che lo sviluppo dell’azienda avvenga su una doppia logica: da un lato il manager dell’azienda, anche l’azionariato dell’azienda laddove è distinto dal management, è necessario che abbia, e consenta al management di poter avere, un orizzonte temporale nelle scelte medio-lungo. Dico questo non per sottovalutare l’importanza della tattica, e quindi della capacità di decidere e di aggiustare il piano aziendale via via, ma perché un orizzonte breve può portare a massimizzazioni di risultato che poi non consentono, invece, di conseguire l’ottimizzazione del risultato. E l’ottimizzazione del risultato cos’è? È la crescita del valore dell’azienda nell’interesse di tutti: nell’interesse degli azionisti, laddove sono – ovviamente – più di uno, o anche dove sono uno soltanto, l’interesse di chi lavora dentro l’azienda a tutti i livelli. E io concordo perfettamente e pienamente sul fatto che è necessario che uno spirito imprenditoriale – cercherò poi di definirlo entro certi limiti – sia presente in chiunque lavori nell’azienda. Lo spirito imprenditoriale che deve essere presente in chiunque lavori nell’azienda qual è? È quello di riconoscersi parte attiva, e quindi l’azienda ha il dovere e l’interesse – se volete l’interesse e il dovere, per restare sul piano economico – di favorire che tutti quelli che operano in azienda, i collaboratori, si sentano parte attiva, si sentano di partecipare all’intrapresa, che significa investire, significa investire in formazione professionale, investire in modalità di conduzione dell’azienda più faticose – sono le cosiddette conduzioni, modalità partecipative -, dove la partecipazione – per stare su un argomento di moda su altri tavoli – non significa concertazione: il dirigente, il responsabile, deve assumere le sue responsabilità con capacità decisionale, ma questo lo si può fare ascoltando e facendosi ascoltare, senza ovviamente poi tradire la mission della responsabilità che deriva dal ruolo che nell’azienda si ha. In altri termini, io credo che l’impresa vincente sia quella, a prescindere dalle sue dimensioni, che riesca a mantenere, a costruire prima e a mantenere poi nel tempo, relazioni positive con gli stakeholders; ma gli stakeholders sono innanzitutto le persone che lavorano dentro l’azienda, perché la forza dell’azienda è quella. Io ho avuto due esperienze manageriali importanti: in Assicurazioni Generali per quasi una vita e in Autostrade da qualche anno. Sono due aziende di grande successo a livello nazionale e internazionale, che però sono veramente fondate sulla convinzione dell’esistenza all’interno dell’azienda di valori, di valori importanti. Non credo sia possibile costruire un’azienda di successo solo sulla base delle competenze tecniche, delle competenze professionali. La presenza di competenze tecniche e professionali all’interno dell’azienda è condizione necessaria, ma, come ci insegnavano quando eravamo molto più giovani, non è condizione sufficiente: la completezza, la determinazione del potenziale di successo deriva dalla capacità di realizzare effettivamente una collettività che agisce per perseguire il fine aziendale in modo tale che, partendo dall’interesse legittimo e particolare del lavoratore, del manager, dell’imprenditore se persona distinta, si arrivi poi al perseguimento di un risultato che non è più quello del singolo. Quindi non si deve andare alla ricerca della massimizzazione del risultato del singolo, ma a una costruzione di una realtà quasi fisica, che è l’azienda, che non è una personalità solo giuridica, ma diventa proprio una realtà sociale. Ecco perché è importante la sostenibilità sociale dell’azienda, ecco perché sono importanti gli investimenti dell’azienda sull’accreditamento della medesima all’esterno. La formula di successo è, quindi, un vero gioco di squadra, in cui, come lo vediamo anche nelle squadre di calcio, c’è sì il fuoriclasse, che sarà forse, nel caso nostro, il manager, l’amministratore delegato di turno e via di seguito, ma tutti svolgono un ruolo in assenza del quale il fuoriclasse non riesce a dare il meglio di se stesso, diventa il funambolico giocatore che cerca di scartare quattro difensori e poi perde la palla. Quindi, la cosa che credo veramente importante è che sì ci sia capacità di innovazione, capacità di innovazione del prodotto, di processo, di fidelizzazione della clientela, di allargamento degli investimenti, ma di fondo il convincimento che ho nella mia esperienza professionale è che il capitale che permette di avere tutto questo, e cioè le risorse finanziarie, le risorse economiche, che sono – ovviamente – essenziali, importanti, determinanti, non sono la parte più importante: la parte più importante è e resta il capitale umano. L’azienda diventa grande se le risorse finanziarie sono messe in moto e sono messe a risultato attraverso un gioco di squadra reale, attraverso una esplicitazione del capitale umano che opera dentro l’azienda stessa. Autostrade in questo momento è impegnata a livello internazionale, per fare un esempio di un piccolo ma importante… non di un piccolo, di un grande successo: abbiamo vinto una gara in Francia sullo sviluppo tecnologico – dico “in Francia” perché per un’azienda italiana vincere una gara in Francia è complicatissimo, tutti lo sanno – basata proprio sulla capacità del fare un gioco di squadra, presentando una evoluzione della nostra capacità di tecnologia italiana in alleanza, però, con altre competenze tecnologiche, e quindi rinunciando a fare tutto da soli, perché abbiamo capito che altrimenti non saremmo riusciti ad avere lo stesso tipo di risultato. Quindi credo di rispondere con questa a quanto diceva prima lei, dottor Scholz: la necessità sta nel creare effettivamente un modello che ogni giorno aggiunga qualche pezzo, e dove non aggiunga pezzi, migliori la qualità del pezzo che c’è. Ma adesso che abbiamo dei momenti di difficoltà – difficoltà di Paese, non difficoltà, per il momento, di nostra società, ma di nostra società nel Paese -, la scelta che noi abbiamo fatto è che l’Amministratore Delegato esponesse chiaramente le criticità a tutto il personale, collegato per via televisiva ai diecimila nostri colleghi, che hanno ascoltato quelle che erano le problematiche salienti della società. È evidente che l’esattore non può contribuire a risolvere alcuni tipi di problemi, ma come in una famiglia il ragazzino non può contribuire a risolvere i problemi degli adulti, non ci sembra costruttivo e realizzativo dell’effetto-famiglia, della sostanza-famiglia, che ne sia tenuto del tutto fuori: nel modo opportuno deve essere coinvolto. Ecco, io quindi credo che sia molto importante questo, e credo che, piccole o grandi che siano, francamente non vi siano aziende che possano dire di avere successo durevole nel tempo se non realizzano questa condizione di sostenibilità fondamentale, che è il coinvolgimento dell’intera forza-lavoro, è l’identificazione della stessa nei connotati aziendali; il che poi diventa un valore morale – e questo è importante – ma anche un valore economico.
BERNHARD SCHOLZ:
Grazie mille. Io penso che la sottolineatura della crescita duratura non sia per niente scontata, perché oramai l’idea che tutto deve essere ridotto a un profitto a breve è diventata una filosofia quasi pervasiva. Quindi comprendere che il bene dell’azienda consiste in una crescita duratura mi sembra – poi detto da una persona con l’autorevolezza di Cerchiai – particolarmente importante. Sandro De Poli è da un anno Presidente e Chief Executive Officer per l’Italia e Israele di General Electric. General Electric è un’azienda che si occupa un po’ di tutto: dall’energia all’automazione, dalla logistica allo healthcare. Pochi sono gli spazi di tecnica e tecnologia dove General Electric non è presente. Tra l’altro è l’azienda che fu condotta fino al 2001 da Jack Welch, uno dei più famosi manager, famoso anche per la sua rigorosità nella conduzione dell’impresa. Io vorrei fare una domanda che riguarda un po’ la filosofia dell’impresa e il cambiamento di questa filosofia, perche fino al 2004 lo slogan di General Electric era “We bring good things to life”, portiamo buone cose alla vita, poi avete cambiato e dite “Imagination at work”, cioè immaginazione al lavoro. Mentre la prima parte mi sembra quella più tradizionale – facciamo cose buone, facciamo cose interessanti o utili -, siete andati con questo secondo slogan alla radice di qual è la condizione per generare tutte queste cose, e quindi avete creato questo slogan dell’immaginazione. Questo è stato semplicemente, come succede spesso, un cambiamento di titolo o anche un cambiamento di sostanza?
SANDRO DE POLI:
Innanzitutto volevo ringraziare il presidente Scholz e l’organizzazione per l’opportunità di parlare a questo uditorio. La domanda è una domanda semplice e complessa nella sua risposta, allo stesso tempo. Ho una buona esperienza di GE, e ho vissuto il periodo Welch, sto vivendo il periodo del suo successore Jeff Immelt, e in effetti, forse, questo cambiamento di slogan corrisponde alla presa di coscienza del fatto che sia cambiato qualcosa nel mondo. Il mondo è cambiato: forse fino alla fine del ventesimo secolo c’era un’economia basata su territori, sui territori più conosciuti, che erano il blocco dell’America del Nord, il blocco del Giappone, dell’Europa, con i Paesi emergenti che stavano per emergere; con il ventunesimo secolo si è vista un’accelerazione e alcuni Paesi emergenti sono emersi. Questo ha comportato un cambiamento nel quadro di riferimento e ha comportato una maggiore complessità dal punto di vista di quello che fa un’azienda tecnologica come la nostra: di colpo ci siamo trovati confrontati, a dover giocare una partita molto più importante, su mercati che forse fino a quel momento non erano stati mercati di particolare, forte interesse. Se vi ricordate, forse ancora alla fine degli anni ’90, aziende multinazionali americane differenziavano il mercato, lo definivano come America e resto del mondo. Nel tempo si è diventati più sofisticati, oggi forse la parte il resto del mondo è il mercato più interessante che esiste al di fuori degli Stati Uniti e del blocco dell’Europa Occidentale. Allora, direi sicuramente, il cambiamento di slogan ha coinciso con un cambiamento di visione, questo cambiamento di visione ha coinciso con un cambiamento di leadership aziendale e Jell Immelt ha portato un qualcosa in più, che forse non era necessaria ai tempi di Welch. Welch ha portato il rigore della gestione, diciamo, contabile, amministrativa, l’ossessione nella ricerca della crescita: con Immelt, diciamo dopo il 2004, dopo il 2001, perché forse il cambiamento del mondo del mercato ha incominciato, ha coinciso, in qualche maniera, con quello che è successo l’11 settembre, il mercato è diventato più complesso, il mercato ha incominciato a richiedere un modo di ragionare diverso e l’organizzazione, che qui rappresento, si è modificata al suo interno in maniera molto significativa, per poter far fronte a questa trasformazione. E per far questo abbiamo tenuto quanto di buono avevamo in essere fino ad allora, complementandolo con un modo di funzionare diverso. Per esempio uno dei meccanismi importanti dell’organizzazione che abbiamo è che tutti gli anni noi la visitiamo partendo dal livello di Paese: all’interno di ogni business, all’interno di ogni Paese dove operiamo, andiamo a rivisitare quella che è la proiezione, la miglior previsione, di come il mercato si articolerà nei prossimi tre anni e noi che posizione riusciremo a conquistare su questo mercato nei prossimi tre anni. E questo essendo un esercizio che si fa ogni anno, permette di rivisitare i due anni che devono ancora venire e di aggiustare il tiro, per permettere di poter assicurare che la strategia dell’organizzazione sia allineata, e questo viene consolidato partendo dal basso fino al livello più alto dell’organizzazione, cioè del SIO di Immelt. Un altro degli aspetti molto importanti riteniamo sia quello, per un’azienda tecnologica, di avere un investimento in ricerca e sviluppo che sia sempre molto sostenuto. Noi, anche nei momenti più difficili dell’economia, non abbiamo ridotto l’investimento in ricerca e sviluppo, questo perché ovviamente quando l’economia riprende, se non hai sviluppato prodotti e tutti i prodotti che noi sviluppiamo hanno un tempo, un ciclo di tempo di sviluppo mediamente abbastanza lungo di qualche anno, rischi di trovarti con il mercato in ripresa senza prodotti da vendere e ci sono degli esempi abbastanza fragranti in altre industrie che stiamo vivendo da vicino tutti i giorni. Un altro aspetto molto importante è quello della formazione della forza lavoro. Questa è un’altra area dove GE spende una quota significativa del suo budget di investimenti ogni anno e tutto il personale di GE viene passato all’interno del processo di valutazione annuale delle performance attraverso una valutazione delle necessità di formazione, per avere persone sempre allineate al meglio per poter svolgere il proprio lavoro. Un altro degli aspetti importanti della trasformazione che abbiamo vissuto in questi anni, è legato allo stile di management. Una volta c’era uno stile di management sicuramente più autocratico, di minore coinvolgimento, c’era una sede e una periferia che eseguiva in qualche misura gli ordini della sede, adesso c’è un meccanismo molto condiviso. Infatti per il chairman attuale, per Immelt, uno degli slogan importante è che i managers, i leaders dell’organizzazione devono essere delle persone dotate di ottime capacità di ascolto, perché le migliori idee tipicamente vengono da gente che è vicina al cliente nell’organizzazione. Per cui questo è un aspetto molto importante, che ci ha visto trasformare nel tempo e andare a cercare un livello di coinvolgimento molto, molto stretto con l’organizzazione intera. Un altro aspetto è la strutturazione di programmi di formazione. Abbiamo dei programmi di reclutamento in collegamento, parlo a livello nazionale, con le migliori università. Noi siamo un’aziende ingegneristica, perché guardiamo molto facoltà di ingegneria, abbiamo bisogno anche di competenze di gestione amministrativa, per cui guardiamo facoltà di economia e commercio, abbiamo programmi molto strutturati: noi ogni anno partecipiamo ai career day dell’università che abbiamo selezionato, cerchiamo di andare a identificare quelli che possono essere i migliori talenti da inserire nei nostri programmi di formazione, abbiamo programmi strutturati nel campo della finanza, nel campo dell’ingegneria, nel campo commerciale, programmi che durano mediamente tra i due e i tre anni e, in caso di successo nel completamento di questo iter, queste persone hanno la possibilità di avere uno sviluppo di carriera significativa all’interno dell’organizzazione. Dal punto di vista del meccanismo di funzionamento dell’azienda, parlavamo prima del come è cambiata l’organizzazione, in funzione del cambiamento del mercato e questo è uno degli aspetti nei quali, qui non parlo dell’Italia forse ma dell’Europa in generale, l’abitudine al cambiamento, l’apertura al cambiamento non è esattamente un punto di forza della nostra cultura dell’Europa dell’ovest, dell’Europa sviluppata. In questo aspetto abbiamo sviluppato degli strumenti per formare la nostra organizzazione al cambiamento, per permettere che il cambiamento possa essere accettato, condiviso nell’ottica di quello che diceva il dottor Cerchiai prima, cioè è importante che tutti condividano lo stesso obiettivo, in modo tale che ognuno possa portare il suo pezzo di contributo. Abbiamo incominciato questo viaggio all’inizio del XXI secolo, abbiamo fatto dei progressi significativi, penso che la prospettiva davanti a noi sia interessante, abbiamo anche, dal punto di vista di espressione dei talenti, di leadership, un altro esempio che volevo portarvi. Un’azienda molto aperta riconosce i migliori talenti, al punto tale di avere a capo di uno dei business industriali di GE, quello del settore del trasporto, del trasporto ferroviario, il leader globale del trasporto ferroviario, un italiano di 38 anni: è a capo di questo business da due anni ormai, ha fatto il suo percorso di carriera uscendo dall’università, entrando in uno di questi programmi di formazione manageriale, è stato talmente bravo, a 35 anni, da essere cooptato nello staff del SIO dell’azienda, e oggi è a capo di un business che fattura qualcosa come 7 miliardi di dollari, con ottime possibilità di crescita. Questo, a mio avviso, è un altro riconoscimento del fatto che non c’è un vincolo a mettere responsabilità importanti anche nelle mani di talenti giovani, che magari hanno avuto un percorso di carriera più limitato rispetto ad altri, ma che mostrano potenziale di sviluppo molto, molto interessante. Io penso che con questo mi fermerei. Grazie ancora per l’attenzione.
BERNHARD SCHOLZ:
Penso che la valorizzazione dei giovani talenti in termini di responsabilizzazione sia uno dei punti fondamentali che è molto difficile realizzare. Tutti ne parlano, ma se guardiamo tante aziende, lo spazio per i giovani, soprattutto per quanto riguarda la responsabilità effettiva, è un passaggio molto difficile da realizzare poi nel concreto, quindi è un invito anche a riguardare forse la propria impresa da questo punto di vista, perché mi permetto solo questa osservazione: tante aziende rimangono piccole proprio perché non si rischia la delega, cioè rimangono molto accentrate e quindi non c’è un passaggio di ulteriore responsabilizzazione che potrebbe diventare fattore di crescita dell’azienda. Un’azienda che è cresciuta molto anche per questa ragione, è l’azienda di Roberto Snaidero, perché se è presente oggi in 80 paesi del mondo, vuol dire che qualcosa è successo perché nel ’76 fu completamente distrutta dal terremoto in Friuli. E quindi vuol dire che c’è stata una evoluzione impressionante in termini di imprenditorialità e evidentemente anche in termini di capacità manageriale. Io vorrei chiedere a Roberto Snaidero soprattutto di raccontarci come è stato in grado di introdurre nella sua azienda quelle capacità manageriali senza mortificare l’imprenditorialità. La domanda sembra banale ma non lo è, perché tante aziende italiane fanno fatica proprio su questo punto e quindi invece di internazionalizzare, di andare come voi in 80 paesi a portare le cucine migliori del mondo, il famoso made in Italy, rimangono ferme in un circuito abbastanza limitato e quindi vivono purtroppo al di sotto del proprio potenziale.
ROBERTO SNAIDERO:
Bene, permettetemi innanzitutto di ringraziare il Meeting di Rimini per quest’invito, per il secondo anno, a partecipare, diciamo, a questa grande manifestazione, ma particolarmente al professor Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione per la Sussidiarietà, con il quale come Federazione stiamo lavorando molto bene e con il quale condividiamo in pieno, insieme a ilSussidiario, le iniziative. Lei mi ha fatto una domanda su quello che è stata un po’ la storia dell’azienda Snaidero. Se mi permettete, vi vorrei raccontare questo fatto che parte proprio dal terremoto del ’76 in Friuli. Io mi ero appena laureato, era appena un mese che mi ero laureato, dopo vicissitudini varie di studente non modello, ma quasi. Mio padre era partito la mattina stessa per il Canada, che dovevamo aprire un’azienda in Canada, e io mi sono ritrovato, io, mia madre, una donna di servizio (aveva 76 anni) e mio nipotino in casa. Alla sera alle nove meno cinque è avvenuto questo spaventoso terremoto, noi abbiamo la casa non distante dalla fabbrica, che è una fabbrica di 100.000 metri quadri, sono 500 persone che lavorano in quell’azienda, e quella sera alle nove meno cinque, e mi vengono ancora i brividi a ricordare questo fatto, c’è stata questa grandissima scossa di terremoto per un minuto; abbiamo avuto 50.000 metri quadri di capannone distrutti. Mio padre, come ripeto, era in volo con mia sorella verso il Canada, io mi sono trovato da solo, giovane, studente: mi aveva appena assunto mio padre da un mese. Mi ricordo come adesso lo stipendio di 950.000 lire, quindi era un padre padrone, mio padre, quindi potete immaginare. Lui è arrivato a Toronto, gli è stato comunicato questo terremoto, nessuno sapeva niente perché purtroppo le comunicazioni non c’erano, e io ho dovuto prendere una decisione, la mia prima decisione nella mia vita, di cosa fare quella sera. Non sapevo cos’era dentro in fabbrica, mi sono ritrovato con il direttore tecnico, fuori a passeggiare, a capire quelli che potevano essere i danni. Ma chi aveva il coraggio di entrare in quel momento in fabbrica? E ho dato ordine, il mio primo ordine che ho dato, e mi ricordo come adesso, al servizio di vigilanza: “Nessuno entri in fabbrica fino a quando non entro io domani mattina”. Sperando di dormire, solo che quella notte ho dormito in camion con scosse tremende, pazzesche. La mattina, dopo alle 4 e mezza, sono andato in fabbrica, ho visto quello che c’era ed era il disastro totale. Oltre a questo della fabbrica, il paese, io abitavo a Maiano in provincia di Udine: le case, i condomini distrutti, le strade bloccate. Mia madre mi ha gridato, mi ricordo come adesso, “è la fine del mondo”. Siamo entrati, mio padre nel frattempo era riuscito a mettersi in contatto con il direttore del giornale locale, ha ripreso l’aereo, è ritornato e due giorni dopo è atterrato con un elicottero lì in casa, proprio nel giardino. Ci siamo guardati in faccia, io ho altri due fratelli che al tempo studiavano, abbiamo fatto una riunione immediata. L’azienda Snaidero aveva 500 dipendenti, come dicevo prima, c’era l’imprenditore padre-padrone, avevamo i manager, i capi, tutti: una riunione velocissima e abbiamo detto che cosa facciamo? Voglio ricordare che il Friuli è sempre stata una terra di emigrazione, e la gente, nonostante non abitasse ancora in casa, ha detto “diamo priorità alla fabbrica”. Da lì è ripartito, tutti assieme abbiamo cominciato, tra l’altro due giorni dopo ha cominciato a piovere, voi sapete che il legno quando si bagna si gonfia, abbiamo buttato via tutto, grandi perdite, ma al di là di questo tutti hanno deciso prima le fabbriche e poi le case. Ed esattamente un anno dopo, il 6 Maggio 1977, abbiamo inaugurato i 50.000 metri quadri caduti esattamente un anno prima. Perché ho fatto quest’esempio? Perché era un momento di grande crisi, era un momento in cui non si sapeva cosa fare, però la voglia dell’imprenditore, dei manager, dei dirigenti dell’azienda, dei capi reparto, degli operai, era solamente salvaguardare quello che era il proprio posto di lavoro per uscire dalla crisi. Ecco, io vorrei trasportare questo esempio ai giorni d’oggi. Oggi stiamo passando una crisi non indifferente, allora dobbiamo metterci in testa di lavorare tutti insieme, di essere coordinati, gli imprenditori, le banche, i politici, proprio per dare questo segnale al nostro Paese, in cui io ci credo moltissimo. Io ho avuto diverse richieste, non solo io, ma anche come Federazione. Abitando in Friuli, abbiamo delle regioni limitrofe, la Slovenia, la Carinzia, il Canton Ticino. L’altro giorno ero con una coppia di imprenditori torinesi. Nel Cantone Svizzero fanno delle offerte perché si trasferiscano le aziende dall’Italia verso queste nazioni, dove non hanno il 75% di tasse come in Italia, ma hanno il 25-26%, dove la burocrazia non esiste, dove in un giorno danno il permesso di aprire una nuova azienda. Ecco queste sono le problematiche che noi abbiamo oggi e che penso che dobbiamo risolvere, se vogliamo uscire da questa crisi; lo diceva domenica sia il Presidente Monti sia il Ministro Passera: stiamo vedendo il tunnel in uscita. Io dico, spero che non sia spenta la luce prima che usciamo da questo tunnel, perché qua signori la realtà è questa. Io parlo come Presidente di Federazione, stiamo cercando di aiutare le aziende, non abbiamo un’assistenza all’estero per le aziende. La FederlegnoArredo si è sacrificata per creare delle strutture, per aiutare le medie e piccole aziende per esportare. Ecco, io dico dobbiamo essere uniti. Anche i sindacati stessi con i quali ho un ottimo rapporto, ma anche loro devono capire che viviamo in un momento molto, molto, molto preoccupante. L’ho detto anche al Ministro Passera recentemente “Signor ministro, guardi, se andiamo avanti in questa maniera qua, io al 31 dicembre le porto le chiavi di molte aziende, perché così non si può andare avanti. Le banche chiudono i fidi”. Parliamo anche di reti d’impresa, se vogliamo, questo è un altro aspetto particolare. La FederlegnoArredo è una federazione con oltre 2600 aziende, mediamente, facendo un calcolo matematico, sono 37 dipendenti per azienda, togliamo quei 5 – 10 gruppi che hanno oltre 250 dipendenti e vediamo che abbiamo 20 – 25 dipendenti per azienda. Ma come possiamo pensare che queste aziende… avevamo l’ICE una volta, l’ho ripetuto l’anno scorso e lo dico anche quest’anno, avevamo l’ICE, hanno tolto anche quello. Hanno ricreato un nuovo ICE con le stesse persone, ma ancora non si vede un tubo davanti. Io come Federazione devo accompagnare queste aziende, lo devo fare perché mi sento in dovere di fare. Abbiamo bisogno di giovani, l’ho detto prima, abbiamo bisogno di giovani, giovani che entrino nel nostro settore, perché il settore del mobile arredo è invidiato in tutto il mondo, abbiamo un design. Io dico, tutti ci invidiano ma i più ci copiano. Come sapete, c’è il salone del mobile, presentiamo un prodotto nuovo, noi usciamo 6 mesi dopo, i cinesi 3 giorni dopo, lo stesso prodotto al 30% del nostro prezzo. Non c’è nessuno che ci aiuta su queste cose. E noi, penso, dobbiamo fare qualcosa, perché io ci credo in questo Paese che è l’Italia. Scusate questo mio sfogo, ma era doveroso dirlo in questo grande contesto, perché le problematiche sono molto pesanti. Io chiedo a tutti che ci diano una mano per uscire, perché le aziende sono piccole, anche le stesse aziende grandi hanno delle problematiche, però solo con l’unione, solo con quello spirito di sacrificio che ricordavo nei fatti del terremoto, possiamo uscirne. Grazie.
BERNHARD SCHOLZ:
Ringrazio anche dell’ultima osservazione, che evidentemente deve aiutarci. Una cosa riguarda anche le associazioni come la nostra e come la vostra, Federlegno in questo caso, Compagnia delle Opere nell’altro: nessuno evidentemente può fare da solo. Dobbiamo lavorare insieme per esempio anche sull’aspetto dell’internazionalizzazione, perché è veramente difficilissimo, ne parlano tutti, ma è difficilissimo andare in Russia, andare in Cina, andare in Vietnam, andare in questi altri Paesi a commercializzare, a presentarsi sui mercati. Quindi questo lo dico solo per dire che ci sono tanti fronti sui quali dobbiamo lavorare meglio insieme, per aiutare le imprese a dare il loro meglio, perché la cosa sorprendente, che vedo sempre di più girando abbastanza, è che tantissime aziende hanno un potenziale che potrebbe andare molto, ma molto oltre di quello che attualmente presentano come capacità sul mercato. E quindi arriviamo anche ad Invitalia. Invitalia è il titolo ufficiale di agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e dello sviluppo di impresa, quindi un compito non invidiabile. Tra l’altro agisce su mandato del Governo per accrescere la competitività del Paese, in particolare nel mezzogiorno e per sostenere i settori strategici per lo sviluppo: questo l’ho letto sul vostro depliant ufficiale. Allora io potrei fare una lunga lista delle attività che fate, dalle agevolazioni finanziarie sui brevetti di rilancio di aree industriali, al sostegno al via di ditte individuali, al finanziamento di programmi di investimento, ma la domanda che vorrei fare è questa: guardando il panorama delle imprese italiane – e su questo lei ha un punto veramente privilegiato, conoscendo anche molto i dati, le esperienze, i problemi e i successi; in tutto il mondo viene ammirata l’imprenditorialità italiana e penso che non esista un altro Paese in cui c’è un’imprenditorialità così diffusa come in Italia – che cosa devono cambiare le imprese, proprio per decollare fino in fondo. Evidentemente ci sono tanti problemi politici, la burocrazia, l’ha detto Snaidero, ci sono le banche, ma le imprese stesse, come possiamo anche noi come associazione aiutarle per partire?
DOMENICO ARCURI:
Grazie, cercherò alla fine del mio intervento di rispondere alla domanda, che non eluderò. Volevo però partire dal titolo del convegno e correlarlo con la stagione che noi viviamo. Diciamo che tutti sappiamo che il mondo antico vive la crisi più lunga e più profonda almeno degli ultimi sessant’anni. Io credo che viva la crisi più lunga e più profonda degli ultimi ottanta anni, però su questo si dibatte. E, per dirla con il titolo del Meeting, la ragione esemplificativa di questa crisi è che l’uomo ha avuto per troppo tempo un rapporto con il finito e non con l’infinito. Cercherò più avanti di spiegarmi. Per provare a spiegarmi, dico subito che io non so se la fine del tunnel sia vicina, non so neanche se le evidenze empiriche suggeriscano di affermare che lo sia, certamente la fine del tunnel è più vicina di quanto lo fosse un anno fa. La ragione principale di questa maggiore vicinanza io credo che sia la maggiore consapevolezza, che nel nostro Paese un anno fa non c’era, e diciamo che non eravamo nemmeno molto aiutati a che ci fosse, che noi stiamo vivendo la crisi più lunga da molti decenni. Per provare a dire come deve cambiare l’imprenditorialità e il management, o meglio, come devono cambiare le imprese per uscire dalla crisi, io credo che vada fatta qualche considerazione. La prima è che siamo tutti preoccupati di misurarci sull’analizzare gli effetti di questa crisi e pochi analizzano, approfondiscono e si misurano con le ragioni della crisi. E fino a quando noi non capiremo fino in fondo le ragioni per cui questo mondo è entrato in crisi, come minimo rischiamo di vedere ripetere quelle ragioni, come altre volte è successo nei cicli della storia economica del mondo. È molto più semplice misurarci sugli effetti e qui potremmo fare un elenco infinito, ma è molto più complesso analizzare le ragioni. Quest’estate ho letto per caso un libro di una giornalista francese, che si chiama Florence Noiville, che ha scritto uno strano saggio dal titolo interessante Ho studiato economia e me ne pento. Questa signora ha studiato in una delle principali università statunitensi, ha fatto il top manager di una multinazionale americana di largo consumo, e poi ha smesso di fare questo mestiere e ha cominciato a scrivere articoli per Le Monde. E dalla lettura di questo libro ho fatto alcune riflessioni che vi riporto volentieri. La prima. Tutti dicono che la crisi sia dovuta dall’eccessiva finanzializzazione dell’economia, la Noiville dice che la crisi è in effetti frutto dell’incrocio perverso di due piramidi: la piramide creata dall’eccesso di finanza, che per semplificare ha creato troppo debito, e, cosa che mi trova ragionevolmente d’accordo, la piramide creata dall’eccesso di marketing, che ha creato troppi bisogni. E quando il mondo genera bisogni continui per soddisfare i quali si indebita, ad un certo punto, per una ragione di solito casuale, va in crisi. Siccome nessuno dei miei colleghi, che molto meglio di me hanno spiegato perché siamo qui, fa telefonia, vi dico che è molto interessante verificare la percentuale per abitante di telefoni cellulari che ci sono in Italia, per raffrontarla alla percentuale per abitante di telefoni cellulari che ci sono nel resto del mondo moderno. E cosa che mi riguarda di più, ancora più interessante è verificare la percentuale di telefoni cellulari che ci sono nel mezzogiorno rispetto a quell’Italia, rispetto a quelli che ci sono nel centro-nord. Si scoprirebbe che la diffusione della telefonia mobile nel mezzogiorno non ha nessuna relazione con il livello del reddito pro capite, quindi, si immagina che stia a soddisfare bisogni non decisivi. Se voi verificate qual è l’unico settore che nel sud del nostro Paese quest’anno ha avuto tassi di crescita diversi dal segno meno, scoprirete che nel sud il settore a maggiore sviluppo è quello del commercio all’ingrosso. In Calabria c’è un numero di ipermercati per abitanti superiore a quello che c’è in Lombardia. Di nuovo, le ragioni lì hanno a che fare con l’incrocio perverso tra il marketing e la finanza. La seconda ragione, per la quale, secondo la scrittrice, il mondo è entrato in crisi, è ancora più interessante ed ha a che fare con i sistemi formativi. La Noiville dice: “Ormai nelle università americane” – come per altro ritrovato nella mostra – “si prepara una classe dirigente che è ormai modellata con il taglia e incolla di sistemi formativi altrove sviluppatisi, evidentemente obsoleti, perché non capaci di prevedere, anticipare e a questo punto neanche reagire alla crisi”. Che cosa bisogna fare per evitare che questo abbia a ripetersi e che cosa può fare l’impresa italiana e se volete che cosa può fare il Governo rispetto alle questioni relative alla crescita nel nostro Paese, che è la domanda che il moderatore mi faceva? Allora, l’impresa italiana, Snaidero prima lo accennava, è un’impresa prevalentemente piccolissima e prevalentemente esportatrice. Io non sono tra i principali, anche se dico una cosa che non è politically correct, soprattutto per chi fa il mio mestiere, io non sono tra i principali appassionati del mito del made in Italy, che pure c’è. Il made in Italy dobbiamo stare attenti a che non diventi un marchio e dobbiamo lavorare perché resti un vantaggio competitivo. Negli ultimi anni il nostro Paese ha avuto un tasso di innovazione di prodotto e di processo molto più basso di quello che aveva avuto negli anni precedenti e vive, se volete, su una curva inerziale in cui il brand dei nostri prodotti o meglio di alcuni dei nostri prodotti, che non sono solo quelli più strettamente legati al made in Italy, continua a raccogliere successi che però, se non vengono fertilizzati o annaffiati, rischiano di essere di minore periodo, perché siano sufficienti alla bisogna. In questo anno, per ragioni di necessità, il nostro Governo si è impegnato, come tutti sapete, a provare a mettere ordine nei conti, a fare, alcune, quelle possibili, tra le riforme indispensabili. Non si è ancora potuto impegnare a intraprendere quali possano essere i sentieri per la crescita. Si accinge a farlo. Dal mio punto di vista, che ha a che fare con la crescita delle imprese, devo aprire una parentesi, perché ho molto apprezzato l’intervento precedente di Snaidero. Noi ci occupiamo della ricostruzione dell’Aquila. In questo ho fatto esattamente il contrario di Snaidero: si sono costruite delle case, non ci si è occupati del recupero del sistema produttivo e con 4 anni di ritardo stiamo cominciando ad occuparcene adesso, avendo finalmente capito che far vivere della gente in delle case ricostruite e non dargli del lavoro è come non farli vivere. Quali debbano essere i paradigmi della crescita e quindi che cosa devono fare le imprese per rispondere alla domanda? Io credo che ci siano tanti, moltissimi componenti di un ideale paradigma, io ne vorrei citare solo tre. Le imprese italiane che provano a uscire dalla crisi devono essere anzitutto più plurali e meno singolari. Questa teoria del profitto a breve termine o a brevissimo termine ovvero della concentrazione sui risultati trimestrali ovvero del rapporto con il finito, per dirla con il titolo del Meeting, è oggettivamente una teoria che ha perso. Ci piaccia o non ci piaccia è una teoria che ci ha lasciato in un problema complicato. Le imprese che non comprendono il fatto di essere anzitutto plurali, e capisco che dirla qua è, come dire, fare un goal a porta vuota, sbagliano. Quindi anzitutto più solidali, anzitutto più prospettiche, meno singolari, altrimenti dalla crisi non ne escono. La seconda ragione, secondo me, è più profonda. L’Italia è un paese che, la storia ci ha insegnato, dà il meglio di sé in tutti i campi, nei momenti di crisi. Noi siamo stati un Paese distrutto che nel ’48 ha cominciato a ricostruirsi e in 10 anni abbiamo creato una stagione che poi hanno chiamato del “miracolo economico”. Io credo che per troppi anni noi abbiamo lavorato sul paradigma della ricchezza e non su quello della povertà. Qualora non riuscissimo a recuperare il paradigma della povertà e finalmente a renderci conto che noi non siamo, nel nuovo mondo, un Paese così ricco come quello che eravamo nel mondo antico, perché siamo un Paese relativamente povero e molto indebitato, le nostre imprese non riusciranno a uscire dalla crisi come potrebbero.
Terza e ultima cosa. Io penso che bisogna cominciare a guardare alla domanda e non all’offerta. Questo è molto importante per chi si occupa, per un periodo della sua vita, di governare un pezzettino piccolo di cosa pubblica. Ho visto, di nuovo nella mostra, due spunti: bisogna sostenere l’imprenditorialità giovanile e bisogna aiutare le imprese a svilupparsi. Questo significa che bisogna guardare la domanda delle imprese e le imprese devono guardare la domanda dei cittadini e non l’offerta. Non si devono continuare a calare modelli di sviluppo preconfezionati o, come dice la signora di cui all’inizio, dei taglia incolla. Io credo che se intorno a queste tre cose, di cui la seconda, il paradigma della povertà invece di quello della ricchezza, credo che sia la più importante, le imprese italiane sono d’accordo, sono imprese straordinarie. Gli imprenditori italiani che sono d’accordo, sono relativamente più straordinari dei loro colleghi, se non altro perché hanno costruito un sistema industriale in un Paese senza materie prime, un tempo senza infrastrutture. Potremmo uscire dalla crisi quando saremo un po’ meglio di come oggi siamo. Grazie.
BERNHARD SCHOLZ:
Io ringrazio i quattro relatori. Non voglio ripetere ciò che hanno detto, ma penso che è emerso in tutti i quattro interventi qualcosa che riflette un aspetto compreso in questo titolo del Meeting, perché in ogni persona vive il desiderio di essere utile per il mondo, cioè di andare oltre il confine della propria vita, cioè di essere utili per. E penso che una imprenditorialità che vive di questo motivo, di essere utile per, oltre il limite della propria vita, e pensare di riflesso, per esempio, a mettere prima su le fabbriche e poi le case, che è una bella metafora anche per tante altre questioni, potrebbe essere una motivazione di una crescita vera, consistente, duratura, dove anche si comincia a lavorare molto più strettamente insieme, superando questo individualismo che nessuno ama ma che tanti vivono. Quindi una maggiore fedeltà alla propria vita, all’indole della propria vita ed essere utili per il mondo, perché ogni impresa è un utile per il mondo, è un bene che crea occupazione, che crea opportunità per i giovani. Se noi siamo fedeli a questo nostro desiderio, che questo titolo ci ricorda, secondo me abbiamo anche ragioni e motivi in più per affrontare non solo gli effetti ma anche le cause di questa crisi. Grazie e buona sera a tutti.