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MADE IN ITALY E FILIERE PRODUTTIVE
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In collaborazione con Compagnia delle Opere
Francesco Maria Chelli, presidente ISTAT; Andrea Dellabianca, presidente Compagnia delle Opere; Maria Porro, presidente Salone del Mobile; Luigi Sbarra, segretario generale Cisl; Adolfo Urso, ministro delle Imprese e del Made in Italy. Introduce Luciano Fontana, direttore del Corriere della Sera
Il governo italiano riconosce che lo sviluppo del Made in Italy, sia a livello nazionale che internazionale, è garantito dalle filiere composte da grandi aziende capaci di operare globalmente, le quali coinvolgono piccole e medie imprese locali con elevate capacità produttive. Questo sistema combinato favorisce lo sviluppo del Made in Italy. Tuttavia, l’attuale tendenza a coinvolgere produzioni estere poco controllate mette a rischio le condizioni di lavoro. Lo sviluppo sul territorio italiano permetterebbe un maggiore controllo della filiera e una qualità superiore, sebbene a costi più elevati. Il tema del subappalto spesso delega responsabilità a piccole aziende che possono non rispettare pienamente le norme. È essenziale identificare ciò che rende il Made in Italy di qualità e sanzionare chi non rispetta le regole del lavoro, poiché il fulcro rimane la dignità del lavoro.
Con il sostegno di isybank, Ferrovie dello Stato, Mediocredito Centrale, Confagricoltura, Autostrade per l’Italia, Italian Exhibition Group, YOGA, MARR, Tracce
MADE IN ITALY E FILIERE PRODUTTIVE
MADE IN ITALY E FILIERE PRODUTTIVE
Giovedì 22 agosto 2024 ore 12:00
Sala Neri
Partecipano:
Francesco Maria Chelli, presidente ISTAT; Andrea Dellabianca, presidente Compagnia delle Opere; Maria Porro, presidente Salone del Mobile; Luigi Sbarra, segretario generale Cisl; Adolfo Urso, ministro delle Imprese e del Made in Italy.
Introduce:
Luciano Fontana, direttore del Corriere della Sera
Fontana. Sì, buongiorno a tutti e davvero grazie per la partecipazione così numerosa a questo nostro incontro, che ha un tema importantissimo per il futuro e per il destino del Paese. Ieri abbiamo ascoltato, sempre in questo luogo, il governatore della Banca d’Italia, che ci ha ricordato questi aspetti in chiaro-scuro della situazione economica e sociale del Paese: un indebolimento della crisi europea dal punto di vista della crescita, un rafforzamento delle spinte protezionistiche. Naturalmente, per un’economia come quella italiana, è sempre una prospettiva molto negativa, con danni che possono colpire soprattutto le nostre produzioni e le nostre filiere. Tuttavia, ci ha anche indicato segnali di vitalità del Paese, un Paese che in ogni caso registrerà una crescita, secondo le previsioni, superiore a quella di Francia e Germania, con una capacità di tenuta per quanto riguarda le esportazioni sicuramente buona, anche se con qualche segnale preoccupante. Naturalmente, tutti ci interroghiamo su cosa possa sostenere questa prospettiva positiva del Paese. Il Made in Italy è forse la componente essenziale dal punto di vista economico, quindi la capacità di produzione, la capacità di affermazione sui mercati internazionali, di mettere insieme e sostenere filiere produttive che includono aziende esportatrici importanti ma anche, per così dire, tutta una filiera dell’indotto e della produzione, composta da tante componenti che vanno salvaguardate e mantenute il più possibile all’interno del nostro sistema, sia per una questione economico-sociale che per una questione di sicurezza. La sicurezza, infatti, è diventata l’altra faccia dell’economia. Naturalmente, le questioni che dobbiamo affrontare si inseriscono in un contesto difficile: due guerre ancora in corso, senza una soluzione all’orizzonte, e alcune incognite politiche, come chi guiderà gli Stati Uniti d’America, che determineranno impatti non solo sullo scenario politico e geopolitico, ma anche economico. Ciò che saremo in grado di fare, e che è la cosa più importante per noi, è quello che saprà fare il governo, le nostre imprese, i lavoratori e i loro rappresentanti. Questo è lo scenario in cui si colloca questo pezzo importantissimo di economia, dedicato ai prodotti del Made in Italy e alle sue filiere produttive. Di questo parleremo oggi con ospiti molto importanti e qualificati, sia per quanto riguarda lo studio e l’analisi, sia per le decisioni di governo che devono essere prese, sia per la rappresentanza delle aziende del mondo produttivo. Io non rubo altro tempo e iniziamo questo nostro confronto. Lo inizierei con il presidente dell’Istat, Francesco Maria Chelli, a cui chiediamo: qual è il contesto in cui ci dobbiamo muovere? Insomma, conoscere i dati, conoscere le situazioni, sapere che la prospettiva è la base per orientare ogni decisione. Presidente, prego, a lei.
Chelli. Grazie, direttore, e grazie a questa organizzazione e a questo convegno per l’invito ricevuto. Sì, presenterò un po’ di dati di scenario, per orientare quella che sarà poi la discussione successiva, cominciando dall’andamento recente del commercio con l’estero. Molto semplicemente, vedete queste due curve, una rossa e una verde. Abbiamo le esportazioni che mantengono un andamento abbastanza piatto e una diminuzione delle importazioni in valore. Questi sono gli ultimi dati, i dati più recenti usciti qualche settimana fa, che riguardano tutto il primo semestre del 2024. Abbiamo una diminuzione dell’1,1% in valore delle esportazioni e del 7,4% delle importazioni. Questo vuol dire che la bilancia commerciale, conseguentemente, è in attivo.
Questa seconda slide, sarò molto veloce, serve a chiarire dove si trova l’apporto maggiore nelle esportazioni. Come vedete, l’apporto positivo è sicuramente nelle esportazioni extra-UE, che è il grafico che vedete più in basso. L’export è in flessione nell’area dell’Unione Europea a meno 2,8% e in lieve crescita in quella esterna. Questo andamento ci dice qualcosa di più. Passiamo dai valori ai volumi: abbiamo in qualche modo deflazionato con tecniche statistiche questi valori e li abbiamo riportati ai volumi, che danno un’idea di come stiamo esportando. È chiaro che, a causa dell’inflazione, i volumi sono leggermente inferiori a quelli precedenti. L’export si riduce del 2,8% e l’import del 3,6%. Per entrambi i flussi, questa riduzione è più forte nell’area dell’Unione Europea.
Passando alle differenze territoriali, a come questo export e questo import si sono sviluppati, queste sono le esportazioni per ripartizione territoriale. Il Mezzogiorno regge, ma nel Mezzogiorno si fa una distinzione importante: il Mezzogiorno è sud e isole; per la verità, regge il sud, perché le isole hanno una riduzione del 19%, mentre il sud mostra un aumento, nel 2023, del 16,9%. Tornando al primo semestre del 2024, vedete che l’unico segno positivo lo trovate nel Mezzogiorno, mentre il segno peggiore viene prodotto nel Centro Italia.
Ostacoli all’export e clima di fiducia: l’ultimo bollettino, uscito a luglio, ha segnato il quarto calo consecutivo del clima di fiducia delle imprese nella manifattura, che come vedremo è fondamentale per le esportazioni. Tuttavia, nella manifattura l’indice risale rispetto al mese precedente. Nel primo trimestre del 2024, le prossime dati saranno disponibili a breve, ma nel primo trimestre del 2024 si è ridotta la quota di imprese che dichiarano difficoltà all’attività di esportazione. Quindi, il clima di fiducia, che è un insieme di indicatori diversi, ha un andamento positivo per quanto riguarda le esportazioni.
Questa slide ci dà l’idea di quanto il fenomeno sia concentrato. Mi fermerei un attimo a guardare la quota sul valore totale dell’export nel comparto manifatturiero. Vedete che il 37% di tutto l’export è realizzato da poche imprese, precisamente 482 imprese con più di 500 addetti. Questo che cosa vuol dire? Vuol dire che è un fenomeno molto concentrato. Un altro dato interessante è che le grandi imprese, che rappresentano il 2,8% del totale, ovvero quelle con più di 250 dipendenti, contribuiscono al 53,3% di tutto il comparto. Ovviamente, la propensione all’export cresce con l’aumentare della dimensione aziendale; questo è rappresentato nel grafico in basso, che mostra come la quota di export sul fatturato totale aumenti con la dimensione dell’impresa.
Questo è ancora un approfondimento sulla manifattura, che costituisce la gran parte dell’export nazionale. Qui analizziamo i tipi di aziende: ci sono i gruppi domestici italiani, i gruppi multinazionali esteri e i gruppi multinazionali a controllo italiano. Se sommiamo il verde chiaro con il blu, rispettivamente italiani e esteri, vediamo che sia nelle importazioni che nelle esportazioni l’apporto delle imprese multinazionali è assolutamente maggioritario. Parliamo ora del Made in Italy tradizionale, quindi alimentari, tessili, abbigliamento, pelletteria e mobili. Vedete che la quota di export realizzata da queste imprese è superiore alla media in tutti e sei i settori. Questo vuol dire che il Made in Italy tradizionale ha una maggiore propensione all’esportazione.
Ovviamente, il Made in Italy si fonda su una promessa di bellezza, eleganza, affidabilità, stile e tradizione. Questa promessa, però, non è una rendita immutabile. Questa promessa deve essere in qualche modo mantenuta. C’è un libro interessante di Gianluca Gregori intitolato “Eredi virtuosi e dissipatori”. È chiaro che la nostra generazione ha ereditato questa realtà del Made in Italy. Dipende poi da come questo marchio viene portato avanti; non si può considerare come una rendita fissa. Volevo presentare quest’altra slide, che ci dà un’idea di come le multinazionali siano diffuse su tutto il territorio nazionale, sebbene siano più presenti in alcune aree rispetto ad altre. A sinistra vediamo le multinazionali a controllo estero, e a destra le altre. Se sovrapponiamo le due cartine, soprattutto guardando il blu, vediamo i sistemi locali del lavoro che vedete evidenziati in blu, un lavoro molto dettagliato svolto dall’Istat sul territorio. Il blu indica che queste multinazionali contribuiscono per oltre il 40% al sistema locale del lavoro, e quindi hanno un impatto molto forte sul territorio. Passiamo ora a un confronto tra la nostra economia e le maggiori economie europee. Non ho molto tempo, ma volevo farvi notare la differenza tra il verde scuro e il verde chiaro. Il verde scuro rappresenta i beni, il verde chiaro i servizi. La differenza tra noi e le altre economie, come Spagna, Germania e Francia, che sono i nostri partner più importanti a livello europeo, si vede nella bassa percentuale di servizi. I beni si muovono in maniera adeguata, ma sui servizi siamo in difficoltà, e questo è uno dei fattori critici delle nostre esportazioni. I quadratini indicano la variazione: vedete che la variazione dei beni, rappresentata dai quadratini bianchi, è importante anche per l’Italia, mentre la variazione dei servizi è più ridotta. Per concludere, guardate il grafico a destra: vedete che noi siamo abbastanza vicini, quasi coincidenti, con l’andamento della Germania. La debolezza della Germania finisce per diventare anche la nostra, essendo il nostro partner più importante. Quindi, è chiaro che quando l’economia tedesca rallenta, anche noi facciamo fatica. Non ho tempo di approfondire, ma volevo farvi vedere come l’Italia regge molto bene sui prodotti agroalimentari e un po’ meno sugli altri prodotti del Made in Italy. Guardate il grafico in basso a destra: vedete che l’Italia ha retto molto bene, con esportazioni più forti rispetto agli altri paesi. Questo non ho proprio tempo di farvelo vedere ma cambia la specializzazione in particolare c’è una forte riduzione della quota del tessile abbigliamento e degli altri comparti del Mediterraneo che sono in difficoltà Mi fermo qui perché non voglio abusare del tempo che mi avete concesso. Grazie per l’attenzione.
Fontana. Grazie al Presidente Chelli per il quadro che ci ha offerto e per quello che ci ha mostrato, sia riguardo agli aspetti positivi su cui lavorare, sia alle criticità da affrontare. Io chiederei al presidente della Compagnia delle Opere, Andrea Dellabianca, che rappresenta un po’ un doppio volto delle imprese: imprese che lavorano naturalmente per la propria dimensione aziendale, per il profit, ma anche nella rappresentanza della Compagnia delle Opere. Imprese sia non profit, ma soprattutto quelle dedicate al tema della formazione e dell’educazione, che è uno degli aspetti critici citati quando si ragiona sulle prospettive e sul rafforzamento del Made in Italy. Abbiamo visto, Presidente, le dimensioni troppo piccole delle imprese, questioni legate alla concorrenza e produttività, questioni legate alla capacità di erogare servizi, che è una delle chiavi che ci mancano per migliorare. A lei chiederei come affrontate queste criticità nel vostro mondo come le affrontate e cosa vorreste chiedere a chi prende decisioni in politica per invertire la rotta in questo momento.
Dellabianca. Sì, grazie. Come giustamente ricordava lei, all’interno della Compagnia delle Opere sono presenti sia imprese profit, opere sociali e opere educative. L’interazione fra questi soggetti è sempre stata per noi un’occasione di ricchezza, perché trasferisce il valore dell’organizzazione dalle imprese profit alle non profit e ricorda il senso del lavoro, e viceversa. Questa interazione oggi è quanto mai presente su tutti i tavoli e mette in relazione le grandi imprese con le piccole. Come ricordava lei, entrambi i temi, sia l’aspetto formativo, oggi anche con la riforma degli istituti tecnici, introducono una relazione fra il mondo educativo e il mondo produttivo di servizi che diventa positiva. Ridà contenuto e visione di alcune attività produttive ai ragazzi che iniziano a studiare, dà indicazioni al mondo scolastico, professionale o di altra natura su quali siano le reali necessità del mondo aziendale, e trasferisce alle aziende stesse l’idea che l’aspetto di crescita personale e lavorativa è un compito che nasce nella parte scolastica ma continua all’interno delle aziende. Oggi le aziende stanno riprendendo consapevolezza in questo momento di trasformazione, soprattutto nei rapporti tra collaboratori sui temi del lavoro, sul senso del lavoro, sul perché bisogna impegnarsi nel lavoro. Questo riguarda sia la relazione tra mondo scuola, mondo impresa, mondo sociale, sia il rapporto con le filiere. Il rapporto fra le grandi imprese e le piccole, che spesso sono limitate in capacità di crescita ma che, per particolarità di produzione, sono capaci di innovazione e risposta rapida ai cambiamenti del mercato, è vantaggioso per le grandi imprese. Queste ultime, a loro volta, offrono stabilità organizzativa, economica e una capacità di accesso ai mercati internazionali, come dimostrano i dati, che altrimenti sarebbe difficile per il sistema delle piccole e medie imprese. Chi opera in questa relazione positiva, come si ricorda anche in questi giorni di Meeting, ha un effetto positivo sull’andamento. Incentivare queste relazioni fra i diversi mondi e le diverse dimensioni aziendali ha effetti positivi sul fatturato e sulla capacità di sviluppo. Chi lavora in filiera registra una crescita del 20% nel volume di fatturato e una maggiore capacità di sviluppo estero. Il sistema di relazioni non è un ideale astratto ma ha a che fare con lo sviluppo dell’impresa e la sua sostenibilità. Sicuramente oggi c’è anche un tema di cambiamento tecnologico che deve essere osservato, compreso, e per le piccole imprese questa relazione con le grandi diventa fondamentale. La trasformazione tecnologica richiede competenze e conoscenze che solo attraverso un sistema relazionale positivo possono arrivare anche alle più piccole. C’è anche un cambiamento di comportamento aziendale e di impatto sociale. Le grandi imprese saranno obbligate a sviluppare tutti i temi dell’ESG (Environmental, Social, and Governance) per avere rapporti con il sistema bancario e internazionale, e inevitabilmente questo ricadrà sulle piccole e medie imprese che lavorano in filiera con le grandi. Questo innesca un’altra relazione: una capacità organizzativa e una relazione con il mondo sociale e dell’impresa sociale. Su questo ci sentiamo chiamati alla responsabilità, perché se questa relazione per noi è stata un fattore di ricchezza in cui abbiamo creduto per contenuto, oggi diventa un fattore che dobbiamo saper descrivere, raccontare, inserire in bilancio, mettere su dei dati. Questo richiede una maturazione sia da parte delle opere sociali, che devono fornire indicatori utili, sia da parte delle piccole imprese, che devono descrivere questi contenuti nei propri bilanci e comunicazioni. Questo è obbligato, perché l’approccio al sistema economico sarà molto regolamentato da questo. Si comincia a intravedere come queste relazioni fra diverse tipicità aziendali e dimensioni diventino un fattore di ricchezza e coesione, andando oltre il mero scambio commerciale di beni e servizi, impostando legami duraturi in cui trasferire valore del lavoro, competenze, organizzazione, visione del mercato, capacità di affrontare le nuove tecnologie e i cambiamenti relazionali all’interno dell’azienda. È chiaro che tutto questo, come è stato per il grande sforzo che le imprese hanno fatto durante la pandemia in termini di investimento tecnologico, cambiamento contrattuale e relazionale con i dipendenti, per far fronte alle necessità che c’erano, e questi cambiamenti non hanno influito sulla produttività, questo investimento deve essere riconosciuto e sostenuto dall’intero sistema. Siamo di fronte a un cambiamento tecnologico che per le imprese diventa un punto di osservazione e comprensione. Oltre alla relazione fra imprese, come ho descritto, la relazione con le istituzioni da parte nostra diventa essenziale per trasferire queste necessità e competenze, affinché le istituzioni possano, come già stanno facendo con tutta la normativa sul Made in Italy, nel riconoscere il valore delle filiere, delle collaborazioni positive e dei sistemi che affrontano in maniera coesa questo bisogno, che diventa poi anche una proposta alle istituzioni. Grazie.
Fontana. Volevo fare una piccola aggiunta: ho visto che ha parlato molto di fattori di coesione. Si discute parecchio di due fattori: della possibilità di integrare gli immigrati e della partecipazione dei lavoratori al capitale d’impresa e alla governance. Sono due fattori che possono avere un impatto positivo.
Dellabianca. Sì, sono due fattori che sono già realtà, soprattutto in alcuni territori. L’aspetto del fabbisogno lavorativo che le aziende hanno rende necessario pensare a come inserire, in un percorso formativo e di inserimento sociale, di cui il lavoro è un aspetto fondamentale, anche una popolazione straniera o figlia di famiglie straniere che ormai abitano le nostre città e rappresentano una disponibilità professionale interessante. Questo è già un dato di fatto, e riteniamo che forme di accompagnamento all’inserimento sociale delle figure straniere siano una ricchezza che stiamo già affrontando in diverse forme. Per quanto riguarda la collaborazione, senza voler togliere l’intervento al dottor Sbarra, nelle piccole imprese l’imprenditore è già un collega dei suoi collaboratori: lavora insieme a loro e spesso i collaboratori sono suggeritori di indicazioni di business, di intervento, e partecipano anche ai successi dell’azienda. Oggi questo è un tema reale che vediamo evidente. Poterlo normalizzare, poter dare ordine e sviluppo a ciò che sta succedendo, lo vediamo molto positivamente. Infatti, abbiamo sostenuto la proposta della CISL in maniera attiva, cercando di capirne la sperimentazione nelle aziende, affinché questo dialogo possa essere continuamente corretto e reso più coerente con un tessuto italiano che è diverso, ad esempio, da quello tedesco.
Fontana. Grazie al presidente della Compagnia delle Opere. Un altro punto di vista sulla dimensione aziendale, un punto di vista molto importante, è quello di Maria Porro, presidente del Salone del Mobile. Naturalmente, quando si parla dei pilastri del Made in Italy, il pilastro del mobile e del design è sicuramente uno dei punti fondamentali. Stiamo affrontando una situazione di grandi successi ma anche con qualche elemento di preoccupazione: il mercato cinese, le tensioni geopolitiche che non aiutano imprese molto orientate all’esportazione. Partiamo da un paio di numeri che mi raccontava prima la Presidente: intanto un settore che fattura più di 52 miliardi, quindi immaginate l’importanza per il Paese. Un settore già centrato sulla qualità, centrato sulle filiere che hanno nel nostro Paese le proprie radici, ma che ha bisogno di rafforzamento in un mondo così tempestoso. Quali sono le difficoltà che vedete, le misure possibili e come valutate alcune iniziative in corso, come la sperimentazione delle nuove forme di formazione tecnica o il liceo del Made in Italy, che dovrebbero cercare di aiutare soprattutto in un punto per voi molto importante, quello della scarsità della formazione tecnica, Presidente?
Porro. Grazie per aver riassunto in poche parole quello che è il nostro settore: più di 52 miliardi, con un’esportazione intorno al 53% se parliamo dell’arredamento, quindi una forte vocazione all’export. È un settore che mi piace definire creativo e manifatturiero, perché la parte creativa viene fatta in Italia, ma anche la parte manifatturiera è all’interno del nostro territorio nazionale. Da un’indagine è emerso che solo il 10% delle aziende di arredamento hanno dei siti produttivi all’estero, quindi il Made in Italy, l’arredamento, è davvero un Made in Italy, e questo grazie a una grandissima tradizione manifatturiera, ma anche alla capacità nel tempo di conquistare mercati sempre più lontani. Il Salone del Mobile è stata una chiave molto importante in questo, forse uno dei migliori esempi di come fare sistema, di come, nella competizione sana e nell’aggregazione di aziende tra loro competitor, possa nascere una maggiore competitività.
Le sfide riguardano oggi soprattutto questa competitività, che vede in questo momento, potrei definirla quasi, un’erosione della competitività del nostro settore. È un settore che ha performato molto bene durante la pandemia e anche negli anni post-pandemici, lo abbiamo detto più volte: tutti si sono ritrovati a vivere in casa e a riscoprire quanto l’arredo della propria casa sia importante. C’è in questo momento un rallentamento, ce lo aspettavamo, ma da un punto di vista sia del fatturato che dei volumi, ed era molto bella la slide relativa ai volumi, siamo sopra ai dati del 2019. Il 2020 fa da spartiacque e anche rispetto al Salone del Mobile, questi quattro anni post-pandemia ci hanno portato a ricostruire una fiducia nei confronti di una fiera, che è molto di più che una fiera, perché, pensate, ha attirato quest’anno circa 370 mila visitatori da tutto il mondo, con un incremento del 28% di operatori di settore. Ecco, qui c’è un discorso relativo ai numeri, parliamo di quantità, ma non dobbiamo dimenticarci di parlare di qualità. L’erosione della competitività delle nostre imprese non può e non deve minare la qualità della produzione. C’è sicuramente una difficoltà nel reperimento di manodopera, manodopera professionale. Tra imprenditori ci “rubiamo” la manodopera proprio perché c’è una grande difficoltà, soprattutto per quanto riguarda le figure tecniche. Forse anche perché non siamo stati sufficientemente bravi nel raccontare alle giovani generazioni come il settore dell’arredamento offra un’occupazione di altissimo livello. I siti produttivi, grazie all’industria 4.0, sono cambiati in modo radicale e uno degli strumenti che, se usato correttamente, forse potrà sbloccare questa erosione della competizione è l’industria 5.0, quindi questo può essere uno strumento molto importante. Un settore che esporta più del 53% lo fa in mercati come la Francia e la Germania, che sono i due principali mercati che in questo momento sono in grande crisi. Quindi è importantissimo riuscire a trovare dei nuovi mercati di sbocco e in questo il Salone del Mobile, ma anche il supporto di ICE e degli istituti del commercio estero nel mondo, è fondamentale. Il mercato cinese, l’abbiamo detto, sta vivendo in questo momento una grandissima crisi immobiliare che non sembra sbloccarsi, ma rimane comunque un mercato di sbocco molto importante. Ecco perché a novembre faremo un grande evento proprio a Shanghai per rilanciare il Made in Italy sul mercato cinese, ma non basta. I nuovi mercati interessanti sono, per esempio, l’India, che è una grande promessa ma che presenta delle criticità molto grandi. Trovare partner affidabili è molto complesso, costruire rapporti e relazioni di partnership a lungo termine con dei rivenditori preparati. Lo ricordiamo, il mobile ha delle caratteristiche che richiedono in loco persone competenti e quindi, anche in quel grafico che si vedeva prima della differenza tra prodotto e servizio, una delle sfide del nostro settore è quella di non limitarci più ad esportare esclusivamente prodotti, ma diventare anche fornitori di servizi. Pensate alla progettazione, al montaggio, e questo offre uno sbocco lavorativo molto importante sul quale il supporto delle istituzioni, anche nel ridurre la burocrazia per esempio nell’affrontare mercati esteri, può essere molto utile. Dal nostro canto, poi, si parlava delle tematiche della sostenibilità ambientale e sociale, e questo deve diventare una leva di competitività per le nostre imprese, non deve essere un limite. E qui la battaglia in Europa è molto importante, perché da un lato c’è una tendenza che spinge su prodotti altamente circolari e quindi facilmente riciclabili. Peccato che il Made in Italy si caratterizzi per prodotti di qualità fatti per durare nel tempo. Quindi anche le normative europee dovremo riuscire a spingerle per valorizzare prodotti che sono fatti per avere una lunga durata nel tempo e non tanto facilmente riciclabili. Anche se, lo ricordiamo, i produttori italiani sono tra i primi a utilizzare materie da riciclo. Siamo leader mondiali nella produzione di pannelli di legno di riciclo. Anche qui, lo dicevamo prima nella nostra discussione, l’instabilità geopolitica, le elezioni americane alle porte, ecco, esistono oggi moltissimi freni all’esportazione. A volte certificazioni che sono in realtà dei dazi nascosti, e per un settore, l’abbiamo detto, da 52 miliardi con 66.000 imprese (quindi fate la divisione, capite qual è il fatturato medio), che sono piccole e medie imprese con un’altissima qualità, affrontare mercati esteri, riuscire a certificarsi, riuscire a esportare il proprio prodotto diventa sempre più complicato. E qui il ruolo di una federazione come la Federlegno, di un’associazione come l’Assarredo, ma soprattutto il supporto della politica a livello europeo e internazionale per riuscire a non subire questi dazi ma a valorizzare la qualità del nostro prodotto, è imprescindibile. Siamo già al lavoro per il Salone dell’anno prossimo. Cominceremo con un tour internazionale di promozione, anche grazie alla collaborazione con ICE, e toccheremo i mercati importantissimi di cui abbiamo parlato: gli Stati Uniti, l’India, ma anche gli Emirati Arabi e l’Arabia Saudita. Proprio perché mantenere il pivot, il centro del settore del design a Milano, in Italia, oggi è uno strumento di competizione fondamentale. Ecco, quindi questo è lo sforzo, e penso che, come si diceva prima, se dal dialogo continuo tra le imprese e le istituzioni si riesce a valorizzare e quindi a trasformare quelle criticità in leve di competitività, allora sì che possiamo sconfiggere questo momento di transizione piuttosto complicato.
Fontana. Con Luigi Sbarra, che è segretario generale della CISL, vorrei affrontare 2-3 degli elementi che sono stati già posti sul tavolo dagli interventi precedenti. Intanto la parola chiave: competitività. Quando si parla di competitività, si parla di tantissime cose. Una delle questioni è naturalmente il costo del lavoro, e di aziende che magari decidono di portare le produzioni in posti in cui il lavoro costa di meno, o di questioni legate, come dire, le abbiamo affrontate in tante situazioni che sono state raccontate anche dai giornali, a subappalti che creano catene di competitività giocate tutte sul contenimento del costo del lavoro. Questo è un primo elemento che le chiederei di affrontare: come si affronta la competitività in una situazione in cui si dice che forse l’Italia ha bisogno di salari più alti e non di salari più bassi per il sistema complessivamente. La seconda questione è come i lavoratori, l’abbiamo già affrontato con Dellabianca, possono in qualche modo, come dire, essere degli attori, partecipi e vigili della governance delle aziende, naturalmente con modalità che verranno decise. Per evitare tante di quelle cose che abbiamo visto, ho visto che lei è stato oggi attore di un’ulteriore puntata della polemica nei confronti di quello che è successo con Stellantis, con la Fiat, ex-Fiat e Stellantis rispetto a scelte che via via stanno togliendo al Paese una delle componenti essenziali. Quindi, come il sindacato lavora e aiuta su questo tema della competitività, perché ci sono tanti che dicono che il sindacato è solo conflitto, cioè deve stare a difendere e fare conflitto, e invece ci sono strumenti diversi. In secondo luogo, come si combattono fenomeni che abbiamo visto per l’Ilva, lo stiamo vedendo per Stellantis, di grandi aziende che decidono strategie che poi impoveriscono il paese e i suoi lavoratori. Segretario.
Sbarra. Quante ore ho? Un paio di minuti. Cerco di restare all’essenziale, per essere anche coerente con questo bel evento. No, io penso che uno dei fattori che aiuta una comunità nazionale, un sistema, a vivere la sfida della competitività sia quello di fare leva sugli investimenti. L’Italia ha accusato tanto ritardo rispetto a una competizione che ormai è sfrenata proprio perché negli ultimi 25 anni, non voglio andare oltre, ha rinunciato a fare crescita, a fare investimenti, a migliorare e ad alzare la produttività, a fare interventi sull’innovazione, a sacrificare le relazioni sindacali. Io vedo in tutto questo un riflesso che ci porta oggi a vivere questa condizione di bassa retribuzione salariale. Bisogna ricominciare a fare investimenti, materiali e immateriali. Penso che il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza sia una straordinaria opportunità che non possiamo perdere. Penso che sia necessario costruire, e so che il ministro Urso ci sta lavorando, una nuova visione di politica industriale, che manca da lungo tempo. Noi abbiamo avuto interi settori, intere filiere che sono cadute a pezzi, si sono polverizzati proprio perché è mancato uno schema, una visione di politica industriale pubblica. Aver lasciato tutto agli eccessi della finanziarizzazione, della rendita, della globalizzazione mal governata e aver rinunciato a mettere al centro la qualità e la dignità del lavoro, la stabilità dell’impresa, il valore della persona è stato un grande errore. Noi dobbiamo ripensare un nuovo modello sociale di crescita e di sviluppo, e ciò significa fare politiche industriali. Si parla di Made in Italy, come non sostenere, non valorizzare questo grande patrimonio e questa ricchezza nazionale. Leggevo che il Made in Italy muove 420 miliardi di euro all’anno nel mondo, e la prospettiva, soprattutto nel manifatturiero, è quella di alzare ancora. Ci lavorano quasi 3 milioni di lavoratori, abbiamo filiere che esportano produzioni di assoluto valore, di grande significato che noi dobbiamo saper difendere, saper consolidare anche rispetto ad alcuni rischi di politiche protezionistiche, italian funding, che molte volte rischia di creare difficoltà. Quindi la competitività per un sistema, secondo me, deve essere necessariamente retta da un fattore importante collegato alla crescita, al rilancio degli investimenti pubblici e privati. Non considero un elemento di svantaggio questo tema del costo del lavoro, anche perché questo governo e altri governi precedenti hanno iniettato risorse enormi attraverso incentivi e sostegni alle imprese, attraverso decontribuzione e detassazione per le aziende che assumano soprattutto con contratti a tempo indeterminato. Per me oggi questo del costo del lavoro, dell’eccessività del costo del lavoro mi sembra un falso problema. Semmai uno dei fattori sui quali dovremmo ragionare è come alleggerire il peso della tassazione fiscale sui redditi dei lavoratori dipendenti, dei pensionati in modo particolare, ma anche su quelle imprese che investono in ricerca, in innovazione, che garantiscono l’applicazione dei contratti maggiormente comparativamente rappresentativi, che investono sui temi della salute e della sicurezza negli ambienti di lavoro. Mi permetto di dire che rispetto a tutto questo c’è una necessità oggi di costruire una visione nuova di politica industriale. Ne stiamo discutendo con il ministro Urso, abbiamo aperto tavoli di settori importanti, al Ministero delle Imprese e del Made in Italy, sulla siderurgia, sull’automotive, sul tessile, sulla chimica, sulla farmaceutica, sulle telecomunicazioni, sull’elettronica, stiamo faticosamente risolvendo crisi aziendali. Io ricordo qualche anno fa che al Ministero delle Imprese avevamo quasi 120 tavoli di crisi lasciati in una condizione di perenne istruttoria, oggi ne abbiamo aperti 50, 32 più 23 per monitoraggio. Stiamo risolvendo crisi anche di un certo valore, penso al tema della Marelli, penso alla crisi Varsila a Trieste, penso alla ipotesi che si sta annunciando di reindustrializzare un sito ex Fiat a Termini Imerese. Abbiamo risolto la crisi dell’elettrodomestico a Napoli della Whirlpool. Luci, ma ci sono anche le ombre, sulle quali chiedo al ministro Urso un impegno supplementare, perché abbiamo crisi aperte in Sardegna, abbiamo una crisi pesante a Caserta, abbiamo una crisi che coinvolge i call center, una in modo particolare in Calabria. Quindi dobbiamo costruire una nuova idea di politica industriale, tanto nei grandi asset strategici – dicevo siderurgia, automotive, chimica, farmaceutica, agroalimentare – quanto nel costruire un sostegno alle piccole e medie imprese che devono essere aiutate sotto il profilo dell’innovazione tecnologica. Dobbiamo aiutarle a superare la fragilità di una dimensione piccola, di imprese che non riescono in questo modo a internazionalizzarsi e a sopportare la pesantezza della competizione globale. Io apprezzo, come CISL, il fatto che questo governo sta avviando provvedimenti legislativi di un certo valore. Penso al disegno di legge sull’intelligenza artificiale, penso al progetto di legge sulle terre rare, penso a Transizione 5.0 con un potente investimento sulla formazione, penso al disegno di legge sul riordino degli incentivi alle imprese. Dobbiamo realizzare una forte sinergia, quello che la CISL ha lanciato un anno fa, per la verità, senza aver registrato sostegni e adesioni, di un grande patto nazionale per l’industria italiana, che mettesse allo stesso tavolo governo, sistema delle imprese, organizzazioni sindacali per fare cose. Ne cito 3-4: la prima, chiedere un ruolo diverso dell’Europa sulla politica industriale. Noi dobbiamo costruire un’Europa, un impegno comune dei paesi membri con risorse, tecnologie, saperi, know-how da mettere insieme sui temi della sostenibilità ambientale, sui temi del rilancio delle filiere produttive e anche per quanto riguarda la sfida della formazione delle nuove competenze e per stare dentro la transizione energetica, digitale, ambientale, demografica con un occhio rivolto all’impatto che avrà l’intelligenza artificiale. Secondo, serve sempre in Europa, spero che il Parlamento Europeo affronti questo tema e la delegazione dei parlamentari italiani, costruire un fondo sovrano per sostenere la transizione digitale green. Servono risorse, ciò che sta facendo l’America, ciò che sta facendo la Cina. L’Europa deve darsi una visione che sostenga la decarbonizzazione con gradualità, evitando bagni di sangue. Terzo, dicevo, serve una visione di politica industriale in questo Paese, serve un ruolo anche innovativo delle parti sociali. Vengo all’altro pezzo di confronto. Io penso, spero, che il tempo sia maturo in questo Paese per lasciarci alle spalle un Novecento caratterizzato solo dalla logica del conflitto, dell’antagonismo, del massimalismo e del furor ideologico. È maturo il tempo per innovare le stesse relazioni sindacali con un profilo partecipativo e responsabile. Noi dobbiamo lanciare la sfida, soprattutto in questo tempo di cambiamento, di un nuovo patto, di una nuova fase di rigenerazione del rapporto tra capitale e lavoro, tra impresa e lavoratori, e la parola è partecipazione, far partecipare di più. Guardi, direttore, noi abbiamo avuto negli ultimi anni alcune prime esperienze di accordi partecipativi in alcune aziende importanti del nostro Paese, dove si è negoziato cultura partecipativa. Oggi registriamo benessere lavorativo, soddisfazione delle persone, retribuzioni più alte, produttività e un clima sociale favorevole. Ecco perché abbiamo lanciato, e chiudo, dopo 75 anni di Carta Costituzionale, la sfida di attuare l’articolo 46. Non la sfida di cambiare la Costituzione. Vedo soggetti molto attenti a questa idea di cambiare, di smontare, di demolire, noi vorremmo attuare un articolo della Carta fondamentale che i nostri padri costituenti in quegli anni vollero per assicurare il diritto alle persone di collaborare, di cooperare alla gestione, agli indirizzi, alle scelte, alla possibile ripartizione degli utili nelle proprie aziende. È una grande possibile legge di civiltà, di innovazione nelle relazioni sindacali per aprire un clima diverso nelle aziende, dove possiamo praticare forme di partecipazione gestionale, economico-finanziaria, consultiva. C’è un pezzo tutto italiano, di cultura italiana, che riguarda la partecipazione organizzativa, cambiare l’organizzazione del lavoro, discutere di salari, di inquadramenti, di orari di lavoro, di conciliazione vita-lavoro, di formazione, di politiche attive. Tutto questo rende e può rendere l’ambiente lavorativo più favorevole per sostenere la sfida della competizione a livello europeo e internazionale. Ecco perché sono convinto che c’è una stagione davanti a noi sicuramente carica anche di rischi, ma anche di straordinarie opportunità. Venendo a Stellantis, noi aspettiamo proprio, speriamo nelle prossime giornate, qualche segnale preciso dalla multinazionale. Tirare troppo la corda è pericoloso. Noi abbiamo tutti gli stabilimenti italiani in sofferenza. C’è paura e insicurezza a Melfi, dove Stellantis ha annunciato 5 nuovi modelli ma servono ulteriori 2 anni di cassa integrazione. Nei primi mesi del 2025 la cassa integrazione cesserà per gli occupati diretti e per l’indotto di Stellantis e c’è il rischio di perdere quasi 25.000 posti di lavoro. C’è sofferenza a Melfi, c’è paura a Mirafiori, c’è difficoltà a Pomigliano, c’è paura a Cassino. Hanno venduto prima Marelli, oggi Comau. Stellantis e i suoi manager farebbero bene a presentare in maniera chiara un progetto di visione industriale per gli stabilimenti italiani. Ci devono dire quali investimenti, quali modelli, quali garanzie sulla capacità produttiva e sulla salvaguardia dell’occupazione. Al governo chiedo di accelerare, perché non è più tollerabile incertezza e silenzio, perché mentre il medico studia, il malato rischia di morire. Bisogna subito firmare l’accordo trilaterale che ci aveva garantito Stellantis e anche il governo.
Fontana. Ministro, sono state poste tante questioni, da quelle più generali geopolitiche a quelle più concrete e immediate. Intanto, se mi permette, visto che è stato posto come ultima questione, questo tema di Stellantis, a che punto siamo? A che punto siamo soprattutto sull’obiettivo di garantire il rispetto degli accordi che erano stati fatti e sia della possibilità di alternative per arrivare al famoso milione di auto prodotte in Italia? Insomma, accordi con i cinesi, produzioni. Si chiedono risposte, c’è una novità che ci può dare?
Urso. Io credo che è un po’ responsabilità anche vostra. Se avesse evitato in questo Meeting il CEO Tavares, il CEO di Stellantis, forse avrebbe compreso meglio cosa significa fare impresa sociale. Perché io penso che il compenso dei manager dovrebbe essere commisurato non soltanto ai dividendi degli azionisti, ma anche alla sostenibilità sociale del Paese, agli occupati che realizzano. Io, ogni volta che vengo al Meeting, mi ricarico. Forse lo dico sommessamente, ma sono le invitate per possibilmente rendersi conto di quello che gli ho detto la prima volta che l’ho incontrato, quando gli ho consegnato la carta costituzionale italiana. La nostra Costituzione, cosa che ho ribadito nel mio intervento nei 125 anni della Fiat, pubblico e sul sito, gli dissi oltre un anno fa, nel giugno dell’anno scorso, che la Repubblica Italiana è fondata sul lavoro, articolo 1, non sul profitto. Il profitto è legittimo ma non a ogni costo. E aggiunsi che poi c’è un articolo successivo che parla dell’impresa come impresa con una funzione sociale. E io ho detto alla Fiat, o meglio, ho detto a Torino, davanti a Tavares e davanti a Elkann, che tocca alla Fiat assumersi la responsabilità sociale; tocca oggi a Stellantis rilanciare l’auto in Italia. E noi aspettiamo questa risposta da troppo lungo tempo. Il governo ha fatto la sua parte. Perché nel primo incontro con Tavares, in tutta trasparenza, lui mi chiese due cose per progettare lo sviluppo dell’auto in Italia, fino a raggiungere quello che gli avevo chiesto come obiettivo per Stellantis: un milione di veicoli. Mi chiese due cose l’anno scorso, forse ritenendo che fosse impossibile raggiungerle. Il primo mi chiese di rimuovere l’ostacolo delle Euro 7, il regolamento europeo che rendeva impossibili gli investimenti delle imprese, perché avrebbero dovuto dirigersi su una tecnologia di transizione inutile. Ritenevano che fosse impossibile, ma ci siamo riusciti, ribaltando la maggioranza in Europa e isolando, in quel caso, la Germania. E l’Euro 7 l’abbiamo spazzato via. Per questo Stellantis ha annunciato il prolungamento di alcuni modelli degli stabilimenti italiani, la vita dei modelli. Poi ci chiese una seconda cosa, un piano incentivi commisurato alla produzione in Italia, e abbiamo fatto il più grande e significativo piano incentivi sull’auto, un miliardo di euro, con l’obiettivo di raggiungere che cosa? Primo, la rottamazione del maggior numero di veicoli Euro 0, 1, 2, 3, altamente inquinanti, perché abbiamo il parco auto più inquinante e più obsoleto d’Europa. L’abbiamo raggiunto, perché la stragrande maggioranza di chi ha acquisito una vettura ha rottamato una vettura altamente inquinante. Secondo, consentire che l’auto elettrica fosse alla portata anche dei ceti più deboli, più svantaggiati. E così è avvenuto, perché la gran parte degli incentivi sull’auto elettrica è stata utilizzata dai ceti medio-bassi, a cui abbiamo destinato maggiori risorse. Avevamo ovviamente come obiettivo anche il fatto che bisognava sostenere la produzione italiana, ma quell’obiettivo non è stato raggiunto, perché era Stellantis che doveva aumentare la produzione nel nostro Paese per rispondere alle richieste sollecitate dagli incentivi. Quindi il governo ha fatto la sua parte, l’azienda no. Questa è la situazione attuale. Se ne esce impegnando il sistema Paese, perché noi abbiamo fatto il tavolo dell’automotive prima e poi il tavolo Stellantis, coinvolgendo i sindacati, coinvolgendo le otto regioni su cui siedono gli stabilimenti di Stellantis, coinvolgendo l’ANFIA, l’Associazione delle Imprese dell’Automotive, che è la vera forza del sistema industriale dell’automotive italiano. Sono le componenti che, tra l’altro, fortunatamente, servono anche a comporre le auto tedesche, francesi e di altre nazionalità. Ebbene, e Stellantis deve dare una risposta, e deve darla anche a breve, perché, per esempio, in queste ore, se non ci risponde positivamente sul progetto della gigafactory a Termini, le risorse destinate del PNRR saranno inevitabilmente destinate ad altri, perché non possiamo perdere le risorse del PNRR perché Stellantis non mantiene gli impegni. E la scadenza è prossima, nelle prossime ore. Stellantis deve risponderci su come intende realizzare la crescita del sistema dei veicoli nel nostro Paese, se raggiungerà l’obiettivo che Tavares disse all’uscita dal primo confronto, lo disse lui: “A giorni siamo d’accordo, un milione di veicoli nel nostro Paese.” Quindi, sono loro che devono rispondere in quali stabilimenti, se davvero faranno la quinta auto a Melfi, se davvero investiranno su Pomigliano, se davvero intendono realizzare a Cassino, se davvero intendono fare la seconda vettura, la 500 ibrida, a Mirafiori. È Stellantis che deve rispondere. E con quali investimenti? Perché non ci può presentare contratti di sviluppo come ci ha presentato nella quasi totalità, in cui c’è un contratto di sviluppo in cui chiede risorse allo Stato per ridurre l’occupazione. Questo ci ha presentato. E Stellantis deve capire che i contratti di sviluppo si danno a chi crea occupazione, non a chi riduce l’occupazione. Quindi la risposta deve arrivare da Stellantis, anche sulla gigafactory, perché altrimenti le risorse dobbiamo destinarle ad altri per non perderle, sono le risorse del PNRR in gran parte, per noi poi eventualmente, dove ci fosse un progetto successivo, farlo con altre risorse nazionali. Abbiamo inoltre realizzato il piano transizione 5.0, che è il piano più avanzato in Europa. L’unico che coniuga contemporaneamente innovazione digitale, come l’industria 4.0, innovazione green e formazione. È il piano più avanzato in Europa. Ci abbiamo messo sei mesi di trattativa con la Commissione Europea affinché fosse destinato contemporaneamente all’innovazione digitale, all’innovazione green e alla formazione, ed è rivolto a tutti i settori produttivi, tranne quelli energivori, ovviamente, e a tutte le tipologie di imprese. È il piano più significativo, più avanzato, più complesso e completo oggi in Europa, con 13 miliardi di euro per il 2024-2025, che possono essere utilizzati anche, ovviamente, da Stellantis, ma da qualunque impresa, anche la più piccola. Abbiamo fatto una politica industriale chiara. Io, nel mio primo intervento in Parlamento, alle Commissioni Unite, in cui ho presentato il progetto di legislatura del nostro Paese, e che è disponibile sul sito delle Camere e del Senato, nel mio primo intervento dissi ai parlamentari, alle Commissioni Unite, quale sarebbe stata la politica industriale del nostro Paese. Dissi che, di fronte alla sfida cinese e alla risposta americana, che mette in campo 3 miliardi di dollari con investimenti sulle imprese e con un sistema di contrasto alla concorrenza sleale, di fatto protezionismo, per rispondere all’egemonia cinese, che ha investito ancora di più sul proprio sistema produttivo, l’Europa non poteva dividersi, come allora qualcuno proponeva, dando libertà a ciascuno di fare quello che voleva con gli aiuti di Stato, perché questo avrebbe diviso l’Europa e non avrebbe potuto rispondere alla politica commerciale americana con una guerra come quella che fu realizzata con l’Airbus. Dissi che potevamo rispondere solo con una politica industriale europea che investe sulle imprese, che investe sul lavoro, che investe sulla tutela dell’impresa, con risorse comuni destinate alla politica produttiva. La politica industriale è chiara, e questo noi in Italia lo stiamo facendo, rimuovendo ostacoli importanti. Il problema dell’Italia non è il costo del lavoro. Non c’è un imprenditore, anche poco fa c’era una multinazionale che ho ricevuto qui, che intende investire qualche miliardo in Italia, che mi abbia parlato del costo del lavoro. Non esiste il problema del costo del lavoro, anche perché oggi, nell’economia deglobalizzata, in cui le imprese si ricollocano all’interno dei continenti, il nostro costo del lavoro va commisurato non a quello dell’Asia, ma a quello della Germania, della Francia, perché lì è la competizione. Non esiste il problema del costo del lavoro, esiste il problema del costo dell’energia. Questa è la richiesta che tutti mi fanno: il costo dell’energia e dell’approvvigionamento energetico, che si risolve in un solo modo. E ho chiesto ai sindacati di esprimersi su questo, e l’ho chiesto alla Confindustria. Si risolve in un solo modo: sviluppando ovviamente l’energia rinnovabile, come stiamo facendo. Transizione 5.0 è energia rinnovabile, con 6,3 miliardi di euro per le imprese che installano pannelli fotovoltaici fino all’autoconsumo industriale, e nel contempo programmando la produzione di energia nucleare nel nostro Paese. Non c’è altra soluzione, perché anche il gas è in via di transizione. Dopo il petrolio chiuderemo i rubinetti del gas e non avremo altra forma di energia continuativa se non il nucleare. E per questo stiamo programmando di realizzare in Italia le centrali, i reattori nucleari di terza generazione avanzata, cioè quelli modulari e componibili, che poi saranno installati là dove vengono richiesti. Lo possiamo fare, sì, perché ci sono imprese italiane che su questo non si sono fermate, lavorando dall’Italia per l’estero. Il problema italiano era, perché lo abbiamo risolto, l’approvvigionamento di materie prime critiche. Il Parlamento ha approvato, poco prima della chiusura, la conversione del decreto legge che consente in Italia di realizzare gli obiettivi europei del Regolamento Europeo sull’approvvigionamento di materie prime critiche, cioè delle 34 materie prime critiche elencate dalla Commissione Europea, che servono a che cosa? Alla tecnologia green, alla tecnologia digitale: il cobalto, il manganese, il litio, le terre rare, tutto ciò che serve a produrre la tecnologia digitale green. Ebbene, noi abbiamo fatto un decreto legge, convertito dal Parlamento, che consente di riaprire o di aprire in 11 mesi le miniere nel nostro Paese. E le Regioni avranno una royalty. Perché sapete come mi sono ritrovato? Perché poi noi siamo lì per capire dove sono i problemi. Con la legge sull’estrazione, che risale, credo, al ’27, che prevedeva un pagamento, una tariffa pari a 16 euro all’ettaro l’anno. 16 euro all’ettaro l’anno. E mentre già alcune imprese si stavano presentando alla Commissione Europea per chiedere dei progetti alla Commissione Europea, che sarà chiamata ad approvarli, per poi realizzarli, dove fossero definiti strategici per l’Europa, nel nostro Paese, con quelle norme e con quelle tariffe, io mi sono affrettato a fare un decreto legge che invece prevede una royalty sulla produzione delle materie prime critiche pari al 7%, come quella che viene percepita dalla Basilicata sul petrolio. E come la Basilicata, su quella royalty, fa il bilancio regionale, ci sono diverse regioni italiane che sulle royalty delle estrazioni di materie prime potrebbero fare il loro bilancio. Noi non ci fermeremo sull’innovazione del Paese. Il momento stesso in cui Giorgia mi ha detto “Vai, ministro dell’Industria e del Made in Italy”, dopo poche settimane le ho presentato un cronoprogramma dei primi tre anni di riforme. Siamo a due anni, nel 2025 sarà il terzo anno, di tutte le riforme che erano necessarie al Paese nei primi tre anni, per poi dispiegare appieno il proprio sviluppo. Molte di quelle riforme le abbiamo già fatte. Parliamo di materie prime critiche, abbiamo parlato di riforma sugli asset strategici del Paese, abbiamo fatto appunto la transizione 5.0, abbiamo fatto una serie di riforme importanti e significative di cui il Paese attendeva da anni, e alcune le faremo nel prossimo anno. Quella che entrerà tra settembre e ottobre in Consiglio dei Ministri è la prima legge annuale sulle piccole e medie imprese. Era prevista in un dispositivo di legge del governo Berlusconi del 2011. Come l’Italia avrebbe dovuto fare, noi l’abbiamo fatto, gli altri no. Una legge annuale sulla concorrenza. L’ultima è stata approvata a luglio dal Consiglio dei Ministri. Il governo Berlusconi, lungimirante, consapevole del sistema del Paese, aveva realizzato una norma che obbligava i governi a fare ogni anno una legge annuale sulle piccole e medie imprese. Nessuno l’ha fatto. Noi presenteremo la prima legge annuale sulle piccole e medie imprese ora, in autunno, al Consiglio dei Ministri e al Parlamento, che interverrà per rendere più semplice, più sostenibile anche sul piano finanziario e normativo, lo sviluppo delle piccole e medie imprese, del sistema cooperativo, dell’impresa sociale, di quello che è il vero tessuto produttivo del nostro Paese, e poi via via fino a completare un cantiere di riforme legislative importanti che procederà con la manutenzione. In questi due anni non c’è stato un caso di un’impresa in crisi giunta al Ministero che si sia concluso con la soppressione dell’impresa. Un solo caso. Sfido gli altri sindacalisti, non dico Luigi, a dirci quale caso. Prima di noi non si sapeva quanti fossero i tavoli di crisi. All’ultima mia interrogazione parlamentare qualcuno disse che erano 180. Ma non si sapeva, erano tenuti nascosti, non si sapeva quali fossero, quando si riunivano, come si riunivano e quale sorte avessero. La prima riforma che ho fatto è stata la trasparenza. Nel sito del Ministero troverete quanti sono i tavoli di crisi, credo 32, quanti sono i tavoli di monitoraggio, cioè quelli che monitoriamo prima della crisi; studiamo il malato prima che arrivi in ospedale, come si svolgono e come si concludono. E si sono conclusi soltanto positivamente. Veniva citato il caso Marelli, il caso di Wärtsilä, il caso di Ilpea e Emea, il caso di Fosso e Battipaglia. Non cito a caso questi esempi, perché noi crediamo che sia necessario mantenere i siti industriali nel nostro Paese. E allora, quando non si può continuare con quell’attività produttiva, perché è diventata non più competitiva, noi lavoriamo per trovare soluzioni industriali diverse. A Wärtsilä saranno costruiti i vagoni commerciali del gruppo Amsc a Marelli termomeccanica farà la sua attività, a Fosso e Battipaglia non si farà più quello che si faceva prima in fibre ottiche, ma si farà qualcosa di simile, a Ilpea e Emea non si faranno più gli elettrodomestici, ma si faranno parti per le energie rinnovabili. Cioè, il nostro obiettivo è mantenere e salvaguardare i siti industriali riconvertendoli a soluzioni più competitive. Abbiamo rimesso in campo a Termini Imerese, dopo 13 anni di cassa integrazione, e lo abbiamo assegnato a un gruppo industriale multinazionale che dovrebbe farne un grande parco industriale. Tra poche settimane vi annunceremo da cosa cominceremo a Termini Imerese. Non avete idea? No. Abbiamo ripreso in mano la siderurgia italiana. Mi hanno fatto una campagna di stampa per evitare che intervenissi. Fino all’ultimo giorno in cui si riuniva il comitato dei ministri, doveva decidere intere pagine di giornali per evitare che accadesse; l’associazione del delinquere, ormai la magistratura è in campo. Se non fossimo intervenuti, per 4 giorni, erano 4 giorni di approvvigionamento, poi sarebbe dovuto chiudere l’ultimo altoforno. Ricordo di aver telefonato la notte al prefetto di Taranto per capire cosa ci facessero quelle navi che stavano portando via il materiale. Dopo 4 giorni non ci sarebbe più stata la materia prima necessaria ad alimentare l’ultimo altoforno, il che significa chiudere l’ultimo impianto, far saltare tutti gli impianti. In sei mesi, rilancio produttivo, manutenzione, già è partita la gara per l’assegnazione. Speriamo che si concluda positivamente al più presto. Piombino, nove anni di cassa integrazione, due importanti partner internazionali, Jindal, ci stiamo lavorando, Metinvest ormai in porto per farne addirittura due investimenti produttivi e il rilancio della tecnologia italiana. Stiamo lavorando su tutti i settori, tra poche settimane, dopo un confronto a livello di governo e ovviamente a livello con le parti sociali e produttive, perché noi lavoriamo in un clima di coesione. La coesione è fondamentale in questo Paese. Raffrontata a quello che è accaduto in altri Paesi europei nelle ultime settimane, negli ultimi mesi. Qual è il Paese oggi? Il Paese del passato, l’Italia che veniva dipinta, era l’Italia dell’alto costo del lavoro, rispetto ad altri, e l’Italia sostanzialmente degli scioperi continui e ripetuti. Io guardo gli altri Paesi europei e dico: Qual è il Paese oggi che garantisce più coesione sociale, più continuità d’azione di governo, più affidabilità? È l’Italia, rispetto agli altri grandi competitori europei. Più affidabilità nella continuità del governo, più certezza e continuità, perché se vi guardate intorno vedete che negli altri purtroppo non è così. Dico purtroppo perché per me è un problema confrontarmi con la Germania, in cui c’è una coalizione in cui, se parli con il parlamentare, con il ministro liberale o con quello socialdemocratico, dicono cose diverse. Per me è un problema, non so ancora chi sia il ministro dell’Economia in Francia, di un governo di coalizione in cui ancora non si capisce il programma. Ma il governo che oggi può garantire più affidabilità, più continuità, e il Paese che può garantire più coesione, oggi è l’Italia, a livello internazionale tra i grandi Paesi dell’Occidente. In Giappone, c’è stato da poco un grande punto interrogativo; negli Stati Uniti c’è stato da poco un grande punto interrogativo; in Gran Bretagna hanno avuto quattro governi in pochi anni, tre conservatori, ora il nuovo governo laburista, punto interrogativo. Quindi stiamo lavorando a questo. Io penso che si possano raggiungere obiettivi significativi da questo punto di vista, e tra l’altro stiamo lavorando con la Confindustria e a breve ci confronteremo anche con il sindacato su uno degli altri problemi significativi, oltre al costo dell’energia, che è un problema strutturale, ovvero il costo degli alloggi, perché le imprese vorrebbero assumere, ma chi è disponibile a lavorare non è in condizione di pagarsi l’alloggio. Per cui stiamo sviluppando, insieme al Ministro dell’Economia, al Ministro delle Infrastrutture e al Ministro del Lavoro, con la Confindustria, ma ci confronteremo anche con i sindacati, un piano casa, un piano casa per l’industria, un piano casa strutturale che consenta alle imprese, come accadeva in passato, penso all’Olivetti e non solo, di realizzare gli alloggi che servono per i propri lavoratori utilizzando anche le aree demaniali, anche perché le 23 province in cui vi è una carenza di alloggi e una richiesta di personale corrispondono sostanzialmente ad aree in cui vi sono vaste aree demaniali non più utilizzate, pensiamo al nord-est. Quindi un piano strutturale che consenta all’impresa di realizzare gli alloggi, anche con interventi dei fondi, e un piano transitorio che possa avere una durata di tre anni, che consenta all’impresa o al lavoratore di avere il proprio alloggio nella prima fase dell’assunzione, soprattutto per i giovani neoassunti. Su questo lavoreremo per la legge finanziaria e penso che sarà un obiettivo significativo. Stellantis è l’unico produttore in Italia. Da lì dobbiamo partire. Ma sappiamo che non basterà comunque. E per questo abbiamo lavorato affinché l’Italia diventasse un Paese produttore di tecnologia green e di tecnologia digitale. Nei primi sei mesi di quest’anno, 9 miliardi di investimenti sulla microelettronica in Italia: 5 miliardi e 100 milioni a Catania, 3 miliardi e 200 milioni in Piemonte, Silicon Box, e altri investimenti più piccoli in altre regioni del nord nei primi sei mesi. Siamo diventati il Paese che produce microchip in Europa, semiconduttori digitali. Tecnologia green: negli accordi con la Cina è prevista la partnership sulla tecnologia green e la mobilità elettrica e infatti, dopo la missione del Premier italiano Giorgia Meloni in Cina e l’accordo sottoscritto dal mio dicastero e dal Ministero dell’Economia, abbiamo già annunciato quattro importanti partnership nell’eolico e nel solare in Italia, non per assemblare, ma per produrre in Italia con la tecnologia più avanzata in questo campo, e quella loro per il mercato europeo e il mercato mediterraneo. Nel frattempo stiamo sviluppando Trinacria a Catania, perché nel piano transizione 5.0, avendo una visione industriale, sei mesi fa ho fatto una norma di legge che prevedeva criteri di qualità sulla tecnologia fotovoltaica, e gli incentivi di transizione 5.0, 6,3 miliardi di euro, sono destinati in misura prevalente alla tecnologia di più alta performance, che è quella che produce Trinacria a Catania, per fare di Trinacria il più grande stabilimento fotovoltaico d’Europa nei prossimi sei mesi. Questa è politica industriale. Mobilità elettrica: abbiamo sottoscritto quattro memorandum con quattro importanti case automobilistiche cinesi che vorrebbero investire in Europa e prendono in considerazione l’ipotesi di investire in Italia. Si concluderanno nei prossimi giorni. Una mia task force sarà nuovamente in Cina per incontrare queste e altre tre case automobilistiche. Ci vuole tempo per sviluppare accordi di questo tipo, ma noi sappiamo che un’unica casa automobilistica non può fornire a un Paese come l’Italia tanti modelli da soddisfare tutte le esigenze dei consumatori italiani. Un’unica casa automobilistica non può fare più di quello che noi speriamo che faccia, cioè raggiungere l’obiettivo di un milione di veicoli. Per sostenere le filiere dell’automotive serve almeno un altro produttore, almeno un altro, perché si deve raggiungere un livello produttivo di almeno un milione e quattrocentomila, un milione e mezzo di autoveicoli nel nostro Paese, e quindi serve almeno un altro produttore. La garanzia di quello che facciamo è la nostra trasparenza. A tutti gli incontri tecnici con i produttori cinesi ha partecipato un rappresentante dell’ANFIA, e a tutti i miei incontri con interlocutori cinesi istituzionali o case automobilistiche ha partecipato il presidente dell’ANFIA. Come a dire: noi facciamo con voi per degli stabilimenti produttivi, non assemblaggio, che debbano avere componenti italiane per un valore di almeno il 45% e tutta la parte sensibile, quella dell’intelligenza artificiale, sarà realizzata in Italia. In tutti i memorandum è previsto questo, sotto le regole europee e italiane sulla sicurezza. Sul Giornale dell’Oltralpe avevamo fatto l’incontro sull’intelligenza artificiale. Non ho trovato la parola “intelligenza artificiale” in nessun documento da noi sottoscritto. Anzi, esattamente il contrario. In tutti i documenti da noi sottoscritti la condizione è che tutta la parte sensibile sia realizzata nel nostro Paese, sotto le regole italiane ed europee. Io credo che insieme, nei prossimi 40 mesi, completeremo il progetto per la rinascita produttiva del nostro Paese, per farne un grande competitore internazionale, in cui la forza è proprio la sua coesione sociale. Il fatto che vi siano imprese come le vostre, che si fanno carico della sostenibilità ambientale, produttiva e sociale, e io penso che questo lo devono fare anche le grandi imprese che investono nel nostro Paese.
Fontana. Bene, io ringrazio il Ministro, ringrazio il Presidente dell’Istat, il Presidente della Compagnia delle Opere, la Presidente del Salone del Mobile e il Segretario della CISL per questo dibattito. Sono stati posti tanti temi, sono stati presi molti impegni. Siamo qui a sostenerli e a verificarli. Grazie ancora a tutti.