L’UOMO, IL VOLTO, IL MISTERO. CAPOLAVORI DAI MUSEI VATICANI

L'uomo, il volto, il mistero. Capolavori dai Musei Vaticani - II° tempo

21/08/2011 - ore 15.00_x000D_ Presentazione della mostra promossa e organizzata dalla Segreteria di Stato alla Pubblica Istruzione e Istituti Culturali della Repubblica di San Marino in collaborazione con i Musei Vaticani. Partecipano: Romeo Morri, Segretario di Stato alla Pubblica Istruzione e Istituti Culturali della Repubblica di San Marino; Maria Gloria Riva, Monaca dell'Adorazione Eucaristica e Studiosa d'Arte; Giovanni Carlo Federico Villa, Storico dell'Arte, Università degli Studi di Bergamo. Introduce Giovanni Gentili, Storico dell'Arte e Curatore della mostra.

Presentazione della mostra promossa e organizzata dalla Segreteria di Stato alla Pubblica Istruzione e Istituti Culturali della Repubblica di San Marino in collaborazione con i Musei Vaticani. Partecipano: Romeo Morri, Segretario di Stato alla Pubblica Istruzione e Istituti Culturali della Repubblica di San Marino; Maria Gloria Riva, Monaca dell’Adorazione Eucaristica e Studiosa d’Arte; Giovanni Carlo Federico Villa, Storico dell’Arte, Università degli Studi di Bergamo. Introduce Giovanni Gentili, Storico dell’Arte e Curatore della mostra.
La mostra è allestita presso i Musei di Stato della Repubblica di San Marino.

 

GIOVANNI GENTILI:
Questioni tecniche e… monacali – lo dico con molta simpatia – ci hanno costretto ad una piccola dilazione sull’orario previsto. Io sono Giovanni Gentili, in veste duplice di curatore della mostra che andiamo a presentare e di moderatore della stessa. Ringrazio gli amici del Meeting per la fiducia che m’hanno dato, specialmente nel farmi rivestire questo secondo ruolo. Ma mi sento a casa mia, essendo stato collaboratore del Meeting in senso stretto nelle grandi mostre per molti anni. La mostra “L’uomo, il volto, il Mistero. Capolavori dai Musei Vaticani” è frutto non solo della mia testa, che ovviamente è molto piccola, ma di quella più grande di Antonio Paolucci, che è il direttore dei Musei Vaticani e avrebbe dovuto essere qua con noi, ma imprevisti impegni familiari l’hanno trattenuto distante da Rimini, lui che pure è riminese di nascita e di abitazione, almeno fin dai tempi dell’università. Manda a tutti i presenti il suo saluto. Questa mostra nasce anche grazie alla disponibilità degli amici direttori dei molti reparti dei Musei Vaticani perché – come avremo modo di vedere poi velocemente – la mostra considera un excursus cronologico e storico-artistico veramente ampio, dal V secolo a.C. fino a ieri, alla fine del Novecento. La mostra, come sapete, è aperta a San Marino, al Museo di Stato, ricco di cose che pochissimi conoscono, anche – come sempre accade – nel proprio territorio, nelle adiacenze, qui a Rimini, perché, essendo nessuno profeta in patria, come recita il Vangelo, non ci si accorge delle bellezze che abbiamo sotto casa o dentro casa e spesso le andiamo a cercare fuori. E’ un museo a collezioni plurime: si va dal preistorico fino quasi al contemporaneo, e negli spazi per gli allestimenti temporanei è stata sistemata questa mostra – piccola, sono 43, 44, le opere – ma importante. Una mostra che mi è molto cara per il tema e per le opere esposte nella medesima. Prima di parlarne, do la parola all’Onorevole Romeo Morri, Segretario dell’Istruzione e Culture Politiche Giovanili della Repubblica di San Marino. Grazie.

ROMEO MORRI:
Signori e signore, cari amici del Meeting, sono molto onorato di essere qui e di portare il saluto del Governo della Repubblica di San Marino. Sono orgoglioso di presentarvi una mostra che non solo ha un’altissima valenza culturale ma racchiude in sé importanti valenze. “L’uomo, il volto, il mistero. Capolavori dei Musei Vaticani”, è stata realizzata grazie alla disponibilità del Governatorato della Città del Vaticano, nella persona del cardinale Giovanni Lajolo e di due curatori: il professore Paolucci, Direttore dei Musei Vaticani e il professore Giovanni Gentili, storico dell’arte. E anche di un altro amico qui presente, Marco Ferrini. A queste persone va il ringraziamento mio e della Repubblica di San Marino, per l’attenzione e la disponibilità a concretizzare questa mostra che rende omaggio a papa Benedetto XVI, a seguito della sua visita in Repubblica, il 19 giugno scorso. Una visita accolta da tutti come un grande evento, non solo di natura pastorale ma anche civile e, aggiungo, anche istituzionale: è stato un momento che non dimenticheremo mai. Ma non si possiamo sottacere il simbolismo che sottende questo progetto culturale nel quale si legano intimamente due Stati: San Marino e il Vaticano. Due piccoli Stati con alle spalle oltre mille anni di storia, diversi per evoluzione e tradizione, oggi uniti in un segno nuovo, in un segno importante, il segno dell’ arte. San Marino non ha mai avuto palazzi di marmo, cupole d’oro né grandi artisti: la storia del suo passato ha cristallizzato la sua immagine di piccolo paese di gente umile che si è accontentava della sua piccolezza, ma ha sempre difeso strenuamente quella libertà e quella indipendenza lasciata in eredità dal santo Marino. L’unica Repubblica al mondo, ci tengo a sottolinearlo, fondata da un santo. Anche il Vaticano è uno Stato piccolo, ma la potenza della sua immagine, che gli deriva dal messaggio apostolico cristiano, si estende su tutto il mondo. Ed è stata proprio l’arte, oltre alla parola, il primo strumento di diffusione del cristianesimo: pittura, scultura, architettura che, dapprima con funzioni didascaliche, costruirono la prima identità culturale dell’ Europa. Poi, con Giulio II, l’arte assunse a vera e propria funzione culturale, fu messa a disposizione della gente. Ebbe inizio da qui la creazione di quelli che sono poi diventati i Musei Vaticani che da più di cinquecento anni conservano, accrescono, espongono tutte le raccolte d’arte, tra le più grandi del mondo, dal momento che espongono l’enorme collezione di opere d’arte accumulate nei secoli dai papi.
La visita del Santo Padre a San Marino e le ottime relazioni diplomatiche intercorse tra i due Stati hanno reso possibile questa mostra. Per la Repubblica di San Marino, si pone come un’occasione unica, importante di promozione culturale, andando a consolidare un filone iniziato lo scorso anno con la mostra dedicata agli impressionisti, cui ha fatto seguito una mostra che abbiamo inaugurato nelle settimane passate: una quadreria del ’600 di una collezione privata, la collezione Pizzi, dal titolo “Opus Sacrum opus profanum”, che è esposta assieme alla mostra di cui stiamo parlando a San Marino.
San Marino vuole giocare le carte della qualità, ottimizzando con progetti di assoluta eccellenza il recente inserimento nel patrimonio mondiale dell’umanità dell’Unesco. Non solo, ma intende rispondere con il meglio delle sue capacità organizzative di accoglienza a quella campagna mediatica che così spesso l’ha penalizzata negli ultimi mesi. Questa mostra ne è un esempio sintomatico. Inoltre, per il popolo del Meeting, abbiamo organizzato anche un servizio con navette che partiranno proprio qui, dal Meeting, e porteranno i giovani e le persone che vogliono visitare queste mostre nella Repubblica di San Marino. Alla sua realizzazione hanno contribuito le più alte istituzioni dello Stato, a cominciare dagli Eccellentissimi Capitani Reggenti che le hanno conferito il suo alto patrocinio insieme alle Segreterie di Stato: Affari Esteri, Cultura, Turismo, Finanze, Territorio.
Abbiamo presente qui anche il Segretario di Stato alle Finanze, a sostegno di questa iniziativa culturale di grande valore. Naturalmente, partecipano i Musei di Stato e la Commissione Nazionale Sanmarinese per l’Unesco. Accanto loro, seguendo quel filone di sinergia pubblico e privato già altre volte positivamente esplorato, si sono affiancati i privati: la Fondazione San Marino Cassa di Risparmio, la Fondazione Ente Cassa di Faetano, la Società Giochi del Titano. A tutti loro, va il nostro più sincero e caloroso ringraziamento.
Non entrerò nel merito del percorso culturale che la mostra dipana attraverso le opere pittoriche e scultoree. Un percorso che, del resto, è stato sapientemente illustrato da due grandissimi curatori: il professor Antonio Paolucci, che oggi non è presente ma che veramente ha collaborato in maniera grande per la realizzazione di queste mostre e lo storico dell’arte Giovanni Gentili. Due grandi personalità che ci onoriamo di annoverare tra i nostri amici, gli amici di San Marino. Un ringraziamento mio personale va anche a Suor Gloria, per la sua squisita attenzione e disponibilità ad iniziative culturali realizzate nella nostra Repubblica da parte della Segreteria di Stato alla Cultura e alla Pubblica Istruzione. La sua preparazione, la sua attenzione per San Marino, sono veramente grandi, io la ringrazio di tutto cuore. Presentare questa mostra la vigilia dell’ annuale appuntamento con il Meeting per l’amicizia tra i popoli, crediamo aggiunga ulteriore valore a questa iniziativa che vuole essere polo di attrazione per il grandissimo popolo del Meeting e volano promozionale per quel sempre più vasto bacino turistico che si nutre di arte.
Siamo certi che, nonostante le difficoltà del momento, causate da una congiuntura mondiale che San Marino sente particolarmente proprio, per un piccolo Paese sia importante presentarsi al mondo come soggetto attivo del mondo della cultura: va in questo senso la partecipazione alla Biennale di Venezia. Che la quadreria del ’600 sia il migliore antidoto per sconfiggere la crisi, per ridare fiducia alle persone, per aprire la strada di un nuovo sviluppo e specialmente per arricchire culturalmente i sammarinesi e i loro ospiti. Grazie.

GIOVANNI GENTILI:
Grazie, anche per la fiducia accordata a me, innanzitutto, e ovviamente anche per quella a Paolucci, che però ha basi più solide, e per averci accolto e ospitato per questa nostra mostra che adesso io vi illustro brevemente. Va da sé che quello che si riesce a rievocare qua, tramite la parola e qualche immagine, è poco rispetto alla suggestione che la mostra può provocare in ciascuno di noi: non lo dico per costringervi ad andare su e pagare cinque euro di biglietto, ma perché è così. Quelle che la parola e l’immagine evocano sono emozioni diverse da quello che gli occhi e il cuore vedono, le opere e il cammino lungo il quale esse sono state collocate. Io parlo di cammino perché non posso parlare di un percorso espositivo vero e proprio, ma è una sorta di pellegrinaggio sui generis, come ho scritto anche in catalogo, formato da momenti, più che da tappe, considerati anche in base al fatto che la mostra è un omaggio alla visita che il Santo Padre ha compiuto in Repubblica il 19 giugno scorso.
Con l’aiuto di qualche immagine, vado ad illustrarvi questo percorso che si svolge in sei momenti: la creazione, il primo, l’albero della conoscenza il secondo; il terzo momento è dedicato agli dei, agli eroi, agli uomini, il quarto al Redentore dell’uomo, il quinto al Santo Volto. Ne ho lasciato qualcuno? Non mi torna il conto! Vedremo durante il percorso, e le immagini mi aiuteranno. È un percorso in cui, innanzitutto, non si considera il ritratto o l’immagine per le sue caratteristiche fisionomiche o psicologiche, anche se sono inevitabili, specialmente le seconde, perché si farebbe un torto all’artista e al ritratto non considerandole del tutto. Ma è un percorso che prende le mosse dal desiderio d’avere una faccia che sia solida, costante, e che rispecchi quel desiderio di bene che abbiamo dentro innato e che le tragedie della vita, del tempo di cui siamo spettatori e magari partecipi, non riescono per fortuna a distruggere. C’è una positività di fondo che, grazie a Dio, ci è accaduto di avere e che la storia ci ha confermato, che ci permette di guardare al presente con fiducia, nonostante la durezza del presente stesso. Il primo momento è la faccia creata. A me l’hanno data mio padre e mia madre. Se qualcuno di voi avesse conosciuto i miei genitori, che sono entrambi morti da tempo, riconoscerebbe gli occhi di mia madre, il naso di mio padre, il temperamento di mia madre, ahimè: se avessi preso quello del mio babbo, sarei stato un attimo più tranquillo, più posato… Ma non sarei forse stato così attento ai segni, ai colori, come mia madre che fu educata dal lavoro che faceva: era operaia tessile, il babbo era muratore. La faccia creata, dunque, come nei miti, specie quelli medio orientali: ce n’è uno egizio – e in questo caso è interessante che anche l’Egitto si sia mosso in questo senso – dove si parla della creazione dell’uomo e della donna a partire dall’uso che viene fatto di terra e acqua mescolate insieme da parte di un dio o di un semi-dio. Come Prometeo, che questo primo pezzo, rilievo marmoreo di un sarcofago – l’unico peraltro non proveniente dai Musei Vaticani ma da un ente culturale vaticano, che è la Pontificia Commissione dell’ Archeologia Sacra – ci presenta. Vedete Prometeo in fondo, alla vostra destra, mentre seduto termina di modellare la statua di un uomo alla presenza di due ninfe: una seminuda, allegoria dell’acqua, ha anche un orcio da cui scaturisce l’acqua stessa, l’altra, invece, tutta bella vestita tra le fronde, è allegoria della terra, dei boschi, ecc. Sono i due elementi primordiali, acqua e terra, con la cui la creatura viene formata. Ma attenzione, vi è formata la creatura priva di vita: il dio o il semi-dio non ha la capacità di donare la vita alla creta che è per sé immobile. Quindi deve intervenire una persona diversa, in questo caso una diversa divinità, che infonda la vita alla statua stessa. La divinità, ahimè, non la vedete perché il frammento è, appunto, frammentario: ma se l’immaginazione riesce a costruire qualcosa alla vostra destra, grazie a quella mano che si vede in cima, all’altezza della testa dell’uomo appena nato, appena creato, appena modellato, si intravede appunto la dea Minerva, l’Athena, la dea della saggezza, che infonde lo spirito alla creta donandogli vita attraverso il posizionamento sul capo della statua di una farfalla, di cui vedete un po’ il corpo e un pezzetto d’ala.
La creatura creata è figlia così di due persone diverse, ma non sono un padre e una madre: sono un fattore materiale, qualcuno che costruisce la materia e qualcun altro che, dal di fuori, le dà la vita. C’è come un dualismo di fondo che la mitologia classica riconosce già esistente nella creatura umana. La Genesi, l’esperienza giudaica e l’esperienza giudaico-cristiana, il cristianesimo, interpretano diversamente la creatura stessa. La Genesi, in due momenti, uno consequenziale all’altro, accenna alla creazione, parla del Dio creatore che fa Adamo e, da una costola di questi, modella poi la donna Eva, e del Dio creatore che, con l’aiuto della polvere del suolo e dell’alito che infonde nelle narici della statua creata, dà la vita stessa. La creatura quindi è una, è spirito e corpo nello stesso momento e il creatore è uno, e la creatura è l’unità fondamentale che nel cuore tutti sentiamo di essere, ma che nella fragilità dell’esistenza quotidiana è come se fosse dimenticata. E’ come se l’esperienza volesse contraddire questa unità di fondo, questa bontà, questo fatto di essere veramente generati da un volto, da una unità che ci ama e che ci crea a sua immagine, come ricorda la Bibbia.
Possiamo andare avanti con le immagini, molto velocemente. La seconda: l’uomo creato è terracotta, appunto, e allora, grazie a due sculture, in questo caso del Museo Gregoriano Etrusco dei Vaticani, del quarto secolo avanti Cristo, abbiamo scelto di rappresentare questa modellazione avvenuta. Si tratta di due statue votive, ritrovate a Cerveteri. Voi sapete che la statua votiva ha un significato, riconoscere da parte di chi offre in dono la propria effigie, la propria immagine, nel dio guaritore, la propria identità, la paternità e quindi la propria dipendenza: quindi, il fatto di riconoscersi creatura. Andiamo avanti.
Scopo della creazione è, come dice la Genesi, la moltiplicazione del genere umano: moltiplicatevi e soggiogate la terra, in senso buono, dice il libro biblico. E tra le opere presenti ho scelto questo piccolissimo oggetto, di tre centimetri di diametro, molto prezioso anche per la sua rarità, in cui è rappresentata una nobile famiglia romana del terzo secolo dopo Cristo: moglie marito e il figlioletto dalla pettinatura bionda e riccioluta. Andiamo avanti. Ma si insinua nell’uomo, ad un certo punto, un desiderio non soltanto di riconoscersi come il padre, ma in qualche modo di volerlo superare, no? Abbiamo passato tutti le cosiddette crisi dell’adolescenza. Il padre, la madre come modelli, positivi o negativi che siano, e il desiderio di poterli, di volerli superare, talmente è grande il bisogno di essere se stessi fino in fondo. E nella cosiddetta sezione chiamata “L’albero della conoscenza”, appunto, sta quell’albero che, nel giardino, diventa l’unico limite posto dal Creatore alla sua creatura: “Non nutritevi di quell’albero!”. Cosa che invece Eva ed Adamo faranno e ciò provocherà il loro allontanamento, volontario, dico io, dal giardino dell’Eden. Così come Francesco Messina ci rappresenta in questo bel momento: il castigo, il momento della cosiddetta cacciata dal giardino dell’ Eden.
Possiamo andare avanti. Questo è il momento in cui l’allontanamento da quel volto provoca la nostalgia del medesimo. Un volto amato che ci viene a mancare, per un qualche motivo, è un volto che manca ed è un volto che occorre ritrovare, in qualche modo. L’uomo arriva ad inventare – uso questo verbo tra virgolette – gli dei, per questo bisogno di un riconoscimento, di ritrovare quel volto perduto. Ed è un’invenzione, questa, curiosa, perché stavolta è l’uomo che fa dio ad immagine dell’uomo, a sua immagine: il ruolo si è invertito, in qualche modo. Questo capolavoro che vedete – è veramente tale -, è uno dei grandi pezzi greco-arcaici, sono pochissimi, custoditi nei Musei Vaticani, ed è una testa di Athena, probabilmente da un santuario della Magna Grecia, in cui la divinità è rappresentata mentre indossa un grosso elmo, lo deduciamo dai due fori che servivano da perni sulla testa della dea. Simulacro arcaico, ancora rigido e duro seppure lievemente umanizzante: siamo ormai intorno al 460 a.C., e l’arte arcaica greca comincia ad ingentilirsi, ad umanizzarsi, potremmo dire.
Andiamo avanti. Fino a ritrovare – e credo che siamo in qualche modo in un’epoca molto simile a questa – nella bellezza, nell’eros, nell’estetica, nella perfezione del volto dell’uomo, un’ideale rappresentabile e finalmente imitabile. Questo è un capolavoro totale, il più bell’Antinoo che la scultura adrianea ci abbia tramandato, nel nostro caso da Villa Adriana: il giovane amante di Adriano, divinizzato dopo la sua misteriosa morte nel Nilo. Il mondo si riempie di immagini come questa, il mondo romano e quello ellenistico, a sottolineare, da una parte, l’affetto dell’uomo per questo giovane scomparso, ma anche a significare la necessità che la bellezza fisica fosse presente ovunque e fosse quindi incontrabile ed imitabile.
Andiamo avanti. O l’eroe, come è il caso di questo ignoto, straordinario personaggio raffigurato con elmo e con tanto di cresta, una scultura ignorata dalla critica, un capolavoro straordinario anch’esso di epoca adrianea, siamo intorno al 120 d.C. : probabilmente un ritratto funerario. La statua doveva essere pertinente a una scultura tutta intera, con questo sguardo misterioso, assente, un uomo che ha cercato di usare al meglio le sue virtù: la forza, il coraggio, le armi, anche per l’imitazione delle virtù degli dei. Fino ad arrivare a un’altra immagine di divinità, Afrodite, Venere, e all’imitazione di Venere che avete visto precedentemente in quel lampetto di passaggio, perfetta nei tratti fisici del volto: l’imitazione della stessa, ad esempio, fatta in maniera poco felice da parte di una signora romana del terzo secolo, Claudia Semne, si chiama, e la conosciamo perché il ritratto è il suo ritratto funerario. Va da sé che i romani sono impietosi nel loro realismo, e la signora in questione non è proprio una gran bellezza, non è proprio una gran Venere, nei tratti del volto: paffutella, le gote un po’ cascanti, ecc. Noi conosciamo per lo più l’aspetto erotico di Venere, ma Venere è la patrona di Roma, Venere-Roma, è la patrona della famiglia, del focolare domestico, le virtù di Venere sono in qualche modo tentativamente imitate, e a livello iconografico l’accenno è proprio alla presenza di due Eroti, gli amorini, che aleggiano intorno al ritratto della dama, e al fatto che alla stessa uno, in maniera un po’ scabrosa, abbassi la veste. La nudità di Venere, la maternità di Venere, dove il seno viene scoperto.
Andiamo avanti. Finché accade nella storia l’imprevisto, che qualcuno pretenda di essere quel volto, nuovamente visibile, incontrabile. E questa storia l’abbiamo raccontata con poche opere, spazio permettendo, e con la sensibilità degli artisti più diversi, perché ci è piaciuto far vedere come lo stesso episodio, o gli episodi concatenati l’uno all’altro, così come lo è la vita, sono stati raccontati da interpreti diversi in epoche diverse. Questa che vedete è una delle più antiche rappresentazioni della Natività, sono frammenti di un sarcofago di età costantiniana: siamo intorno al 330. E vedete nella elementarità dello schema tutti gli ingredienti essenziali di questo misterioso avvenimento: la Madonna, la stella, la capanna, il bambino, l’asino e il bue. Siamo di fronte, in realtà, ad un episodio che anche a livello iconografico è estremamente ricco: la Madonna è rappresentata secondo la tipologia classica della musa pensosa, come si dice, ma la Madonna non è una musa pensosa, la Madonna, come dice san Luca, medita nel suo cuore tutti questi avvenimenti. E la Natività che vedete era completata a sinistra dalla donazione dei Magi: lo sappiamo per certo perché è così che si svolge l’iconografia della Natività in età paleocristiana in altri sarcofagi simili al frammento che ci è qua pervenuto. Ma Cristo stesso è adagiato in una mangiatoia un po’ curiosa: la mangiatoia in realtà è il sarcofago della passione e della morte, e quindi della resurrezione del corpo del bambino appena nato. Mentre i due animali, esclusi dai Vangeli sinottici, fanno riferimento a quell’apocrifo dello pseudo Matteo, laddove l’asino e il bue sono rappresentativi della Chiesa ex circumcisione, gli ebrei ed ex gentibus, delle genti, quella dei pagani, quindi noi, tutti, a completare la straordinaria ricchezza che questo piccolo frammento ci racconta.
Andiamo avanti. A Francesco Mancini abbiamo lasciato l’onore di raccontarci il riposo in Egitto, il momento del riposo lungo la fuga, quest’Egitto che vedete immaginato secondo i monumenti romani di allora, mentre Giuseppe offre al figlio delle fragole, che sono un antico simbolo dell’incarnazione. Avanti, non voglio farla lunga. E ad Allegretto Nuzi, che è interprete del gotico internazionale di altissimo livello, questo Cristo, un’iconografia che è tutta bizantina e che raggiunge i nostri litorali, in questo caso marchigiani: siamo a Fabriano, il territorio in cui Allegretto vive nutrendosi alla scuola di Gentile da Fabriano.
E, da ultimo, Cristo redentore, Cristo risorto, che appare in questa tavola che è una insigne reliquia di tutta la storia della pittura italiana: siamo di fronte a una delle tre sole tavole che ci documentano l’alta scuola e l’alta pittura romana della fine dell’ XI sec. o dei primissimi anni del XII secolo. Siamo di fronte al Cristo benedicente, che scappa dai Musei Vaticani, per la seconda volta da quando è lì, e cioè da molte decine d’anni. Talmente è importante questo dipinto. Cristo dipinto alla greca, ha nella mano sinistra il libro dei Vangeli sontuosamente ricoperto, e nimbo crocifero, anch’esso solennemente incastonato di pietre. Ha questi grandi occhi che sembrano, come ha scritto qualcuno nel catalogo, superare tempo e spazio, proprio a significare la signoria di Cristo e di tutto. Io veramente mi commuovo quando vedo questa tavola, perché uno va in mostra – e siamo abituati a vedere le opere d’arte con l’occhio di chi va a vedersi una bella mostra, perdoni Giovanni Villa, che è un grande curatore di mostre, dopo vi dico chi è, nel caso qualcuno di voi ancora non lo conoscesse -, con un occhio squisitamente storico-artistico, no, Giovanni? E non invece valutandole per il motivo per cui sono nate.
Io sono contento di avere fatto questa mostra, anche perché abbiamo finalmente riconsegnato alle statue la loro grande valenza, l’unica valenza, che era quella d’essere -tutte, eh, perché anche l’Antinoo che viene edificato dopo la morte, l’Athena del V sec. e le altre opere – fatte per il culto o la devozione. Allora ti ritrovi in un percorso che secondo me finalmente ti permette di guardare alle stesse in questo modo e ne deriva, almeno a me, una soggezione, nel senso letterale del termine – io sono molto più piccolo di, mi sento amato da – che altrimenti è difficile trovare, anche se l’arte, quando è veramente tale, mi permetto di dirlo, Giovanni, l’arte quando è veramente tale, questo messaggio te lo comunica. Penso alla grande mostra del Lotto che si è chiusa nel giugno scorso alle Scuderie del Quirinale, Giovanni Villa è il curatore di quella mostra.
Andiamo avanti. Un’amicizia nuova, ecco l’ultimo passo mancante, il passo che accade per coloro che seguono questo volto, questo Dio fatto presente. E l’abbiamo ovviamente documentato a partire, in questo caso, dai Pietro e Paolo che sono presenti in due coppie di ampolline liturgiche di V secolo: Pietro sta seduto da una parte, Paolo ovviamente nella facciata opposta. O papa Dàmaso, con i suoi tre confratelli, probabilmente presbiteri romani, in questo fondo d’oro, nei Musei Vaticani, ovviamente, in cui lo stesso pontefice, grande cultore dei martiri, poi martirizzato lui stesso, si fa rappresentare insieme a Probo, Floro, eccetera, che probabilmente costituivano gli uomini dell’entourage della corte pontificia di allora. Avanti. O San Luca in quest’altra grande reliquia romana, uno dei due grandi frammenti superstiti, insieme con la testa della Vergine che è al Puškin, a Mosca, dell’antica decorazione medievale della facciata di San Pietro, di cui ovviamente non ci è rimasto più nulla. Quando nel 1606 la facciata medievale, che era l’unico lembo rimasto della grande basilica costantiniana, venne distrutta, fu distrutto questo enorme mosaico che prevedeva al centro il Cristo benedicente, la Vergine, San Luca, il grande pittore della Vergine secondo l’antica tradizione, e Innocenzo III, committente dell’opera. Ci è rimasto San Luca, questo bellissimo, dai grandi occhi, come si faceva allora, sempre secondo questa derivazione iconografica e iconologica orientale, l’auctoritas.
Avanti. E al nostro Guido Reni, questo capolavoro molto noto l’abbiamo scelto come logo della mostra, perché è eloquente. A Matteo qui è capitato, sedendo al banco delle imposte, di vedere qualcuno che gli dicesse: “Vieni, seguimi”, e ricapita in questo dipinto di rivedere non già quel volto, ma un messaggero di quel volto lì, nella faccia, sotto le vesti di un ragazzino, di un angelo, di un ragazzetto vestito di ali che gli sta raccontando – a lui che è ormai vecchio, e quindi, che so, perde colpi di memoria – gli episodi, i momenti, le persone, i protagonisti di quegli anni straordinari. E lui prende appunti di quello che sarà il libro archetipo del suo Vangelo. Avanti. Il Santo Volto, infine. Vi faccio vedere un miracolo che pochi vedono, questa è la grande icona per eccellenza, la più grande, la più venerata immagine romana della Chiesa antica. Siamo nel Sancta Sanctorum, la cappella del Palazzo Laterano per eccellenza, laddove solo il Pontefice poteva entrare, e questa è l’icona del Santo Volto. In realtà, la tavola rappresentava un Cristo per intero, purtroppo è larvale lo stato dell’icona, oggi: il volto che vedete è un volto rifatto nei secoli, l’icona è stata soggetta a numerosi usi rituali, bagni rituali, in particolare. Olii santi, acque che venivano benedette sprofondandovi l’icona – lo sappiamo dalle cronache del 1100 e 1200, in particolare – e ciò ha provocato la perdita della gran parte della pittura. L’icona è anche stata probabilmente rielaborata nel viso perché sempre tradizioni medievali ci parlano di accidenti, ictus, cose simili, successe a quanti guardavano questo dipinto con occhi profani, con cuore insincero. E quindi il volto originario è stato mutato perché non facesse più quell’effetto lì. E’ vero che entravano solo i pontefici al Sancta Sanctorum, ma anche il papa è un pover’uomo, si può sempre dubitare o essere in peccato, e quindi la faccia è stata in qualche modo rifatta. Noi abbiamo semplicemente portato una copia di questa icona, una copia antica che vedete in mostra.
E questa è un’altra santa faccia interessante, che il grande Georges Rouault ha prodotto: una delle sue grandi facce, grandi sante facce, nella sua profonda, intensa ricerca, umanamente molto sentita, per ricostruire il volto di Cristo, quel volto di Cristo che – scrive lui in catalogo – forse non sapremo mai com’è, com’era. Chissà, una scommessa. Un volto che i grandi artisti di sempre hanno cercato di far emergere. Io ho finito, per fortuna, adesso lascio la parola a suor Maria Gloria Riva delle monache delle Adoratrici, studiosa d’arte, e anche di ebraico, che ne sa più di me sulla questione. Anche lei ha partecipato a questa nostra impresa scrivendo in catalogo, a lei il compito di illustrare alcuni temi della mostra stessa.

MARIA GLORIA RIVA:
Ringrazio Giovanni e tutti voi. È una gioia essere qui e ripercorrere le tappe che già Giovanni ci ha ampliamente e in modo affascinante illustrato. Io le ho vissute un po’ dal di dentro perché ho dovuto commentare opere che non avevo mai visto, questa è un po’ la sfida del Monastero. Uno come Giovanni ha una presa diretta con le cose, io invece sono sempre in preda a cercare delle buone riproduzioni. Questo però rappresenta anche, da un certo punto di vista, un di più, una bellezza aggiuntiva, perché poi quando le vedi ti accorgi che il cuore ti ha detto più di quello che potevano dirti i libri, perché l’impatto immediato con l’opera d’arte riempie di senso la tua vita esattamente come l’ha riempita di senso per l’artista che l’ha realizzata, e quindi, questo stare un po’ dietro le quinte diventa in qualche modo davvero un di più che aiuta anche gli altri a poter leggere meglio le opere d’arte. Mi è piaciuto anzitutto molto – e ho già avuto modo di dirlo all’onorevole Morri – il fatto che San Marino abbia sigillato un evento come la visita del Santo Padre avvenuta il 19 giugno con una mostra d’arte di questo calibro, perché in qualche modo siamo ricondotti tutti a quella origine e a quella nostalgia di bellezza che, finché ci abita, vuol dire che siamo vivi. Purtroppo siamo come morti, oggi. San Paolo diceva ai cristiani: «Siate come vivi tornati dai morti». Forse noi questa frase la capiamo più di prima perché purtroppo siamo morti. Noi abbiamo una televisione che ci propina immagini mortifere, mi spiace per Zingrillo, esponente televisivo di San Marino. Tutti i mass media ci offrono modelli che, per essere affascinanti, devono essere per forza sconcertanti, l’orrore è di moda, la bellezza non fa notizia. Bene, mi piace che questa volta la bellezza faccia notizia e mi piace il titolo: «L’uomo, il volto, il Mistero», perché è così che si comincia, si comincia dall’uomo, si comincia dall’incontro. Infatti, la mostra incomincia da quelle opere prima di Cristo, della Grecia antica, dove l’uomo come a tentoni cercava la verità e la cercava dove? Nella bellezza delle forme dell’uomo: l’estetica diventa in qualche modo uno strumento religioso per comprendere Dio, e questo è molto bello.
Io, però, vorrei partire nell’illustrarvi, nel tentare di rendervi appetibile questa mostra nel desiderio che andiate a vederla. Guardatela coi vostri occhi, non con gli occhi di chi conosce Sutherland piuttosto che Manfrini, nomi forse sconosciuti ai più. Guardatela piuttosto con gli occhi di chi ha bisogno di imparare a conoscere sé attraverso il bello.
E quindi, voglio incominciare da qua, da questo albero di vita, Tree of life, Sutherland intitola così la sua opera, che del resto è il primo impatto con la mostra, una delle prime cose almeno a colori che ci abbraccia perché, prima di questo albero, vediamo solamente delle opere di scultura, e quindi diciamo che vediamo in bianco e nero. In questo frangente, mi piace ricordare Bosch, un autore che io amo molto e che proprio nel suo Trittico delle delizie fa accostare l’uomo, lo spettatore, al grande mistero della creazione, presentando un pannello in grisaglia, cioè una sorta di bianco e nero, là bianco e marrone. Però è vero che l’uomo, quando è ideologico, vede in maniera bipolare, bianco o nero, gli manca quella bellezza, quel ventaglio di forme e di suggestioni che soltanto il colore offre.
Il primo abbraccio a colori lo abbiamo nella mostra con questo albero, L’albero della vita, che ci riporta là. Non poteva che cominciare qui il nostro percorso, dentro un giardino. La Bibbia comincia in un giardino e finisce in un giardino e dentro, da giardino a giardino, c’è lo scandalo della città, cioè del voler ricomporre la forma data dal Creatore in modo nuovo, in modo diverso, talora in modo ideologico. E qui, gli architetti mi perdoneranno, ma basterebbe girare per le nostre città per vedere quanta ideologia c’è nei nostri palazzi. Una volta c’era il cortile e dentro c’era il vuoto, tutte le case erano intorno, perché il vuoto era il centro, l’agorà era il luogo del dialogo. Oggi facciamo le villette a schiera che “guai a Dio se qualcuno mi vede quando entro in macchina”, cioè, la bravura dell’architetto è non far vedere quello che c’è a fianco. Scusate la digressione, ma giardino ha questo senso nella Bibbia, il luogo che Dio dà all’uomo perché lo trasformi ma perché sia il luogo dell’incontro. Il giardino, Sutherland lo vede così, un panorama infuocato e questo sole giallo splendente. Due segni, due ambivalenze, perché il panorama infuocato dice la passione, la storia dell’uomo e di Dio è una storia appassionata, è la storia di un desiderio di umanità che si risolve dentro un incontro più grande, un Tu che mi supera. E dall’altra parte, però, il rosso è anche il segno della violenza, della guerra. Alla radice del primo omicidio c’è un altare, purtroppo, c’è il rapporto con Dio oltre che il rapporto con mio fratello. E poi, questo sole, sole invictus, quindi Dio, questo astro così splendido che ha sempre suggerito l’idea della divinità, di un occhio che mi guarda e che mi guarda per un bene, perché la luce è vita. Però questo sole così incandescente è anche in qualche modo il produttore del deserto, già si incunea l’idea del deserto che è l’antinomia del giardino. Il deserto e il giardino, il giardino dove c’è l’acqua, dove c’è la Torà per un ebreo, dove tutto in qualche modo esplode nel suo rigoglio e nella sua fecondità; il deserto è l‘impoverimento, è la deturpazione, è già il segno del peccato che avanza.
Sutherland ci offre questo panorama dove già giocano le due ambivalenze, passione e dolore, fecondità e aridità, il sole di Dio e il sole che implacabile veglia sul deserto. E nel panorama, due croci. C’è l’albero della vita che è già una croce, se lo guardate bene, in quest’albero della vita già si adombra quell’albero della vita che ci risanerà, come canta il Vexilla regis, quell’albero futuro da cui coglieremo un frutto che sarà il frutto dell’eternità. Quest’albero è dentro un panorama che offre altri due alberi, che sono due croci, anzi, lo dico e mi correggo, sono due Tao: nel Tao, in questa lettera misteriosa che in qualche modo apparteneva già al mondo egizio, c’è il segno della salvezza. Già nella croce c’è il segno salvifico, anche le altre due croci inducono un uomo a pensare che, pur dentro il suo peccato, c’è già la possibilità di un rimedio.
Ma come si gioca il peccato dell’uomo? Sutherland ci vuole fare arrivare qui, è da qui che dobbiamo partire. Il peccato dell’uomo si gioca nella libertà, l’uomo è creato libero e ogni generazione, ciascuno di noi, si gioca la sua vita dentro la libertà. Infatti, quest’albero è pieno di ingranaggi, è una conditio sine qua non, non possiamo farne a meno, non posiamo sottrarci, siamo dentro questo gioco della libertà. Ci sono delle lancette, nell’albero, che disegnano l’inesorabile trascorrere del tempo: in questo tempo ciascuno di noi, ciascuna coppia umana, ciascun uomo gioca la sfida della libertà, che cosa scegliere, come giocare le sue ambivalenze, passione o dolore, Dio e fecondità oppure peccato e deserto, aridità. E allora, dentro questa ambivalenza, i rami sono come uomini stilizzati, perché dentro quest’albero c’è tutta l’umanità. È un albero sigillato là, all’inizio dei secoli, in quel giardino, ma ci coinvolge tutti quanti. L’estensione di questo albero per Sutherland siamo noi, è la nostra forma umana che gioca dentro questo cielo e questo sole la sua libertà.
E sappiamo come è andata alle radici di quell’albero e di quel giardino: qui Messina ce ne dà una suggestione, ci offre una immagine di quello che è avvenuto. Sono due le piccole sculture bronzee di Francesco Messina: una è molto suggestiva, perché Adamo è custode quasi di Eva, l’abbraccia, l’avvolge; Eva però si tocca istintivamente il grembo, perché è lì, in quel grembo, che si gioca l’origine dell’uomo e della vita, quel grembo che ci origina tutti. La nostalgia dell’uomo è dentro a quel grembo, l’archetipo materno è dentro ciascuno di noi, è lì che impariamo a declinare il bene e il male, attraverso l’ascolto, perché la prima cosa che si forma dell’uomo sono le orecchie, dopo il cervello, perché l’uomo, nel grembo della donna, comincia a percepire il mondo attraverso l’ascolto. Per questo la Bibbia fa questo grande percorso, dall’ascolto a un vedere che è comprendere, dopo aver ascoltato. E dunque, Francesco Messina presenta prima la coppia umana, poi il momento del peccato.
Vi ringrazio di avere scelto questa scultura. Quando l’uomo si vergogna, si copre il volto, non i genitali. È bellissimo pensare che quando ti vergogni abbassi gli occhi, ti copri il volto, perché è quello lì, il veicolo: l’uomo il volto, il Mistero, sono gli occhi lo specchio dell’anima. Gentili parlava degli occhi meravigliosi di questo Pantocratore, che però sono anche gli occhi di Luca, occhi straordinari, gli occhi che farà Severini. Il Cristo di Severini avrà questi occhi che sono l’incontro con quel mistero dell’altro che non puoi incontrare, l’altro non lo puoi descrivere: non puoi dire “conosco Giovanni perché so che è alto tot, perché fa questo tipo di lavoro, perché ha gli occhi”. Lo devo incontrare in un altro modo, lo devo incontrare dentro allo sguardo, dentro quel non dicibile che è possibile soltanto allo spirito percepire, capire. L’uomo nel peccato si copre il volto, attenzione a quando il nostro volto si piega, perché vuol dire che la nostra vita non ha ancora giocato la partita sotto quell’albero e dobbiamo essere ricondotti là, ancora, a quel principio.
Ecco uno che ci invita, proprio guardandoci in faccia. Merz, questo ritrattista barocco, ci presenta il ritratto di un uomo con i simboli della vanitas: lui ci guarda negli occhi, è vestito di tutto punto, nulla è lasciato al caso, potremmo dire che è un uomo tutto di un pezzo, un uomo scrupoloso, un uomo ordinato, che si presenta bene, ha un bel biglietto da visita, nell’abito, quest’uomo, ha un bel look. Si presenta e ti guarda in faccia, e i gesti delle mani sono eloquenti, tocca la mano al cuore, che non è un muscolo come oggi i nostri medici ci vogliono fare intendere, perché tutta la Bibbia ci dice che il cuore non è la sede dell’amore, delle passioni. Attenzione, perché noi abbiamo fatto uno slittamento, è il fegato l’origine della passione, kavod vuol dire gloria, vuol dire fegato, e anche noi, in italiano, lo diciamo: «Mi stai sul fegato» vuol dire che non posso vederti. Ma se «mi stai nel fegato» vuol dire che ho per te una passione dell’altro mondo, allora, non il fegato ma il cuore è la sede dei pensieri, il cuore è la sede dell’indagare profondo dentro le realtà ultime della vita, che trascendono anche l’amore, anche la passione.
Giustamente, mi pare, ricordava Giovanni che la Vergine meditava tutte queste cose nel suo cuore, perché il cuore è la sede del desiderio, del di più, di un di più profondo delle cose. E allora questo uomo, questo misterioso ritratto di Merz, è un uomo che ci guarda dritto in volto, che ci tocca il cuore a dire: «E il tuo cuore? La profondità dei tuoi pensieri, dov’è?». Perché guarda l’altra mano che tocca un teschio, c’è anche un fiore appassito ma il teschio è più visibile, più immediato, un teschio, cioè la finitudine. E non posso non farvi notare quello che forse avrete già notato da voi stesi, c’è un grande pessimismo nello sguardo di quest’uomo che ci guarda. A questa risposta, tutte le velleità umane di bellezza, di dignità, di desiderio di non morire, si scontrano di fronte a questa ineluttabilità della fine che è appunto il teschio, la morte. Una volta nei monasteri ci si salutava così: «Ricordati, fratello, che devi morire» e quell’altro rispondeva: «Morire dobbiamo». Qualcuno adesso toccherebbe ferro e farebbe le corna, però in realtà non è così, questo memento mortis era come dire: «Ma tu, le cose che stai facendo, le fai per adesso o per l’eternità?». C’è una vena di pessimismo che è tipica per altro della ritrattistica del barocco, perché già il decadentismo religioso era consumato, siamo a grandi passi verso quella che sarà la Rivoluzione Francese che diffonderà in qualche modo l’ondata di secolarismo che oggi noi vediamo con evidenza, dove la morte procurata da se stessi è un atto di grande dignità. Merz, grazie a Dio, non è ancora d’accordo. Quest’uomo ci guarda e ci dice: «Cosa fai tu della tua vita?”.
Qual è la risposta a questa finitudine rappresentata nel testo?». La risposta irrompe in maniera del tutto incomprensibile, insospettabile per l’uomo, è lo stupore che ti incontra. Gregorio di Nazianzo diceva: «Solo lo stupore conosce». I concetti creano gli idoli ma lo stupore conosce. Allora il grande stupore, qualcosa di fronte al quale nessuno può esimersi dal fare i conti, qualcosa di fronte a cui dobbiamo stare, o stiamo di qua o stiamo di là. Però ci dobbiamo scontrare con questa realtà: il Verbo si è fatto carne, l’Eterno è diventato misurabile, il keramion – la misura, l’archetipo del volto di Cristo, il volto di cui ci parlerà l’altro Giovanni, il volto dell’Eterno – è diventato misurabile, inaudito, incredibile. Lo possiamo toccare, quello di cui abbiamo sentito annunciare ora lo tocchiamo, il Verbo della vita è qui, l’annunciazione, il momento straordinario. Mi piace questo bronzo straordinario, perché Maria e l’angelo si piegano, è un dialogo fatto di gesto, di torsione del corpo. L’angelo si piega tenendo dentro al suo grembo il giglio della purezza e Maria si piega su quel grembo che diventerà grazie alla salutazione angelica un tempio, il tempio di Dio vivente, l’altissimo ti coprirà con la sua ombra. Ma la cosa più importante di quest’opera è il vuoto. La cosa più importante di quest’opera è quello spazio incredibile che le torsioni dei due creano, è lì, è in quello spazio vuoto che si gioca la mia risposta, perché quello che avviene, quel fiat di Maria, interessa me, non è qualcosa di estraneo, non è qualcosa che è appartenuto soltanto a lei, di fronte al quale io sono soltanto spettatore, è qualcosa che mi coinvolge, è quella voragine che c’è tra i due che chiede tutta la mia partecipazione e la mia domanda, è un vortice perché mi attira, mi cattura. Dentro quel vuoto, la mia risposta. Non soltanto a Maria, il fiat, ma anche a me: come mi pongo io di fronte a questo mistero di uno che è apparso sulla scena del mondo e ha detto: «Io sono la via, la verità e la vita»? Nessuno prima di Lui, nessuno dopo di Lui. Di fronte a quest’uno, anch’io devo fare i conti.
E poi, la crocifissione. Quest’Uno con cui devo fare i conti è Uno che, avendo detto «Io sono la via, la verità e la vita», è morto così. Questo è Fausto Pirandello, fratello del più famoso Luigi, che però conserva qualcosa dello sguardo teatrale, di quello sguardo che così tanto aiuta l’arte a far vedere la verità, perché non si tratta soltanto di rappresentare una crocifissione, si tratta di vedere da che punto di vista la stiamo guardando. E qui Fausto Pirandello ha deciso di non fare croci, forse perché lo sa che noi siamo croci a noi stessi, ed è così tanto vero che lui sa che noi siamo croci a noi stessi che il cattivo ladrone, quello che sta alla sinistra del Cristo, è l’unico che ha le braccia a forma di croce, è l’unico che è veramente crocifisso, perché gli altri sono come in volo. Fausto Pirandello coglie il Cristo crocifisso come in un grande volo, certo, è piagato, è pieno di sangue, da quel sangue siamo redenti, è da quel sangue, è da quelle feritoie, da quelle ferite che sono come feritoie, che noi entriamo nel grande mondo della bellezza e dell’eternità.
Dobbiamo fare i conti col dolore, è questo il dramma. Cerchiamo l’amore, cerchiamo la bellezza, cerchiamo l’eternità, e prima o poi la vita ci mette a fare i conti col dolore, che non è soltanto lo scandalo della morte, del teschio di Merz, ma è tutti i dolori del mondo, quelli innocenti, quelli inspiegabili, quelli che non vogliamo. Dentro quelle piaghe c’è, in codice criptato, tutto il dolore del mondo. E un ladrone infatti lo rifiuta. E’ la croce, e dunque diventa lui croce, croce a se stesso, ma l’altro è già in volo, l’altro sente già nella sua postura il dire di Cristo: «Oggi sarai con me in Paradiso». Questo è il punto di vista da cui anche il perplesso Pirandello – che ha avute care però le crocifissioni, e mi risulta in particolare questa, che è stata una delle ultime opere di questo autore – guarda la crocifissione, quello di un volo. Il ladrone, quello buono, non è così perché Pirandello non ha preso bene le misure, perché non ci stava nella tela e allora gli ha mozzato gambe e piedi, no, è perché la sua fede già buca la realtà, è già fuori, è già di là, è già oltre, una lezione che Giotto già ci insegna, come Roberto qui potrebbe spiegare meglio di me. È un bucare i confini di quello che abbiamo davanti, perché siamo già di là, verso uno sguardo nuovo, diverso.
La pietà. Questa pietà di Manfrini, allievo di Messina, eppure con uno stile così suo, personale, unico, disegna le braccia della croce attraverso la posizione di questi due elementi. Il Cristo è la dimensione orizzontale, è lui che ci abbraccia, è la sua carne che ci abbraccia, una carne che ha conosciuto la morte, i tre giorni del sepolcro, è lui la dimensione orizzontale, Lui che è Dio, in questa postura, in questa posizione drammatica del sepolcro, è davvero come noi. Se volevamo una prova che fosse uno di noi adesso l’abbiamo: è lì, nel pallore, nel lividore della morte, è assolutamente imbalsamato, è assolutamente inamovibile, è fermo, ma la verticalità ce la offre la vergine Maria. È lei, l’umana Maria, che ha tenuto dentro di sé l’eterno, è lei che con questa verticalità ci obbliga a guardare vero il cielo, non è prostrata, non è in ginocchio, non è esasperata come altre maternità ci offrono. No, è lo Stabat mater di Iacopone da Todi, è in piedi, è una freccia diretta verso l’alto e verso l’altro: e tutto confluisce lì, in questo gesto materno, soave, pacato eppure forte, tenace, della preghiera. Le mani congiunte e lo sguardo rivolto al suo Signore, nella certezza che quello che vediamo è solo un passaggio, una Pasqua, che quel corpo rivivrà e allora noi conosceremo l’eternità.
Non ci siamo parlati, io e Giovanni Gentili, quando mi ha preparato le diapositive, ha fatto tutto lui. Però riconosco che ha scelto una sequenza straordinaria, perché che cosa c’è di più grande che dire l’eternità attraverso l’amore? Io faccio gli incontri coi ragazzi e dico sempre: «Chi di voi crede nell’amore eterno, quell’Amore con la a maiuscola che non muore?». E’ drammatico, sono pochissime le mani che si alzano, e quelle poche con una titubanza che è peggio che essere al compito in classe o all’interrogazione dell’ultimo giorno di scuola, quello decisivo, per la bocciatura o per la promozione. Non crediamo più nell’amore eterno, ebbene questa Simplicia Rustica è un medaglione funerario, un mosaico che celebra un momento importante di una coppia. Flavius Iulianus vivente realizza due medaglioni, il suo e quello della moglie, una moglie morta giovanissima, diciotto anni e mezzo aveva, tre anni e poco più di matrimonio. «Dolcissima moglie» la chiama, e lei muore e lui la vuole in qualche modo eternare dentro questo bellissimo mosaico. Guardate la vivezza: è viva, lei, mi dispiace che non abbiamo il medaglione di lui, perché lei che è morta è più viva di lui, che è pure vivente quando lo realizza. E’ straordinario, un motivo in più per andare a vedere la mostra. È straordinario, lei è viva, ha gli occhi aperti, vispi, è vivace. Di lui non si vedono le braccia, è molto composto, è proprio il classico medaglione dell’imperatore, ieratico, quasi. E lei che è morta e viva tende le braccia verso l’alto, è la Maria orante, apre le braccia così verso il cielo. Ma sono anche, le braccia, il gesto che noi facciamo, che dovremmo fare, quando recitiamo in chiesa, durante la celebrazione eucaristica, il Padre Nostro: la disponibilità ad essere crocifissi, non a tenere il vassoio, come si fa certe volte, o a darsi la mano come se fosse il momento della grande comunione. No, no, il Padre Nostro è la disponibilità ad essere crocifissi con Lui per risorgere con Lui, per andare verso l’alto. E questa donna ha questo gesto così potentemente vivo per una donna morta, e morta in una maniera così tragica, giovanissima, questa donna esprime meglio di qualunque altra cosa la dimensione eterna di chi incontra il Mistero, l’amore che non può morire. L’amore non morirà perché l’amore si è fatto carne, è morto per noi ed è venuto a dirci che la morte è una Pasqua, un passaggio verso un confine, un orizzonte eterno di cui forse noi non conosciamo nemmeno il bagliore ma che l’amore in qualche modo ci fa percepire, ci fa presentire. Poiché la vita è questo calvario che la piccola Simplicia Rustica ci fa in qualche modo individuare, l’amore è un calvario: ecco il perché della Via Crucis, di una delle stazioni della Via Crucis del celebre Fazzini. Perché? Perché questa stazione? Perché la Veronica è, come direbbe Péguy, quella che riesce a cogliere la traccia eterna. Clio, la dea della storia è sempre in ritardo, persegue la verità ma non arriva mai a tempo, è sempre affannata, è sempre indaffarata, ma invece questa ragazzetta da nulla, la Veronica, tira fuori il suo fazzoletto da nulla e arriva al momento giusto e coglie una traccia eterna.
E’ straordinario come Pericle Fazzini ci metta dietro la Veronica, ci obblighi a stare lì, in un cantuccio dietro la Veronica: la croce quasi ci sovrasta, è sopra di noi. Noi vediamo della Veronica non ciò che avviene, non il miracolo del telo, ma vediamo ciò che lei vede e cioè Lui, il Cristo, è quello lì che dobbiamo cercare sulle strade polverose del calvario. E in fondo, proprio là dove c’è l’incrocio delle braccia della croce, il Getsemani, ancora una volta il giardino. La Bibbia comincia in un giardino e finisce in un giardino, e Pericle Fazzini aveva caro questo giardino del Getsemani. Anche quando realizza quella poderosa scultura che siamo abituati a vedere quando guardiamo il Papa, quella dell’aula Nervi: è una resurrezione che avviene dentro il giardino del Getsemani, dove tutto – roccia, alberi – viene trascinato su, perché tutta la creazione geme, soffre e attende nelle doglie del parto la rivelazione di questo volto ultimo e definitivo che darà la risposta eterna e finale anche ai nostri volti. Per questo là, nello scorcio dietro il volto di Cristo, quel giardino, perché è quello dove noi incontreremo il Cristo, un Cristo che qui, in questa opera, in questo prezioso mosaico, Severini ci presenta con questo grande sguardo scrutatore, ma ci presenta soprattutto come il sole invictus: siamo partiti da un albero e dal sole e dopo ritroviamo l’albero, dopo l’indicazione di Fazzini del giardino, ritroviamo il sole invictus.
Le prime raffigurazioni del volto di Cristo erano quelle dell’Apollo, un Apollo che era il dio sole, ed ecco che il Cristo è il sole invictus, c’è il nimbo crociato ma attorno alla croce abbiamo la raggera, perché è lui il vero sole. Un sole, però, che ha due volti, come due facce non simmetriche. Non è un volto simmetrico: noi siamo abituati alla perfezione dell’uomo, oggi le attrici che vanno per la maggiore sono quelle che hanno il volto più simmetrico, perché tutti sapete che nessuno di noi è simmetrico, la simmetria per il Medioevo era diabolica, solo Dio crea la forma, la bellezza dentro la diversità, l’unità, l’unità dentro la pluralità. Noi siamo solo capaci di clonare, di fare le cose in serie, standard, tutte uguali. Questo volto non è simmetrico è un volto che ha due prospettive: una tutta luce e una tutta oscurità. E i volti, e gli occhi, esprimono questo: uno la dolcezza, l’altro l’interrogazione dolente. E’ questo forse che ci lascia più sconvolti, nella mostra che andremo a vedere, mi auguro, e che finisce con una interrogazione, quasi come il Libro di Giona, che finisce nel silenzio: tre giorni e tre notti nel ventre del pesce per convertire Ninive, e poi il libro si chiude sul silenzio. Anche questa mostra si chiude col silenzio, con lo spazio dell’interrogazione. Guardate questi occhi di Cristo, sembra che dicano: «Tornerò così come il sole splende e tutti lo vedono, così tornerò e tutti mi vedranno, ma sulla terra troverò ancora la fede?». I miei occhi, incontreranno uno sguardo di risposta? A questa risposta ci conduce la mostra “Uomo, volto e mistero”. Grazie.

GIOVANNI GENTILI:
Grazie, allora. Se non ho capito male, io non comprende l’ebraico, ma Gloria ha qualcosa a che fare con il fegato? E’ una donna di fegato? Bene, dulcis in fundo per me, e spero per tutti, Giovanni Villa è uno storico dell’arte dell’università di Bergamo, ed è docente in Cattolica di tecniche diagnostiche per i beni culturali. Giovanni è un grande curatore di mostre, sue sono state le recenti Antonello da Messina, Giovanni Bellini e Lorenzo Lotto alle Scuderie del Quirinale. Giovanni, a te la parola, grazie.

GIOVANNI VILLA:
Parlare dopo quello che mi è stato raccontato è estremamente complesso e difficile. Quello che farò è riportarvi sul piano degli storici dell’arte. Dopo aver visto questa mostra, dopo aver sentito anche i racconti di Giovanni Gentili e di Antonio Paolucci, ho mentalmente provato a ricostruire e riguardare in me quelli che sono stati i volti del sacro che più hanno colpito il mio immaginario e la mia fede, quello che la mostra non racconta, diciamo così, visivamente ma racconta molto bene con il suo percorso. Ad un certo punto, nella storia dell’arte, verso la fine del Quattrocento, c’è un momento in cui una serie di artisti hanno saputo, con pochi colpi di pennello, rendere come pochi altri il dolore dell’uomo e l’umanità dell’incarnazione. Io, arrivando per ultimo e non volendo tediarvi troppo, vi ho preparato solamente quattro immagini, quattro immagini che però credo rendano molto bene, visualizzino molto bene, quello che vi hanno raccontato poc’anzi. Uno è un Cristo alla colonna, piccolissimo – nella realtà è una tavoletta poco più grande di un foglio A5, quindi la metà di un vostro normale foglio di carta – un Cristo legato alla colonna con ancora la corda intorno al collo, che volge il suo sguardo verso l’alto mentre il volto è rigato dalle lacrime, dalle stille di sangue che sgorgano dall’imposizione della corona di spine. E c’è questa incredibile bocca appena aperta in un sussurro, quasi una domanda al Padre sul perché di quello che sta soffrendo e subendo. E’ un dipinto che è stato eseguito da Antonello Da Messina intorno al 1475, un’immagine che è stata acquistata dal Louvre non più tardi di vent’anni fa: un capolavoro assolutamente stupefacente, la capacità che ha, con pochi tocchi di pennello, di renderci lo sguardo, di renderci un’emozione, di renderci un momento, negli stessi identici anni in cui Antonello, arrivato alla fine della sua vita, alla fine degli anni Settanta, prenderà questo volto e gli farà socchiudere lo sguardo, ma manterrà questa bocca aperta nella pietà. Nel momento in cui Cristo viene esposto sul sepolcro, questo straordinario angelo lo piange con questo bellissimo fiocco aranciato che quasi chiude una vicenda umana, in questa immagine che penso sia una delle immagini più belle e più forti che ci abbiano raccontato il momento del trapasso di Cristo.
Sono gli anni in cui un Giovanni Bellini esegue nel 1500, per la Basilica di Santa Corona a Vicenza, un battesimo di Cristo che è una straordinaria macchina d’altare. Dovete immaginare una struttura alta quasi 16 metri: lassù in cima abbiamo un Cristo Redentore, poi una Madonna col bambino, poi lo Spirito Santo, Dio Padre, una colomba e al centro, ieratico, c’è un Cristo che ci guarda, con questo sguardo fisso, le mani già portate al petto, già nel segno della croce, con uno sguardo ormai straordinariamente moderno. Immaginate che questa è un’opera eseguita nel 1500. Oppure guardate questo volto, ve lo mostro proprio adesso in fase di pulitura, quindi durante il restauro, con alcune mancanze, proprio per sottolineare come un artista come Giovanni Bellini sia riuscito, con pochi tratti di pennello, a renderci la ieraticità di questo Cristo che punta il suo sguardo in quello dei fedeli, catturandoli e portandoli all’interno del battesimo. E’ la stessa cosa che fa un’altra immagine. In questo caso, visto che parliamo del volto del Mistero, voglio portarvi in quell’occhio che è lo specchio dell’anima, a sentire quanto ci raccontava Leonardo. Guardate questa iride, questa pupilla, questa sclerotica in cui un semplicissimo colpetto di bianco è andato a dare liquidità, morbidezza allo sguardo, allo sguardo arrossato e pesto di un Cristo coronato di spine di Cima da Conegliano, che si situa anch’egli negli stessi anni, siamo intorno al 1495. Un altro volto che emerge, sboccia quasi come un fiore da questa veste violacea, con il suo incarnato pallido, anche lui a domandarci, esattamente come faceva il Cristo di Antonello da Messina.
Sono tre grandi artisti, Antonello da Messina, Giovanni Bellini, Cima da Conegliano, vissuti tutti nello stesso lasso di tempo, che in dieci anni ci hanno dato tre immagini di Cristo straordinariamente concrete, straordinariamente umane, straordinariamente reali, vivide. Sono opere fatte per la devozione privata, quelle opere che si mettevano sugli inginocchiatoi, il Cristo di Cima e quello di Antonello, mentre l’altra è una grande pala di altare, per la basilica di Vicenza. Quindi, opere destinate alla devozione, una devozione che in quegli anni ricominciava ad essere quanto più prossima, quanto più vicina al fedele. Vi hanno mostrato un’opera di Manfrini, un’opera che deriva da quella che forse, almeno per me, è l’opera più stupefacente che la storia dell’arte abbia mai prodotto: si tratta di un Compianto di Cristo morto. Se andate a Bologna, in una chiesa a due passi da San Petronio, Santa Maria dell’Arca, trovate questo straordinario gruppo: sono statue in terracotta, a grandezza naturale, si trovano in una piccola cappella laterale, poco e male illuminata. Qui le vedete in questa brutta fotografia che però vi fa capire, con un’unica immagine, tutto quello che è il senso della mostra messa in piedi da Giovanni Gentili e da Antonio Paolucci. Perché Niccolò dell’Arca, nel 1470 circa, di nuovo negli stessi anni in cui abbiamo visto i tre dipinti precedenti, riesce a condensare in statue di terracotta, quindi fatte di terra cotta, quindi di niente, in buona sostanza, del materiale più povero che ci sia, tutto il dolore umano. Se pensate che un Manfrini, nella metà degli anni Settanta del Novecento, quindi cinque secoli dopo quest’opera, non riesce a superare la capacità di Niccolò dell’Arca di rendere il momento in cui Cristo ci viene esposto con intorno Giuseppe D’Arimatea, che ci mostra ancora il martello, i chiodi con cui Cristo era stato inchiodato alla croce. Poi le tre Marie, Giovanni, tutto compreso in questo suo dolore interno, la Madonna anziana, che si porta le mani al petto. E guardate queste due Marie che arrivano subitanee, le vesti scompigliate dal vento, con la bocca spalancata.
Qualche anno fa mi capitò di vedere un’immagine, la fotografia di una madre rimasta senza figli durante uno dei tanti drammi israelo-palestinesi, che aveva esattamente questa espressione. La straordinaria capacità della storia dell’arte, di tante delle opere che vedete in mostra in questo momento a San Marino, è proprio quella di catturare un sentimento eterno, una commozione, un dolore immenso e infinito. Quest’immagine, questo volto con la bocca spalancata, ha qualcosa di assolutamente non raccontabile, è la stessa cosa che faceva Antonello da Messina in quel suo primo Cristo per rendercelo più umano: ci raccontava proprio la concretezza carnale di Cristo e il grande portato della storia dell’arte alla storia più grande dell’umanità.
Attraverso queste semplicissime carrellate di quattro immagini, in poche parole, penso si possa condensare tutto quello che è il senso profondo della mostra aperta a San Marino, in cui, come avete sentito, in vari capitoli si è provato a mettere insieme il mistero del volto. Ci sono stati degli artisti – chi più, chi meno – che hanno saputo mettere insieme questo mistero. E penso che, come ho fatto io, ognuno di voi, guardandosi dentro, troverà quelle immagini che hanno catturato la sua attenzione e l’hanno portato alle lacrime di emozione o ad un sentimento di pensiero profondo intorno a ciò che vedevano e a ciò che toccava le corde profonde del loro animo. Per quanto mi riguarda, questi sono stati i miei percorsi, percorsi che hanno avuto una tale importanza e una tale forza che, attraverso queste quattro immagini, riconoscerete questi volti da chi li ha preceduti, e cioè dalle opere del V secolo fino alle opere più recenti e più contemporanee, proprio a sottolineare come in fondo la storia dell’arte sia sempre la stessa. Nel corso di duemila anni di arte occidentale, nulla viene gettato via, tutto viene ripreso, viene rielaborato a livelli di complessità differenti ma la base è sempre unica. La ricerca che sta dietro a questa immagine, cioè la ricerca di un’esistenza, è sempre assolutamente identica per qualsiasi artista, buono o cattivo che si sia.
Per questo ho voluto concludere questa nostra giornata con un’opera paradossalmente poverissima, perché è fatta di terracotta, quindi nulla che allora avesse un valore economico. Sono anni in cui gli artisti venivano pagati in base al tipo di materiale che utilizzavano, fosse il marmo, fosse il lapislazzulo della veste di Cristo di Cima da Conegliano: era quello che delineava il pagamento dell’artista, non certo l’abilità o la capacità di realizzare un’opera. Eppure, opere come questa hanno voluto dire qualcosa, hanno avuto un significato profondo per decine e decine di generazioni di fedeli. Penso che in immagini come questa ci fosse tutta la volontà di Antonio Paolucci e di Giovanni Gentili di raccontarvi questa storia nella loro mostra a San Marino. Grazie!

GIOVANNI GENTILI:
Bene, vi ringrazio, abbiamo fatto un po’ un tardino ma spero ne sia valsa la pena. Vi saluto con un arrivederci a San Marino. Buona serata a tutti e buon Meeting.

(Trascrizione non rivista dai relatori)

Data

21 Agosto 2011

Ora

15:00

Edizione

2011

Luogo

Sala Tiglio A6
Categoria
Focus