L’uomo e la ricerca di Dio. Incontro con Sergio Zavoli

Hanno partecipato: Sergio Zavoli; Suor Maria Teresa Tosi, delle Piccole Sorelle di Maria; Valerio Volpini, direttore de “L’Osservatore Romano”; Carlo Cardia, Membro del Centro Studi di Iniziativa per la Riforma dello Stato. Moderatore: Rocco Buttiglione.


R. Buttiglione

Il tema dell’incontro di questo pomeriggio è “L’uomo e la ricerca di Dio”. A questo proposito abbiamo chiamato a discutere con noi alcune persone, ma più che a discutere le abbiamo chiamate per incontrare la loro esperienza umana e per far sentire loro la nostra. Prima di tutto Sergio Zavoli, il cui libro “Al socialista di Dio” è stato uno dei grossi avvenimenti editoriali di questi ultimi tempi, che anche fra di noi ha provocato una meditazione. Ha suscitato la gioia di un incontro con un’esperienza d’umanità da noi sentita affine a quella che noi viviamo; i problemi, le domande, le difficoltà che ogni incontro con un’esperienza umana vera e decisa necessariamente provoca: la domanda sulla possibilità e necessità di vivere la fedeltà all’uomo nella fedeltà a Dio e la fedeltà a Dio nella fedeltà all’uomo. Insieme con Zavoli ci aiuteranno a svolgere l’itinerario di questa ricerca, Suor Maria Teresa delle Piccole Sorelle di Maria che è la protagonista di un famoso documentario curato qualche tempo fa da Zavoli stesso, che ha segnato l’incontro tra la prospettiva d’uomo dei nostro tempo cresciuto dentro una cultura laica e quel punto in cui la ricerca di verità dell’uomo non può non aprirsi anche al mistero di Dio. Ma il tema così stimolante dei libro di Zavoli apre naturalmente ad una domanda o a delle domande: la domanda che viene dal non credente sul modo in cui sia possibile conciliare la fedeltà a Dio con un’intera fedeltà alla storia. Su questo c’interrogheremo ed interrogherà Zavoli, il prof. Carlo Cardia, che è sicuramente il maggior esperto di parte comunista sul fenomeno religioso ed in particolare sul cattolicesimo italiano. E d’altro canto, l’altra domanda: la domanda sul com’è possibile che quest’immanenza alla storia non veli quella dipendenza radicale dell’uomo dall’assoluto, quella ricerca di una verità intima e senza confini che segna il rapporto dell’uomo con Dio. Su questo Zavoli s’interrogherà, s’interrogherà il prof. Valerio Volpini, direttore de “L’Osservatore Romano” e caro amico di tanti fra noi qui presenti. A questo punto io cedo la parola a Sergio Zavoli, il quale condurrà la prima parte di questo incontro con una testimonianza sulla propria esperienza, sugli incontri che l’hanno plasmata ed in particolare sull’incontro con Suor Maria Teresa che in quest’esperienza ha avuto un’importanza decisiva. Seguirà poi una seconda parte in cui si svilupperà invece questo dialogo, questo confronto, questo rivolgersi vicendevolmente gli interrogativi che nascono dalla cultura e dalla vita.

S. Zavoli

Consentitemi innanzi tutto di sgomberare il campo da un equivoco nato da un gesto affettuoso e, quindi, privo di malizia, da parte d’alcuni giornali che hanno creduto di dover dire che questo sarebbe stato un incontro con Sergio Zavoli. Sono una persona, almeno dal punto di vista religioso, pochissimo edificante; sono un laico che vive con qualche goffaggine alcune umane reticenze, qualche slancio avventuroso, una curiosità inestinguibile, quest’imprendibile avventura dello spirito e che da un certo numero d’anni si trova intrigato in questo problema dei capire dove va a parare l’uomo al di là della sua storia.

E consentitemelo da riminese in mezzo, io spero, a un largo numero di giovani riminesi, mi rivolgo soprattutto ai giovani, perché sono quelli che non hanno avuto il bene di conoscerci. Ma spero che oggi possa nascere anche con loro, comuni cittadini di questa stupenda città, quella cara consuetudine che io ho mantenuto con i loro genitori, con i più adulti, cioè con i riminesi della mia generazione. Capitava da ragazzo che la domenica pomeriggio alle diciassette, se non sbaglio, si andasse alla benedizione nella Chiesa dei Salesiani, era la Chiesa di Maria Ausiliatrice. Non era solo un’abitudine né soltanto un invito spirituale a condurci a quella simpaticissima e un po’ stordente funzione domenicale. Oggi posso dichiarare che più di tutto, almeno per me, a spingermi in quella Chiesa, a ridosso dei mare, quindi sulla linea di frontiera un po’ profana, era probabilmente la “marchina” cioè un pezzetto di carta che dava diritto ad assistere, subito dopo la benedizione, gratuitamente ad un film nella Chiesa parrocchiale. Abbiamo perdonato questo piccolo ricatto a don Rossi, che dei resto è stato ricattato da noi mille volte. E io ricordo che un pomeriggio, il riverbero delle candele, i sussurri dei confessionali, l’incombere dell’ostia posata sulle labbra dei comunicandi così bianca di una sacralità che non mi era mai capitato, cogliere in una Chiesa, l’odore dell’incenso e non so che altro avevano prodotto in me una sorta di stordimento, quasi un innamoramento. Uso il linguaggio dei sociologo Alberoni, “non era ancora amore né forse lo diventerà mai”, era un innamoramento per quello che vedevo, per quello che avvertivo, per lo meno nel corpo, non potendo valutare esattamente quanto accadeva nell’anima. Ricordo che, assurdamente, di fronte a quei volti che risalivano dal cavo delle mani, rimessi in pace da quella delicatissima e laboriosa introduzione dei Cristo, io provai una sorta di sbigottimento. Per un verso io desideravo essere uno di loro, per un altro rifuggivo da quella loro fede che mi pareva, il giorno in cui vi fossi caduto anch’io, mi avrebbe intrigato al di là di quello che avrebbe potuto sopportare la mia misura umana. Cioè assurdamente, paradossalmente, motto enfaticamente, mi misuravo già con una misura della testimonianza che rasentava la santificazione; pensavo che la mia natura umana non mi avrebbe mai consentito di dare una misura plausibile, corretta, sincera, profonda e che in ogni caso l’aderire alla fede mi sarebbe costato una porzione così grande della mia umanità per cui ritenevo prudente non accostarmi più di tanto a quei rito. E ricordo che pregai a modo mio il Signore di non darmi la fede. Io non saprei dirvi se fui ascoltato, né oso dire di fronte a quattromila persone, ancorché amiche, se mi consolo di credere che mai sarò ascoltato. E tuttavia ricordo che – incominciato il mio mestiere inconsapevolmente, cioè quasi senza accorgermene – io di tanto in tanto inserivo nel mio calendario di lavoro un incontro con qualcosa che avesse in qualche modo a che fare con la fede. Certo, io ritagliavo nel mio progetto i problemi e le immagini che mi parevano più congeniali a quei mio desiderio che immergermi in questa dimensione che tanto mi attirava. E certo fu il Concilio Vaticano II quello che mi parve un momento chiarificatore, persino per me, dei miei problemi di tipo spirituale; allora cominciai ad avvicinare gli uomini della Chiesa postconciliare. Ebbi dimestichezza con Padre Balducci, un grande animatore dei dibattito postconciliare, poi cominciai a viaggiare per il mondo. Andai a incontrare il cardinale Konig a Vienna in quei crocevia dove s’incontrava il mondo dei credenti e, diciamo, degli indifferenti e dei lontani; poi andai da Leger il giorno che seppi che stava per lasciare la porpora per diventare missionario, se non sbaglio, nel Senegal. Andai nella grotta di Paul Gauthier prima che quei prete straordinario si abbandonasse a quella protesta radicale che gli ha fatto poi cambiare così clamorosamente il segno della sua testimonianza; poi conobbi un campione dei protestantesimo liberale, un mistico che si confrontava però tutti i giorni coi dolore e con la storia dei dolore e, cioè, Albert Schweitzer. Feci un incontro con Raoul Follerau, il quale mi disse una cosa straordinaria che io non ricordo esattamente, ma che mi piace in qualche modo ricostruire e ripetere soprattutto ai giovani. Mi disse: “Lei pensi che per guarire dalla lebbra tutti i lebbrosi del mondo, mi sarebbe bastato ottenere da Eisenhower e da Malenkov, che allora reggevano le cose del mondo, un B 52, cioè un bombardiere”. Un giorno io andai in America e vidi in un vecchio arsenale cinquanta o sessanta B 52 che erano caduti in disuso,

non volavano più abbastanza veloci, non uccidevano più con altrettanta facilità rispetto ai nuovi modelli, non promettevano di uccidere di più, ed io dissi: “In mezzo a questi c’è anche il mio B 52” Rimpiango questi due signori che non si sono portati nella tomba (nel frattempo erano morti) la consolazione di avere regalato al mondo un ordigno di morte per salvare milioni di bambini, di esseri umani. Poi feci altre esperienze: andai a Taizè, andai a Nazareth, ma non pensate fosse un pellegrinaggio continuo con idee edificanti. Alternavo a questo, cose più banali, più concrete, più politiche, di impegno civile, e tuttavia in questa mia ricerca delle occasioni di lavoro serpeggiava di continuo questo desiderio di accostarmi, di sentire quasi l’odore di quella santità che mi era sfuggita da ragazzo, perché n’avevo avuto paura. Un giorno andai dal Cardinale Lercaro a Bologna che era assistito allora da Monsignor Bettazzi, l’attuale Vescovo di Ivrea. Erano uomini di una chiesa nuova, uomini capaci di coraggio, in qualche misura (lo dico con il massimo riguardo) di eresia. Tant’è che quando dissi loro che mi sarebbe piaciuto entrare con un microfono in un Monastero di clausura per raccogliere le voci che il mondo non aveva mai ascoltato prima d’allora, mi fu chiesto soltanto la riflessione di una notte, e l’indomani mattina quando mi ripresentai, la risposta fu il lasciapassare che mi consentì di conoscere questa piccola, fragile, fortissima donna che è al mio fianco: Suor Maria Teresa, allora dell’Eucarestia, oggi delle Piccole Sorelle di Maria. Vi spiegherò poi il perché di questo cambio di nome. Arrivai come può arrivare un laico, un po’ goffo, in un Monastero di clausura. Ricordo che sollevando una sorta di velo nero dalla grata, la suora mi accolse con il rituale “sia lodato Gesù Cristo”, io non seppi cosa rispondere. Denunciavo il mio imbarazzo e lei fu molto generosa, mi aiutò ad entrare subito in confidenza; io spiegai il mio progetto, lei ne fu all’inizio estremamente turbata. Certo, a metterla in pace con la propria coscienza, al limite anche con i rigori dell’Ordine, oltre che dei convento, c’era il “placet”, dell’arcivescovo; tuttavia questo non le bastava perché l’inquietudine serpeggiava anche per altre vie; la disponibilità delle sue consorelle non abituate evidentemente a parlare con un estraneo, la sua stessa capacità di parola. E mi spiegò: “ma come riusciremo mai a parlare noi che viviamo di silenzio, per lei è facile mettere una parola dietro l’altra, per noi sarà estremamente difficile. lo non vedo come lei potrà mettere insieme il suo progetto, cioè indurci a parlare, a dire cose che possono essere minimamente ragionevoli”. lo a mia volta la incoraggiavo a credere che il progetto era fondato su una sorta di presentimento, che ci saremmo parlati con grande confidenza, con grande abbandono, senza malizia, senza mentirci l’un l’altro, la rassicurai che era lontanissimo da me il desiderio di fare uno “scoop” giornalistico. Le dissi che mi premeva semmai diventare uno strumento di mediazione, un tramite, un ponte, un testimone tra quel piccolo mondo nascosto e quel grande mondo pieno di clamori, con tante urla di dolore che riempivano, invece il mio fuori. Da questo incontro nacque “Clausura”, un documentario che poi ha fatto il giro dei mondo ed è stato tradotto in tante lingue; ne ricordo una versione memorabile della BBC interpretata dalla più grande attrice d’Inghilterra. Fu pochissimo attrice, invece, Suor Maria Teresa, preoccupata com’era di conciliare la promessa dell’abbandono e della confidenza con le remore imposte dalla regola e dal costume di vita nel quale era, evidentemente, con le sue consorelle totalmente immersa.Io ho pensato di fare cosa utile al nostro incontro anticipando un piccolo brano di quel documentario, non per esercitare sulla platea una suggestione, non ce ne sarebbe bisogno e l’applauso che ha accolto l’apparizione già è la testimonianza della sua popolarità. E’ utile, invece, che noi riascoltiamo quel brano di quel documentario, perché subito dopo noi capiremo meglio il perché di quello che Suor Maria Teresa si rifiuta ovviamente di chiamare “il salto dei muro”. Sono passati ventitré anni – Suor Maria Teresa dell’Eucarestia si chiama adesso Suor Maria Teresa delle Piccole Sorelle di Maria.

Suor M. Teresa delle Piccole Sorelle di Maria

Ventitré anni, è cambiata la voce, sono cambiate tante cose. Però posso dire oggi che fin d’allora stranamente, in modo superiore alle mie capacità, avevo intuito che qualcosa di grosso era avvenuto nella Chiesa, nel mondo, per l’uomo d’oggi. Zavoli, senza rendersi conto, era in quel momento una pedina nelle mani di Dio. Si muovevano molte acque e inoltre molte cose cambiavano nella mia vita e nella vita dell’uomo dei mondo e della Chiesa. Dio sceglie chi vuole e tutti voi sapete quanto me che sceglie sempre i meno adatti, i più semplici, i più poveri per confondere gli altri. Perché l’opera Sua sia riconosciuta Sua e non di chi opera. Comunque, come ha detto Zavoli, questo disco ha fatto un po’ il giro dei mondo e mi sono trovata quasi immediatamente, pur restando in clausura, pur continuando la mia vita quotidiana, mi sono trovata sotto il peso enorme di confidenze, di persone che mi scrivevano ogni giorno da ogni parte dei mondo, e ogni tipo di persona – dal politico, dal giornalista – all’operaio – al minatore – al carcerato – all’ergastolano – alla mamma di famiglia – al bambino che scriveva per i suoi problemi. Ho conosciuto il mondo più dopo questo disco che in tutti gli anni precedenti. E si è andato immediatamente maturando in me il desiderio di rendermi più utile ai fratelli; se, come ho detto nel disco, avevo scelto la clausura perché volevo cercare in Dio gli uomini, dopo l’incontro con Zavoli, dopo il disco “Clausura”, ho incominciato a comprendere che per me si iniziava una vita nuova: dovevo cercare Dio negli uomini. Ho sentito che l’uomo è la dimensione, la misura, il modo migliore per comprendere e per amare Dio. lo amo Dio nella misura in cui comprendo e amo il fratello, io amo Dio nella misura in cui so scomparire per il fratello. Di qui è nato il desiderio, la convinzione o, meglio, la risposta ad una seconda chiamata chiara, forte, decisiva che chiedeva a me il sacrificio dì tutto, anche della sicurezza che ne veniva dalla vita claustrale, la sicurezza non solo materiale, ma soprattutto sicurezza spirituale. Dio mi chiedeva tutto, dovevo lasciare tutto. Non avere paura dei deserto, della solitudine, dell’incomprensione, dell’abbandono, dei disprezzo: dovevo lasciare tutto per ritornare in mezzo agli uomini, per fare qualcosa per ciascuno, per tutti, nella misura in cui Dio di volta in volta mi avrebbe fatto comprendere. Fu un cammino nel deserto, ma fu un cammino fruttuosissimo. Ho imparato molto più nei primi anni dopo la clausura, che in tutto il resto della mia vita, e ho imparato tante cose vivendo in mezzo ai fratelli. Ho compreso cosa vuoi dire essere rifiutati, essere abbandonati, essere incompresi. Ho sentito la spaccatura che si crea dentro quando Dio chiama e l’uomo di Dio non comprende e tu devi continuare a camminare. E’ nato così l’eremo della trasfigurazione, un piccolissimo eremo sul monte Subasio; siamo in sei piccole sorelle e lì ospitiamo chi lo desidera per alcuni giorni. Mai come oggi l’uomo rifugge dal silenzio e dalla solitudine: non sappiamo più tacere, non sappiamo più stare soli. L’eremo offre ai fratelli, oltre che la possibilità di un ascolto illuminato, paziente, fraterno, anche la possibilità di avere quegli spazi di silenzio per ritrovare se stessi, per cercare di comprendere chi siamo per Dio e chi è Dio per noi e continuare il cammino di sempre con nel cuore una gioia nuova, una chiarezza nuova.

S. Zavoli:

Suor Maria Teresa spero di saperle fare questa domanda con la migliore grazia possibile. “Lei dovette soffrire a quei tempi per colpa della Chiesa, dell’Ordine, delle sue consorelle?”.

Suor M. Teresa

Sì, dovetti soffrire, ed era logico che dovessi pagare, perché quando qualcosa di grosso nasce nella Chiesa, nella società, ha sempre la prefazione più o meno lunga della sofferenza. Al primo momento immaginavo, pensavo, credevo, mi illudevo che potesse essere compresa la cosa, perché era tanto lineare, era scoppiata in mano a tutti senza merito di nessuno. Era evidente che era Dio a volerlo, quindi mi sembrava strano che non si potesse comprendere. Poi, pian piano, ho compreso che era indispensabile questa sofferenza, questa incomprensione per una mia maturazione, per una mia crescita, perché dentro di me si chiarisse sempre di più nella solitudine e nell’abbandono, il disegno di Dio. Non avrei potuto comprendere chi soffre, l’emarginazione, se non la avessi provata io. Non avrei potuto comprendere chi soffre la solitudine, l’incomprensione, se non l’avessi provata io. Non avrei mai potuto sentirmi una con questi fratelli se anche io come loro non avessi faticato nel deserto.

R. Buttiglione

Suor Maria Teresa ci ha introdotti nell’unica lunghezza di onda giusta che ci permette di parlare di Dio: la lunghezza di onda della testimonianza, dei raccontare ciò che è avvenuto nella vita. La certezza della fede non è la certezza di un teorema, è la certezza di un incontro vissuto nella propria esperienza umana e che l’ha cambiata, le ha dato una consistenza, una forza che essa prima non aveva. E’ il sapere di essere portati per mano da un mistero che si rivela a noi attraverso esperienze umane. Adesso quello che a noi interessa non è aprire un dibattito intellettuale sulla ricerca di Dio, ma è proseguire, dentro questa testimonianza, arricchendola con la meditazione e con la testimonianza di ciascuno di noi, con le sottolineature inevitabili che nascono dagli incontri fatti nella vita. Perché questo è l’unico modo vero di incontrarci: l’ideologia divide, la pretesa di avere un discorso che cattura la realtà oppone gli uomini l’uno all’altro, ma la testimonianza della vita va sempre accolta perché in essa ognuno cammina verso la sua verità, e questo fa parte anche della mia vita. Potrò non essere d’accordo sul modo in cui un altro la esprime, ma certamente non potrò non riconoscerla negli altri, perché una comune volontà di salvezza e di bene si manifesta nella storia di ognuno di noi. Passando alla seconda parte dei nostro incontro, noi vogliamo ascoltare come esperienze diverse si interrogano e si interpellano partendo da questa prima testimonianza. Prima di essere credenti o non credenti, tutti noi siamo uomini e fa parte dell’uomo il vivere la ricerca della verità, il vivere la propria vita come domanda di un significato ultimo, esaustivo, globale, adeguato, che mi renda ragione di tutto ciò che mi accade e che sappia dare valore alla sofferenza, come nelle ultime parole che abbiamo ascoltate. Questo è un interrogativo che il credente come il non credente non possono eludere. La certezza dei credente non è la pretesa di aver capito tutto e avere catturato la storia con la sua analisi, ma è la certezza di ciò che gli è accaduto, così come il dubbio o la ricerca dei non credente non è rifiuto di quel problema ultimo radicale di senso e di valore e di significato per l’esistenza, ma è anche essa un modo per affrontarlo per confrontarsi con essa. Ogni certezza vera vive nel confronto, vive della sua capacità di accogliere in sé l’umanità dell’altro, di ogni esperienza umana vera. E’ allora in questo modo che continuiamo il dibattito che non potrà coinvolgere, come tutti avremmo desiderato, tutti coloro che sono presenti ma che idealmente incomincia con gli interventi di coloro che sono seduti attorno a questo tavolo, perché sia per ciascuno di noi guida alla ricerca della verità della propria vita. E partiamo naturalmente da Sergio Zavoli.

S. Zavoli

Poiché a pretesto di questo nostro incontro è stato il mio ultimo libro, che ha un singolare titolo “Socialista di Dio”, e poiché in queste due parole è parso a qualcuno di cogliere un’evidente contraddizione essendo incompatibile la categoria dell’essere socialista con la categoria dell’essere uomo capace di altro sentire, si è creduto di cogliere in questa miscela, in questa commistione, in questa contraddizione se volete, una larga misura di ambiguità. lo so che a voi bisogna parlare con franchezza, allora io vi dico che quando mi si intriga in questo discorso sulla trascendenza io ho sempre in mente quel passaggio di Teilhard de Chardin in cui precipitando di colpo dal suo assoluto e imprendibile omega, parla della trascendenza verso il basso, dentro quella che chiama la “santa materia”, dentro la quale siamo tutti, volere o non volere, intrigati. L’essere socialista comporta, almeno nel libro, poiché di questo stiamo parlando, il bisogno di una testimonianza che risponda alle cose di ogni giorno, al politico, al civile e se mi consentite, anche al morale. Ma io non voglio far torto a chicchessia dicendo che non mi interessano tanto i cristiani per il socialismo quanto scoprire se è possibile, se c’è e quanto e che cosa può diventare eventualmente, un socialismo per i cristiani. E’ stato anche detto che questo mio libro è il libro di un ottimista: è vero! I laici, io credo siano più ottimisti dei cattolici. C’è un pessimismo dei cattolici che ha profonde e ragionate motivazioni proprio nell’origine stessa di questo rapporto tra vita e morte, su cui si fonda larga parte del pensiero cattolico. Non è un modo di ripiegarsi nell’annullamento di se stessi, non è l’accettazione di una sottovalutazione della vita per privilegiare a tutti i costi l’assoluto e l’eterno; i cattolici sanno vivere di testimonianza, sanno onorare la vita ed io ho grande rispetto per quei cattolici che sanno farsi socialmente ottimisti, e sono tanti. La speranza di un laico è qualcosa di diverso, di più lacerante e, se mi consentite, anche di più straziante. Sperare non vuoi dire – almeno per me – consegnarsi senza peso, quindi già un po’ eterei, già un po’ celesti, a qualcosa che non riguarda più la storia, e quindi che non partecipa più della nostra storia. Al contrario, per me sperare è obbligarsi con la storia, è compiere il gesto quotidiano, è intrigarsi, è compromettersi, è correre dei rischi, è pagare, è essere sconfitti anche. Il nuovo verbo della speranza, diceva un mio amico di Rimini, Luigi Pagliarani, un noto socio-analista che adesso vive a Milano e che è stato un grande animatore di quel centro di polemologìa fondato da Franco Fornari, è agire, e d’altronde, la speranza non è solo cristiana. Io visitando recentemente Pertini, nella sera in cui gli presentammo il risultato di una ricostruzione della vita di Gramsci, gli sentii ricordare una frase sulla speranza detta proprio da Gramsci a lui: “Sperare – disse Gramsci a Pertini – è farsi carico di un progetto, non abbandonarsi per consolazione a un desiderio”. Sperare è prendere impegno anche per i rifiuti, per le disobbedienze, e persino per I e eresie. Io credo che in un tempo in cui, più lacerante di ogni altra cosa, ma anche più libertaria, credo, è stata la crisi, non oso dire la fine, delle ideologie, l’eresia ha assunto una sorta di valore catartico, la capacità di rinnegare qualcosa di noi stessi e io dico che è un atto di fede laica straordinaria, che ci impegna al di là delle stesse forze umane, le quali tendono semmai all’orgoglio, alla rassicurazione rispetto a noi stessi, alle nostre idee, al piacere della coerenza, alla militanza a tutti i costi anche la più ottusa. Dietro alla speranza non c’è il dogma, secondo me c’è l’eresia, il che vuoi dire accettare che tutto o qualcosa possa anche essere o diventare diverso. Una speranza che non fa della storia la prima occasione di verifica secondo me consola soltanto chi attraversa la vita come un sonnambulo. Ho vari punti di riferimento su cui ritornerò fra poco.

C. Cardia

lo vorrei iniziare esternando una certa perplessità quando mi fu rivolto l’invito a partecipare a questo dibattito. Un po’ io nel primo invito non avevo capito bene di cosa si trattava, ero convinto si trattasse di uno dei tanti dibattiti sulla questione cattolica, sulla questione magari democristiana, quindi avevo accettato. Quando poi, attraverso le lettere che mi erano giunte, ho conosciuto più precisamente il tema dei dibattito, un momento di esitazione l’ho avuta anche perché è il primo dibattito a cui io partecipo su questo tema. Ma non vorrei sbagliare, credo che sia uno dei primi dibattiti che a livello di incontri fra culture diverse si faccia su questo tema specifico. E ricordavo, riflettendo che in fondo è un destino singolare quello dei nostro paese; è un paese in cui, diciamo la verità, a livello di dibattito culturale generale si discute ben poco di Dio. E’ un tema, questo, su cui ci si interroga poco, anche nei grandi mezzi di comunicazione sociale: sui giornali, sulla stampa. Eppure il nostro è un paese in cui si incontrano culture diverse ed esperienze di milioni di uomini, di masse di uomini completamente diverse su questo terreno. Siamo un paese singolare anche perché probabilmente siamo il crocevia di mondi che hanno poi altre vite, altre esistenze in parti, più lontane di questo nostro pianeta; eppure sul problema di Dio si discute poco. Siamo molto più curiosi su altre cose. Devo dire che sono rimasto estremamente sorpreso della partecipazione a questo dibattito, ma probabilmente in un dibattito alla televisione ci sarebbe più curiosità nel discutere sulla Democrazia Cristiana che non su questo problema. Come mai questo? Perché? Questo è un primo interrogativo che a mio giudizio dobbiamo porci per cercare di andare più dentro a questo argomento. lo farei questa osservazione, più che sull’esperienza personale, su tante esperienze personali che ognuno di noi conosce, che la scelta individuale su questo specifico problema è una scelta che interviene, specialmente in un paese come il nostro di formazione cattolica, a un certo momento della vita di ognuno, ma poi subito si privatizza, poi subito diventa una parentesi che si chiude o in un senso o nell’altro e l’esperienza personale, umana, politica e culturale segue tutto un altro itinerario. Di Dio si parla poco, da quel momento in poi, sia individualmente, che collettivamente. E’ un bene? è un male? Io questo non lo so, non è il caso di andare a cercare una soluzione di questo problema, certo però io credo sia la spia, il riflesso di un problema più generale: il tema della ricerca di Dio si pone in termini profondamente diversi, se non opposti, rispetto al passato. lo vorrei tentare una prima osservazione su questo argomento. La nostra e un’epoca di grande liberazione dell’idea di Dio. Questa è una riflessione culturale che non si è fatta ancora, però ne abbiamo le tracce nei libri di storia, ne abbiamo le tracce anche nelle nostre vicende personali. Abbiamo alcuni fatti molto semplici, molto importanti però, importanti proprio perché semplici. Dio o una Chiesa oggi non si identificano più con un sistema politico o un’area geografica. Quando per esempio abbiamo letto per mesi la vicenda iraniana, tutti quanti abbiamo sentito che si evocavano tempi passati. Erano tempi non molto passati per noi, per l’esperienza nostra occidentale, ma attraverso quelle vicende abbiamo proprio avvertito di avere la coscienza che Dio non può più localizzarsi in un area geografica, in un posto, in un paese. Dio non si identifica nemmeno più con le armi di un paese, può sembrare una cosa molto ovvia, ma non lo è. Solo qualche decennio indietro l’idea di Dio ed il messaggio di una Chiesa, si affidavano anche alle armi di un paese o di un sistema politico. Dio ed una Chiesa non chiedono più quella rigidità di adesione a tutto un sistema perfetto di dogmi; ma tendono a interpretare questi dogmi in una maniera più fluida, più duttile, più intelligente, più vicina alla sensibilità diversa delle persone. Se facciamo mente locale ad un altro fenomeno, ci accorgiamo, e ci dobbiamo però pensare un attimo, che il nostro non è più il tempo, la nostra non è più un’epoca di eresia eppure una volta fino a non molto tempo fa, le eresie – piccole e grandi – sconvolgevano la vita di nazioni, sconvolgevano la vita personale e la vita di collettività. Oggi non sentiamo più questi bisogni. Cosa c’è dentro a questi fenomeni, se non una grande purificazione, liberazione dell’idea di Dio che sì presenta con connotati diversi? La nostra è un’epoca in cui gli uomini si incontrano per verificare tante concezioni di Dio, tante concezioni diverse di Dio, tante ricerche diverse di Dio. Se leggiamo soltanto qualche passo dei più famosi, ma anche di quelli più nascosti, dei Concilio Vaticano II, vediamo quanto da parte della Chiesa Cattolica, ma ormai anche da parte di altre Chiese, si vada alla ricerca di altri credenti – che solo qualche decennio addietro erano considerati “vitandi”, erano considerati persone lontane, contrapposte. Oggi noi assistiamo addirittura a incontri planetari fra tutte le confessioni religiose, anche fra le più lontane. Che cosa c’è dentro a questo altro fenomeno, se non le premesse di un grande processo di unificazione dei mondo, se non il fatto che oggi anche il credente di un paese profondamente cattolico, avverte come più vicina la persona che magari è di una religione lontanissima, che non ha mai conosciuto, che forse non conoscerà mai, ma che sa che esiste proprio perché le distanze si sono raccorciate? Un ulteriore ultimo passo io lo farei riflettendo sul fatto che la nostra è un’epoca in cui il fenomeno della non credenza è un fenomeno che ha assunto proporzioni planetarie. Forse molti di voi ricorderanno come i non credenti erano considerati, valutati, come si davano degli aggettivi piuttosto duri e pesanti verso i non credenti. La non credenza era vista come una condizione inferiore della vita umana, mentre oggi a livello di grande massa di uomini questo fenomeno si pone di fronte a quello della credenza in termini di alternatività su cui si deve discutere. Sono mondi, questi, dei tutto contrapposti, o questo processo di unificazione, che ricordavo prima, non chiede invece agli uni di interrogarsi sugli altri? Io vorrei fare qui una semplicissima riflessione. Oggi la ricerca di Dio o il problema di Dio influisce anche sui non credenti, così come l’ateismo o la non credenza influisce anche su coloro che ricercano Dio o su coloro che sono credenti. Ma questo processo di unificazione ha messo a mio giudizio quasi fra parentesi la parola Dio: questo credo sia un grosso fenomeno dei nostro mondo. Dicevo prima, se ne discute poco, ma anche per questo motivo: si è messo quasi fra parentesi il fenomeno di Dio. Ci sono altri problemi su cui discutere, su cui misurarsi, su cui confrontarsi e c’è il grande problema della speranza storica. Che cosa è questa speranza storica se non la ricerca di un mondo nel quale le condizioni di vita umane, spirituali, personali, sociali ed economiche siano accettabili per ogni essere vivente? Ma questa speranza storica, oggi possiamo dire che è appannaggio soltanto dei non credenti? Possiamo dire, che questa speranza storica ce l’hanno al contrario solo i credenti? Certo, per quanto riguarda alcuni settori dell’ideologia, per esempio marxista, una volta e ancora adesso alcuni sostengono che l’adesione ad una fede religiosa rappresenta un momento di alienazione. Ma è un’affermazione che si è rivelata falsa di fronte alla capacità non solo di rinnovamento, ma di fronte alla capacità di interpretazione della storia e della speranza storica da parte dei credenti. Allora i non credenti devono tornare a riflettere sul significato che può avere, sia a livello personale che nella collettività, la ricerca di Dio e l’adesione a un sistema fideistico. Ma i credenti devono fare anche la riflessione opposta. I credenti oggi hanno di fronte masse di uomini atei o non credenti che coltivano spesso un’esperienza (ecco perché dicevo che il nostro è un paese singolare, in cui c’è il crocevia di tutte queste esperienze lontane) fortemente intensa in cui la speranza dei riscatto dell’uomo è opera di vita quotidiana, è criterio di azione quotidiana. E allora qui porrei una prima domanda a Zavoli, ma anche a tutti noi. Questa coesistenza di esperienze così diverse che soltanto negli ultimi tempi cercano di interrogarsi l’un l’altra è un fatto destinato ad andare alla prevalenza degli uni sugli altri? Possiamo noi oggi sul problema della ricerca di Dio ancora pensare nel termini in cui si pensava fino a poco tempo fa, e in cui ancora molti pensano oggi, e cioè, che il problema e l’idea si può risolvere una volta per tutte? Questa è una domanda che io pongo e me la pongo innanzitutto dal mio punto di vista. Lo credo, questa è una testimonianza di vita non solo personale ma di tutti noi, che le condizioni storiche ci condizionino e che la scoperta da parte dell’uomo di questa verità o comunque di questa esperienza attuale, abbia in sé qualcosa di tremendo per l’uomo. Perché fare l’affermazione che le condizioni storiche ci condizionano, significa dare alle convinzioni dell’uomo un limite e dire all’uomo “ciò in cui credi oggi può essere modificato domani, può modificarsi dopodomani se tutto ciò che ti sta attorno sarà diverso”. Io ricordo un passo molto bello di Gramsci in cui lui esprimeva un concetto, molto arduo filosoficamente, ma che in termini semplici diceva: “molte cose che oggi non ci appaiono vere, quando si sarà superato il mondo della necessità storica, cioè quando si sarà realizzata l’utopia, in cui lui credeva, molte di quelle cose potranno tornare a sembrarci vere”. Io vorrei su questo passo riflettere un momento. E’ la negazione in fondo di tutta una posizione che stabilisce nettamente e rigidamente la non credenza. Vuoi dire anzitutto un invito all’uomo a sapersi rimettere continuamente in discussione, a sapere cioè che ogni convinzione – anche la più alta (e questo è un punto evidentemente difficile da accettare) può apparire in modo diverso in una fase storica diversa. Oggi noi abbiamo un mondo nel quale il processo di unificazione porta a dare nomi diversi alla parola Dio. lo so che c’è una tendenza che dice: anche i non credenti hanno una loro immagine di Dio ma la chiamano in un altro modo. La possono chiamare ingenuamente socialismo, riscatto storico, riscatto economico, salvazione dei mondo. lo direi che è avvenuto negli ultimi tempi un fatto importante: la ricerca di Dio non può oggi qualificarsi come ricerca di Dio e basta. Oggi una religiosità tutta chiusa in se stessa non è accettata nemmeno dai credenti; una religiosità che non si interroghi sul destino dell’altro uomo, e oggi l’altro uomo non è solo il vicino di casa, non è solo quello della nostra area geografica, oggi l’altro uomo è l’uomo “tout court”, è l’uomo in assoluto di questo nostro mondo. Oggi una religiosità che non assuma su di sé questo problema storico, quindi non sì impegni concretamente anche alla soluzione e alla realizzazione di questa speranza storica, è rifiutata spesso anche dai credenti. Oggi, al contrario, noi vediamo che molti non credenti si pongono il problema dei fine, della finalizzazione della loro concezione, della loro convinzione. Io vorrei qui proporre una formulazione, più che difficile un po’ discutibile. lo credo che, se c’è un modo per continuare a dibattere e a comprendersi su questo argomento, esso debba fondarsi su questo presupposto: essere pronti a rimettere in discussione anche queste convinzioni profonde. L’ateo, a mio giudizio, il non credente, dovrebbe ammettere che in un lontano futuro anche la sua convinzione su questo punto può rivelarsi sbagliata. So che questo ragionamento è più difficile da farsi per un credente, mettere cioè un dubbio, un interrogativo sulle proprie convinzioni. Ma perché? Perché il cammino storico che abbiamo davanti, è un cammino storico molto lontano. Noi viviamo oggi in un’epoca di grande transizione; io sono convinto che la grande tendenza a trascendere se stessi, a superare il proprio particolare e, se si può dire, anche a superare il concetto di morte, io credo che questa tendenza sia connaturata all’uomo, sia qualcosa che non si elimina. Ma questo non è sufficiente per risolvere il problema della ricerca di Dio. E allora la domanda che facevo prima che io riformulerei così: – l’idea e il problema di Dio può risolversi una volta per tutte con una prevalenza degli uni sugli altri? lo risponderei di no. Proprio perché noi abbiamo visto quanto l’idea stessa e la ricerca dell’idea di Dio si sia modificata storicamente, sia cambiata anche negli ultimi tempi, sono convinto che continuerà a cambiare e a modificarsi la ricerca stessa dell’idea di Dio e si modificheranno anche le condizioni della non credenza. Ma per questo noi dovremo avere una visione – uso il termine nel significato più pieno della parola – utopica della vita. Certo, probabilmente un’utopia può essere considerata nell’ottica della trascendenza; un’utopia è qualcosa che oggi non è realizzabile. Ma se da parte di credenti e non credenti si parte da questa constatazione, che il cammino che oggi è da fare può portare ad esiti diversi per tutti, anche ad una nuova idea, ad una nuova immagine di Dio, o una nuova immagine della non credenza; se si parte da questo punto di vista, io credo che al tema della ricerca di Dio diamo, un’importanza più grande, poiché acquistiamo tutto quello che l’uomo può fare oggi nel concreto nel rapporto con gli altri uomini e, al tempo stesso, lasciamo aperta la strada alla speranza, perché lasciamo aperta la libertà ed il dovere di ciascuno di essere pronto ad accettare il nuovo che viene, sia da una parte, sia dall’altra.

V. Volpini

Il tema che noi dibattiamo questa sera “L’uomo e la ricerca di Dio”, è un tema di così radicali proporzioni che in sostanza, nella sua verità più profonda, è meno capace che essere registrato anche dai filosofi, dai pensatori, in una parola della storia. E’ cosa di tale portata che credo abbia coinvolto appunto la gran parte degli esseri viventi, degli uomini ignoti che sono vissuti millenni fa; così come la gran parte dei libri sepolti nelle biblioteche, oppure di grande consumo nel nostro tempo, direttamente o indirettamente ci parlano di Dio, anche quando ignorano o mettono da parte il problema di Dio. Anche questo io credo che sia un modo – sia pure in negativo – di rendere testimonianza di una realtà. A me pare che, in fondo, e senza voler fare dell’apologetica, occorra ricordarsi di un fatto che io esprimerò in termini molto rozzi, ma anche molto sinceri. Direi che da un secolo e mezzo e forse anche di più, nell’Occidente si sia accantonato il problema o per lo meno è iniziato un accantonamento dell’interrogazione su Dio. E’ stato abbastanza sintomatico che questo volere gettare la presenza di Dio dalla finestra abbia fatto sì che questa stessa presenza bussasse alla porta dell’uomo e dell’umanità stessa. Quando Zavoli ci dice “dove va a parare l’uomo?”, in fondo esprime in termini molto concreti tutta una serie di inquietudini, di contraddizioni, di ambiguità, di incertezze che connotano l’uomo contemporaneo e le ideologie contemporanee. Ricordiamo il grido trionfale di Zarathustra che scende tra i mortali a dire “Dio è morto”. E pochi anni prima Dostoevskii aveva detto “Se Dio è morto tutto sarà possibile per l’uomo, anche il crimine peggiore e se Dio è morto morirà anche l’uomo”. E’ certo, proprio per non, fare apologetica, che noi, indubbiamente nel nostro tempo per una naturale crescita di alcune domande della storia, per un approfondimento di quella che è l’essenza testimoniale dei cristiani, abbiamo compreso sempre di più quello che è il significato di Dio. Direi che lo abbiamo sentito giorno per giorno e che abbiamo anche abbandonato certe idee e certe formulazioni privatissime di sovrastrutture che sono state attribuite a Dio: il Dio tappabuchi, per dirla in parole semplici, di Bonhoffer. Però nonostante la presenza di ideologie lontane dal voler affermare la nozione di Dio, dei soprannaturale e del fine non storico dell’uomo, direi che proprio nel nostro tempo, nella discriminante della realtà storica di questi anni, il problema, l’interrogativo, la passione, la lacerazione, il dolore esistenziale, l’essere di fronte proprio a certi fallimenti delle ideologie, alla crisi profonda di certe ipotesi umane, di certi modelli di convivenza, di società, hanno riproposto in termini gravi, pressanti, l’interrogativo “dove va a parare l’uomo?”, ma prima ancora “che cosa è l’uomo?”, “che cosa significano storia, ideologia, politica sociologia per l’uomo?”. Non c’è dubbio che soprattutto nello scorcio degli ultimi 20-30 anni, il tentativo di rispondere e di surrogare l’idea di Dio, la Sua presenza, il Suo nome (qui non faccio neanche riferimento alle stesse ricerche teologiche sulla morte di Dio, faccio riferimento alla logica di secolarizzazione che per un verso le sociologie attuate e il consumismo, la perdita cioè della vita nelle cose) hanno dimostrato, in un divenire sempre più profondo, drammatico, umiliante, quella che era la domanda sull’uomo. Io credo che se noi dovessimo oggi rispondere se l’uomo dei 1980 è alla ricerca di Dio, la nostra risposta sarebbe che lo è, perché più che mai ha sperimentato dolorosamente certe forme di orgoglio intellettuale. Qui naturalmente non voglio polemizzare, negare il significato laico della ricerca, la buona fede e la profondità di una certa ricerca storica, però è fuori dubbio che nel nostro tempo l’uomo si ritrova a dovere addirittura sconfessare gli stessi motivi di orgoglio umano che avevano fondato l’umanesimo positivo di un secolo fa, quando, sperando nel futuro della tecnica, della ricerca, di una conoscenza tutta immanente, tutta storicizzata, le culture dominanti avevano pensato di avere risolto una volta per sempre il futuro dell’uomo. Mi pare, in un passo di Victor Hugo, che un sacerdote miscredente, aprendo un libro di fronte a Notre Dame, dicesse: “questo ucciderà quella”. Il libro, la conoscenza, ucciderà la fede. Oggi sono proprio le stesse culture, le stesse ricerche di carattere scientifico, tecnico -in un modo o nell’altro – a farci rimbalzare con una drammaticità che non ha pari, il bisogno di capire e di sapere dove va a parare l’uomo. Le tante speranze della storia (io credo non sia molto giusto parlare di una speranza della storia, così come non sia giusto parlare di una cultura, storica, dovremo sempre parlare di culture e di speranze della storia), sono andate deluse proprio perché non è stato ascoltato sufficientemente l’uomo inteso nella sua completezza, nella sua grandezza non solamente umana ma anche spirituale, perché non è stato inteso il destino ultimo dell’uomo. In sostanza, la ricerca talvolta spasmodica, concertata, di surrogare quello che nel rapporto uomo/Dio diventa realtà d’amore e di carità, è stata abbandonata. lo penso e cito volentieri un’espressione di Horkheimer che diceva “quello che manca nel mondo di oggi è la carità”. E leggevo anche – ripeto spesso – quello che lo stesso Montale, un’anima laica profondamente atea, ha scritto alcuni anni fa: “Quello che manca nel mondo è proprio l’amore”, cioè la società nelle forme più disperate, nella stessa polemica ideologica finisce per sottrarre quello che soltanto deriva e viene dato dalla presenza di Dio incarnato in Cristo. In fondo hanno ragione i miei amici, i miei colleghi a dire che bisogna riscoprire Dio giorno per giorno. Non riscoprirlo certamente attraverso le modulazioni, le modalità che possono servire a tappare i buchi della nostra coscienza o a quietarla, ma scoprirlo giorno per giorno attraverso le dimostrazioni, le carenze, il grido degli uomini che sono alla ricerca di questa fraternità vissuta. Direi che la ricerca di Dio è proprio la capacità di sentire che non è l’assoluta autonomia dell’affare umano, che non è la relatività dei valori anche storici, anche culturali a poter essere mutata di stagione in stagione, ma che questi valori universali esistono e che possono essere mediati in termini di testimonianza, di carità e di verità da tutti gli uomini credenti e non credenti, cristiani o non cristiani. Ricordo ancora un’espressione di un ragazzo che alla vigilia di essere impiccato da coloro che quaranta anni fa avevano posto come principio dell’autonomia politica l’odio e l’inimicizia fra uomo e uomo, scriveva nella sua ultima lettera: “Sia l’amore a governare il mondo”. Noi cristiani diciamo che questo amore lo assorbiamo e lo traiamo da Cristo, che non ha rivelato una fede, una metodologia e tanto meno una politica, una sociologia, ma che ha rivelato Se stesso dicendo che soltanto attraverso l’amore, come fatto di comunione e di testimonianza fra gli uomini, anche la storia potrà rovesciare il suo determinismo, anche il relativismo, la potenza degli armamenti e degli uomini che prevalgono sull’uomo potranno essere rovesciati. Ecco perché la ricerca dell’uomo di Dio, il cammino faticoso, sofferto dell’uomo verso Dio, diventa anche il cammino dell’uomo verso l’uomo, dei fratello verso il fratello in termini di storia, di realtà, di concretezza quotidiana. Non è senza significato che proprio in questa variante, in questa dimensione e direzione le ricerche degli scienziati o dei filosofi comincino a porre risposte concrete agli interrogativi sul futuro dell’uomo, cioè se il destino futuro dell’uomo possa essere assicurato attraverso gli schematismi ideologici usati fino ad oggi o non piuttosto convertendo e convertendosi a questa realizzazione dell’amore vivo reso palpitante nell’agire quotidiano di ogni uomo.

S. Zavoli

Devo due risposte non facili: una al prof. Cardia e l’altra a Valerio Volpini. Cardia si è posto il problema dei rapporto tra credenti e non credenti. Vi porto una testimonianza. Nel 1965 Roger Garaudy in “Marxismo dei ventesimo secolo” scriveva: Al bisogno di un aggiornamento che comprenda il mondo dei separati di ogni natura non è affatto appannaggio dei soli cattolici, è un fenomeno generale”. E il 7 dicembre dei 1965 il Concilio votava lo schema 13 che assegna alla Chiesa un ruolo rinnovato nel mondo moderno. Su 2.391, 2.309 sono i placet; qui si apre una nuova epoca nei rapporti con gli uomini di ogni fede, cultura e sistema. i seguaci di Cristo e di Marx avvertono per primi che la tipicità delle rispettive salvezze non comporta la distruzione di quella altrui. Leggo ancora dal mio libro: “Incontrai König – il cardinale di frontiera a Vienna e gli chiesi: Che cosa ha in comune chi crede con chi non crede lega una realtà assolutamente comune – mi rispose – che si manifesta tutti i giorni ed è la vita. Accadono cose semplici e straordinarie. Uno dei vescovi della nostra commissione, un presule di Oslo, è stato sino al ‘45 un ateo militante”. I non credenti sono interlocutori anonimi, un mondo. Non vogliamo parlare d’ombre e rispondo a questo invito in gruppi organizzati – mi rispose. re con delle ombre; in Olanda, nel Nord America, in Germania, in Francia, abbiamo interlocutori che ci rispondono attraverso comunisti che si chiamano “Unione Comunista”, o “Associazione Umanista”. Gruppi di cristiani, di non credenti, hanno preso già dei contatti, presto sentiremo la prima eco di questo dialogo. Un’altra domanda: “Perché, Cardinale König, l’ateismo è soprattutto un fenomeno postcristiano?”. “L’ateismo è innanzitutto un fenomeno essenzialmente Europeo – mi ha risposto -. Ha avuto inizio in Europa con i primi sviluppi della tecnica e della scienza, quasi non esiste né in Africa, né in Asia, effettivamente può dirsi anche un fenomeno post-cristiano, poiché è nato sempre là dove esisteva il cristianesimo. Il nostro segretariato deve prendere atto di questa realtà, stabilire che essa ha radici nelle scissioni della Chiesa ed ha preso forza dall’opera dissolvitrice dei valori soprannaturali consumata fino ad oggi”. Gli dissi: “Ad un ateo torturato perché rivelasse il nome dei compagni, uscì di bocca un lamento: disse ‘Gesù’. Il capo dei torturatori interruppe le sevizie: fermatevi, ha fatto un nome, disse. Cristo che riacquista un nome d’uomo anche se sconosciuto, può essere questo per chi non crede il senso di un suo ritorno sulla terra?”. E König rispose: “Cristo ha già fatto tutto per farsi riconoscere e per non farsi dimenticare, quanto alla sua metafora io credo ad un tipo di uomo che, naturalmente cristiano, e diventato ateo perché gli è sfuggito il legame con ciò che lo supera, che lo trascende, perché ha avuto con Dio un incontro sbagliato, magari perché da Dio si aspettava cose che invece toccavano a lui.” L’ateismo è una sfida, una sorta di provocazione nei confronti della fede, ma può anche essere un atto di coscienza, persino una purificazione dello spirito, se per questa via si tenta di eliminare un contrasto tra la vita e la fede. Allora credo che da quel momento, proprio in quello stato d’animo, l’ateismo si senta finire, ma a maggior ragione finisce Cristo, se chi dice di possederlo non testimonia la carità, se non compie il primo atto della sua fede, se cioè non fa gesti che tutti possano capire”. E anche qui si parla di carità e mi viene in mente quanto ha detto il dolcissimo, rassicurante, intelligente Volpini: “quello che manca è la carità”. Mi viene in mente, Volpini, e lo dico a te molto sommessamente ed anche con un briciolo di vergogna, fu Paolo Vi ad aggiornare questa parola, quando disse che la giustizia è la nuova versione della carità. E io acconsento più con il Papa morto che con questa immagine che tu ci hai riproposto. Così come da laico protesto per quanto disse Victor Hugo, cosi come tu hai tratto dalle sue pagine, che la conoscenza ucciderà la fede: era un rozzo sentire positivista. lo credo piuttosto nelle parole di S. Benedetto che rovescia il criterio e dice: “La conoscenza è il principio dell’amore. Lascia che io mi riferisca nella mia replica alla parte finale dei tuo intervento, quella che mi ha più inquietato, che mi ha più provocato e convinto, il discorso sulla scienza e sulla filosofia.” Leggo: “Soltanto la scienza sembra ormai capace di prendere tutto l’ottimismo umano per trasformarlo in qualcosa di certo, logorato dal suo spiritualismo, deluso dalla sua estenuata capacità di dubitare, l’uomo di oggi vuole essere in grado di produrre certezze”. Ho ripensato a questa confessione di Luckacs leggendo le cronache di un convegno dì scrittori cattolici sulla provocazione cristiana. Qualcuno ne ha fissato i risultati in un titolo in qualche modo riconducibile alla profezia dei filosofo ungherese, “La cultura cattolica delusa”. Un giovane congressista esplicitamente ha detto ai suoi colleghi: Al problema dei cristiano oggi è riconoscersi; deve chiedersi chi è al di là di ogni tentazione idealistica o spiritualistica, deve riconoscersi in un tessuto sociale reale, in una struttura materiale e persino materialistica. Adriana Zarri ha aggiunto: “Io non amo molto parlare della salvezza dell’anima di cui Gesù non ha mai parlato, preferisco parlare della salvezza dell’uomo che è incarnato, come si era incarnato Gesù. Noi siamo pieni di armi contro il materialismo, ma non lo siamo abbastanza verso lo spiritualismo, mentre sono due decurtazioni dell’uomo altrettanto pericolose”. Ho preso, dal vario argomentario dei Convegno, due affermazioni coraggiose, non spetta proprio a me dire quanto siano ortodosse. Dei resto ho riconosciuto Claudio Barbati, il laico e spesso il provocatore cristiano più attento e credibile di molti dei nostri che tendono ad isolarsi. “Dov’era l’intellettuale cattolico quando nel Sud occupavano le terre?” – si è domandato il poeta lucano Mario Trufelli. “Prendeva il the con il padrone”, gli ha risposto Francesco Bolzoni – uno studioso dei cinema – “Faceva letteratura, stava al di fuori”, ha proseguito Trufelli, un cattolico militante. “Il tempo della protezione parrocchiale è finito, è tempo che lo scrittore cristiano affronti la società senza commendatizi e curiali alle spalle”, ha affermato Barbati. E qui mi viene in mente un prete delle mie parti, che per prudenza non nomino, colto, di gusti esigenti e dì penna felice, era parroco di un gruppo di case piantate su un sasso della via Marecchiese fra Rimini e Novafeltria. Molti dei riminesi lo ricordano, è morto da poco. A chi gli domandò perché sacrificasse i doveri di istituto e disertasse continuamente la Chiesa per zappare l’orto degli altri, assistere le gestanti, riparare i tetti, sostituendo tutti fuori che se stesso, rispose: “Proprio per non stare fuori dalla mia Chiesa”. Di fronte alla delusione, in un borgo che si era sbarazzato di Dio, creava il sospetto che Dio ci fosse. “Beata solitudo sola beatitudo,, aveva scritto con la calce un raccoglitore di piume di Scarnovari nel Delta Padano. Sublimata l’unica certezza, cioè la solitudine, i raccoglitori di piume si sono consolati negando tutto fuorché un’ombra, la loro. E sempre da quelle parti, dove graffiti anonimi avvertono lungo l’Autostrada dei Sole che Dio c’è, che Dio ritorna, il parroco di Taglio Corelli don Giuseppe Dal Pozzo, ricordatomi oggi da una delle organizzatrici, animatrici di questo convegno, protesta che non è vero che lì in quella miseria senza speranza non c’è più nessun Dio, lì in quella desolazione don Giuseppe ha la Chiesa più vuota d’Italia: solo un adulto su cento va a messa, tre su trecento. “Da cent’anni non si fanno il segno della croce – racconta Giancarlo Zizola – e la gente crede che la Chiesa sia morta e noi siamo costretti a non considerarci nel numero delle forze che fanno la storia”. Mi sorprende sempre vedere un uomo che, avendo Dio alle spalle, è nella condizione di doversi continuamente difendere. Ha forse ragione don Mazzolari quando dice che il cristiano è costretto di continuo a condannare se stesso. “Si può sconfiggere una delusione solo affidando l’ottimismo alla scienza” scrive Lukacs. O ci incamminiamo tutti nella delusione provocandola dentro la storia in ogni modo, oppure per avere troppo sacrificato lo spirito ai suoi alibi, per avere troppo accettato di essere delusi in nome della nostra naturale debolezza, consentiremo che le certezze (ma quali?) siano ancora una volta prodotte al di fuori dei nostro consenso. Non offriamo la delusione a nessuno. Usciamone! Mi viene in mente una frase a proposito dell’ottimismo pessimista, di questa contraddizione di cui, qualche volta, si nutre il mio libro. Questo incontro è coi giovani fondamentalmente: mi è stato raccomandato di capire perché sono qui. lo non so se l’ho capito. Ho capito, certamente una cosa: da tutto quello che ci siamo detti e che ci diremo nell’ultimo scorcio di questo nostro incontro, c’è qualcosa che spetta a loro ed è il discorso, la speranza motivata, ragionata. La parola in sé non ha senso. Allo stesso tempo però vi dico di non essere scoraggiati; non dite di non volerne più sapere. Vi ricordo una frase: “Non dite di non volerne più sapere, pensate che tutto è successo perché non ne avevate più voluto sapere”. Sono parole scritte in una cella pochi giorni prima di essere fucilato nei giorni della Resistenza, da Giacomo Ulivi: “E vi dico anche un’altra cosa, molto poco conciliante ed edificante – la prendo da Luther King: “Io vi scongiuro di essere indignati”. In questi giorni abbiamo letto chilometri di articoli dedicati alla bomba atomica: questo immane e terribile gioco alla morte è nelle mani dei due grandi potenti della terra. E’ il segno che le ideologie, secondo me, sono morte. Per salvare questo primato e per salvare a questo prezzo, cioè quello della guerra, la pace, le ideologie hanno rinnegato tutte le loro promesse. Le rivoluzioni ritardate dei Terzo Mondo, sono il prezzo pagato alla potenza di due grandi sistemi. Ma se un giorno questo mondo dovesse diventare un deserto, io credo che avrebbe poco significato domandarsi se quel deserto è marxista o capitalista. La politica, amici miei carissimi, soprattutto giovani, è come diceva don Milani “uscirne insieme.

R. Buttiglione

Spetta a me adesso dire alcune poche parole non per chiudere l’incontro,, forse per segnare alcune piste, alcune tracce lungo le quali il nostro confronto, la nostra discussione, possa continuare dopo l’incontro, qui al Meeting, ed anche dopo nella vita. Io sento il bisogno – con la massima lealtà – di indicare alcuni punti di consenso ed alcuni punti di dissenso, sapendo che i punti di dissenso sono più fruttuosi di quelli di consenso, perché ci spingono, ci costringono, ad una riflessione più profonda, ad un dialogo più sincero, ad uno scontro che porti più vicino il cuore dell’uno al cuore dell’altro.

Comincio con un’osservazione. Che quattromila persone con questo caldo, a Rimini, in estate, si siano trovate a parlare di queste cose è il primo fatto significativo su cui dobbiamo meditare. Esistono dei problemi rimossi dalla coscienza dei popolo e il problema di Dio è uno di essi, è il primo ed il più importante di essi. E’ diventato difficile parlarne e io non credo che questo dipenda dal progresso materiale, credo piuttosto che alla parola Dio sia legata la nostalgia di una felicità perfetta, compiuta, per l’uomo, di una totale dignità, dì una compagnia dentro la quale tutto quello che ciascuno è, viene rispettato e accolto. La nostra società, la cultura dominante – io credo – ha paura di questa idea come ha paura di quella di felicità. Il negare il discorso su Dio è il modo di favorire una dimenticanza, perché un uomo che non ha una speranza così grande è certamente più facile da accontentare, da manipolare, da orientare verso i fini che il potere vuole. E poco importa che questo potere si proclami comunista, capitalista o anche cattolico; quello che importa è che un potere che non sa affrontare questo desiderio di felicità per l’uomo è totalitario, nega la vita. Il primo Meeting di Rimini che noi abbiamo fatto l’anno scorso, poteva portare come suo emblema questa frase di Vaclav Havel: “Far prevalere le ragioni della vita contro le ragioni dei potere”. Se oggi parliamo di Dio, è perché parlare di Dio è in questo itinerario, è in questa ottica, è l’ultimo rifugio delle ragioni della vita contro un potere che opprime, è l’ultima speranza che il carnefice, come dice Max Horkheimer non abbia ragione contro la sua vittima innocente. Il secondo punto che voglio richiamare è l’elogio dell’eresia fatta sia da Zavoli che da Cardia, tema difficile sul quale dobbiamo confrontarci. Cosa mi dice davanti a questo elogio la mia coscienza di credente? lo credo che dentro questo elogio della eresia ci sia qualcosa che io non posso accettare, ma anche qualcosa che parla al mio cuore. Mi domando in che misura la parola eresia qui non indichi una verità accettata e consapevolmente voluta partendo da me stesso, dall’esperienza della mia vita, perché essa è dettata dalla mia sofferenza e dalla mia gioia, perché essa nasce dal cuore sanguinante della mia umanità. Perché se la parola eresia indica questo, contro ortodossie astratte, allora la nostra fede è la prima delle eresie: è il nostro mondo, che non vuole sentire parlare di Dio, che così la qualifica e tende ad emarginarla. Su questo, io credo, il dialogo fra di noi ha bisogno di essere approfondito, perché non c’è eresia in questo senso che non sia legata all’amore per la verità, alla ricerca della verità, al desiderio di una verità che ci si faccia incontro e nella quale si possa riposare. Un terzo tema: esiste Dio? – Dire che Dio esiste significa bloccare la ricerca dell’uomo? A me viene in mente la pagina con cui si apre quel grande momento che è la Summa Teologica di San Tommaso. San Tommaso dice che per capire se Dio esiste, occorre tutta la conoscenza della natura e anche tutta la conoscenza della realtà umana. I sapienti potrebbero discutere all’infinito di questo e solo alla fine, dopo molti tentativi, potrebbero trovarsi d’accordo. Ma proprio per questo Dio è entrato nella storia dell’uomo e vi è entrato come un incontro, qualcosa di cui io sono certo, perché la mia vita me ne dà testimonianza. lo credo che una fede che nasce da un incontro, una fede che si trova al fondo di ogni incontro umano vero non cade sotto l’accusa di voler conoscere tutto e di voler imporre agli altri un sapere astratto. Una fede che nasce dal fondo della propria umanità, dall’incontro che l’ha segnata, da quell’incontro che ha rivelato la mia persona a me stesso e che mi è più intimo di quanto io lo sia a me stesso, una fede così credo che sia liberante e non totalitaria. A questo proposito mi vengono in mente due autori: Gramsci in una delle sue lettere dice che “una cosa è sicura, forse l’uomo non può catturare il reale con i suoi scherni”. Ma il bene e il male che noi abbiamo fatto rimane. La certezza della fede è questa certezza; la certezza nel bene che abbiamo incontrato e la certezza di ciò che è accaduto a noi. – “Vi è un amico, che oggi non è più fra di noi, il quale prima di morire ci ha lasciato queste parole: Le cose che abbiamo vissuto sono vere, abbiatene rispetto”. E’ questa il tipo di certezza cristiana: le cose che abbiamo vissuto, l’amore dei padre e della madre, l’amore dei figlio e della moglie, l’amore che abbiamo incontrato e che è fra di noi; perché il cristianesimo è la fede che Gesù Cristo è l’uomo in cui l’amore di Dio si è fatto incontrabile dagli uomini; non una dottrina astratta che dice giudizi su tutto ciò che accade, ma la certezza di questo incontro che poi giudica dall’interno tutta la vita. “Tutta la nostra cultura”, dice un altro grande – Emanuel Levinas – nel suo libro “Totalitè et infini”, “tutta la cultura dei nostro tempo è la pretesa di catturare la totalità, quindi di poter dire all’altro cosa lui è e cosa lui deve fare”. Mentre la nozione ebraica e cristiana di Dio è un’altra: è la nozione di un infinito, di una concentrazione infinita di tutto l’amore e di tutto il bene che si rende incontrabile in un punto della storia. E questa certezza ha lo stesso spessore umano della certezza che ognuno di noi ha dell’amore di sua moglie e dei suoi figli e dei rapporto con suo padre e con sua madre. Si tratta di entrare dentro questa ottica, se vogliamo capire Dio nell’uomo e l’uomo in Dio, la profondità ultima, la verità ultima di ogni amore e di ogni verità. Io non credo in un’altra certezza. Qualcuno ha parlato di utopia, ecco io domando: “chi trascina la storia dentro il suo compimento?” Dobbiamo avere fiducia nella storia, la fede deve diventare progetto, la speranza deve essere progetto o non è nulla e il progetto si gioca nella storia? Ma chi trascina la storia verso il suo compimento? Tutte le ideologie hanno preteso che la storia fosse trascinata verso il suo compimento dai meccanismi stessi attraverso cui si muove. La logica dei capitalismo doveva produrre la crisi da cui sarebbe nato il mondo nuovo della fraternità e della solidarietà universale. Noi sappiamo che questa promessa non è vera, la storia va verso il suo compimento se noi la porteremo verso questo compimento e noi la porteremo verso questo compimento se cambierà il nostro cuore. La nostra fede è la promessa ed è l’inizio di questo cambiamento dei cuore. Ecco su questi temi vorrei che noi continuassimo a riflettere, che ci incontrassimo, che ne parlassimo. Ringrazio tutti coloro che sono intervenuti con grande generosità e disponibilità dì cuore: Volpini, Cardia, Zavoli, Suor Maria Teresa che ci ha dato forse per prima l’indicazione di questo modo di parlare, mettendo in gioco la vita e non l’ideologia. Così io credo che noi e tanti altri uomini in questa città e nel mondo possiamo camminare insieme senza nascondere nulla della nostra vita e delle nostre certezze e tuttavia imparando ad accogliere l’altro con la sua vita, con la sua certezza, il suo dubbio, perché tutto ciò che avviene dentro l’uomo e in cammino verso la verità e il bene.

S. Zavoli

Vorrei dire, congedandomi, un’ultima cosa. Nel suo intervento il prof. Buttiglione ha richiamato spesso il rapporto d’amore con la madre e con il padre. lo che ero così alieno all’inizio dalla testimonianza privata, che andasse oltre il lecito e il ragionevole, cedo invece a una tentazione. Ho preso qualche appunto mentre lui parlava, anche perché davanti a me singolarmente si è stagliata per un attimo la figura di un medico di Rimini che ha curato mia madre sino al giorno della trasfigurazione il sei di agosto. lo vi lascio con una profonda nostalgia delle vostre certezze, delle, cose pacate, ferme, sicure, che ha detto Buttiglione. Ho ricevuto molti telegrammi, molte lettere come accade in questi casi e vi dico queste cose come in un confessionale. Quanta gente mi ha detto “superare il momento”, cioè imparare a vivere per sempre con una cara astrazione, fidandosi di una dolce menzogna. Non conosco nulla, fuorché il dolore che meglio certifica la mia cultura che, ripeto, è la cultura dei dubbio. E’ una consapevolezza laica scabra e tetra, non basta per aiutare l’amorosa voglia di penetrare, magari di frodo, la misteriosa parete che a voi è chiara, limpida e bianca. Forse qui galleggia qualche rimasuglio delle mie origini cattoliche di cui vi ho parlato all’inizio di questo incontro. Ho una speranza che tutto accada anche secondo ragione. Personalmente non so arrendermi ai fili invisibili che muovono il mio destino. Si tratta ancora una volta di scegliersi il Padre. E’ difficile per me, ancorché laico, non dedicare almeno un dubbio al mistero della mia vita. L’ho detto poco fa, sono un ottimista senza illusione, anche cristiano, ed è per questo che penso che noi, qui, tutti insieme, ci giochiamo tutto, anche il dopo.

 

Data

23 Agosto 1981

Ora

16:00

Edizione

1981
Categoria
Incontri