Chi siamo
L’UOMO AL CENTRO: TRA IMPRESE E START-UP. UN CAFFÈ CON… I SOCIAL NETWORK
Partecipano: Raffaella Boldini, Responsabile Progetti e laboratori di analisi di Almawave; Nicola Garelli, Project Leader in The Boston Consulting Group; Alberto Onetti, Presidente di Mind The Bridge; Marco Porcaro, CEO e Founder di Cortilia. Introduce Santiago Mazza, CEO di Fotonica Srl.
SANTIAGO MAZZA:
Buon pomeriggio a tutti, grazie per essere qui. Oggi è l’ultimo caffè della settimana, lo prendiamo con i social network.
Volevo fare un excursus sul passaggio storico dei networks globali per arrivare ad oggi, dove appunto network significa un gruppo di individui connessi tra loro da diversi legami sociali. Però prima di tutto è un gruppo di persone con valori, interessi e vincoli comuni. A volte, sono network che nascono casualmente per rapporti di lavoro, per vincoli familiari o anche per interessi personali, ma come si sono evoluti i network fino ad oggi? Beh, nel 1800 uno dei primi network era la ferrovia, grazie alla quale si iniziava un processo di connessione territoriale. La rete ferroviaria in sé era simbolo di prosperità, di progresso e aggregava le persone nelle città. Più di recente sono arrivati i network delle autostrade, le infrastrutture dove la cultura delle auto aumentava il desiderio di nuove destinazioni e di nuovi spostamenti. Poi sono arrivati i network televisivi, la TV ha collegato le persone attraverso l’inizio di un processo di uniformità culturale, omogeneizzando proprio la forma narrativa. Più di recente, vicino a me, mi ricordo in Argentina il network MTV, dove la narrazione della sottocultura pop televisiva ha distribuito contenuti che hanno abbattuto le distanze. Ricordo che negli anni ’80 si aspettava MTV come network per vedere le tendenze musicali lontane, in America piuttosto che in Europa. Tutti questi network hanno favorito l’avvicinarsi delle persone, hanno abbattuto le distanze tra i propoli e con l’arrivo del digitale nascono i nuovi network, oggi vengono chiamanti “social network” dove si passa da reti riflessive a reti espressive. L’orario e il luogo diventano sempre meno importanti rispetto al dialogo e alla partecipazione in sé, la relazione si riversa in rete. La vita reale e la vita virtuale si incrociano e diventano una estensione dell’altra. Abbiamo visto anche in questi giorni come, ad esempio con gli smartphone, gli strumenti diventino parte integrante della persona che condivide le esperienze attraverso il digitale, attraverso gli strumenti, attraverso i social network. Si rinuncia comunque a qualcosa, si rinuncia alla privacy, si rinuncia anche ai dati personali per ottenere la conoscenza.
Cambia completamente la narrazione, in questi tempi: siamo disposti a concedere i nostri dati e anche a chiudere gli occhi rispetto alla privacy, per ottenere una condivisione di esperienza. Conseguentemente, la qualità e la quantità dei dati che oggi vengono riversate in rete permettono di creare nuovi modelli di comportamenti e di influenzare persone, aziende, imprese multinazionali. Oggi i social network generano una conversazione fra luoghi e persone, aumentando l’esperienza della persona. Tutto questo cambiamento richiede anche un cambiamento di noi stessi, una capacità maggiore di ascolto in tutto questo flusso di dati e di informazioni che condividiamo, un nuovo metodo anche di connettere le persone condividendo appunto esperienze di sapere e coinvolgendo e crescendo insieme. Piaccia o meno, è così, è un dato di fatto, non è più uno studio, una circostanza. Ringrazio Raffaella Boldini di essere qui con noi. Hai una laurea in matematica a Roma. Hai lavorato per il gruppo Finmeccanica seguendo poi diverse esperienze dentro il mondo IT. Entri in Almawave nel 2005, seguendo le aree di Business Intelligence, oggi segui la Direzione dei lavoratori di innovazione all’interno di Almawave. Aiutaci a capire quali sono le opportunità che oggi ci sono per le aziende legate all’utilizzo della rete, dei social network e, conseguentemente, di cosa di occupi dentro Almawave.
RAFFAELLA BOLDINI:
Buon pomeriggio a tutti. Vorrei utilizzare il tempo a mia disposizione per provare ad esplorare un po’ questo argomento, isolare e definire il valore che i social network possono avere per il business, cioè per le aziende. Due brevi cenni a quella che è la realtà da cui provengo e che spiegano anche l’interesse che abbiamo come azienda per il mondo dei social media e dei social network. Almawave, la società che rappresento, fa parte di Almawave, un grande gruppo dell’IT, dell’Information Technology con un anima anche sui servizi, perché quota parte ingente del suo fatturato è indirizzata ai servizi a supporto delle aziende. Al customer care ci occupiamo di Big data: in particolare, Almawave è la società di innovazione, quella che realizza prodotti, anche in ambito social network, per agevolare il business delle aziende in primis, basandosi sui quattro trend tecnologici che ad oggi offrono delle reali possibilità per le industries in maniera trasversale di innovazione e di evoluzione del proprio business. Insieme al cambiamento tecnologico ormai stanziato dai driver che dicevamo prima, c’è un cambiamento sostanziale del cliente che ha completamente rivoluzionato il proprio modo di interagire. Gli individui connessi attraverso le nuove tecnologie producono informazioni, le scambiano, si interconnettono in modalità nuove con dei numeri che, se li andiamo ad esaminare rapidamente, sono impressionanti. In un minuto produciamo e mettiamo in condivisione 100 ore di filmati su YouTube, circa 300 mila tweet. Questi dati risalgono a marzo del 2014 e sono destinati ad essere sottostimati, perché aumentano con una progressione esponenziale. Due milioni sono le ricerche che in un minuto gli utenti nel mondo fanno su Google: questo è il potenziale di comunicazione e di informazione che la rivoluzione digitale ha messo a disposizione dei singoli e delle aziende. Le previsioni per il 2020 sono ancora più impressionanti: l’80% degli utenti del mondo sarà dotato di un dispositivo mobile e con quello principalmente erogherà e comunicherà la maggior parte dei suoi bisogni, cinquanta miliardi di device connessi.
Questo cosa vuol dire per un’azienda che vuole continuare a stare sul mercato e a innovare i propri servizi e i propri prodotti? Vuole dire sicuramente adeguarsi, adattarsi al mondo che cambia, ma vuole dire anche soprattutto inventare un nuovo business, nuovi servizi, cogliere le opportunità per evolvere in coerenza con il mondo che cambia. La nostra visione, intorno alla quale lavoriamo alacremente anche per fornire soluzioni di processi, di tecnologie, è che sempre di più, al centro dell’obiettivo di un’azienda, ci debba essere sempre la persona – non a caso il tema del Meeting è perfettamente coerente con questa prospettiva – e non più il prodotto e il servizio che vado a sviluppare, a erogare, sul quale concentro tutte le mie iniziative di marketing, di divulgazione come azienda. Non vanno più progettati prodotti, sostanzialmente, ma esperienze: occorre cioè pensare a chi quel prodotto lo userà, a chi quel servizio lo fruirà. Sarà soddisfatto se incontro il suo bisogno, se rispondo nei tempi giusti. Questa nuova prospettiva mi permette di affrontare insieme con i driver che dicevamo prima gli show aperti e le nuove opportunità di business, valorizzare per esempio la raggiungibilità delle persone che adesso la rete ci mette a disposizione. Posso raggiungere con tutti i nuovi media e con la rete, in un modo molto più semplice, più economico, più rapido, i miei clienti, i miei utenti, se sono un’organizzazione. Come sfruttare l’enorme mole di informazioni che si genera? Ci diciamo tante cose più o meno rilevanti, comprenderle ed utilizzarle permette di assolvere meglio un obiettivo per ottenere un risultato. Alla fine, riduciamo tutto ad un cambiamento, una rivoluzione di visione, provare a concepire modelli nuovi di processo e di servizio indirizzati alle persone, dove per persone intendiamo il cliente, ma non solo l’utente. C’è anche l’employee, il mio dipendente, la risorsa che tutti i giorni devo indirizzare ad ottenere il miglior risultato possibile, c’è anche il management, quello che deve prendere le decisioni e a cui voglio dare informazioni fresche, nuove, sempre più vicine a quello che è il bisogno reale che posso percepire delle persone. Tutto insieme, cioè mettendo insieme tecnologie: adesso abbiamo a disposizione finalmente tecnologie che ci permettono di automatizzare la comprensione dei contenuti, anche se sono espressi in forma ristrutturata. Pensate alla semantica, alla statistica, la capacità, attraverso un linguaggio human to machine, di capire quello che viene detto e tecnologie, quindi, people centred, che hanno come fine ma anche come origine la persona. Questo è un po’ lo scenario in cui ci muoviamo, dove siamo fortemente attenti al mondo dei social media, dei social network, perché sono il futuro. Una previsione attendibilissima dice che questo mercato, il mercato dei Big data, cioè delle informazioni globali, svilupperà un business da 50 milioni di dollari nei prossimi anni, frutto dei dati generati dalle informazioni spontanee che tutti noi produciamo nel nostro vivere quotidiano, semplicemente perché abbiamo cambiato il modo con cui comunichiamo o facciamo le cose. In particolare, se andiamo a vedere il mondo dei social media, mensilmente abbiamo un numero di utenti attivi sul mondo social che va dal re dei social network, che è Facebook, che ha uno miliardo e 280 milioni di utenti in un mese che compiono almeno un’operazione significativa sull’ambiente, a Google, a Twitter, che sono un po’ indietro ma in fortissima crescita, che condividono utenti raggiungibili da parte delle aziende che condividono contenuti in modo multimediale: testi in tutte le lingue, audio, video, esprimono spontaneamente opinioni e raccontano implicitamente i loro bisogni. In che modo e che tipi di servizi si possono offrire a questi nuovi utenti, se li pensiamo in maniera nuova, sfruttando i social network?
Vediamo due grandi categorie di approccio. La prima è quella dei social analytics, cioè mettersi nell’ottica di comprendere quanto viene detto e generato in questi ambiti per erogare poi dei servizi. La seconda categoria è la categoria del social engagement, cioè dell’utilizzare il social come canale di comunicazione attivo da parte delle aziende verso i propri clienti, verso i propri utenti. Non si parla di una comunicazione monodirezionale ma di una comunicazione bidirezionale, che annulla completamente la distanza che c’è fra l’utente, il fruitore di un servizio o di un prodotto e l’erogatore che è l’azienda o l’organizzazione. Farò rapidamente un excursus di tutte queste modalità e di com’è possibile concretamente – perché sono tutte linee di azione implementate e implementabili da parte di un’azienda – lavorare su questi temi, partendo dall’area dei social analytics. Il tema dei social analytics vuol dire intanto dotarsi di strumenti, di infrastrutture e di processi che mi permettono di comprendere i contenuti dei social media e dei social network in particolare. Stiamo parlando di capire il linguaggio naturale, di capirlo in tutte le lingue, perché accediamo ad una platea mondiale: se siamo un’azienda per esempio multinazionale, il nostro cliente è un cliente posizionato sia geograficamente sia culturalmente nel mondo. Posso sfruttare l’informazione che mi viene messa a disposizione in vario modo, il modo più classico è quello delle indagini tematiche su larga scala, nelle slide vediamo alcuni esempi di cose fatte recentemente, dalle indagini di natura culturale come Italia nel mondo, che è una indagine fatta sul turismo che permette di capire come viene percepito il Paese Italia, da tutti i punti di vista, dall’utenza di Twitter, l’interesse che c’è per la nostra cultura, per lo sport, per l’enogastronomia, piuttosto che per gli eventi che come Paese hanno eco nel mondo. Un’indagine fatta in sei lingue che ha raccolto in qualche mese 35 milioni di contributi. Fino all’ultima che è un’indagine di supporto al Mondiale di Calcio 2014 in Brasile, che ha lavorato 101 milioni di contenuti supportando l’organizzazione del Mondiale, nel fornire informazioni relativamente a quello che veniva detto non soltanto sull’evento sportivo in sé ma sul Paese Brasile.
Altro modo per utilizzare i social network è istituire degli osservatori di monitoraggio continuativo, cioè di puntare ad un obiettivo di indagine, di focalizzarlo ma anche di tenerlo aperto nel tempo per misurarne le variazioni e gli andamenti: è il campo tipo della brand analysis, piuttosto che di competitive analysis, cioè la possibilità di capire la percezione del proprio brand o una comparazione fra il proprio band e quelli concorrenti attraverso le opzioni spontanee che vengono generate in questi ambienti. Ancora, indagine on demand: ho una curiosità, ho una esigenza di comprensione, prima facevo delle survey, incaricavo degli esperti di progettare delle domande, poi dovevo distribuire queste domande ad un campione di possibili risponditori e poi, applicando tutte le logiche della statistica, proiettare i risultati su questo piccolo campione sperando nell’attendibilità della mia proiezione.
Adesso ho a disposizione tutti i dati, il mio problema è raccoglierli, capirli e riassumerli. Rispondo in questo modo alla mia domanda, fra l’altro non stimolando una risposta che spesso è una risposta condizionata, ma raccogliendo un’opinione spontanea. L’ultimo modo che attiene alle social analysis è l’operation social analysis, cioè la capacità di sfruttare il dato implicito contenuto, in quanto noi ci diciamo quotidianamente, tra noi e i nostri amici, le opinioni che ci scambiamo sui social network, ai fini di profilazione, di classificazione, di link analysis, informazioni da trarre sulla popolazione che si esprime ai fini di utilizzarle per comprendere meglio il bisogno e quindi rispondere all’esigenza. Normalmente questi dati sono una quota parziale del dato che mi serve per rispondere al bisogno, quindi concorrono insieme al dato aziendale, alla così detta business intelligence tradizionale, che tutti i manager di tutte le aziende hanno già a disposizione, per chiarificare meglio e sempre più puntualmente un contesto. Qual è la caratteristica? E’ che questo dato è costantemente e in tempo reale aggiornato, perché la caratteristica del network è proprio quella di produrre stream di dati continuativi, quindi non è l’opinione di un anno fa o di una settimana fa, ma è l’opinione di ora, che posso avere a disposizione nel mio report per decidere una strategia piuttosto che un’altra. L’altro aspetto è quello dell’engagement, il social network è anche un canale di customer care, può diventarlo, il mio cliente non mi chiama più soltanto con il voice, cioè telefonandomi, esprimendomi a parole quello che è il suo bisogno. Questo suo bisogno, questo suo claim o la richiesta di assistenza può essere facilmente espressa – e molte aziende stanno andando in quella direzione – su canali più agevoli che permettono di veicolarla in qualsiasi contesto ci si trovi come utente. Il passo che le aziende stanno facendo è quello di utilizzarle anche in risposta, cioè in modalità bidirezionale. Nascono i contact center, non più i call center multicanale. Ovviamente – ultime due parole – questo abilita due cose, intanto la capacità, se vediamo il social network come uno degli enne canali di comunicazione, che ha l’azienda con la propria utenza di percepire, di raccogliere, di comprendere a 360° la voce del cliente ovunque essa si esprima. E la seconda cosa è quella di poter rispondere a questo bisogno, sia in termini di assistenza che in termini di azione, quindi parliamo di customer care ma anche di marketing, di vendite. Tutte le divisioni aziendali possono beneficiare di questo tipo di approccio in maniera multicanale. Io ho concluso, l’obiettivo era quello di dare giusto degli spunti di ragionamento su questo tema.
SANTIAGO MAZZA:
Sono le opportunità che oggi questo nuovo modo di trasmettere conoscenza e vivere esperienze attraverso la rete offre alle imprese. Marco, hai creato diverse start-up: Viamente, Mobalia. Hai ricevuto anche dei premi speciali dell’Italia del fare. Adesso sei responsabile e fondatore di Cortilia, che è un’associazione, lo racconterai sicuramente nel dettaglio tu: però la cosa che mi ha colpito di Cortilia è il fatto che interconnette persone, beni e servizi prodotti dalle persone, attraverso il digitale. Raccontaci di cosa si tratta e da dove parti.
MARCO PORCARO:
Sì, volentieri. Cortilia è un mercato agricolo online, magari mi faccio accompagnare da questo video.
Video
Il nostro obiettivo con Cortilia è appunto di riscoprire i sapori, il territorio, i network locali di cui parlavamo prima, valorizzare le produzioni locali di frutta, verdura, carne e formaggio, abilitando il consumatore ad acquistare – utilizzando Internet e il telefonino – direttamente da chi produce con passione questi prodotti per riscoprire freschezza, artigianalità, partendo anche da un’evidenza di fatto. Sappiamo che i nostri agricoltori sono in difficoltà con la distribuzione e con la commercializzazione dei propri prodotti. Abbiamo in Italia, in particolare, un patrimonio agroalimentare immenso, e Internet e la tecnologia sono un mezzo fantastico per eliminare quelle inefficienze che ci sono, sia a livello informativo che distributivo, per questo tipo di produzioni e questo tipo di produttori. E’ un mercato, quello agricolo e quello dell’online, che sta iniziando a crescere, ci sono grandi aspettative in termini di evoluzione del mercato dell’ e-commerce, che dovrebbe passare nel giro di qualche anno da 10 miliardi a circa 50 miliardi di euro di fatturato. C’è una grossa attenzione da parte del consumatore italiano, comincia a svilupparsi una predisposizione agli acquisti anche con carta di credito online di frutta, verdura, carne e formaggi e prodotti alimentari in genere.
Un’altra caratteristica del nostro Paese, ma che è un po’ comune ai tutti i Paesi europei, è che ad esempio in Italia un italiano su 4 compra frutta e verdura tutti i giorni. C’è una grande attenzione verso il prodotto, verso la freschezza e c’è grande predisposizione a cercare questo tipo di offerte anche sull’online. Con Cortilia abbiamo sviluppato questo progetto che è un mercato agricolo online, che mette in contatto il produttore locale con il consumatore andando a valorizzare le eccellenze e anche le eccellenze nazionali. Cortilia praticamente è un sito Internet che mette in contatto domanda e offerta, comunicandola attraverso i social network, attraverso Google, facendola conoscere, valorizzando quindi la produzione del singolo produttore. Ci si può abbonare a Cortilia per un box settimanale o quindicinale di frutta e verdura, e aggiungere in ogni momento carne, formaggio, birra artigianale, vino, per completare quel paniere di spesa tipica della famiglia italiana. Noi ci occupiamo anche dell’ottimizzazione e dell’aspetto logistico, quindi non solo raccogliamo gli ordini e i soldi delle persone ma andiamo proprio a raccogliere la spesa in campagna e ci occupiamo della consegna a domicilio. Tutte le settimane, con i nostri furgoncini Cortilia, arriviamo a casa dell’utente che ha fatto l’ordine portandogli il suo box con la spesa, questi magnifici prodotti dei nostri produttori locali. Per fare questo, ci avvaliamo di un software che appartiene alla mia precedente esperienza, Viamente, che si occupa dell’ottimizzazione del trasporto. Abbiamo una massima attenzione, anche in termini di impatto ambientale, a quello che è il trasporto su gomma dei nostri prodotti, quindi tendiamo a minimizzare le risorse impiegate, massimizzando le destinazioni servite, cercando di andare a casa di più persone possibili usando meno furgoni, stando su strada il meno possibile, a tutto vantaggio anche di una sostenibilità della movimentazione delle merci sul territorio. Cortilia ha più di due anni, stiamo crescendo moltissimo, abbiamo più di 50mila utenti iscritti sulla piattaforma, gestiamo migliaia di consegne settimanali: in questo momento siamo presenti a Milano, Varese, Como, Monza e c’è un piano di espansione a livello nazionale e non solo. Adesso sta diventando significativa anche la partecipazione delle aziende agricole, abbiamo veramente decine di aziende agricole che partecipano.
La cosa di cui discutevamo anche prima era il fatto che una delle soddisfazioni più grandi che ho è sapere che gli agricoltori stanno assumendo persone. Mi dicono: “Ah, ma qui stiamo crescendo, devo assumere…”.. Avere un impatto non solo all’interno della mia società ma anche nell’indotto e sull’agricoltura locale, per me è di grande stimolo e mi fa molto piacere riuscire ad avere questo impatto sugli agricoltori, anche da un punto di vista lavorativo. Sfruttiamo tantissimo i social media e i social network, giusto per ricondurci al discorso che diceva prima Raffaella, e stimoliamo alla condivisione dell’esperienza d’acquisto: infatti, non si acquistano solo prodotti ma si condivide un’esperienza. Tutti i nostri consumatori, in maniera veramente spontanea, condividono i loro acquisti, il fatto del box che gli arriva a casa, il fatto che riscoprono il profumo dell’insalata che si era perso nel tempo. Hanno un desiderio di condividere questa esperienza, e quale migliore strumento per condividerla che, ad esempio, Facebook o Instagram o i vari strumenti che rendono semplice la condivisione dell’esperienza, che va dall’acquisto del prodotto al consumo, alla condivisione delle ricette?
SANTIAGO MAZZA:
Delle ricette, soprattutto: ho visto che si scambiano più ricette adoperando i loro prodotti, quindi condividendo sapere, non soltanto prodotti. E’ quello che dicevo all’inizio della condivisione anche di cose semplici, ma di altissimo valore culturale, come una ricetta.
MARCO PORCARO:
Assolutamente, anche perché valorizzando molto le produzioni di stagione, spesso si trovano nei box anche prodotti che magari non si conoscono, il cavolo-rapa, ad esempio, e quindi non si è in grado di cucinare e si è stimolati nel voler sviluppare questo tipo di conoscenza, del prodotto e di come si dovrebbe consumare. Dai social media siamo arrivati anche ai media tradizionali, nel senso che poi, nel nostro piccolo, siamo riusciti a recuperare anche la visibilità, però partendo dal digitale, partendo dal territorio. Abbiamo fatto il percorso inverso di quello che si faceva fino a qualche anno fa, sostanzialmente, dal territorio ad Internet ai media tradizionali. Come vi dicevo prima, il nostro obiettivo è quello di espanderci sul territorio: questa è una rappresentazione abbastanza indicativa di quello che è il mercato attuale che stiamo coprendo e del potenziale di richiesta spontanea che ci arriva dal territorio nazionale in termini di richieste di persone che vorrebbero fare la spesa sulla piattaforma. E con questo ho concluso, invitandovi soprattutto ad acquistare prodotti locali del vostro territorio. Spero presto di portarveli io a casa, tramite Cortilia.
SANTIAGO MAZZA:
Grazie, Marco, una domanda: che fatturato attuale ha la tua start-up e qual è l’obiettivo nei prossimi due anni?
MARCO PORCARO:
Abbiamo un fatturato in forte crescita dell’ordine di qualche milione, abbiamo grandissime ambizioni di crescita, di diventare un player significativo sull’online, sulla vendita dei prodotti agricoli alimentari: svariate decine di milioni di euro nell’arco di qualche anno.
SANTIAGO MAZZA:
Grazie. Il digitale è semplicemente uno strumento ma mette a disposizione dei prodotti fisici attraverso un sistema logistico e addirittura la condivisione della cucina in sé, cose anche semplici che nelle nostre città abbiamo perso per strada: il fatto di avere un’attenzione a quello che è vicino a me a livello di produzione, e l’impatto che ha. Mi ha colpito l’impatto, non soltanto di sviluppo e start-up, ma l’impatto sociale in sé: gli agricoltori in questo momento devono assumere nuove persone perché il mercato sta rispondendo in maniera innovativa. Questo è il reale, è la rete in sé, veramente reale. Grazie, Marco. Nicola, grazie di essere qui con noi, hai 32 anni e lavori da Project Leader nella Boston Consulting, occupandoti dello sviluppo di corporate proprio all’interno della Boston, che è una multinazionale degli Stati Uniti di consulenza manageriale, lavora in 45 paesi ed è considerata uno dei leader mondiali nella consulenza strategica e dello sviluppo del business. So che oltre a questo, Nicola, hai fondato iStarter, una società che si occupa proprio di sviluppare start-up, e quindi hai una posizione privilegiata perché, da un lato segui affari e sviluppi di business per grossi gruppi europei e mondiali, dall’altro segui lo sviluppo di start-up, di nuove imprese. In questa posizione, qual è secondo te l’evoluzione, nelle persone e nelle imprese, rispetto a quanto abbiamo visto con i dati emergenti?
NICOLA GARELLI:
Grazie, Santiago, direi prima di tutto che è molto bello avere una platea così diversificata.
Come diceva giustamente Santiago, io sono un po’ un ibrido, nel senso che ho una visione molto da grande impresa e ho cercato in questi anni di portare, anche sullo start-up, un approccio un po’ più strutturato, più tipico della grande azienda. Come diceva Santiago, una sempre maggiore penetrazione dei social network pone sicuramente dei rischi per le grandi imprese, che non sono limitati solamente alla gestione delle informazioni e al modo con cui percepiscono o influenzano la società e l’individuo, ma sono anche evolutivi sul modo in cui le grandi aziende generano e sfruttano l’innovazione. Sia la grande impresa che la start-up hanno comunque al centro della propria attività l’individuo, anche se il modo con cui poi sviluppano, incentivano e cercano di fare crescere la persona è guidato da incentivi differenti. Tipicamente, la start-up basa la propria crescita e la crescita della persona sulla crescita della società: la società va bene, cresce, l’individuo cresce in modo parallelo, in modo anche molto rapido. La grande impresa pone l’individuo e la persona sempre al centro del proprio processo di sviluppo e produttivo, ma con un’ottica di organizzazione. Quindi, la crescita individuale all’interno della grande impresa è spesso legata a quello che è la crescita organizzativa dell’impresa. Questo cambia il modo in cui le società creeranno innovazione nei prossimi anni, così come cambierà il modo di generare innovazione anche tra imprese, tra piccola e grande impresa, il modo in cui le due realtà, la start-up e la grande impresa valorizzano e fanno crescere la persona, modificando i propri incentivi. Le due tipologie di società creano innovazione con modelli differenti: la start-up normalmente cerca un’innovazione radicale, sviluppando un prodotto anche con caratteristiche minime ma funzionante, che possa essere venduto anche se imperfetto. Normalmente la start-up non gestisce in modo adeguato il rischio, è guidata da un imprenditore che sostanzialmente butta tutto se stesso all’interno dell’iniziativa, e che quindi tende a sottovalutare volutamente i rischi che l’impresa può portare. Questo fa sì che, correndo grossi rischi, tipicamente possa anche avere grossi benefici, sia dal punto di vista economico che della crescita, ma parallelamente possa anche avere grosse cadute, che non devono essere prese come un fattore totalmente negativo ma come un passo di crescita.
Allo stesso tempo, la grande impresa ha un meccanismo di creazione dell’innovazione che invece è molto più strutturato, ed è basato su un miglioramento progressivo della profittabilità, su un’evoluzione dei propri processi, su una ricerca dell’innovazione che deve rimanere collegata alle proprie competenze chiave. Immaginiamo un’azienda che produce parti meccaniche, ammortizzatori: questa tipologia d’azienda avrà molta più facilità a sviluppare innovazione in aree che siano all’interno della propria attività principale oppure di aree adiacenti, ad esempio dagli ammortizzatori va a sviluppare la componente freni. Questo fa sì che il modo con cui l’innovazione è generata e il modo con cui anche il rischio è gestito all’interno dell’impresa sia molto diverso. Il modo con cui il management normalmente vede il rischio è un meccanismo di gestione. Il rischio deve essere gestito, controllato e l’innovazione deve cadere all’interno di questo meccanismo di gestione del rischio. È però importante che la start-up e la grande impresa riescano a sfruttare le complementarietà che hanno nei modi di creare innovazione. Perché la grande impresa ha bisogno a un certo punto di fare innovazione radicale, la start-up ha bisogno della grande impresa per riuscire a entrare in un ecosistema che riesca a farla crescere in modo più rapido. Questo richiede un cambio di prospettiva, la capacità da parte dei manager della grande azienda e da parte dell’imprenditore della start-up di capire quali sono gli obiettivi, le necessità e le modalità di interazione con l’altra parte. Per farvi un esempio molto pratico, la grande impresa normalmente è lenta nel decidere di sviluppare o di investire in nuove iniziative, per una serie di processi di valutazione interna di rischio e di opportunità, rispetto allo sviluppare e utilizzare al meglio l’innovazione esterna, l’innovazione generata da start-up. Deve imparare a coglierla in modo un po’ più rapido, essere anche in grado di rimuovere le barriere di pensiero che storicamente si sono create e che hanno fatto sì che i gestori dell’innovazione, ricerca e sviluppo, si siano molto focalizzati, soprattutto in grandissime realtà, nella protezione del proprio contenuto. Quindi, l’apertura verso l’esterno è sempre un passo che esce da quella che è la zona di conforto del manager, però è necessaria.
Allo stesso tempo, per la start-up è importante che l’imprenditore riesca a sviluppare delle iniziative coerenti con l’ecosistema. Sono molti anni che agisco da piccolo investitore privato in start-up e ho valutato centinaia di iniziative che non avevano per nulla una coerenza con il mercato italiano. Oggi parliamo di social network, un trend importantissimo che ha degli aspetti consumer, quindi di supporto alle attività necessarie per il consumatore e ha una serie di benefici per l’utilizzatore aziendale, business to business, che è un po’ quello che Almawave sta cercando di sviluppare. L’Italia per il mercato consumer non è eccezionale, è un mercato piccolo: è difficile dall’Italia riuscire a sviluppare iniziative che vadano sul mercato europeo in maniera armonizzata. Negli ultimi anni ho valutato quattro o cinquecento ipotesi di social network in start-up, verticali, con specializzazioni su settori industriali specifici. Molte di queste iniziative partivano dalla presunzione di non voler uscire dall’Italia, quindi di volersi basare sul mercato italiano. Pensiamo che il mercato italiano ha 60 milioni di consumatori che stanno tipicamente invecchiando, quindi hanno una minore propensione – per quanto possa rimanere una grossa capacità intellettuale anche nelle persone che man mano andranno avanti nel proprio percorso di vita – ad innovare, a provare nuove cose. Un mercato di 60 milioni di persone è un mercato che si sta impoverendo, se paragonato al mercato statunitense, che è un mercato uniforme di 300 milioni di persone. E’ chiaro che lo sviluppo di un’iniziativa in ambito di social network, in Italia o negli Stati Uniti ha un potenziale diverso, cioè ha la possibilità di raggiungere risultati differenti. L’importante è che l’imprenditore riesca a mantenere coerenza: cioè, se vuole lanciare un’iniziativa in Italia e rimanere a Brescia, è importante che il proprio target sia coerente con l’ecosistema di Brescia, quindi che abbia servizi per aziende che possono essere sul territorio. Probabilmente, Alberto introdurrà qualche punto sulla possibilità di avere anche imprenditori che partono dall’Italia e vanno poi verso il mercato statunitense, con però un’ottica differente, di sviluppo locale. La grande impresa ha anche un ruolo sociale nello sviluppare imprese innovative: questo si collega allo sviluppo di quello che è l’ecosistema industriale, in particolare italiano, che sta un po’ perdendo la spinta di innovazione dei decenni passati.
Uno strumento importante, senza entrare nel tecnico, per far sì che la grande impresa riesca a sviluppare con successo questa innovazione distruttiva e riesca a sviluppare start-up in modo soddisfacente, si chiama corporation capital, un modo per definire uno strumento d’investimento che però è un po’ diverso dal fondo di investimento tradizionale. È un fondo d’investimento gestito dall’azienda che però non si limita a portare capitale e a richiedere un ritorno finanziario tipicamente di breve o di medio periodo, ma è uno strumento finanziario che normalmente viene sviluppato da grandi gruppi, che permette di avere un’ottica industriale di lungo periodo e di apportare alla start-up anche le competenze necessarie, e non solamente i soldi, soprattutto le competenze e un pezzo di mercato che possono accelerarne moltissimo la crescita. Questo strumento in Italia non è molto presente per ragioni storiche. A livello internazionale, se prendiamo il totale delle transazioni in capitali di rischio su imprese di piccola dimensione, fatto cento le transazioni che avvengono tipicamente in un anno, intorno al 30, 40%, intorno al 20% della transazione, e il 30, 40% del valore di transazione, è fatto da questa tipologia di fondi. Gruppi come Siemens o come Google hanno sviluppato su questo strumento un vantaggio competitivo; anche gruppi italiani, alcuni dei quali sono presenti in questa settimana, ad esempio Enel, hanno negli anni sviluppato e stanno cercando di far sviluppare sempre di più iniziative che vanno nella direzione di cercare di avere strumenti fortemente legati all’azienda, con una prospettiva di lungo periodo, e che riescano ad apportare anche competenza all’iniziativa. Questo chiaramente richiede una coerenza di obiettivi, e quindi una grande banca che decida di sviluppare questa tipologia di strumenti, come ad esempio stanno parzialmente facendo Unicredit o Sella. Queste aziende cercano una start-up da sviluppare, che sia coerente con il loro business. Cercano società che facciano autenticazione dei pagamenti, che gestione della sicurezza e via dicendo. Le grandi aziende però, per concludere, hanno bisogno di incentivi; gli investimenti in strumenti di rischio, l’investimento in start-up, il cambiamento di prospettiva non sono qualcosa di automatico, anzi, ma qualcosa di molto difficile per la mentalità del manager di grande azienda.
E’ necessario che ci siano, a livello soprattutto governativo, strumenti che permettano di incentivare questo spostamento e l’entrata sempre maggiore in questo mercato, strumenti di natura finanziaria. Il governo, nell’ultimo anno e mezzo, ha fatto grandissimi passi per quanto riguarda l’incentivazione degli investimenti di rischio in piccole aziende start-up. Credo però che sia necessario aumentare questa spinta e il vantaggio fiscale per chi decide di assumersi il rischio di investire maggiormente in queste iniziative. Parallelamente, è necessario uno sforzo di coordinamento degli investitori, che al momento è sicuramente lanciato dall’Unione Europea, meno a livello nazionale. E’ necessario creare tra le grandi aziende un sistema che permetta loro di capire sempre di più l’importanza sociale di questo sistema economico, per lo sviluppo del sistema economico del Paese e per lo sviluppo delle persone e dell’individuo. Un sistema per cui le grandi aziende, e soprattutto, nel nostro caso, le grandi corporate italiane, capiscano e siano sempre più incentivate a investire in questo strumento.
SANTIAGO MAZZA:
Grazie, Nicola, grazie per il messaggio rivolto verso i governi. Un amico che per la seconda volta viene al Meeting, grazie Alberto di essere qui con noi. Sei Presidente della Mind The Bridge e coordinatore del progetto che citavi anche prima sulla “start-up Europe”. Sei anche professore dell’Università dell’Insubria. Poi so che nel 2013 sei stato scelto proprio dalla Comunità Europea per sostenere lo sviluppo delle migliori start-up d’Europa. Però partiamo proprio dalla fine, per quale motivo l’Europa guarda con grande attenzione allo sviluppo di nuove imprese e che cosa state facendo con Mind The Bridge per aiutare questo fenomeno?
ALBERTO ONETTI:
Allora, innanzitutto grazie dell’invito, mi sono trovato bene. Facciamo vedere un video di un minuto, così non parlo.
Video
ALBERTO ONETTI:
Come avete visto, è una storia, quella di Mind The Bridge, che si interseca un po’ con la mia storia personale di imprenditore che, essendo curioso, ha sempre cercato di fare cose nuove. L’ultima cosa nuova che ho fatto si chiama Funambol, è un’azienda di software che abbiamo costituito, a differenza dei due precedenti, nella Silicon Valley, però tenendo tutti gli ingegneri e tutti gli sviluppatori in Italia, a Pavia. Per seguire Funambol e il pezzo che era rimasto in Silicon Valley, ho cominciato a fare il pendolare e mi sono imbattuto in quel losco figuro che avete visto, che si chiama Marco Marinucci, con il quale abbiamo avviato questo ponte, che è Mind The Bridge, una fondazione. Inizialmente aveva l’obiettivo di stimolare culturalmente l’Italia, che è il nostro Paese di origine, a pensare a un modo di fare impresa in modo diverso, in modo nuovo. Un po’ meno coi canoni propri del nostro Paese, che sono i piedi ben radicati per terra, un passo dopo l’altro, una certa prudenza concreta che è tipica dell’essere italiani, con il sogno di pensare in grande, che è tipico della mentalità americana ed è tipicissimo della Silicon Valley. Una cosa che insegno in Silicon Valley è: se stai sognando, sogna cose grandi, perché quando ti risvegli, o non hai combinato niente o, se hai fatto qualcosa, hai fatto qualcosa che può veramente cambiare la vita a tante persone. E quindi eravamo partiti con l’idea di creare questo ponte tra Italia e gli Stati Uniti. Era il 2007 e ancora non si parlava di start-up in Italia, era un termine totalmente sconosciuto. Il primo evento che abbiamo organizzato in Italia l’abbiamo fatto in un’isoletta a Venezia, eravamo 80 persone e parlavamo di start-up e venture-up: ci guardavano come se fossimo dei marziani che dicevano delle parole strane.
Oggi il tema è molto, molto diffuso, di moda, ne parlano anche in politica e quando ne parlano in politica c’è sempre un pochettino da cominciare a preoccuparsi. Essendo persone che in teoria dovevano guardare in faccia l’innovazione, la prima cosa da evitare è rimanere uguali a se stessi. Quindi, Mind The Bridge è cresciuta nel tempo: da ponte tra Italia e Silicon Valley è diventata un ponte tra Europa e Silicon Valley, un ponte tra il resto del mondo e Silicon Valley. Ai nostri programmi di education, partecipano oggi persone da tutto il mondo, abbiamo avuto un gruppo della Giordania, del Quwait, avete visto un ragazzo che viene dal Ghana. Insomma, abbiamo veramente tantissime persone ormai che vengono da tutto il mondo: una fortissima attrazione internazionale. Poi abbiamo fatto un altro passaggio, che ritengo ancora più importante, andare oltre le start-up. Nel momento in cui tutti parlano di start-up, noi stiamo smettendo di farlo, o meglio, parliamo di start-up in modo diverso. Perché ci siamo resi conto di una cosa, che le start-up negli Stati Uniti creano il 3% dell’occupazione. Da noi, lo 0.0, usate un numero di zero a piacere. Quindi ci siamo fatti una riflessione, dicendo: se vogliamo che questo granello delle start-up faccia frutto, dobbiamo riuscire a metterlo in connessione con il resto dell’occupazione, col resto del mondo produttivo, che è il resto dell’impresa esistente. E quindi abbiamo iniziato a lavorare sul creare un ponte tra il mondo delle start-up e il mondo dell’impresa che esiste e fa fatturato, che però sta perdendo grip, aderenza, e andando fuori dal mercato. Abbiamo cercato di lavorare su questo ponte, che era il ponte tra l’esistente e il nuovo, due mondi che hanno due nomi diversi, start-up e non start-up, ma che stanno parlando della stessa identica cosa, che è fare impresa. Il problema è che oggi c’è una grande barriera culturale, ideologica, di mentalità, tra questo nuovo mondo che avete visto rappresentato questa settimana del Caffè, e il mondo delle imprese esistenti che, essendo un mondo abituato a replicare cose secondo formule di successo che in passato funzionavano, tende ad essere conservatore per definizione. E se ci pensate, essere conservatore è la cosa più normale al mondo. E’ l’innovatore che ci stupisce, non il conservatore. Noi siamo conservatori, noi siamo abituati a far le cose esattamente in un certo modo e cambiare è sempre costoso, ci spaventa. Non abbiamo voglia di imparare come si fanno le cose e questo ci porta a replicare il modo in cui le abbiamo sempre fatte. Ma se ci guardiamo intorno – oggi parliamo di social media, avete parlato di digitale, abbiamo parlato di makers -, non stiamo parlando di cose nuove, di settori diversi in cui potete tirare una riga netta tra il vecchio e il nuovo, stiamo parlando di un modo nuovo di fare cose vecchie.
Pensate ai settori tradizionali, pensate a una banca e al dibattito che c’è intorno al bitcoin, le valute virtuali. Oggi, il mondo dei sistemi di pagamento tradizionale sta per essere stravolto da queste cose, non tra 20 anni, oggi. Non sarà bitcoin, sarà la prossima, ma succede. In questi mesi abbiamo assistito agli scioperi dei tassisti contro Uber, e stiamo parlando del passato remoto contro il passato prossimo, perché oggi ci sono macchine che si guidano da sole, che butteranno via tutto questo sistema. Stiamo parlando di compagnie telefoniche che si sono viste portare via il traffico voice, il nuovo business che erano gli SMS, il texting, se lo sono visto stravolgere da piattaforme nuove e diverse che si stanno portando via la comunicazione e stanno uscendo anche da queste forme per andare verso modalità diverse che mettono insieme immagini, testo, video, su piattaforme nuove. Ma questa roba non sta succedendo, non cambierà tra 10 anni, è già successa e sta cambiando anche il business. Noi oggi non guardiamo più la televisione come la guardavamo 10 anni fa, guardiamo dei contenuti che possiamo fruire in mille altri modi diversi. Lo stiamo già facendo. E quindi, provate a pensare a queste cose dal lato del consumatore, incrociandole poi con l’impresa che vende servizi, prodotti. Leggevo ieri un articolo che diceva: le aziende delle suonerie facevano all’inizio del 2000 un business che è morto. Non esiste più. Oggi ci troviamo di fronte ad aziende che, poste davanti alle nuove frontiere del digitale, le abbracciano o muoiono. Io sono solito dire: non c’è differenza tra un’azienda digitale e un’azienda non digitale, c’è una differenza tra un’azienda viva e un’azienda morta o che sta morendo. Punto. Come Mind The Bridge stiamo cercando di provare a mettere insieme questi mondi. La Commissione Europea, per caso, si è imbattuta in quello che facevamo. Aveva un problema e ha detto: “Va bene, vedete se siete in grado di risolverlo”. Stiamo cercando di fare una cosa che è ovvia ma difficilissima, che è quella di mettere in contatto le migliori start-up con le grandi imprese europee per fare succedere l’acquisto di prodotti e servizi, investimenti, acquisizioni. Questo è il modo con cui il grande, l’esistente, che di per sé è incapace di innovare, riesce a portarsi a casa il nuovo. Sto parlando di grandi aziende del calibro di Telefonica, Telecom Italia, Unipol, sono queste le aziende con cui lavoriamo, Microsoft stessa. Ma l’esigenza di abbracciare il nuovo non ce l’hanno soltanto queste aziende che hanno nella carta d’identità il 1900, ce l’hanno anche le aziende che sono nate di recente. C’è una bellissima intervista di Mark Zuckerberg, che non ha fondato Facebook 500 anni fa ma verso il 2005, 2006, dove lui dice: “Noi compriamo circa un’azienda alla settimana”, non le acquisizioni alla Whatsapp da 19 miliardi di dollari, comprano per 5, 15 milioni, prevalentemente aziende di 3, 4 persone. Dice: “Perché compriamo queste persone? Ci interessano i loro prodotti? No, ci interessano le persone e le competenze che hanno, perché noi sappiamo che non riusciamo a innovare, che siamo troppo vecchi”. 2005 è la data di fondazione.
Adesso ritorniamo alla nostra cara vecchia Italia e ci poniamo di fronte a questo mondo che sta cambiando. Ci sono secondo me due possibili approcci: l’approccio dell’io sto seduto a difendere il mio scoglio, confidando che l’onda alta non arriverà mai, perché sono sempre stato seduto qua, o, se l’approccio è dire sì, il mare è alto, al momento l’orizzonte non c’è, però provo a fare qualcosa, ad abbracciare il cambiamento. Sono atteggiamenti d’impresa e di persone fisiche: io mi confronto e mi scontro quotidianamente con tante persone che di fronte al cambiamento hanno una reazione tipica, negare quello che sta succedendo. Nego una cosa ma perché i social network non sono importanti. Guarda i dati e dimmi. Io ho lanciato all’Università di Varese un corso di Laurea in inglese. I miei colleghi mi dicevano: “Ma no, l’inglese non è importante”. Se mi chiedete perché uno può dire una cosa del genere, io le risposte le so ma le sapete anche voi. E’ il fatto che molto spesso, dato che non sappiamo fare una cosa, neghiamo che sia importante, invece di darci da fare per provare a farla, imparando, mettendo insieme i pezzetti che ci mancano o mettendoci insieme a qualcun altro per risolvere un problema. Molto spesso saper alzar la mano e chiedere aiuto è l’idea più geniale che si può avere, non bisogna sempre necessariamente saper fare tutto.
SANTIAGO MAZZA:
Mi colpisce enormemente la visione del nostro reale, di Alberto, quindi il tema delle periferie: il fatto di andare oltre, dalla Silicon Valley verso noi stessi, verso l’Italia, ci dà questo tipo di realtà, questo tipo di provocazione che è reale. Come dicevi tu, piaccia o no, è così. Quali saranno nei prossimi anni i cambiamenti nell’utilizzo di questi strumenti? Non soltanto nelle persone, perché comunque c’è un cambiamento continuo, molto veloce, no? Dove ci sta portando tutto questo?
ALBERTO ONETTI:
Stiamo andando in un mondo, anzi, siamo in un mondo diverso. Possiamo vederlo o non vederlo ma siamo in un mondo che è totalmente diverso, un mondo di grandissimo cambiamento, un mondo di grandissime opportunità. Ripeto, oggi l’Italia fortunatamente ha molto poco da perdere e, paradossalmente, la gente, quando non ha più molto, è più spronata a provare a fare qualcosa di diverso. Oggi noi abbiamo una legione di nuovi imprenditori che sono spinti dal fatto di non avere certezze intorno. Avete presente la frase che si diceva ai nostri figli, cerca di metterti a posto, cerca un lavoro, in posta o in banca? Oggi non lo augureremmo a nessuno, di andare a lavorare in uno di questi due posti: sono business dove vedete sicurezze per sei mesi. Stanno crollando tutte le nostre tradizionali certezze e stiamo andando verso qualcosa di diverso, con una forte spinta al cambiamento. Io vedo delle grandi opportunità dettate da giovani come Marco, che si sono dati da fare, hanno imparato, hanno sbagliato, hanno riprovato, hanno rifatto: e di giovani del genere ne vedo tantissimi, che hanno la voglia di cambiare, di buttare il cuore oltre l’ostacolo, di capire che oggi noi siamo una periferia del mondo, non più il centro del mondo. Siamo nel G8 ma ancora per sbaglio, insomma. E quindi, diventando periferia, probabilmente incominceremo a guardare fuori, incominceremo ad abbandonare quella spocchia di nazionalismo che c’è rimasto e proveremo a cercare di metterci al servizio del mondo e vedere le opportunità anche al di fuori del nostro cortile di casa.
Secondo, c’è una grande sfida che è quella delle nuove tecnologie che stanno aprendo opportunità incredibili. Una in particolare, secondo me, si sposa benissimo con la nostra tradizione artigiana, è il mondo dei makers. Il mondo dei makers sta riportando la scala di produzione su volumi più bassi. E questa è una cosa dove noi italiani siamo sempre stati bravissimi. Siamo sempre stati fenomenali nel fare il pezzo singolo, non siamo mai stati molto bravi nel fare centinaia di milioni di pezzi ma sul pezzo singolo siamo fenomenali. E questo sta ritornando. Portare le tecnologie al servizio della capacità artigiana, delle competenze, se saremo bravi a non perderle, nel frattempo, è un’opportunità incredibile, dato il nostro DNA. Inoltre, un po’ più di svecchiamento di mentalità, un po’ più di apertura al mondo, collegato al fatto che io vivo in Italia ma non necessariamente devo fare prodotti per il mercato italiano, posso farli per il mondo, un’apertura a lingue diverse dalla nostra perché sennò non ci capisce nessuno: tutte queste cose, dosate insieme, con un po’ di fame che ci sta tornando, possono spingere questo Paese a fare un nuovo salto in avanti. E quindi dalla periferia magari possiamo riprenderci.
SANTIAGO MAZZA:
Grazie Alberto e grazie a Marco Marinucci per aver creato creare questo ponte, sempre più necessario, col mondo intero. In questi giorni, ho avuto qualche minuto libero e sono riuscito a vedere due mostre: quella di Explorers, dove Collins cita una caratteristica dell’uomo che è quella di andare, espandersi e capire. E un’altra mostra, di Avsi: si può generare bellezza partendo dal bene positivo che c’è. Anche nei momenti più bui, più duri, come quello che stiamo attraversando, anche nelle periferie esistenziali della nostra umanità, il destino non ci ha lasciato soli. Vediamo testimonianze nella settimana di come sia possibile accogliere il diverso, ripartire. Le start-up, le persone che abbiamo incontrato in tutta questa settimana con tanti Caffè, ma soprattutto voi, il Meeting di Rimini, il desiderio di incontrare il reale, il fatto che siete qui, i volontari. Questo è il positivo che abbiamo. E’ estremamente positivo, da questo si può partire. Non bisogna dare per scontato, dimenticare questi valori che abbiamo tra le mani. Sono la testimonianza che nel reale non siamo soli. Si può cambiare imparando ad abbracciare le periferie, ad accogliere il diverso, per aiutarci sempre a sapere di più chi siamo. Non possiamo dimenticare chi siamo, non possiamo dimenticare da dove veniamo, come popolo, come Italia. Un amico, che ho invitato qui lunedì a parlare, Alberto Piceno, arrivato per la prima volta al Meeting di Rimini, su Twitter ha ringraziato dicendo: “La possibilità di ricredersi è un dono prezioso”. Dobbiamo ritornare a credere in noi stessi, in un modo diverso di relazionarsi, in un modo nuovo di fare impresa e di condividere il sapere. Da questo possiamo partire. Grazie per i Caffè, avanti tutta.