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L’UNITÀ DELLA PERSONA
Partecipano: José Clavería, Rettore Fondazione Sacro Cuore di Milano; Pilar Vigil, Professoressa alla Facoltà di Scienze Biologiche della Pontificia Università Cattolica del Cile, Direttrice del progetto “Teen Star”. Introduce Giulia Guidi, Studentessa di Lettere e Filosofia all’Università Cattolica di Milano.
L'unità della persona
Ore: 15.00 Salone Intesa Sanpaolo A3
L’UNITÀ DELLA PERSONA
Partecipano: José Clavería, Rettore Fondazione Sacro Cuore di Milano; Pilar Vigil, Professoressa alla Facoltà di Scienze Biologiche della Pontificia Università Cattolica del Cile, Direttrice del progetto “Teen Star”. Introduce Giulia Guidi, Studentessa di Lettere e Filosofia all’Università Cattolica di Milano.
GIULIA GUIDI:
Buon pomeriggio a tutti, benvenuti a questo incontro della XXXIX edizione del Meeting per l’amicizia fra i popoli, intitolato: “L’unità della persona”.
Sono Giulia Guidi, frequento l’ultimo anno di lettere all’Università Cattolica di Milano. Al mio fianco ci sono la professoressa Pilar Vigil, specializzata in Ostetricia e ginecologia, docente alla Pontificia Università Cattolica del Cile e presidente di “Teen Star” International e don José Clavería, rettore della Fondazione Sacro Cuore di Milano, che vi prego di salutare con un caloroso applauso!
Perché questo incontro e perché questo titolo?
Innanzitutto questo incontro nasce dall’esperienza che, a marzo 2017, ho fatto frequentando il corso base del programma “Teen Star”, un corso di formazione per poter insegnare educazione all’affettività e alla sessualità, tenuto a Milano da Pilar e di cui lei stessa vi racconterà meglio.
Ho partecipato al corso perché ho avuto l’opportunità di sentirne parlare da un’amica che lo aveva frequentato.
Emergeva con evidenza, nei suoi racconti, che durante quei giorni era accaduto qualcosa di importante e che aveva destato in lei una certa sorpresa, una certa novità.
Fu chiaro molto presto che non sarebbe stato sufficiente fermarsi al suo racconto.
È nato in me il desiderio di vedere di persona che cosa l’avesse sorpresa così tanto. Per questo mi sono iscritta.
Nell’incontro con Pilar, durante i giorni di corso, sono stata introdotta e invitata alla conoscenza di me, come corpo, come desiderio di amare ed essere amata, come persona nella sua interezza e in tutti i fattori biologici, sociali e psicologici da cui l’essere umano è caratterizzato. Sono venuta a conoscenza di aspetti della mia persona prima a me ignoti.
È rinata in me la curiosità di conoscermi realmente per quello che sono, la curiosità di capire meglio da dove vengono e dove sono condotti i miei desideri, e l’interesse vero di capire perché sono stata creata esattamente così come sono. È stato un’occasione importante in cui mi sono potuta accorgere in modo significativo del fatto che ogni aspetto di me, anche la questione dell’affettività e della sessualità centra con il mio destino ed è profondamente legata al mio desiderio di felicità. La domanda più interessante che si è riaccesa in quei giorni è stata: cos’è questo desiderio che ho di amare ed essere amata? Cosa c’entra tutto questo con me e il mio Destino?
Nell’incontro con Pilar ho visto una persona che non si è accontentata di vivere la sua questione affettiva al minimo delle sue potenzialità ma al contrario, ho incontrato una persona che viveva e parlava di questo tema dentro un orizzonte più ampio di quello a cui noi tante volte lo riduciamo e che non ha avuto paura di nessun desiderio, nessuna domanda, neppure nessuna confusione che emergeva tra i partecipanti al corso in quei giorni.
La questione cruciale per me è stata, però, aver avuto la fortuna di imbattermi in degli interlocutori che conoscessero se stessi a tal punto da conoscere anche me in tutta la mia umanità, senza dover evitare o tappare nessuna delle esigenze che sorgono quando ci si imbatte nel desiderio di amare ed essere amati.
Questo è profondamente diverso dalla convinzione che il desiderio di felicità che ci costituisce possa compiersi perché incanalato in una serie di regole o di contingenze etiche. Al contrario, quanto più io approfondisco la conoscenza di me, come persona, come desideri, come limiti tanto più sarò allenato a riconoscere cosa è più adeguato ai miei desideri. Questa è la possibilità affascinante di vivere da uomini e donne uniti.
Da qui è nato l’invito a Pilar Vigil, da qui, da questa mia domanda, da questa mia esperienza, insieme agli amici del Meeting abbiamo deciso di invitare Pilar Vigil, e con lei come vi dicevo per aiutarci a dialogare su questo, abbiamo invitato don Clavería, da molti amici che vedo anche qui presenti conosciuto come “Pepe”. E la prima domanda che vorrei fare è proprio a don Pepe, di cui vi offro un attimo alcune coordinate della sua vita. Don José Clavería ha studiato economia e giurisprudenza a Madrid e nell’85 entra in seminario, viene ordinato presbitero nel 1992. A seguire ha servito in parrocchia e ha insegnato in un liceo statale e nel ‘96 si sposta a Vienna dove insegna per 10 anni in licei statali. Passa poi alla guida della pastorale universitaria per altri 6 anni. Nel 2012 si è trasferito a Londra dove lavora per un anno nella nunziatura apostolica e dal 2013 al 2017 è stato parroco in una località lì vicino, dove ha svolto anche la funzione di cappellano e membro del Consiglio di amministrazione della scuola cattolica S. Edmund Campion e, come già vi dicevo attualmente, da un anno è rettore della Fondazione Sacro Cuore di Milano. Per cui abbiamo qua con noi un uomo che, in qualche modo, ha avuto a che fare, ha incontrato le esigenze dei giovani e ha potuto scoprire anche tutte le questioni, le domande che emergono soprattutto dagli adolescenti. Per cui la prima domanda che ti faccio è: che tipo di esigenza hai visto, cosa hai potuto vedere nella tua vita, che ti ha spinto a prendere così sul serio il tema della affettività e della sessualità.
DON JOSÉ CLAVERÍA:
Buongiorno a tutti, grazie. Io trascorro molto tempo con i liceali e mi è chiaro che per rendere un giovane felice, la chiarezza sulla vicenda affettiva è qualcosa di decisivo. Per parlare delle questioni affettive, vorrei illustrarvi oggi dei pensieri e delle domande che sorgono in me man mano che passo del tempo con i ragazzi della mia scuola. In primis, mi chiedi tu, Giulia, perché mi occupo di questi temi: in primis spesso la difficoltà a scuola, le difficoltà che i ragazzi hanno a scuola hanno dietro problemi di rapporti, problemi affettivi. Quando si pone la questione di un impegno scolastico di una ragazzo, si toccano giustamente tanti aspetti, che scuola il ragazzo ha fatto fino ad adesso, dove, quando e come studia, quanto sia intelligente, quale è il suo contesto familiare, sociale, culturale. Io spesso però chiedo: ma qual è la questione umana dietro a questa difficoltà scolastica? Non è giusto che chi educa metta da parte tutte queste questioni scottanti, come le vicende dei rapporti con i genitori, gli amici, i compagni, la morosa, gli insegnanti, ecc. e cerchi di aiutare i ragazzi trattando solamente gli aspetti strettamente didattici. Come possiamo pensare che le questioni didattiche possano essere separate dai rapporti personali? La didattica è fatta in grandissima misura dal rapporto tra chi insegna e chi impara. L’insegnamento accade dentro un rapporto. L’insegnante afferma questo rapporto innanzitutto attraverso la passione e la serietà con cui insegna e la fermezza con cui esige un impegno del ragazzo. Ma l’insegnamento non è fine a se stesso. L’insegnamento veicola una comunicazione di ciò che è caro all’insegnante, di ciò che è la sua passione. Non nascondiamoci dietro a un dito. I ragazzi con una affettività più matura, più stabile, con un centro di gravità affettivo chiaro, ottengono di solito risultati scolastici migliori. Non sono due cose, … la persona è una. Ecco, il titolo di oggi è “L’unità della persona”. Dunque non è solo legittimo ma anche doveroso chiedersi come possiamo educare a vivere i rapporti. A scuola si parla di tutto: di alimentazione, di storia, di etica, di religione, eccetera. Certo, non si risolve la questione dietetica, politica o esistenziale solo parlando, ma certamente non aiuta non parlarne. Lo stesso si può dire della vicenda degli affetti. I temi affettivi sono spesso un tabù, magari per paura, perché uno non saprebbe cosa dire. Poi, spesso, tra di noi si dice che occorre aggredire le grandi questioni più a monte, ponendo delle domande fondamentali della vita, come cosa cerco? Se questo si chiarisce, il resto va da sé. Ed è vero, ma si può andare all’origine delle grandi questioni, parlando di tutto, di politica, di studio, di morosa, di famiglia, di ogni questione particolare, piuttosto che di parlare della domanda esistenziale astrattamente, isolata dal resto delle domande. Poi c’è il tabù per paura della ricaduta nel moralismo: non voglio finire a fare il grillo parlante, dunque non parlo di questo tema. Ma lì il problema è di chi propone il tema. In secondo luogo mi ha spinto a riflettere il fatto che i giovani e non solo, confondano spesso l’affezione con i sentimenti. Oggi c’è una grande libertà nel cercare e nel gestire tutte le sensazioni e i sentimenti che si vogliono, ma stranamente si soffre di una grande provvisorietà, una instabilità che ci tormenta. Perché? Possiamo fare tutto, ma poi non sappiamo che cosa fare. Prima di tutto si ha paura del rischio, si ha il terrore di prendere decisioni. Non so se avete visto un episodio della serie televisiva Black mirror, che si chiama Hang the dj. Dj è un ragazzo. Questa puntata presenta dei giovani che non sono certi dei rapporti e per capire con chi mettersi assieme in una maniera stabile, se non definitiva, si affidano ad un programma che gli propone dei rapporti a scadenza varia. Il programma ti fa un appuntamento, con un ragazzo o una ragazza e poi quando si trovano insieme, pim! Schiacciano un bottone e capiscono quanto tempo potranno stare assieme: nove ore, nove mesi, quel che è. Poi il programma, il sistema, analizza come sono andati questi rapporti, per proporre infine un rapporto senza scadenza. È come dire: io non sono capace, però c’è un sistema che studiando come reagiamo noi nel rapporto, eccetera, ci dirà: ok, tu sei fatto per quella, quella è fatta per quello. I giovani del film vengono invitati a sperimentare tanti rapporti di convivenza. Spesso si vede come dopo un certo periodo di, diciamo così, solo Nutella, uno non ne può più. Hai tutta la vicinanza fisica e l’intimità che vuoi, ma senza dover decidere niente. Tutto è a scadenza fissa e tu non devi decidere, il sistema deciderà per te se occorre provare con un’altra, con un altro, finché si trova la persona definitiva. Ma qua c’è qualcosa che fa saltare il sistema perché nel film il protagonista ad un certo punto sente il bisogno di qualcosa di più. Così anche nella nostra vita, spesso si cercano i sentimenti e si analizzano, evitando sempre però un legame in cui interviene la libertà in maniera forte, ovvero l’amore nel senso più forte del termine. Dieci giorni fa ero a Roma, al Circo Massimo con dei giovani e con papa Francesco e si parlava proprio di queste cose. Una ragazza faceva delle domande al Papa su come vivere il rapporto col suo ragazzo. Sentite cosa diceva papa Francesco: «Perché i giovani sanno bene quando c’è il vero amore e quando c’è il semplice entusiasmo truccato da amore. Voi distinguete bene questo, non siete scemi voi». Perché succede così? Perché ci troviamo spesso in un vicolo cieco nei rapporti e non sappiamo come gestire i nostri sentimenti, rischiando così di perderli. Ce n’è molta di emozione in un rapporto, soprattutto all’inizio. E va benissimo così, perché l’attrattiva è come un meccanismo naturale di realtà aumentata, il sentimento ti fa vedere di più. Una gran parte di questa emozione serve allo scopo, appunto, che è conoscere l’altro di più, goderselo di più, colmare la distanza. Paradossalmente però, un’altra parte di questa emozione, se non accetta un certo distacco, acceca. Acceca fino a lasciarti svuotato e tristissimo. Cosa è l’affezione? L’affezione è la capacità dell’uomo di lasciarsi coinvolgere, di attaccarsi a ciò che intuisce, a ciò che vede con gli occhi della ragione. L’affezione è la capacità di tenersi legati a ciò che si è visto, è la tenuta come sguardo di stima, perché lo sguardo di stima poi ha bisogno di tenuta, di riconoscimento di valore. Quello permette di vedere, di capire sempre di più, di continuare a vedere questo legame istituito. L’affezione possiede questa capacità di aumentare il bello che vediamo e lo esalta, così ci nutriamo di più, conosciamo di più. Poi, come dicevamo, c’è una parte di questa emozione che ci può tradire. Per mantenere ciò che si vuole occorre l’energia dell’affezione che comporta anche una certa fatica. La fatica fa pensare a una perdita, lo so benissimo, ma in realtà è necessaria proprio per mantenere, per una durata che permette di maturare e sviluppare ciò che all’inizio è soltanto un sentimento fortissimo ma poi passa. Ecco, la nostra energia affettiva ci permette di prendere ciò che di più nobile e dignitoso c’è nel rapporto ed escludere ciò che uno tenderebbe a far prevalere come reattività. Una giovane amica mi diceva recentemente: «Ho fatto di tutto coi miei ragazzi per non perderli ma non funzionava mai. Dunque riprovavo con un altro, finché con uno ho scoperto una dimensione del voler bene che non impone condizione di appagamenti ma è gratuito». Infatti, e finisco, un’affettività debole, fragile e scombussolata, che non distingue, diventa un elemento di dispersione, di confusione, che finisce per sballottare l’uomo da una cosa a un’altra, senza sosta e senza costruzione. Come scrisse Bauman: «Se la gente dà per scontato che i propri impegni sono temporanei e a breve scadenza, questi impegni tendono a diventare tali, in conseguenza delle azioni intraprese da queste persone». Modernità liquida. Così, feriti e confusi, ci lasciamo dietro le persone che, come dice Rilke in una delle sue Elegie: «Avendo perso il loro significato vanno abbandonate come un giocattolo rotto». Ecco, perché poi troviamo tanta spazzatura nello spazio dei rapporti con cui abbiamo chiuso. E viceversa, tanti si sentono dei rifiuti nello spazio sociale, per non dire nel social network: pochi like… cosa si può fare? In un’affettività educata, un uomo consapevole di essere fatto per qualcosa che non passa, costruisce rapporti nel tempo, non molla mai l’altro né se stesso, nel confronto dell’altro.
GIULIA GUIDI:
Pilar, vorrei farti una domanda analoga ma prima do anche della dottoressa alcune informazioni. Oltre al fatto che abbiamo già detto che è specializzata in ostetricia e ginecologia, ha conseguito degli studi post dottorato in Texas e in Australia, è docente come dicevamo alla Pontificia Università Cattolica del Cile, ed è specializzata in medicina riproduttiva. È riconosciuta come esperta mondiale sulla fertilità umana ed è stata invitata a tenere conferenze in più di trenta paesi e ha partecipato a più di duecento congressi in tutto il mondo. Ha più volte ricevuto riconoscimenti, come Women Leader della stampa del Cile, è membro dell’ American College of Obstetricians and Gynecologists e della Pontificia Accademia per la Vita. Attualmente è direttore medico del Reproductive Health Research Institute che ha sede a New York e Santiago. E a te Pilar vorrei chiederti cosa ti ha spinto a dedicare così tanto tempo e ad affrontare in modo così decisivo il tema dell’educazione all’affettività e alla sessualità? Che urgenza hai riscontrato, quindi? Come si inserisce il programma “Teen Star”, cos’è? Come nasce? E quindi, perché sei con noi qui oggi?
PILAR VIGIL:
Grazie. Prima di cominciare vorrei ringraziarvi. Devo dirvi, sono qui per uno sguardo profondo, uno sguardo che ho ricevuto diversi anni fa nella mia vita e per questo voglio condividere con voi questo inizio. Da quando ero molto piccola ho percepito un interesse molto profondo per quello che era il mistero dell’inizio della vita. Ho potuto studiarlo perché lavoravo nella facoltà di scienze biologiche. Qui avete una bellissima fotografia: è un modello che abbiamo preso in quegli anni dagli animali. Nella mia esperienza di medico, come ginecologa, ho avuto il regalo di conoscere John e Lyn Billings che erano miei amici. Per questo per me era assolutamente naturale insegnare alle donne a riconoscere i loro segni di fertilità e di infertilità. Dopo un po’ di tempo ho conosciuto una religiosa, si chiama Hanna Klaus e con lei abbiamo fatto il primo seminario nell’Università Cattolica del Cile, del “Teen Star”. A questo seminario ha partecipato Maria Teresa. Maria Teresa era una professoressa di biologia in Cile. Ci fu questa conseguenza, che durante il seminario, sua figlia, un’adolescente come le sue alunne, stava partorendo in ospedale. E questa professoressa disse a noi due: se voi mi aveste insegnato prima queste cose, probabilmente non avrei avuto prima questo bambino che mi è costato molto perché l’ho avuto da ragazzina. Per me fu molto difficile conservare il silenzio durante questa bellezza. Allora abbiamo iniziato a fare il seminario: Hanna Klaus in alcuni Paesi e io mi sono fatta carico di altri Paesi. Dopo un po’ di tempo iniziarono le critiche. Abbiamo avuto molte critiche, sia dentro che fuori della Chiesa. Io non riuscivo a capire queste critiche, perché, come vi ho detto, per me era assolutamente naturale insegnarlo e assolutamente bello ed ero abbastanza disperata. Io non avevo alcun contatto col Vaticano e tantomeno con Roma. Come avete avuto modo di ascoltare, la mia casa dista 14mila chilometri dalla casa del Papa. Allora, nella mia orazione abbastanza esasperata, dissi al Signore: «Guarda, o il Papa mi dice che questa è una cosa buona o io rinuncio. Perché veramente, io non ho mai sentito tante critiche per una cosa che Tu dovresti mettere a posto». Da quel momento ci sono state una serie di conseguenze molto strane, non sto qui adesso a menzionarle, però devo dirvi che al terzo mese delle suppliche al Signore ero davanti a Giovanni Paolo II. Lui aveva sentito parlare del “Teen Star” da Wanda Poltawska. Mi diede il suo sguardo molto profondo, guardò i miei occhi e mi disse: «Vai avanti, questo programma è molto buono». Non dimenticherò mai come brillavano i suoi occhi e voi comprenderete questo momento. Ero totalmente emozionata, non ho potuto dirgli nulla. Allora la gente mi domandava: «Ma che cosa ti ha detto, ma perché stai piangendo?». Eh, la verità è che io non gli avevo detto nulla! Però questo sguardo così profondo era stato la risposta all’inquietudine così profonda del mio cuore. Il Signore è molto generoso, l’anno seguente ho ricevuto la nomina di membro della Pontificia Accademia per la Vita e ho potuto stare con Giovanni Paolo II diverse volte. E qui vedete che io ho in mano una mappa in cui gli ho fatto vedere in quali Paesi si trovava il “Teen Star” e lui mi diceva: «Che bene! Che bene!». Oggi il “Teen Star” si trova in molti Paesi dei cinque continenti, però devo dirvi anche che è stato da quel momento la relazione con le mie bellissime figlie adolescenti che mi ha permesso anche di stare qui. Perché noi da quel momento abbiamo compreso come genitori, che non dovevamo dare tutte le risposte, ma dovevamo invitare le persone a scoprirsi facendo ai ragazzi delle buone domande. Ed è così che il “Teen Star”, quello che vuole, è rinforzare l’identità delle persone, però abbracciando tutti i loro livelli, fisico, sociale, emozionale, spirituale. Il “Teen Star” vuole vedere le persone integrate con se stesse, nel loro affetto e nella loro ragione, perché siano anche integrate con le loro circostanze. Non vogliamo vedere problemi, vogliamo accompagnare persone e per questo dobbiamo contemplare la realtà unica di ciascuna persona, perché noi siamo tutti differenti. Solo in questa relazione con l’altro, contemplando chi è questo altro, possiamo generare alternative creative e per loro. Dobbiamo considerare che ciascuna persona si trova in un momento unico della sua vita. Per questo, quando parliamo con un bambino, è diverso da quando parliamo con un adolescente, con una persona adulta o con un anziano. Allora noi vogliamo che ciascun essere umano si faccia una domanda: «Chi sono io? Io sono qualcosa o qualcuno? Sono una creatura od un creatore? Sono chiamato ad una trascendenza?». Grazie.
GIULIA GUIDI:
Entrambi mettete in risalto la necessità, rispetto a questo tema, di lasciarsi interrogare, di farsi fare delle domande e che la questione è innanzitutto una questione umana, come dicevi tu don Pepe. Ecco, per questo vorrei fare una domanda ad entrambi perché talvolta invece si crede o si tende a credere che questa esigenza, che è l’esigenza più elementare che abbiamo, quella di amare e di essere amati, in fondo non abbia bisogno di essere educata. E invece, così si rischia di vivere un amore che è dettato dal possesso e dall’istinto. Per questo vorrei chiedervi: che cosa significa per voi educare ed essere educati ad amare e a lasciarvi amare? Pepe.
DON JOSÉ CLAVERÍA:
Dentro tutti i possibili rapporti affettivi ma soprattutto in quello più tremendo, più drammatico, che è il rapporto con la ragazza o con il ragazzo, occorre un compito. Il rapporto tra un uomo e una donna non può stare senza un compito. Senza un orizzonte ideale, il rapporto si fagocita. Ancora papa Francesco parlando di questo pochi giorni fa, diceva: «Perché nel vero amore l’uomo ha un compito, la donna ha un altro compito. Voi sapete qual è il vero compito dell’uomo e della donna nel vero amore, lo sapete? La totalità. L’amore non tollera mezze misure, o tutto o niente. Questo è l’amore. E qual è il compito dell’uomo nell’amore? Rendere la donna più donna, la moglie o la fidanzata. E qual è il compito della donna nel matrimonio? Rendere più uomo il marito, il fidanzato. È un lavoro a due, che crescono insieme ma l’uomo non può crescere da solo nel matrimonio, se non lo fa crescere sua moglie e la donna non può crescere da sola nel matrimonio se non la fa crescere suo marito. È questa l’unità. Questo vuol dire una sola carne, come dice la Bibbia. Diventano uno perché uno fa crescere l’altro. Questo è l’ideale dell’amore e del matrimonio». Questo è il contesto di unità stabile dove possono crescere bene i figli, questa è la cosa migliore che possiamo fare per loro, crescere noi stessi. Il rapporto tra l’uomo e la donna è segno fortissimo del rapporto con l’infinito, il sesso è una delle espressività di questo rapporto e per sua natura ci ricorda lo scopo ultimo di questo rapporto: aiutarci a camminare verso il compimento della vita ed offrire un contesto accogliente dove i figli possano essere concepiti ed accompagnati nel loro sviluppo. Guardare questo rapporto senza un rimando ad un rapporto ancora più costitutivo, sarebbe non rispettarlo, ultimamente. Non chiedersi chi l’ha fatto, è contro natura, perché siamo davanti a qualcosa di troppo bello. Vi regalo un brano di Luigi Giussani che spiega molto bene la necessità di un tale rimando: «Quando uno vede una montagna o una balena non può dire soltanto: è una montagna, è una balena. Chi l’ha fatta? Chi fa queste cose? Come quella bambina adottata a tre anni da un amico mio assolutamente ateo, con una moglie atea. Hanno fatto un gesto grande a prenderla. Intelligente, spigliata, dopo due anni con loro, a cinque anni dunque, non sapeva né leggere né scrivere, nel senso religioso del termine. Non aveva cioè nessuna educazione in termini religiosi. Sono andati a fare una grande gita sulle Dolomiti. Ad un certo punto, non so dove, appare uno scenario grandioso. I due genitori sono rimasti a guardare ammirati. La bambina, che aveva cinque anni, si volge verso di loro e dice: «Mamma, chi ha fatto questa cosa? ». L’equivocità dei rapporti tra ragazzo e ragazza incomincia dalla ragione per cui il rapporto inizia. Un rapporto parte per una ragione, per un motivo. Quel rapporto è equivoco se non è adatto, se non è adeguato al motivo con cui parte. Contiene allora una menzogna, una bugia già dall’inizio. Invece un rapporto cresce come umanità se la ragione da cui parte ha a che fare col destino dell’uomo. Se è legata al tutto, vale a dire, se sin dall’inizio prevale una cura vicendevole come affermazione di volontà di accompagnamento al destino dell’altro. Solo se il rapporto nasce come volontà di aiutarsi l’un l’altro ad andare verso il destino, a capire e ad andare verso il destino, solo allora il rapporto è vero, altrimenti è bugiardo, perciò è un inciampo nel cammino. Certo, la ricerca del bene dell’altro come segreto della felicità in un rapporto potrebbe essere una scoperta ulteriore, lungo il rapporto. La scoperta di una nuova direzione in itinere può sempre accadere, ma l’avvio non è secondario. Cosa porta ad una tale scoperta? Come si esce da un rapporto chiuso? In ogni rapporto c’è dentro il problema del rapporto con Dio, in ogni rapporto, anche con questo bicchiere, c’è dentro il problema del rapporto con Dio, della propria persona con Dio, perché nel rapporto con l’altro occorre arrivare al punto di chiedersi «da dove viene l’altro, dove va? da dove viene questo bicchiere e che scopo ha?». Non si può voler bene all’altro, senza farsi, almeno implicitamente, queste domande. Ma questo passaggio non è possibile senza un sacrificio, il sacrificio fa parte della soluzione dei problemi affettivi, non si può eludere; perché nei rapporti ragazzo-ragazza la gente tratta la donna in modo così brutale? Perché viene usata come una cosa? Perché si stringe sempre di più, anche se così l’altro sembra sfuggire di più fra le dita? Perché non si giudica il rapporto con la ragazza, alla luce della domanda su cosa vuol dire voler bene ultimamente? Altrimenti il ragazzo rispetterebbe la ragazza e la ragazza non sarebbe così possessiva, per esempio. In fin dei conti la strada è molto semplice, anche se non facile: vai a cercare ed imita chi vive i rapporti cercando il bene dell’ altro. «Ma io non riesco!» «Va bene! Dove vedi uno scostamento di questo tipo, dove vedi uno che, con grazia, con gioia, accetta di concepire la propria vita al servizio di un altro, piuttosto che in funzione di un tornaconto di tipo istintivo o di calcolo, vagli dietro! Accetta di non saper cosa vuol dire voler bene, e lasciati spostare da chi sembra essere più magnanimo, sembra di avere un orizzonte più grande, nel quale vivere i rapporti». Ecco, ultimamente, un rapporto non viene salvato da un’idea o un proposito, anche se essi fossero i migliori, ma da un rapporto più grande, che offre un contesto per indagare la natura mia. Ma io chi sono? Guarda come fa lui, ma come si concepisce quello lì, quella lì? Ed io? E l’altro? E la natura del rapporto fra te e me? Un luogo dove l’ideale accade, in un modo più palese, più evidente, più netto che non in te stesso. Eh, questo fa venire voglia di rischiare verso nuove scoperte, quando vedi in atto qualcosa di più che sta accadendo di fronte a te.
PILAR VIGIL:
Per rispondere a questa domanda, vorrei ricordare le parole di Ratzinger. Con la sua abituale lucidità Ratzinger ci diceva «dobbiamo riconoscere le necessità che esistono per l’uomo di essere educato». Dobbiamo incontrare una pedagogia cristiana, questo vuol dire che possa essere un’ espressione concreta della nostra fede; non possiamo fare il secondo passo senza aver fatto il primo. Prima viene l’elemento fisico e poi quello spirituale, questo cosa significa? Ci sono delle correnti che tendono a manipolare le persone. La principale corrente sostiene che gli esseri umani non sanno leggersi. Un uomo che non si conosce, non sa leggersi è facilmente manipolabile; un uomo che ha un identità, una donna che è consapevole di se stessa, non sarà manipolabile. Come possiamo acquisire la conoscenza di noi stessi? Attraverso una sequenza pedagogica che ci mostri chi siamo, nell’aspetto fisico sino ad arrivare all’aspetto spirituale-trascendente. Per questo è un modo di insegnare. L’uomo è una totalità unificata in corpo e anima. Però dobbiamo partire dalla nostra naturalezza data. Come dice anche Ratzinger, noi assistiamo a una specie di ribellione dell’uomo circa la conoscenza di se stesso, esiste una ribellione verso il limite che è dato dalla biologia, come ci diceva Chesterton nella sua famosa frase. Ricorderete, era rivolta a un gruppo di pesci che si stava ribellando contro l’acqua, e Chesterton diceva loro: «Se pensate male dovrà andarvi male». Adesso andiamo a un esempio concreto: è il caso di molte donne. La donna ha in se stessa il ciclo che ha dei cambi naturali che avvengono nei suoi ormoni nelle ovaie. È come vediamo nella slide ci sono dei livelli di estrogeni e dei livelli di progesterone. Per delle condizioni molto ragionevoli, la donna spesso è stupita della sua fecondità, quando per esempio ha molti figli la donna si è ribellata contro questo. La donna si è ribellata contro questo e ha deciso di prendere la pillola. Che fa la pillola? La pillola cambia i livelli ormonali e come abbiamo visto nella slide li lascia fissi. Non sono più come si trovano nella natura. Oggi siamo andati oltre. Molte donne prendono la pillola per diverse ragioni, perché hanno l’acne, perché hanno dei dolori mestruali. Ci sono alcune che la prendono semplicemente perché la prendono tutti, perché le sue amiche la prendono. Oggi cosa abbiamo dimostrato con questo? C’è uno studio molto interessante, fatto nei Paesi nordici e si è dimostrato la enorme incidenza di depressione nelle donne che prendono le pillole anticoncezionali. Chi sono quelle più suscettibili? Le donne giovani, le adolescenti. Perché quando cambiamo ad un’adolescente la sua natura, si sentono depresse. È come i pesci che si ribellano contro l’acqua. Quali alternative abbiamo? Abbiamo delle alternative oggi? Abbiamo delle preziose alternative: è che noi impariamo a conoscere che la nostra ovulazione, nel caso delle donne, è un bellissimo segno di salute e per questo dobbiamo impararlo. Che succede quando ci sono delle donne che hanno delle situazioni in cui la loro ovulazione non va bene? Oggi abbiamo molti trattamenti, abbiamo delle terapie per trattare le situazioni metaboliche ormonali genetiche, perché la donna possa recuperare il suo adeguato bilancio ormonale e si senta bene. Il bilancio ormonale aiuta la donna a stare bene e anche l’uomo. Che succede quando noi insegniamo queste conoscenze alle ragazze? Vedete che succede una cosa molto bella. Nel lato destro di questa immagine avete il tasso di imbarazzo delle donne che imparano queste conoscenze rispetto a quelle che non l’hanno imparato. Possiamo vedere che il tasso di imbarazzo di gravidanza nelle ragazze diminuisce moltissimo quando imparano questo perché, come loro ci dicono: «Quando io mi conosco possiedo delle buone condizioni per la mia vita, questo succede anche con i ragazzi, conoscere i miei diversi aspetti mi aiuta a decidere bene che cosa voglio fare». Chi sono io, per che cosa sono stato chiamato? Allora credo che oggi stiamo vivendo un momento meraviglioso dell’umanità in cui noi abbiamo degli strumenti concreti per mostrare all’uomo chi è l’uomo, però, come dice Ratzinger, una pedagogia deve essere cristiana, deve essere incarnata.
GIULIA GUIDI:
Pilar tu ci hai parlato in modo molto significativo di che cosa vuol dire introdursi alla conoscenza di sé. Questa è una esigenza che si riscontra anche all’interno dei rapporti affettivi, anche nel desiderio di conoscenza dell’altro. Questo tema rischia spesso di essere oggetto di una grande ambiguità perché il pensiero dominante molto spesso ci induce a pensare che per conoscere l’altro bisogna conoscere tutto dell’altro, quindi ogni aspetto della vita della persona, conoscerlo fisicamente in tutti i dettagli della sua vita e della sua persona. Quindi, la domanda che io vorrei porre a entrambi è: che tipo di esperienza fate voi della conoscenza affettiva dell’altro e che cosa rende possibile una vera conoscenza di sé?
DON JOSÉ CLAVERÍA:
Spesso vengono dei giovani a dirmi che vogliono conoscersi a vicenda nella maniera più esauribile possibile per poter prendere una decisione meno rischiosa. A parte che io dico sempre: no risk, no fun. A me sembra che la strada per conoscere l’altro non sia appiccicarsi, guardarsi soltanto negli occhi il più lungo possibile e da soli. Come capita spesso con un’opera d’arte, mettiamo con un dipinto, un sano distacco può aiutare a vedere di più. Per esempio, invece che concepire un rapporto come qualcosa di chiuso ed esclusivo, magari posso conoscere l’altro di più se conosco la sua famiglia, i suoi amici, se lo vedo all’opera nel proprio contesto. Alcuni giorni fa mi diceva uno: guarda come tratta quello lì sua madre, i suoi fratelli e sorelle e ti farai un po’ un’immagine di come sarà tra di voi fra dieci anni. Poi appunto la grande questione è: cosa cerco? Quando ero un venticinquenne mi ricordo di mio fratello, di una età simile alla mia, che faceva una vita, diciamo, più di notte che di giorno; un giorno svegliandosi in tarda mattinata, come al solito, uscì a prendersi il suo solito caffè con la brioche e a comprare il giornale – di giorno non è che faceva tanto -, a un certo punto per strada, lì vicino al posto dove aveva comprato il giornale, vede una coppia novantenne. Lui che faceva fatica a camminare e lei che lo incoraggiava a camminare facendogli presente le cose delicate che aveva cucinato per pranzo. Mio fratello tornò a casa folgorato e mi disse: io voglio finire così, io non sono fatto per rapporti usa e getta. Cosa mi aspetto? Questa è la domanda da chiedersi, spesso. Cosa mi aspetto in un rapporto? Cosa mi aspetto? È l’altro qualcosa che mi può soddisfare e basta oppure c’è un mistero da scoprire e servire? Salto un po’ di passaggi per mancanza di tempo, ma volevo accennare a una questione educativa. A questo punto sorge spesso la domanda di come far capire queste cose al proprio ragazzo o ragazza, al marito o alla moglie, al discepolo, come fare un passaggio di maturità dentro un rapporto. Volevo solo dire una cosa, soprattutto ai genitori e agli insegnanti: non cerchiamo il trucco che renda il discorso talmente perfetto da impedire a priori all’altro di sbagliare. È un errore grave. Spesso noi adulti vogliamo risparmiarci anche qualche dialogo imbarazzante o qualche situazione difficile dell’altro; non ci piace neanche giocare il nostro buon nome nei nostri club di benpensanti, ma teniamo conto che questi ragazzi hanno il diritto di fare la loro strada, affiancati da adulti che possono guardare tutto insieme a loro. Non abbiamo fretta di chiudere tutto subito ed evitare i rischi, come ultima ratio. L’iper-protezionismo è preparare delle bombe atomiche. In fondo è dire all’altro: «tu non sei capace, non ce la farai mai senza di me». Non è molto incoraggiante. Non saltiamo la strada dell’altro per un protezionismo bieco. Colui a cui vuoi bene capirà qualcosa di nuovo in questo campo andando oltre un bieco moralismo o un permissivismo schiavizzante, solo se trova altri alla ricerca per se stessi. Altri che non si sottraggono ad un camino per se stessi. Il vertice di un aiuto per tutti, è colui che offre la propria vita come testimonianza di un maggior rispetto per il fiore che quando esce viene lasciato li. Paradossi della vita. Chi vive la verginità, non solo ricorda a tutti l’orizzonte di ogni strada, anche del matrimonio, ma proprio per quello tutti sentono un legame più profondo per chi vive così. Ciò che sembrerebbe un’assenza di legame, se vissuto proprio come affezione dell’altro, incolla, diventa attraente come nessuna altra attrazione.
PILAR VIGIL:
Che cosa rende possibile conoscere l’altro? Quello che lo rende possibile è lo stupore. L’essere umano è unico, nel senso che ha la capacità, in un momento della sua vita, di fermarsi e di andare controcorrente. Questa capacità la chiamiamo meraviglia, stupore e quando l’uomo si domando: «Dove vado? Chi è quello che mi ha amato per primo ed ha reso possibile la mia esistenza? Io sono chiamato ad essere autosufficiente, o al contrario sono chiamato ad essere in relazione con un altro?». Che succede con lo stupore? Sempre è originato all’interno dei cinque sensi. Il primo stupore che avviene in noi stessi è quando il bambino riconosce questo altro totalmente distinto da sé, che è suo padre e sua madre. Questa relazione che lo affascina gli dà la capacità di guardare questo orizzonte infinito e comincia a permettergli di conoscersi come qualcuno che è amato. Che succede oggi tra molti ragazzi? Stanno sempre in comunicazione tra loro, molte reti sociali e molti whatsapp, però quanto più sono in comunicazione tanto meno hanno relazioni con altri. Non è lo stesso essere in comunicazione e avere una relazione con altre persone. Noi dobbiamo imparare la relazione, la relazione ha origine da questo sguardo profondo che ci possiamo dare. Ci può essere un paradosso, di avere un bambino o una bambina che hanno molti messaggi per il loro compleanno, però la loro vita la stanno celebrando da soli. Questo noi non dobbiamo permettere che accada. La relazione è sempre personale e la relazione ha bisogno di essere sperimentata. Per questo non vale di più la mia vita perché ricevo molti like sul mio profilo di facebook. Ma quello per cui dovremmo optare è l’intimità. Che cos’è l’intimità? L’intimità è la capacità di esistere in un altro diverso da me. Questa capacità va educata. Che succede oggi in molte situazioni in cui si parla di educazione sessuale? Come dice papa Francesco, molto frequentemente l’educazione sessuale si limita a capire alcune cose che riguardano al salute e in questo modo noi provochiamo una dimensione narcisistica della persona, evitiamo la possibilità che sia capace di accogliere un altro. Andiamo a vedere un esempio concreto. Ci hanno insegnato che il sesso deve essere sicuro, l’evoluzione del sesso sicuro. Oggi noi abbiamo la possibilità di sottoporre le persone a delle terapie retrovirali prima di esporsi ad un’infezione, a terapie retrovirali posteriori ad un’esposizione, come il preservativo. Abbiamo dei protettori per ogni tipo di luogo del nostro corpo: pasticche per non rimanere incinte e delle pastiglie per prevenire o avere più piacere. Allora ci dicono che il sesso è meraviglioso. Come può un giovane capire che il sesso è meraviglioso se quando stiamo davanti all’altro sembriamo una specie di astronauta, questo è molto difficile da capire. Per capire la bellezza nuovamente, io debbo capire che cos’è vero. E dal momento che siamo essere sessuati, tutte le nostre relazioni sono sessuate, per questo non dobbiamo confondere: una cosa è l’intimità, che vuol dire esistere nel cuore di un altro che è diverso da noi, con una relazione sessuale, perché la relazione sessuale è bella, è uno degli atti più belli dell’essere umano. Però è bella quando è vera, non quando è distorta, perché io devo proteggermi dall’altro che amo. Per questo la nostra intimità la possiamo ottenere soltanto quando possiamo esistere nel cuore di un altro. E qui vediamo come si è evoluto il sesso sicuro. Abbiamo tutti questi tipi di trattamento che ci fanno sembrare una specie di astronauta, e il ragazzo dovrebbe capire che questo è una meraviglia. È difficile. Allora la nostra intimità è possibile quando conserviamo la nostra unità, la nostra unità in quanto esseri umani, esseri con capacità di meraviglia e esseri la cui capacità di stupore parte dai suoi cinque sensi.
GIULIA GUIDI:
Pilar, tu ci hai parlato di relazioni e di intimità. Ecco io vorrei approfondire questo punto maggiormente, per cui rivolgere di nuovo una domanda a te, chiedendoti che cosa significa incontrare, relazionarsi realmente con l’altro? Perché, come tu ci hai detto, per incontrare l’altro è necessario avere una propria identità, una propria unità e quindi si potrebbe pensare che incontrare l’altro richieda un certo sacrificio, una mediazione o un impegno che in qualche modo ci fa perdere noi stessi. Per cui vorrei che ci aiutassi ad approfondire questo tema: che cosa significa incontrare l’altro ed è possibile incontrare l’altro senza rinunciare alla propria unità e identità.
PILAR VIGIL:
Ringrazio Giulia per questa domanda, perché per rincontrare l’altro la prima cosa di cui dobbiamo essere coscienti è la nostra identità. Siamo un corpo e un’anima totalmente unificati come abbiamo detto, allora dobbiamo farci una domanda: come voglio vivere la vita, come vorrei che fosse la mia relazione con te? E per questo ci dobbiamo formare, perché se noi non ci formiamo, viviamo la vita guardandoci allo specchio. Per formarci, come abbiamo detto, dobbiamo essere capaci di riconoscerci nel nostro essere corporeo, nel nostro essere spirituale e dobbiamo imparare ad integrare. Però per questo bisogna che siamo coscienti. Qual è la grande sfida della nostra era? La sfida della nostra era è l’ideologia: io posso fare tutto quello che voglio, ma in questo modo noi neghiamo la realtà. E negando la realtà non posso far uso della mia libertà. Allora se io nego la mia realtà, perdo la mia identità e se perdo la mia identità, la relazione con l’altro non è possibile, perché per avere una relazione di vero amore ho bisogno della reciprocità, ho bisogno della libertà nel darmi e nel riceverti, ho bisogno della gratuità e ho bisogno della verità. Quando comincio a guardare la mia vera natura, io so chi sono, allora posso stare davanti a te permettendoti di esistere, però permetto anche a me di esistere; io non ti manipolo, ma dalla nostra relazione si origina il nostro amore. Per questo, conoscere la realtà rompe la catena della manipolazione. Oggi abbiamo molte persone che per il modo di vivere non fanno ginnastica, mangiano male, abbiamo persone che addirittura fanno due o tre lavori per poter avere una vita migliore, altre persone che invece, per il culto del loro corpo, dimenticano totalmente la parte trascendente e pensano di essere molto felici, però la verità è che si stanno auto distruggendo. Sappiamo che abbiamo ragazzi e ragazze che decidono di togliersi la vita e anziani che non incontrano un senso per la loro vita e per il momento che stanno attraversando. Per questo l’essere umano deve riconoscere che non è un essere individuale. Noi non siamo individui unici, siamo esseri in relazione con gli altri. In questo nostro essere relazionale, sorge l’alternativa creativa che chiamiamo amore. Per questo l’amore è possibile solo quando rompiamo la catena della manipolazione e questo è possibile solo quando acquisiamo una solida identità personale. Quando abbiamo amici. E qui incominciamo a guardare all’orizzonte dell’infinito. Io lo vedo nel volto incarnato delle persone con cui condivido la mia vita.
GIULIA GUIDI:
Grazie. Hai tante volte i parlato di questo soggetto non manipolabile e in qualche modo il problema, il tema della manipolazione ha a che fare con il tema del valore di una persona, perché se uno conosce il proprio valore, può anche non lasciarsi manipolare. Per cui vorrei con voi mettere a tema l’ultima domanda che riguarda proprio la più grande lotta che noi viviamo nel nostro secolo, cioè la menzogna di pensare che dobbiamo meritarci il bene che tanto desideriamo. Al punto che in questa illusione di dover meritarci il bene che desideriamo, tante volte cadiamo in comportamenti performanti o che ci spingono a cambiare il vero volto che invece ci caratterizza e quindi la domanda che voi porre a entrambi è: da dove nasce questo disagio con cui siamo sempre in lotta e come uscirne? Come poter riconoscere il proprio valore?
DON JOSÉ CLAVERÍA:
C’è un filosofo, sociologo coreano, che però da tanti anni lavora in Germania, Byung-Chul Han, se ho pronunciato bene, che ha scritto un libricino: Eros in agonia. L’Eros è una relazione con l’altro che si colloca al di là della prestazione e del potere. Ci sono tanti rapporti fatti di prestazione e di potere e nell’eros è il punto dove questo è escluso per natura. Quando invece anche l’eros viene ridotto al rendimento o al potere, allora come possiamo tirarci fuori da una logica della vita così piccina? Perché lì è il rapporto, Pilar lo chiamava di manipolazione, spesso ha la forma di un ricatto: se non fai come dico io, rimani da solo o da sola. Ne esce soltanto chi è certo di essere già stato voluto bene senza condizioni, di non essere da solo mai, di poter fare comunque una strada verso la compiutezza affettiva. Chi è libero sa pazientare finché trova la sua altra metà che rispetti la strada dell’altro e ne rimane senza, piuttosto che lasciarsi mettere le manette. Vorrei finire leggendovi alcuni passaggi di ciò che un’amica di poco più di vent’anni anni mi ha raccontato. Una strada che auguro a tutti noi qualunque sia il punto in cui ci troviamo. Finisco con questa citazione. «Fin da ragazzina ho sempre avuto dei rapporti affettivi con l’altro sesso molto complicati, tendenti al possessivo e molto spesso temporanei. Possedere l’altro, compiacere l’altro, fare la volontà dell’altro, per me è sempre stato il modo per sentirmi amata e per amare. Non conoscevo nessun’altra modalità. Possedere, o meglio credere di possedere, era un modo per sentirmi sicura, al caldo e non abbandonata e anche l’atto sessuale diventava un modo per colmare un vuoto, una mancanza affettiva, una ricerca e la speranza di poter trovare in quel gesto l’amore a la felicità ultima. Che illusione. Più passava il tempo, più questo vuoto aumentava e più io diventavo un semplice oggetto nelle mani dell’altro e la ferita sanguinava sempre di più. Pensavo di essere io il problema, di avere un disagio con il mio corpo e di essere incapace di amare. Sono passata dal vivere l’atto sessuale come supplenza alla carenza di amore, al viverlo come una vera e propria violenza. La mia identità veniva meno giorno dopo giorno e tutto si annichiliva e tutte le relazioni affettive mi lasciavano totalmente insoddisfatta e quindi scappavo alla ricerca di un ennesimo sentimentalismo fallace. Poi ho trovato della gente che mi ha proprio voluto bene. Negli anni mi rendevo conto che l’affettività, sia quella con gli amici che quella con il fidanzato, quella vera, non è un puro sentimentalismo come pensa il mondo, ma va educata con un metodo ed è fatta di sacrifici, altrimenti non regge. Dicevamo prima: l’affezione per mantenere il legame, perché regga. Osservavo anche che le domande e la nostalgia fossero aumentate, ero più lieta nelle mie giornate e non sentivo più la necessità di essere appagata e di appagare l’altro di turno. Qualche anno fa mi è capitato di incontrare il mio attuale moroso. Dopo poco tempo mi confidava di aver sempre conservato la castità prematrimoniale e subito pensai che fosse un disadattato e iniziai anche a prenderlo in giro per poi rendermi conto che ero mossa da una sana invidia per la sua esperienza. Questa scelta non è stata immediata, anche a causa delle più o meno velate critiche di amici e familiari, piuttosto liberali, come contesto di famiglia e di amici. Avevo poi paura che aderire alla proposta della castità fosse solo un altro modo di non affrontare con me stessa la sofferenza e la mia non adeguatezza rispetto a questo gesto che prima avevo percepito. Cosa è cambiato? Se io vivo tesa ogni momento a cercare di capire qualcosa in più di me stessa, io sono più libera, anche di fronte all’altro, da qualsiasi dipendenza, pretesa o necessità di compiacere. A questo consegue anche il venir meno della costante paura di essere abbandonata. Paura che in ultima istanza deriva dal sentirsi non adeguati, dunque non liberi. È poi venuto meno il disagio e la paura di fronte ad un futuro atto sessuale, anzi, nei nostri piccoli gesti di intimità non mi sento più un oggetto usato, ma il desiderio e l’attrazione sono sempre più grandi. Questo accade proprio perché mi sento voluta bene a prescindere dalla mia capacità di risposta alle sue esigenze fisiche e non. Desiderare l’altro anche fisicamente è umano. È necessario però costantemente chiedersi: per quale fine ultimo però si sta insieme? E quello che può sembrare un sacrificio diventa invece strumento per camminare insieme verso una Grazia che piano piano si rende sempre più evidente». Fine della citazione, grazie per l’ascolto.
VIGIL PILAR:
Come abbiamo visto oggi l’uomo ha una forza interiore che lo minaccia con la sua autodistruzione, però dobbiamo guardare a fondo questa cosa. La vera conoscenza ci permette di essere liberi. Che cosa dobbiamo fare per uscire da quello che abbiamo analizzato fino ad adesso? Riconoscerci, accettarci come siamo e dire di sì alla nostra vocazione. Dobbiamo scoprire qual è la nostra vocazione, a che cosa siamo chiamati e qui vi invito a guardare Maria. Maria con il suo sì accetta la sua fecondità e con il suo sì ci ha dato il regalo più grande che l’umanità abbia potuto ricevere. Maria ci regala suo figlio, il Verbo incarnato. Maria ci regala Gesù. Maria ce lo regala, dalla libertà che viene dal riconoscimento di sé. È un atto sereno, perché lei aveva fiducia nel suo creatore, dice sì a quello che Lei è. Vi invito anche a guardare il sì che il figlio dice a Suo padre, fino ad arrivare ai limiti, ai limiti dell’abbandono totale, un abbandono totale come uomo capace di accettare anche i limiti che gli impone la fine della sua vita terrena. Gesù, veramente Dio e veramente uomo. Anche Lui dice sì a Suo padre, dice sì e questo ci fa vedere la sua fiducia totale in colui per il quale è stato creato e per il quale è chiamato. Gesù vero Dio e vero uomo. Ci fa vedere il sì, la massima libertà e la massima prova della santità che è nell’incarnazione. Noi come possiamo dire questo sì? Noi non siamo Dio, siamo esseri umani, di cosa abbiamo bisogno per dire questo sì? Io vi invito a ricordare la parola di don Giussani. Lui ci dice: «Se io tornassi a nascere, se ciascuno di noi potesse nascere in questo momento, ci stupiremmo di vedere la meraviglia che accade nel mondo, la meraviglia che avviene in ciascuno di noi». E questa conoscenza ci aiuterà a dire il sì: «accada in me secondo la tua volontà». Siamo stati creati per amore e siamo chiamati ad amare e ad essere amati. In questo cammino per la vita incontreremo moltissime persone che ci fanno vedere il volto di Cristo e qui io vorrei terminare ringraziando prima di tutto la mia famiglia i cui volti, la cui meraviglia giorno per giorno mi accompagna. Vorrei ringraziare i miei amici italiani, spagnoli di tante parti del mondo. Loro sanno perfettamente chi sono. Vorrei ringraziare l’equipe di “Teen Star” internazionale e particolarmente quelli che mi accompagnano tutti i giorni: la mia equipe del Cile. Vorrei ringraziare tutti voi che realizzando questo Meeting ci fate vedere come possiamo fare delle cose meravigliose quando gli essere umani lavorano nella comunione e con la libertà dei figli di Dio. Grazie.
GIULIA GUIDI:
Grazie. Vorrei solo dire una cosa: mi sembra di poter dire con certezza che il titolo del Meeting di questo anno è vero, perché quello che ci avete raccontato parla di vocazione, di compito, di conoscenza vera di sé, di identità, di amicizia, di umanità, di stupore e inserisce il nostro desiderio di essere felice, di essere amati dentro un orizzonte che è molto più grande di quello in cui noi tante volte lo riduciamo. Posso dire che è vero che l’unica cosa che veramente interessa il cuore dell’uomo è che venga scatenato questo desiderio di felicità e questo desiderio di grandezza in una dimensione grande come ce l’avete raccontata voi. Questa è l’unica cosa che può cambiare la storia. L’ultima cosa che vi dico è che, come sapete, il Meeting è completamente gratuito e tutte le mostre, gli incontri e gli spazi sono offerti dall’aiuto di chi partecipa al Meeting e di chi lavora come volontario. È possibile anche quest’anno contribuire alla costruzione del Meeting attraverso delle donazioni che potete offrire lungo tutta la Fiera dove troverete le postazioni “Dona ora”, che sono caratterizzate da un cuore rosso. Tanto o poco, se volete contribuire ci fate un regalo. Vi ringrazio tutti per l’attenzione e ringraziamo di nuovo i nostri ospiti.
(trascrizione non rivista dai relatori)