Chi siamo
L’ULTIMA PAROLA NON È LA PAROLA FINE, MA LA PAROLA BENE: ESPERIENZA DELLA MALATTIA
L’ultima parola non è la parola fine, ma la parola bene: esperienza della malattia
Partecipano: Rodolfo Balzarotti, Direttore scientifico Fondazione William Congdon; Giorgio Cerati, Psichiatra, Componente Comitato Salute Mentale Regione Lombardia; Mario Melazzini, Assessore alle attività produttive, ricerca e innovazione di Regione Lombardia, Presidente di AriSLA, Presidente Fondazione Aurora Centro Clinico Nemo Sud di Messina, Direttore scientifico Centro Clinico Nemo di Milano; Silvia Spagnoli, Moglie di Ugo malato di SLA. Introduce Paola Marenco, Responsabile Centro Trapianti Midollo dell’Ospedale Niguarda e Vice Presidente Associazione Medicina e Persona.
PAOLA MARENCO:
Buongiorno a tutti. Come avete visto, abbiamo cinque persone sul palco, quindi incominciamo subito. La canzone che avete sentito era legata anche al libro di cui parleremo oggi. Il titolo che abbiamo dato a questo incontro è L’ultima parola non è la parola fine, ma la parola bene, perché queste sono le parole con cui l’autrice ha voluto terminare il libro Arco di luce, quindi le abbiamo messe come titolo dell’incontro. Ma ci sono alcune righe di una lettera di Leon Bloy, che mi accompagnano da anni nell’esperienza di vita con i malati e che voglio leggervi come sottotitolo, perché dicono il perché ho voluto questo incontro in un Meeting che pone come titolo la struggente domanda: di che natura sia la mancanza del cuore. Leon Bloy nel 1873 scriveva a un suo amico: “Le anime volgari pensano che la tenerezza del cuore, questo inestimabile tesoro della vita, sia come una moneta che si conia solo nei palazzi incantati con l’effigie splendente della magnificenza e della felicità. Di tutte le idee false, questa è la più balorda che io conosca. E’ vero precisamente il contrario. Si dovrebbe scrivere un libro geniale per dimostrare questa verità pur così comune, che bisogna aver sofferto per essere capaci di amare. L’amore è un atto della volontà, ma il dolore è sempre una rivelazione anteriore a questo atto stesso, perché l’uomo ha nel suo povero cuore degli angoli che non esistono ancora e dove il dolore entra per portarli all’esistenza”. Ebbene, vorrei dire che il libretto geniale è stato scritto umilmente, in forma di una fiaba per bambini e di una parabola per adulti, si chiama L’arco di luce. Se è vero che tutto quello che ci accade nella vita ci provoca, cioè ci chiama, ci interpella, ci sono delle cose che sono delle provocazioni così brucianti che pongono una domanda ineludibile. La storia di Giovanna è di questa natura ma penso che ognuno di voi, in questa sala, potrebbe raccontare la sua storia o quella di una persona a lui cara che lo ha provocato nello stesso modo. E anche nella mia esperienza di 40 anni di medico con i leucemici, posso testimoniare che la mancanza più grande, la sete del cuore, il bisogno più grande di fronte alla malattia o alla sofferenza in genere, è quello di un significato, di una speranza credibile per il proprio compimento, cioè per la propria felicità. A me spetta dirvi chi è Giovanna, ma premetto che non si può parlare di Giovanna, si può solo incontrarla, magari anche attraverso il libro che troverete in libreria al Meeting. E riconoscere quello che l’incontro con lei provoca in noi. Io ho conosciuto Giovanna negli anni ’90, quando attraverso il dramma che le era accaduto – l’uccisione del marito il 27 novembre del 1988 da un ladro sotto casa – aveva riconosciuto una chiamata vocazionale e ha iniziato a partecipare alla Fraternità san Giuseppe. Da subito, è stata un’amica speciale. Giovanna non lasciava niente di approssimativo, ti conduceva sempre, anche in quelli che sembrano solo dettagli, al cuore dell’istante, del reale, fino a cercarvi la sostanza eterna che lo abita, vera e chiara. Insomma, con lei si trattava sempre di arrivare all’esperienza di tutto, dove la realtà si fa trasparente, si tocca l’essere. Non ti consentiva di fermarti più in superficie, di non esporre te stessa. Una sera, a casa sua, ha preso in braccio il figlio più piccolo – perché alla morte del marito i suoi sei figli avevano da 1 a 17 anni – e ci ha letto lei stessa la favola che aveva scritto per spiegare al figlio perché suo padre non c’era. Il libro è stato editato nel ’94, una prima volta, dagli amici di Bresso e della mia ultima copia ho fatto spesso fotocopie per i miei malati, quando una mamma o un papà lasciavano dei figli piccoli, perché era utilissimo intravvedere il senso di una cosa così drammatica. Ma non era l’unica tappa dell’imprevedibile nella sua vita. Più di dieci anni dopo, nel 2009, un pomeriggio in cui ero di guardia, mi telefona parlandomi di un dolore alla sciatica, chiedendomi se me ne potevo fare carico. Il mio primo, fugace pensiero era stato: non faccio l’ortopedico, ne cerco uno bravo per lei. Ma la domanda non suonava proprio così. Per cui, le dico di venire appena finito il lavoro. Pochi minuti di visita per rendermi conto che non si trattava di sciatica e chiamare il neurologo che confermava il sospetto. Poi, ho potuto solo accompagnarla al taxi, essendo di guardia. Avevo il magone che cercavo di tenere per me. E insieme la domanda al Signore su che cosa ancora le stava chiedendo. Perché, trattandosi della Gio, era impossibile non guardare anche questa se non come un’altra drammatica misteriosa chiamata, ma dentro il rapporto con Uno che lei conosceva bene e a cui dava fiducia, cioè dentro quella famigliarità che in questo Meeting abbiamo cominciato a conoscere nella storia di Abramo e di un io. Poi, giorno per giorno, tutto è diventato più difficile ma anche più intenso e più grande. Oggi Giovanna è a casa, circondata dall’affetto operoso e profondo di figli e nipoti e da un intero mondo di amici che in vario modo di lei non possono fare a meno. Può muovere solo qualche piccolo muscolo dell’occhio e sorridere o piangere, per tutto il resto dipende dall’attenzione di chi le sta accanto che deve capire che ha bisogno di spostare un braccio, una gamba. Le resta però la più importante di tutte le facoltà dell’io: quella di dire di sì a chi la chiama. Da qualche anno, mi sono accorta che questa fiaba esprimeva delicatamente non solo il significato della morte del marito ma anche del sacrificio e del significato della malattia, nel senso di renderla sacra. Per questo, ho personalmente e fortemente voluto la riedizione del libro, ma che questa avvenisse col Centro NeMo, la Fondazione Serena. E Mario Melazzini sa quante volte per anno, anche a questo Meeting l’anno scorso, l’ho importunato. Perché mi sembrava un dono, una mano tesa a malati e famigliari nel loro cammino arduo, come lo è stato per i figli. Io lavoro da 40 anni con i leucemici e so bene che la domanda sempre presente – che sia cosciente o inconsapevole c’è sempre nella malattia, e che occorre condividere -, in fondo la domanda del Meeting, è quella di un significato di ciò che accade: perché proprio a me? La mancanza più grande è quella del significato per il nostro cuore. Perché non si intuisce, non si sperimenta almeno inizialmente che quello che capita è per la nostra maturazione non c’è una cura che possa bastare, non si è ancora arrivati alla cura. Perciò ringrazio Mario che ha permesso che il libro rinascesse e nel contesto del Centro NeMo e con la bella edizione curata da Guido Orsi e illustrata dalle tavole fatte da Marie Michelle Poncet in amicizia a Giovanna. E i nuovi brevi commenti che Giovanna ha fortemente voluto aggiungere alla prima fiaba, proprio in merito all’esperienza attuale, che sono stati proprio faticosi perché li ha dettati con gli occhi, lettera per lettera, tramite la tabella di plexiglas. Il libro è una spiegazione al figlio e a noi di noi stessi, in una parabola che giustamente Rodolfo ha chiamato l’offerta di una paternità al figlio, di una strada da percorrere come il cavaliere che abbiamo sentito. E credo che ognuno di noi, rispetto al significato della vita, è figlio e bisognoso di una strada. Per questo chiederei ora al prof. Rodolfo Balzarotti, che tra l’altro è un grande amico della Giovanna, che è la cosa principale in questo momento, ma è anche il Direttore Scientifico della Fondazione William Congdon, di introdurci a scoprire le tappe, almeno sommariamente, di questa fiaba e chiederei a voi di ascoltare queste in chiave personale, lasciandosi interrogare sulla propria vita da questo percorso che Giovanna propone al figlio e invita noi a fare.
RODOLFO BALZAROTTI:
Grazie, Paola. Naturalmente sono qui perché in questo incontro sono protagonisti anzitutto coloro che vivono la malattia, o perché loro stessi malati o perché implicati direttamente nell’assistenza, nella cura, nella compagnia. Io sono qui soprattutto come amico di Giovanna, cercando di darvi un’idea di quello che Giovanna ha voluto comunicare con questa favola. Se facciamo comparire le immagini, questo è il titolo del nostro incontro ed è l’ultima pagina che Giovanna ha voluto scrivere al termine del suo libro. Questa è la copertina del libro. Ricordava Paola che questo libro, dal punto di vista editoriale, è nato esattamente nel Meeting scorso. E’ un miracolo che oggi ne parliamo come di un libro che ormai ha già circolato ampiamente. E’ una favola per bambini e una parabola per adulti, come tutte le vere favole. Io lo faccio anche per testimoniare quello che la Giovanna ha fatto a me in questi anni della sua malattia. Innanzitutto, lo stupore che a due eventi tragici della sua vita lei abbia risposto con un gesto creativo, espressivo: prima fare la favola, poi rifarla in una forma più bella ancora quando si è ammalata. Due fatti che hanno segnato la sua vita tragicamente, si direbbe, secondo il mondo. Ma io credo che solo dall’abbondanza del cuore, e anche di un cuore ferito, cioè da una gratitudine, può nascere un gesto espressivo di questo genere. E poi l’altro fatto stupefacente che, come tanti altri andando a visitarla, stando qualche ora insieme a lei abbastanza regolarmente, e guardandola così terribilmente e ingiustamente inferma, verrebbe da dire, ho cominciato a sperimentare io uno strano tipo di salute. Non so dirlo altrimenti, quando tornando da casa sua è come se qualcosa mi avesse ricostituito, come se fossi guarito da una malattia. Ma che malattia? Papa Francesco nell’ultima enciclica dà una definizione bellissima. L’ho trovata proprio casualmente, dice: “Libero, guarito da quella ansietà malata che ci rende superficiali, aggressivi e consumisti sfrenati”. Cioè, da quel modo di vivere la mancanza che non ci lascia lo spazio mai di guardarla, questa mancanza, di capire che cos’è questa mancanza. Dunque, una favola, una classica favola, la storia di un principe che trova moglie, una principessa. Lutinai è il nome del principe, Gineron, il nome della sua sposa. Nelle iniziali dei nomi, chiaramente c’è un riferimento alle persone della famiglia. Lutinai richiama Lodovico, il marito tragicamente morto tanti anni fa e Gineron, Giovanna, evidentemente. Per entrare in questa favola, sono preziose anche le nuove tavole che Marie Michelle Poncet ha realizzato. Perché dico che è come se avesse lei scelto alcuni passaggi particolari, ci aiuta a punteggiare, ad andare dentro e accogliere la vibrazione del senso di questa favola; proprio la vibrazione musicale. Non sono illustrazioni in senso classico, nemmeno però sono meri giochi di forme e colori. Si intuisce anche un riferimento. Questo lo vediamo nella tavola due che adesso vi ho proiettato, che si riferisce all’incontro iniziale dei due protagonisti, Lutinai e Gineron: la prima dichiarazione, la prima conoscenza. L’immagine porta un sottotitolo che è riferito al testo. In questo caso, la didascalia dice: “Il mio nome è Gineron – disse la fanciulla – che significa fiore in inverno”. Infatti, vedete che in questa tavola c’è un gioco di forme piuttosto squadrate sulla sinistra, prevalentemente blu, rosso-bruno, che vagamente possono ricordare delle figure forti, maschili, squadrate. Incastonata come un gioiello nella parte destra, c’è questa sagoma femminile, dove i colori diventano invece di un rosa-giallo, come una finestra che si apre, una luce che si apre dentro questa composizione. Appunto, il fiore di inverno ci fa quasi percepire il suo profumo, questo fiore paradossale che Giovanna ha voluto indicare. Questa è la tavola quattro che si riferisce ai festeggiamenti per le nozze dei due principi. Ma la tavola su cui mi vorrei soffermare è la tavola numero sei. Si riferisce ad un episodio del tutto singolare, apparentemente secondario. Lutinai e Gineron hanno realizzato il loro sogno d’amore, sono sposi felici, il loro regno è felice. È nata anche la prima figlia, la prima di una lunga serie. I sei figli, come sei sono esattamente i figli di Giovanna, tutto è pace e serenità. Ma un giorno, in uno dei viaggi di perlustrazione nelle terre del suo regno, Lutinai scopre un luogo che non ha mai visto: “Scoprì un angolo del regno che gli era sconosciuto”. Siamo su una riva di un fiume, in un luogo deserto, di una strana pace, che lascia intravedere sull’altra sponda un mondo misterioso, inaccessibile. “In quel luogo regnava una strana pace che il principe non aveva mai avvertito altrove. Dovunque girasse lo sguardo, però, non vedeva né case né uomini. Avvicinatosi a riva, intravvedeva a stento l’altra sponda, offuscata da una leggera nebbiolina. Ma di tanto in tanto, per attimi brevissimi, al diradarsi della foschia Lutinai riusciva a distinguere i contorni di una terra sconosciuta che intuiva misteriosa e bellissima e che lo attraeva in modo irresistibile. Esterrefatto, si domandò come fosse possibile che oltre il fiume esistesse un posto così e soprattutto che non se ne fosse mai accorto prima. Si guardò in giro per cercare un ponte o un passaggio all’altra sponda. Niente, nemmeno una barca, e le acque erano decisamente troppo profonde per consentirne il guado. Come fare a raggiungerla? Non ebbe tempo per cercare risposta”. Mi pare molto profondo: quest’episodio è emblematico. Dicevo: Lutinai scopre una zona sconosciuta e inaccessibile del proprio regno. Come a dire: nella nostra terra, nella nostra casa, in noi stessi c’è qualcosa che non ci appartiene, o meglio è qualcosa a cui noi apparteniamo. Noi non siamo padroni in casa nostra. In questo modo la migliore delle fortune non arriva a compiere e a chiudere la nostra vita. È interessante che proprio nel momento di felicità ci sia questa specie di finestra sul mistero. In effetti, è come se in questo episodio apparentemente secondario ci fosse la matrice e la chiave di tutti i successivi sviluppi della storia, del destino imprevisto e drammatico, doloroso ma anche glorioso di Lutinai e Gineron. Sarà infatti proprio sulla riva di quel fiume che si compirà la missione, la vocazione del protagonista. Si scoprirà che cosa è l’arco di luce. Questa immagine è la numero otto, notate la differenza sul piano cromatico rispetto alle precedenti. la presenza di colori più neutri e spenti. Le forme sottili e spigolose, come schegge di pietre incastrate tra di loro, che eppure evocano delle sagome umane. Gineron si è ammalata di una misteriosa malattia, una sorta di spegnimento della vita. “Il cuore di Gineron era diventato come di ghiaccio. Niente riusciva a rompere il guscio freddo e gelido che sembrava attanagliarlo”. Mi viene la pelle d’oca a pensare che Giovanna abbia, in questa fiaba, quasi annunciato profeticamente la sua malattia. L’altra cosa che mi colpisce è che lei immagina che questa sua malattia abbia spento non solo la vita in lei, ma tutta quella nel suo regno. Tutto il regno deperisce, tutti sono tristi. Nessuno più parla con l’altro, c’è un generale spegnimento del cuore del Paese. La malattia è una dimensione cosmica. Allora qui mi permetto una sorta di vagazione. Ma vedete che non lo è, perché è curioso come Giovanna, non so se consapevolmente, ma non credo (e quindi ancora più interessante), ha qui scovato un grande tema della favolistica, della narrativa occidentale che ereditiamo dal Medioevo, una specie di archetipo, come dicono gli studiosi. È la figura del re pescatore, che è entrata nel giro di Parsifal. Voglio qui citarla nel commento che ha fatto Mircea Eliade, grande studioso delle religioni. Dice: “Si tratta di un particolare della leggenda di Parsifal e del Re Pescatore. Si ricorda che il vecchio re, detentore del segreto del Graal, era paralizzato da una malattia misteriosa. Non era del resto il solo a soffrire: intorno a lui tutto cadeva in rovina, andava in disfacimento, il palazzo, le torri, i giardini; gli animali non si moltiplicavano più, gli alberi non davano più frutti, le sorgenti si prosciugavano. Numerosi medici avevano cercato di curare il Re Pescatore senza il minimo risultato. Giorno e notte arrivavano cavalieri e cominciavano col domandare notizie circa la salute del Re. Un unico cavaliere – povero, sconosciuto e perfino un po’ ridicolo – si permise di ignorare il cerimoniale e le buone maniere. Il suo nome era Parsifal. Senza tenere conto del cerimoniale di corte si diresse direttamente verso il Re e senza alcun preambolo gli chiese: «Dov’è il Graal?». In quell’istante tutto si trasforma: il re si alza dal suo letto di sofferenza, l’acqua riprende a scorrere nei fiumi e nelle fontane, la vegetazione rinasce, il castello è miracolosamente restaurato. Le poche parole pronunciate da Parsifal erano bastate per rigenerare la natura tutta. Quelle poche parole, tuttavia, costituivano la questione centrale: dove si trovava il reale per eccellenza, il sacro, il centro della vita e la fonte dell’immortalità? Dove si trovava il Sacro Graal?”. Questo piccolo dettaglio di un grandioso mito europeo ci rivela almeno un lato trascurato del simbolismo del centro: non solo esiste un’intima solidarietà tra la vita universale e la salvezza dell’uomo ma basta porsi il problema della salvezza, basta porsi il problema centrale, ovvero il problema, perché la vista cosmica si rigeneri in perpetuo. Che spesso la morte – come questo frammento mitico sembra indicare – non è che il risultato della nostra indifferenza di fronte all’immortalità. Perché allora porsi solamente la domanda fondamentale fa rinascere la vita e la natura? È come dicevo all’inizio: c’è un modo di vivere la nostra mancanza, la mancanza costitutiva di cui siamo fatti, che vorrebbe negarla e cancellarla, questa è la malattia mortale. Nell’incontro dei filosofi che si è svolto nei giorni scorsi è emersa una conclusione molto interessante: paradossalmente la nostra mancanza è spesso ingombrata da un troppo. Non possiamo parlare della mancanza senza parlare del troppo, di cui dobbiamo spogliarci o meglio – questo sarebbe moralistico – accettare di essere spogliati per guardare finalmente la nostra vera ricchezza, che è questa nostra mancanza di quel qualcosa, di quella presenza che dietro questa mancanza si nasconde e rivela il troppo della nostra pretesa e del nostro attaccamento malato a noi stessi e alle cose. Chiudo con un’ultimissima, breve citazione: ha un significato perché mi venne in mente di scriverla su un biglietto che scrivemmo una volta, tanti anni fa a Giovanna, non era ancora malata, mandando insieme un regalo per il suo compleanno. Allora, questa frase che traggo da quel libro aureo che è Il cristianesimo com’è di Clive Staples Lewis, grande scrittore cristiano e grande affabulatore, che scrive in questo testo, è una citazione molto breve. “Immaginate di essere una casa, una casa vivente, cioè io sono una casa vivente e viene Dio a ricostruirla. Dapprima, forse, capite quel che sta facendo. Aggiusta le tubature, ripara le crepe nel tetto e così via: sono lavori che andavano fatti, lo sapevate, e non siete sorpresi. Ma ecco che Egli comincia a mettere la casa sottosopra, a sconquassarla in modo orripilante e apparente inconsulto. Dove vuole andare a parare? La spiegazione è che Egli sta costruendo una casa tutta diversa da quella che avevate in mente voi, creando qui un’ala nuova, là aggiungendo un piano, innalzando torri, aprendo cortili. Pensavate di diventare una casa a modo, ma Lui sta costruendo un palazzo, intende venirci ad abitare, a vivere Lui stesso”. Grazie.
PAOLA MARENCO:
Grazie, Rodolfo, ci hai proprio aiutato a riportare la fiaba nel cuore delle risposte alla domanda del Meeting. penso che tutti abbiano voglia di rileggersi il libro, se l’hanno già letto. Ma come abbiamo imparato sempre a questo Meeting, per vedere che questa promessa è vera bisogna vederne i frutti, bisogna verificarla. Ancora Bloy ci dà una chiave di lettura: “un cuore senza dolore è come un mondo senza rivelazione, vede Dio solo al tenue chiarore del crepuscolo”. Per verificare questo nella mia esperienza con Giovanna, dico solo due cose: la prima è che quella sedia e quel letto sono sempre il cuore del mondo. Anni fa è stato il primo posto dove sono stata invitata a pregare per la Siria, venendo via dalla Giovanna. E la seconda, di cui già accennava Rodolfo, è che comunque si arrivi dalla Giovanna, con qualunque pensiero, problema, quando esci, non sai perché, ma devi riconoscere che ci stavi bene. Per qualcosa che lì accade, che lì c’è: questa presenza misteriosa, forse, che lì abita la casa. Che il mondo irride, ma che rapire non può, che fa battere il cuore di ciascuno di noi quando incontra una cosa vera fino in fondo, non facile, certo, ma profondamente corrispondente alle esigenze di ognuno, alla mancanza di ognuno. Sta poi a ciascuno scegliere se stare al livello a cui ci invita, in ogni istante, intenso, o fuggire nell’usuale distrazione, ogni volta hai davanti un io non sperperato, a differenza della nostra vita frettolosa. Così la Gio continua ad incrociare la mia vita, tanto che siamo qui oggi, come se fosse lei fedele alla vita nostra, più amica di tanti amici, proprio per il suo sì quotidiano. E ricordarla nelle giornate vorticose, come dicevi anche adesso, è il grande aiuto a vivere e a non sperperare l’istante presente come sempre scivoliamo a fare. Però, questa verifica, abbiamo chiesto a Silvia Spagnoli in Rossi di raccontarcela. Lei è moglie di Ugo, che è qui con noi e che è ammalato di Sla. Dicci, Silvia, come puoi verificare i frutti di questa chiamata.
SILVIA SPAGNOLI:
Buongiorno a tutti, scusate la voce ma sono ammalata. Allora vi racconto un pochino quella che è l’esperienza vissuta insieme con Ugo, perché secondo me i fatti, più di qualsiasi altra cosa, possono raccontare e dare una risposta a quello che diceva adesso Paola. Io prima di tutto sono moglie di Ugo. Noi ci siamo conosciuti nel 2003 e ci siamo spostati nel 2005, eravamo già belli maturi e non abbiamo avuto bisogno di star lì a pensarla troppo a lungo. Anzi, Ugo, solo dopo 12 giorni mi ha chiesto di sposarlo, per cui è un uomo che è stato sempre molto deciso. Io, ripensando a noi, non posso non ripensare a tutte le grazie che hanno costellato la nostra vita, la mia nello specifico. Posso parlare per tutti e due, ma vi racconto nello specifico la mia dopo che ci siamo conosciuti. Ieri stavo pensando proprio a questa cosa: che cosa vuol dire Grazia. Perché non è un qualcosa di astratto ma è un fatto che accade nella vita di ciascuno e che la trasforma per sempre. Questa è la Grazia. E quindi ci sono stati dei fatti, delle persone, degli accadimenti nella nostra vita, che mano a mano l’hanno trasformata in un cammino che è quello di tutti. La prima che ricordo sovente riguarda il periodo in cui eravamo ancora fidanzati. In una notte, Ugo viaggiava per lavoro in Cina, al termine di una delle nostre telefonate intercontinentali, appunto per me nel cuore della notte, per lui all’alba, cercavamo di incrociare questi orari assurdi, al termine della chiamata ho avuto proprio la coscienza che Dio aveva creato Ugo per me, addirittura annullando quello che può essere il raziocinio normale del tempo e dello spazio. Ho detto: ieri l’ha creato per me, così l’ha fatto. Perché di tutto quello che c’era nel rapporto con lui mi veniva chiesta tutta la mia verità, che era faticosissima. Infatti, dico sempre che tirava fuori il peggio di me, era sempre uno scarto continuo tra ciò che pensavo io di me stessa e ciò che lui voleva sapere di me. Lui mi dice: “Io voglio sapere chi tu sei, non chi vuoi sembrare di essere, ma chi tu sei”. Quindi, è stato un lavoro fin da subito con lui che però è stata una cosa meravigliosa, che si è sviluppata nel tempo e che mi ha portato a questa altra grazia che è stato il giorno del matrimonio, perché siamo arrivati entrambi con una coscienza di certezza del passo che stavamo facendo perché entrambi eravamo stati destinati da un altro a farci compagnia in questo percorso terreno. E quindi, il dire di sì a Ugo con la formula che tutti conoscono e che molti di voi che si sono sposati hanno recitato quel giorno, “esserti fedele sempre nella salute e nella malattia”, vi assicuro che ero cosciente fino in fondo di quello che stavo dicendo. Appunto, in un modo misteriosamente profetico uno si trova a dire certe cose che in fondo uno desidera per sé, ma che poi quando accadono dice: “Va beh, ti avevo già detto di sì, quindi stiamo a questo gioco”, che non proprio il disegno di Dio. Quindi è stato profetico, perché un anno dopo, vi faccio vedere alcune fotografie per aiutarvi a seguire un po’ la nostra vicenda, un anno e mezzo dopo il nostro matrimonio, è nato Riccardo, che è stata un’altra grazia enorme. Perché i figli sono delle grazie stupefacenti. Bisognerebbe aprire qui veramente una parentesi enorme, ma non ne abbiamo il tempo. Dopo un anno che è nato Riccardo, nel febbraio del 2009, Ugo ha cominciato ad avere qualche problema di salute, semplicissimo, di instabilità, affaticamento, che abbiamo legato inizialmente a tutta una serie di altre situazioni che stavamo vivendo in quel momento. E poi invece a giugno di quello stesso anno, del 2008, abbiamo avuto la diagnosi certa che quei sintomi erano legati a quella malattia degenerativa veramente pesantemente invalidante che si chiama Sclerosi Laterale Amiotrofica, che ha portato Ugo in brevissimo tempo a una situazione di immobilità, tant’è che la nascita della Letizia, a settembre di quel 2009 è… Mi ricordo questo fatto che è di per sé un po’ assurdo. Siamo usciti dall’ospedale a tre giorni dal parto, come normalmente accade: Ugo teneva in braccio Letizia e io spingevo la sua carrozzina, perché il parcheggio era troppo distante dal reparto e non ce la faceva. Quindi, sembrava il primo uomo ad aver partorito, perché non si è mai visto uno che esce dalla maternità spinto dalla mamma. Però, cosa è successo? Che dopo la nascita di Letizia, all’inizio di settembre, già il primo di novembre Ugo è stato ricoverato per la prima insufficienza respiratoria, per un mese al Centro NeMo, appunto, che abbiamo vicino a casa. E’ uscito da questo primo mese di ricovero, e anche lì raccontarlo è impressionante, perché io mi alternavo tra mia madre, che dovrebbe essere presente e se lo ricorda benissimo: ospedale la mattina, poppate della Letizia, asilo nido di Riccardo, ospedale per dare da mangiare a Ugo, ritornare a casa per la poppata della Letizia, andavo a prendere Riccardo, ritornavo a casa, un’altra poppata. Cioè, una cosa da andare fuori di testa letteralmente. E’ tornato a casa, Ugo, fisso nella sedia a rotelle, un ventilatore al naso perché non aveva più la capacità vitale sufficiente, il badante. Altra novità, perché le malattie spesso si portano dietro questa necessità di dover rinunciare a quella che si pensa essere la propria vita, perché si comincia a condividerla anche con estranei, inevitabilmente, perché io non avrei assolutamente potuto vivere una esistenza non dico normale, ma per sopravvivere avevo bisogno di un aiuto. Quindi, c’è stata questa grande novità. Però, questo, cosa ha portato? A rendersi conto che la vita può diventare veramente vera quando si smette di pensarla propria, che è un assurdo però è così, perché abbiamo aperto di fatto casa nostra a tutta una serie di aiuti che sono arrivati misteriosamente, ma con infinita gratitudine. Molti continuano ancora oggi, a distanza di sei anni, con una fedeltà veramente commovente, per quel che mi riguarda, perché non è spiegabile questa cosa, avere tantissimi amici che ci hanno aiutato nei modi più disparati. Da chi veniva ad aiutarmi la sera per aiutare Ugo a mangiare, perché dopo il ricovero del febbraio 2010, quindi di lì a poco, ha smesso di muovere praticamente anche le braccia, nel giro di 8 mesi era immobile. E quindi, svezzavo Riccardo, allattavo Letizia e dovevo dar da mangiare ad Ugo spesso saltavo la cena perché non avevo il tempo tecnico di mangiare. Allora gli amici sono venuti in supporto e hanno organizzato questa forma di catering spinto, per cui venivano lì in un minimo di due e un massimo di cinque a preparare, portavano la cena pronta, preparavano la tavola, sparecchiavano, mi aiutavano per metterli a letto, mi aiutavano con Ugo. Per cui, casa nostra ha smesso di essere nostra, appena comprata. Per cui dici: veramente c’è uno scarto grande. Però, appunto, con tutto l’esercizio che avevo fatto con Ugo inizialmente su quello che valeva veramente la pena, in qualche modo è stato semplice. Che cosa è successo? Che però il settembre del 2012 è stato un periodo che ricordo particolarmente bene perché mi sono ritrovata comunque in un altro di quei periodi in cui sembrava che la realtà mi sopraffacesse, perché non riuscivo più a gestire niente. Avevo tantissime cose su cui mettere la testa e non riuscivo a cavare un ragno dal buco: stavo andando veramente fuori, mi sono resa conto. Cosa è successo? Ho fatto una telefonata a un carissimo amico e gli ho chiesto: mi devi spiegare perché Gesù non mi basta. Lui ci dice: io sarò con voi fino alla fine del mondo. E io oggi allora non ho più fede, perché non riesco a stare di fronte a questa quotidianità che comunque è qualcosa che un altro ha scelto per me ed è una certezza che un altro mi vuole bene, non può chiedermi una cosa che è contro di me. Allora vuole dire che ho perso la fede. E allora è stato impressionante. perché, come diceva prima anche Rodolfo, il mettere a tema la domanda su di sé, sulla propria mancanza, come nel brano che hai letto, immediatamente fa rifiorire la vita. Non è cambiato niente nella mia esistenza. E’ rimasto tutto, anzi, molto più faticoso. Però chiarire a me stessa il significato che aveva tutto quello che ci veniva chiesto ha cambiato tutto, perché oggi posso dire che vivere affidati è la cosa più grande che ci possa essere, che sprigiona la libertà in una maniera impressionante. C’è qualcuno dei miei amici che mi chiama wonder woman: ma il fatto di essere ammalata oggi fa vedere che non è così, sono umanissima come tutti, ma sapere che tutto è nelle mani di un Altro, che compie il Suo disegno in un modo che è misteriosissimo… Il mio tema è che sono affari suoi quello che vorrà fare, come lo vorrà fare, perché ha deciso di farlo così, insomma, ma i frutti che abbiamo visto in questi anni li vediamo quotidianamente. Perché vi assicuro che è miracoloso che noi possiamo essere qua oggi, perché non era assolutamente scontato. Quando Paola mi ha chiesto di poter venire qui, io le ho detto sì, pensando a Dio piacendo, perché non ne ho proprio idea se saremo ancora qui. Perché veramente è stato anche faticoso. Vi do solo la chicca della giornata: stamattina la sveglia alle sette, per poter essere qui alle 10:45 in ritardo. Per cui funziona così, solo a raccontare la nostra quotidianità ci vorrebbero tre ore. Quindi, le cose che si sono sviluppate da tutta la meraviglia che abbiamo visto in questi anni: dal nostro amico che ha deciso di entrare nel gruppo adulto e viene da Ugo e dice: “Guarda, la tua amicizia per me è stata fondamentale in questa scelta”, agli amici che sono fidanzati. Viene lì il primo giorno e dice: “Sai, ho chiesto alla mia morosa di sposarmi perché ho capito, guardando voi, che il sì per sempre è possibile”. Sono cose che ti fanno tremare i polsi. E’ veramente un altro che sta operando attraverso di noi e l’unica cosa che possiamo fare è metterci a sua disposizione, mi viene da dire. Rimanere affidati a Lui. E proprio per questo motivo qua abbiamo festeggiato i nostri dieci anni di matrimonio. E io ho intensamente voluto festeggiarli. Vediamo, ah, queste sono scene di vita familiare. Abbiamo due bambini, che però vivono in rapporto col papà nel modo più naturale possibile. In questa foto giocava dandogli il ciuccio. La Letizia giocava con il ventilatore perché sentiva l’aria che usciva. E questa invece è verso la fine di maggio, quando abbiamo festeggiato il nostro decimo anniversario di matrimonio. E perché abbiamo voluto ridire di sì a quel destino buono che ci ha voluto insieme. Grazie ad uno strumento quasi futuristico che legge le onde cerebrali di Ugo e gli permette di interfacciarsi con un software, gli permette di dire sì, abbiamo potuto rinnovare le nostre promesse. Fattivamente io ho risposato Ugo. Perché gli voglio un bene infinito. Molto più bene oggi, ma molto più bene oggi di quando l’ho sposato. Ma voglio bene a lui, non a lui ammalato. È il suo io che mi interessa, come sono certa che è il mio io, mio personale, a cui lui vuole bene, con il quale lui ha una pazienza infinita perché, vi assicuro, gli errori che si fanno con le persone in una condizione così critica come quella di Ugo sono infiniti ogni giorno. Quindi, è stato bello per me quando gli ho chiesto: ti va di rifesteggiare il matrimonio? E ti va di ridire le promesse? E lui mi ha detto sì. E allora, dico: cavoli, allora mi vuoi ancora bene, è una roba bellissima. E questa cosa qui ha portato a una festa che non abbiamo organizzato noi ma i nostri amici. La foto adesso è un po’ sfuocata ma eravamo in 180, quasi più del matrimonio che abbiamo fatto dieci anni fa. Allora, per concludere, c’è che il bene che io voglio a Ugo e che si è rimanifestato con questa promessa, nuovamente, è una cosa che io sinceramente desidero per ciascuno di voi. Che ciascuno di voi possa sperimentarlo nella propria vita. Senza la necessità di dover passare attraverso una croce pesante come quella che stiamo portando noi.
Perché non siamo bravi, non siamo particolari, ma stiamo semplicemente rispondendo alla chiamata che è stata fatta a noi. Quindi, come dire, vi rilancio questa cosa sulla vostra vita, perché ognuno di voi, ridicendo sì a ciò a cui è chiamato quotidianamente, può percorrere il proprio cammino di santità. Ed è per questo che io chiedo di pregare per noi, affinché la grazia non ci abbandoni mai, perché è l’unica cosa che può accompagnare in questo cammino, oltre a chiedervi, siete tanti, per cui magari questa volta Dio lo ascolta, la guarigione di Ugo, perché la gloria di Dio si possa manifestare agli occhi di tutto il mondo, proprio per questo. Basta.
PAOLA MARENCO:
Grazie. Mi sembra che questo applauso esprima bene, è difficile parlare dopo una testimonianza come quella di Ugo e Silvia, ma vi chiedo di fare ancora un passaggio, perché abbiamo voluto questo incontro, al Meeting, come associazione Medicina e Persona, e uno potrebbe chiedersi perché. Ma perché Medicina e Persona cerca di custodire, in un tempo di evidenze scadute, il legame che deve rimanere fra la medicina e la persona, di cui abbiamo avuto una bella testimonianza. E perché pensiamo proprio che in questo mondo da soli è difficile, quindi bisogna sostenersi e aiutarsi a giudicare le cose, a costruire le cose, tenendo conto che senza un nesso così chiaro fino alla domanda di significato e alla domanda di che mancanza, non c’è cura adeguata, non c’è cura che basti. E invece di costruire luoghi della cura si costruiscono luoghi delle prestazioni che all’uomo non bastano. Per questo abbiamo chiesto a Giorgio Cerati, psichiatra, di parlarci del rapporto di cura.
GIORGIO CERATI:
Grazie, Paola. Dopo la narrazione di una testimonianza, è difficile passare alla riflessione ma ci proviamo, una riflessione che ho cercato di organizzare attorno ad alcune parole chiave che per me rappresentano un po’ il condensato di esperienze che abbiamo condiviso e del lavoro che abbiamo sviluppato in questi anni. Un paio di questioni, anzitutto, per introdurci. L’esperienza della malattia ha a che fare con la conoscenza? Cioè, la malattia comporta un’esperienza conoscitiva, oltre che emotiva e di sofferenza fisica, che è rintracciabile nel suo accadere nel presente? Inoltre, esiste un problema di senso nell’esperienza di malattia che coinvolga sia il paziente sia chi l’assiste? Abbiamo detto esperienza, come possiamo intendere questa parola? A ben vedere, ciò che qualifica un’esperienza, più che l’accumulo di informazioni o di sensazioni è essenzialmente un incontro, cioè qualcosa di nuovo, di altro, di inatteso che avvia l’esperienza stessa. Qui in particolare lo abbiamo visto, l’incontro con un disturbo, con la sofferenza. Quindi, esperire la malattia, possiamo dire, è il frutto umano vissuto nell’io con tutto il suo carico emotivo dell’incontro e della relazione della persona con la malattia, con le circostanze, con i rapporti, con i bisogni e con i limiti connessi a questa condizione. D’altra parte, l’esperienza del limite caratterizza proprio la condizione umana in quanto tale. Limite, appunto, cioè mancanza. Quanto è reale questo titolo del Meeting, no? Mancanza, cioè il bisogno che l’uomo sente, al punto che potrei dire di me non solo che ho bisogno ma forse più propriamente che sono un bisogno. E questo si riflette in modo anche molto significativo nel linguaggio, che infatti usa dire molto semplicemente: sono depresso, sono ansioso piuttosto che ho la depressione o la nevrosi. Ma anche uscendo dalla psichiatria, allo stesso modo per chi è affetto da diabete, dall’ipertensione o da un tumore, si parla preferibilmente di un paziente diabetico, di un paziente iperteso, di un paziente oncologico. A tal punto il rapporto persona e malattia si fa stringente. Allora, pur affermando l’indiscutibile, efficace potere della medicina con tutti i suoi progressi e strumenti diagnostico-terapeutici, il primo protagonista dell’azione sanitaria è il soggetto. Ma in pratica, che posto occupano il soggetto e la relazione tra soggetti nella cura? Quanto questo è un aspetto sottovalutato nel lavoro clinico? Quanto occorre invece tenere conto dell’esperienza del soggetto, ascoltarla, saperla leggere nella specificità dei bisogni che presenta, per poter svolgere un percorso di cura buono, un percorso di cura capace di fare emergere le potenzialità e le risorse dei pazienti, di utilizzarle e di integrarle con quelle degli operatori, della famiglia, del contesto, in una parola della rete sociale? Noi parliamo nel nostro lavoro di un’alleanza terapeutica, un’alleanza che valorizzi i protagonisti, le persone ma con i loro legami, non isolate, anzitutto con le famiglie, sempre direttamente coinvolte, attive, in grado di proporsi in modo originale. Abbiamo visto, anche proprio da questa testimonianza diretta, a volte anche capaci di organizzarsi in modo autonomo: penso a tante associazioni di famigliari che sostengono e che propongono delle iniziative. Penso all’associazione nel nostro campo, ma mi sembra che anche nel campo delle malattie degenerative questo sostegno anche organizzato sia molto importante. Un soggetto che fa pensare anche alla parolina umanizzazione. Ecco, troppo si parla di umanizzare le strutture sanitarie, ma bastano forse delle camere più confortevoli? O non occorre invece un umanesimo della cura, parola presa in prestito anche dai nostri Vescovi che ne parleranno pure al convegno di Firenze? Cioè, umanesimo della cura che per me significa partire dal recupero dell’umanità delle esperienze di malattia, dalla domanda di significato che le persone si pongono, dal “che senso ha quello che mi sta accadendo?”, “che senso ha quello che ci sta accadendo?”, senza censurarle. D’altra parte, come si potrebbe curare senza apertura all’altro, senza apertura all’essere dell’altro, alla sua domanda di senso? Ecco, per questo un’altra parola che si usa molto è personalizzazione della cura. A mio giudizio, inizia da qui, è oggi, non è la frontiera della ricerca di un domani anche se l’epigenetica ci prospetta delle meraviglie da questo punto di vista, alcune già reali. Comunque, l’esperienza di malattia opera un cambiamento in chi la vive. È veramente un incontro che genera una nuova conoscenza. Passa da qui la ricerca del bene da cui prende il titolo questa tavola rotonda. Per il paziente e per l’operatore. Un noto ematologo americano scrisse il libro Anatomia della speranza in cui ha studiato gli esiti nei suoi pazienti tra la speranza e la cura. Un lavoro che apre e ha aperto un’immensa finestra sul ruolo dei fattori umani che molti chiamano fattori extra-clinici. Secondo me, in modo un po’ improprio, perché in realtà fanno profondamente parte del lavoro clinico, come vedremo. Sul ruolo dei fattori umani in medicina, è un’esplorazione che continua e che la riscatta da visioni eccessivamente ristrette e meccanicistiche. Una esplorazione che è svolta da parte di vari autori, studiosi, professionisti cui Medicina e Persona, credo, dà il suo contributo non indifferente, proprio nella riscoperta dei fattori umani e umanistici nella professione sanitaria. Dall’altra parte, quanti nostri colleghi laici o sedicenti non credenti si richiamano a quella che Benedetto XVI chiamò la speranza fidabile! Quanto si richiamano a questa speranza nell’affrontare i problemi, dolori, sofferenze che si possono lenire ma non evitare e certamente che si debbono curare. Qui si apre un fronte, terapia, cura, assistenza, riabilitazione sino alle prospettive o al desiderio della guarigione. Sono temi cruciali, non c’è tempo per parlarne ma certamente sottendono un interrogativo su quest’altra parola chiave, la parola cambiamento. Allora, chiediamoci: non è forse riduttivo, quando domandiamo la guarigione, esigere di voler tornare come prima? È una domanda certamente legittima, del tutto legittima, ma forse solo apparentemente ovvia, perché in realtà uno domanda una cosa a volte impossibile, specialmente nelle sempre più frequenti malattie ad evoluzione cronica, perché questo obiettivo rischia di prescindere dalla realtà. Del resto, il tempo e la realtà sono due concetti fondamentali in queste condizioni di grave e prolungata sofferenza. Come abbiamo visto, la testimonianza di Silvia è qui a dircelo, se da un lato incombe il peso di sintomi gravosi, dall’altro, proprio in questa condizione si può creare uno spazio all’accadere di una scoperta nuova. Quella di poterci guardare diversamente e di poterci comprendere più profondamente. Spalancando anche orizzonti, desideri imprevisti e imprevedibili. Ne scaturisce allora una positività che aiuta la vita del paziente aldilà delle aspettative. Un cambiamento, quindi, un bene di cui la famiglia è – come abbiamo visto – pienamente partecipe. Arriviamo all’ultima parola. Una positività che però non può non coinvolgere il rapporto con il medico e l’equipe curante. Quindi, l’incontro non è solo con la malattia ma è l’incontro con l’altro. La malattia rappresenta un’occasione in cui avviene un incontro tra la persona malata e il personale medico e di assistenza, cioè, l’esperienza di un percorso di conoscenza condivisa. Pensate a quanto è vero che l’io nasce continuamente da un incontro! Sembra che parliamo di fragilità ma questo è realmente un pensiero forte. Due brevi citazioni: “L’altro nasce dentro di noi continuamente e la relazione, attraverso i gesti e le parole con il paziente, all’interno dell’equipe mantiene viva l’idea che ciascuno ha dentro di sé un fine: la propria realizzazione. Nelle situazioni limite, solo l’amicizia aiuta ad esistere, cioè quando l’altro esiste in noi più di noi stessi”. La citazione riflette l’esperienza di un grande psicoanalista che ha partecipato ai nostri momenti di lavoro e ce ne richiama un’altra di un altro grande medico. “La carità è che tu ti commuovi nel rapporto con l’altro quando dai quel minuto in più, quando dai qualcosa che non è richiesto. La cura, l’assistenza è ospitalità dell’altro dentro di sé. Il malato ha bisogno che ci sia un movimento insieme a lui”. La commozione è questo movimento insieme a lui. Ecco, non si tratta di carità ma di elemosina, di un dono: anche gli autori laici sono molto attenti a questo aspetto, di un dono non anonimo, che ognuno di noi porta, il dono non anonimo del nostro tempo. Capace, quindi, come dono, di imparare dal rapporto gratuito con l’altro. Un mio grande maestro diceva che il paziente è nostro insegnante e ci invitava ad attivare in questo rapporto gratuito una reciprocità. Il dono la presuppone, poter aver in cambio la fiducia che è la base della cura. L’esperienza di un cambiamento, di un bene anche per chi opera in sanità, quindi. Quanto abbiamo bisogno noi stessi di mantenere la motivazione del nostro lavoro, di non diventare cinici e a nostra volta cronici, di una formazione continua che alimenti la nostra umanità insieme al sapere medico! Gli operatori sanitari – mi avvio alla conclusione – sono infatti interpellati proprio a questo livello, quello del rapporto terapeutico. La relazione di cura non va intesa come elemento accessorio indifferente ma come atto di conoscenza sempre nuova nel quale l’altro si senta realmente accolto nella specificità del personale, sostenuto nella domanda di cura. Quindi, l’incontro medico-paziente, un’esperienza di grande valore che non può che migliorare la clinica, necessita di un lavoro che la rivaluti come fondamento di un atto di cura efficace e insieme di una crescita professionale autentica. Per questo realismo, non certo per spiritualismo, lavoriamo sui fattori umani non scissi dall’attività clinica. Anzi, che ne integrano, questi fattori umani, lo spessore. Abbiamo parlato di speranza, di condivisione, parliamo di compassione, parliamo di soggetto e di relazione di cura sino alla possibilità straordinaria eppure necessaria del perdono. È un problema che hanno trattato i nostri psicologi in due seminari che hanno proposto quest’anno. Pensate quanto è appropriato questo termine per le volte che noi o i pazienti viviamo la malattia e il dolore come un’ingiustizia: perché proprio a me? O come una punizione che ci è capitata. Perdono, e quindi possibilità di libertà dalla malattia e nella malattia. Vi ringrazio dell’attenzione.
PAOLA MARENCO:
Grazie, Giorgio perché credo che sia chiaro a tutti che quello che tu hai detto per l’operatore sanitario valga per la moglie, il marito e per chiunque di noi vada a trovare uno che ha bisogno, o l’altro, insomma. Per chi assiste. Chiediamo adesso una parola anche a Mario Melazzini, che non ha bisogno di presentazioni perché ha un elenco di presidenze nel campo dei Centri NeMo e di tutto, oltre che dell’Assessorato, ma soprattutto perché dal suo sono nati dei Centri dove prima di tutto i malati sono guardati: e questo è il primo bisogno, tanto più in malattie come queste. Intanto, lo ringraziamo per il libro e per essere qui.
MARIO MELAZZINI:
L’ultima parola non è la parola fine, ma bene. Ed è una questione di sguardi, e di ciò che realmente vuoi vedere o non vuoi vedere. L’esperienza della malattia, che cosa mi ha portato? Ma più significativo per me è il tema del Mdi quest’anno: Di che è mancanza questa mancanza, cuore, che a un tratto ne sei pieno? Perché il cuore diventi «cosciente della sua mancanza», fondamentale, precisa la spiegazione dell’Abate Lepori, «ci vuole una ferita definita e definitiva». Nel mio caso, la malattia: inizialmente lo sguardo sul passato, su ciò che non avrei più potuto fare, ma inaspettatamente un libro di don Giussani, Il senso religioso, in regalo da parte di un amico insieme alla Bibbia, alla storia di Giobbe, mi hanno aiutato nel mio percorso di crescita e di consapevolezza del limite e mi hanno permesso di iniziare la mia nuova esperienza di vita con la malattia: in particolare, ho fatto mie le domande di Giussani circa l’esistenza: «Per che cosa vale la pena vivere? Qual è il significato della realtà? Che senso ha l’esistenza?». «Il senso religioso è al livello di queste inevitabili domande, al livello in cui noi tutti attendiamo una risposta esauriente a queste domande. e qualunque sia la nostra posizione filosofica, politica, teoretica, tali domande sono espressione di tutti». «Tutta la vita, tutte le circostanze affermano l’esistenza di un quid, di un qualcosa che sia ultimamente il senso per cui si vive. Il senso religioso è, per sua natura, un fattore ineliminabile» scrive Giussani, «coincide con quel senso originale, totale di dipendenza che è l’evidenza più grande e suggestiva per l’uomo di tutti tempi». Quel qualcosa da cui tutto dipende «si chiama, nella tradizione religiosa, esplicitamente Dio». La realtà vissuta come mistero: realtà vuol dire tutto quello che c’è, tutto quello che accade, le sollecitazioni che riceviamo, le circostanze attraverso le quali passiamo, gli urti della vita, quelli desiderati e quelli indesiderati. Quante volte ci siamo accorti che proprio quegli urti che non avremmo voluto ci hanno spalancato a una consapevolezza incomparabile di noi stessi, che senza di essi non ci sarebbe stata, hanno introdotto il nostro io in una profondità di scoperta di sé prima sconosciuta? Allora capiamo quanto abbia ragione don Giussani quando dice che l’unica condizione per essere sempre e veramente religiosi è «vivere sempre intensamente il reale». La formula dell’itinerario al significato della realtà è vivere il reale senza preclusioni, cioè senza rinnegare e dimenticare nulla. Altro passaggio per me importante e fondamentale, sempre riferendomi a don Giussani, quando introduce una delle parole a lui più care: «io», il livello più profondo della realtà, dove la realtà diventa io, dove la realtà prende coscienza di sé. È anche il livello dove la realtà prende coscienza del bene e del male, il livello dove la realtà richiama al mistero, «richiama ad altro, oltre sé, più in su». Il mondo, la realtà, è segno di Dio, una cosa il cui senso è altrove. E ne L’io rinasce in un incontro di Giussani, si parla dello stupore che si prova davanti alla sfida della realtà, della provocazione del presente e della corrispondenza del cuore. Ed è ciò che ho provato! Tutto ciò mi ha portato e mi porta allo sguardo, lo sguardo che ci viene ridato ogni mattina, che ci consente di guardare tutto diversamente. Perché mi ha permesso e ci può permettere di arrivare alla consapevolezza del nostro limite. Quando si è colpiti da una malattia, qualunque essa sia, ma soprattutto se grave e invalidante, a prima vista pare impossibile, se non insensato, coniugarla con il concetto di salute. A volte, però, può succedere che una malattia che mortifica e limita il corpo, anche in maniera molto evidente, possa rappresentare una vera e propria medicina per chi deve forzatamente convivere con essa senza possibilità di alternative. Perché la malattia può davvero disegnare, nel bene e nel male, una linea incancellabile nel percorso di vita di una persona. O, ancora meglio, edificare una serie di Colonne d’Ercole superate le quali ci è impossibile tornare indietro, ma se lo si vuole, ci è ancora consentito di guardare avanti. È possibile pensare a ciò che è possibile fare piuttosto che a quello a cui non si è più in grado di ottemperare. Se si ragiona in questi termini, la malattia può davvero diventare una forma di salute. E’ salutare perché permette di sentirsi ancora utili per se stessi e per gli altri, incominciando dai propri famigliari per proseguire con gli amici ed i colleghi di lavoro. Ed è salutare perché aiuta a rendersi conto che nella vita non bisogna dare nulla per scontato, neppure bere un bicchiere d’acqua senza soffocare. A volte siamo così concentrati su noi stessi che non ci accorgiamo della bellezza delle persone e della cose che abbiamo intorno da anni, magari da sempre. Così, quando è la malattia a fermarti bruscamente, può accadere che la propria scala di valori cambi. E che ci si renda conto che quelli che noi, fino a quel momento, consideravamo i più importanti, invece non erano proprio così meritevoli dei primi posti. Il dolore e la sofferenza fisica, psicologica, in quanto tali, non sono né buoni né desiderabili, ma non per questo sono senza significato: ed è qui che l’impegno della medicina e della scienza deve concretamente intervenire per eliminare o alleviare il dolore delle persone malate o con disabilità, e per migliorare la loro qualità di vita. Noi medici, gli operatori sanitari, i ricercatori, abbiamo questa grandissima fortuna: poterci rapportare con l’essere umano che soffre ma che può e riesce a trasmetterci e a insegnare. Ecco perché penso che un corpo malato può portare salute all’anima, rendendola più forte, più tenace, più determinata, più disponibile a buttarsi con tutta se stessa nel suo nuovo percorso di vita. L’urgenza dettata da uno stato patologico può diventare uno stimolo enorme per raggiungere traguardi considerati impensabili e apparentemente preclusi nella “vita precedente”. Ho scritto in una riflessione qualche tempo fa: “La malattia non porta via le emozioni, i sentimenti, la possibilità di comprendere che l’”essere” conta di più del “fare”. Può sembrare paradossale, ma un corpo nudo, spogliato della sua esuberanza, mortificato nella sua esteriorità, fa brillare maggiormente l’anima, ovvero il luogo in cui sono presenti le chiavi che possono aprire, in qualunque momento, la via per completare nel modo migliore il proprio percorso di vita”. Questione di sguardi. Tutto ciò mi ha permesso di avviare l’esperienza di NeMo. E qui ancora un colpo di don Giussani, una sua frase in Che cos’è l’uomo perché te ne curi?. “Il più debole” scrive, “il più indifeso, quello che incontri all’angolo della strada”. Ma soprattutto, la definizione di libertà: l’essenza dell’io umano è libertà, che implica cervello e cuore, intelligenza e forza di volontà. Ho capito quanto, anche con la malattia, sarei stato libero di fare, con la consapevolezza del mio limite e con la capacità dello sguardo.
Viene proiettato il video relativo alla costruzione del centro NeMo.
Grazie alla provvidenza, troviamo tanti amici per fare conoscere il nuovo modello progettuale di presa in carico delle persone con malattie neuromuscolari. Col passare del tempo, diventa sempre più chiaro il messaggio che questo centro, per il solo fatto di esistere, comunica: anche con la malattia, è possibile vivere serenamente la quotidianità.
La questione non è solo soggettiva: farsi carico della persona malata insieme alla sua famiglia, garantirle un percorso, accompagnarla a domicilio, è un radicale cambiamento culturale. Oltre a questo, NeMo, nato dal bisogno reale delle persone malate, costruito grazie all’energia e alle risorse delle associazioni, sostenuto dalle istituzioni che ne riconoscono il valore, è un esempio reale di sussidiarietà. Scrive una nostra malata: “Quello sguardo carico di tenerezza mi ha fatto dimenticare il degrado del mio corpo”. E un’altra: “Avete generato speranza, speranza che per tutti noi è vita”. “Di fronte al dolore, qui nessuno è fuggito: siamo stati aiutati ad avere meno paura”. “Avete medicato le ferite visibili e quelle invisibili”. “Questo è stato difendere la vita e generare speranza”. “Si può dimenticare il degrado del proprio corpo se lo sguardo degli altri è carico di tenerezza”.
Ciò che rappresenta il reale valore aggiunto della esperienza di NeMo è la testimonianza dei pazienti che accogliamo. Le persone con malattie neuromuscolari e le loro famiglie cercano quotidianamente di superare gli ostacoli promuovendo, con il loro stesso vivere, un concetto di dignità della vita che non è riconducibile esclusivamente alle capacità e alle funzioni biologiche del corpo. Sostenere l’idea che la vita sia degna di essere vissuta solo a certe condizioni, oltre a rappresentare un’offesa per tutti, porta inevitabilmente ad una maggiore solitudine le persone con disabilità e le loro famiglie. Papa Francesco, nel suo messaggio inviato al Meeting, ha parlato di questo tema: "Il dramma di oggi consiste nel pericolo incombente della negazione dell’identità e della dignità della persona umana. Una preoccupante colonizzazione ideologica riduce la percezione dei bisogni autentici del cuore per offrire risposte limitate che non considerano l’ampiezza della ricerca di amore, verità, bellezza, giustizia che è in ciascuno". Noi siamo chiamati ad essere protagonisti in ogni momento della nostra vita. E’ la sfida a cui tutti, in prima persona, dobbiamo rispondere, la nuova frontiera da raggiungere. L’esperienza di NeMo ci dimostra che è possibile. La circostanza, qualunque essa sia, non è obiezione alla tua felicità e alla speranza, ma ne è il tramite. Chiunque, anche in una situazione di difficoltà o di malattia, può avere speranza ed essere felice. La speranza poggia sull’incontro con un altro che spera, in cui uno intravede la possibilità per sé di vivere ed essere felici e con speranza, già vissuta e in atto. La speranza e lo sguardo sono strumenti di cura, di vita, strumenti per acquisire dignità. La speranza è bidirezionale, la dai e la ricevi, puoi trasmetterla e riceverla da chi ti circonda. Quello sguardo che liberamente si pone sull’altro può dare dignità e speranza. Allo stesso modo, lo sguardo di un malato pieno di speranza che guarda chi lo cura, chi fa ricerca, riempie di dignità l’altro e l’azione che sta compiendo. Si tratta di un fare memoria reciproca: il fatto che l’altro c’è è fonte di speranza ed è un fatto presente, che deve succedere ogni giorno, soprattutto nella difficoltà. La speranza è ciò che ti fa guardare al futuro poggiando sul presente e su quello che c’è di positivo. Così, anche nel rapporto tra la persona malata e chi lo cura, la dignità e la speranza stanno nell’occhio del curante, quello sguardo che liberamente si pone sull’altro può dare e ricevere dignità e speranza. È una questione di persone, esseri umani che “portano nel loro profondo una necessità di amare ed essere amati” (Benedetto XVI). Dobbiamo avere coraggio e fare nostro il detto francese sulla medicina: curare spesso, guarire qualche volta, consolare sempre. Ecco perché per me il reale valore aggiunto della nostra esperienza è rappresentato dalla testimonianza dei pazienti che accogliamo. Ognuno di noi, con la consapevolezza del proprio limite, non come espressione di debolezza ma come punto di forza testimonia che l’ultima parola, come ci dice Giovanna, non è fine ma bene, il mio, il nostro, ogni cuore ne è pieno. Ognuno di noi, nella nostra quotidianità.
Nulla è impossibile! Tutti abbiamo l’opportunità di vivere questi momenti, non per essere serviti ma per servire con gioia e amore l’altro. Vivere tutto ciò come un dono che ci porta la speranza, la speranza vista come sentimento confortante che proviamo e che ci permette di vedere con l’occhio della mente e del cuore quel percorso che ci può condurre ad una vita, ad una condizione migliore. Speranza che è vita per tutti noi. Dobbiamo, voglio seguire san Paolo che ci dice: "Non vogliate conformarvi al mondo presente, ma trasformatevi, col rinnovare il vostro intelletto, per potere così distinguere qual è la volontà di Dio, qual è il vero bene, ciò che gli piace e ciò che è perfetto”. Il mio grazie a Giovanna, a Ugo, alle persone malate, alle loro presenze che riempiono quella mia mancanza che porta alla pienezza del mio cuore, vita ed energia quotidiana.
PAOLA MARENCO:
Scusate, interrompo un secondo l’applauso per dire due cose: la prima è che il Meeting ricorda a chi non l’avesse fatto che perché questa amicizia continui bisogna raccogliere gli adeguati fondi: fate ancora in tempo a donare in vari posti della Fiera, nel padiglione A3, nel C5, così avrete la Card della Community. E’ un gesto importante, c’è chi dona la vita, c’è chi dona solo un euro ma è un gesto importante. E poi vi chiederei di dedicare l’applauso a Giovanna, che penso ci stia ascoltando, a Ugo e a Mario, e accettare la sfida che ci fanno, dal loro dono quotidiano, compreso il dono del libro ma il dono della vita, e la testimonianza della famigliarità col Mistero e accettare la sfida alla nostra vita, che l’ultima parola è la parola “bene”. Dedichiamolo a loro.