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LUCE E TENEBRA. LA CUSTODIA DEI LUOGHI SANTI E LA VIA DELL’INCONTRO
Organizzato da Pro Terra Sancta
Carla Benelli, storica dell’arte, responsabile dei progetti di Conservazione del patrimonio culturale dell’Associazione Pro Terra Sancta; Alessandro Coniglio, professore di Esegesi dell’Antico Testamento, Studium Biblicum Franciscanum, Gerusalemme; Vincenzo Zuppardo, architetto e curatore della mostra. Modera Andrea Avveduto, responsabile comunicazione Pro Terra Sancta
Un incontro per raccontare e riscoprire il valore della custodia dei Luoghi Santi in Medio Oriente. A cento anni dalla costruzione delle basiliche del Monte Tabor e del Getsemani vogliamo riflettere sulla conservazione del patrimonio culturale e la custodia delle basiliche, segno della speranza cristiana, oltre al coinvolgimento delle maestranze e comunità locali incoraggiato da Pro Terra Sancta. In un momento così drammatico per la Terra Santa, guardare al messaggio dei Luoghi Santi e all’opera di conservazione dell’architetto Antonio Barluzzi significa riscoprire la missione della Custodia come via di dialogo e di pace.
LUCE E TENEBRA. LA CUSTODIA DEI LUOGHI SANTI E LA VIA DELL’INCONTRO
LUCE E TENEBRA. LA CUSTODIA DEI LUOGHI SANTI E LA VIA DELL’INCONTRO
Organizzato da Pro Terra Sancta
Mercoledì 21 agosto 2024
Ore 16:00
Arena Internazionale C3
Partecipano:
Carla Benelli, storica dell’arte, responsabile dei progetti di Conservazione del patrimonio culturale dell’Associazione Pro Terra Sancta; Alessandro Coniglio, professore di Esegesi dell’Antico Testamento, Studium Biblicum Franciscanum, Gerusalemme; Vincenzo Zuppardo, architetto e curatore della mostra.
Modera:
Andrea Avveduto, responsabile comunicazione Pro Terra Sancta
Avveduto. Buon pomeriggio a tutti e benvenuti a questo incontro, “La custodia dei luoghi Santi e la via dell’incontro”. Parto da una frase felice pronunciata da San Paolo VI che ci porta subito nella Terra Santa: “Se c’è una storia della salvezza, c’è anche una geografia della salvezza”, cioè dei luoghi fisici che ci indicano che i fatti raccontati nel Vangelo sono accaduti in un luogo preciso. Questi sono i luoghi santi, i luoghi venerati. La prima pellegrina, se proviamo a immaginarla, nei luoghi santi è stata proprio la Madonna, che andava nei luoghi dove rivivere ciò che suo figlio Gesù aveva vissuto e sofferto nella terra che Dio ha scelto per venire ad abitare in mezzo a noi. Sono luoghi che poi sono stati anche custoditi negli anni, in questi 2.000 anni di storia del cristianesimo, e qui arriviamo alla custodia di Terra Santa, ai frati francescani presenti in quei luoghi da più di 800 anni. Lo stesso San Francesco d’Assisi si recò nel 1217 a incontrare il nipote di Saladino, il Sultano Malik al-Kamil, e da quell’anno con il Capitolo delle Stuoie dispose che alcuni frati stessero proprio nei luoghi santi per conservare quei luoghi e prendersi cura anche delle pietre vive che intorno a quei luoghi scelsero di andare ad abitare. Poi, la Custodia di Terra Santa nacque ufficialmente nel 1342 con la bolla “Gratias Agimus”, con cui Clemente VI indicò i frati francescani come custodi dei luoghi santi in nome e per conto della Chiesa universale. E quel servizio i frati francescani oggi continuano a svolgerlo, a disposizione e a servizio di tutti coloro che si recano in quei luoghi. Naturalmente, i pellegrinaggi hanno subito una forte battuta d’arresto a partire dal 7 ottobre scorso, quando la violenza è di nuovo esplosa in Terra Santa, e il conflitto è tornato a esplodere con una violenza inaudita, come raramente si era vista. La sfida che oggi i luoghi santi affrontano è enorme. Per questo oggi parliamo dei luoghi santi, ma non solo perché le tante storie che sono nate attorno a questi luoghi e che la storia, con la S maiuscola, ci ha consegnato, ci indicano che c’è uno stretto rapporto tra le pietre della memoria e le pietre vive, le comunità locali che attorno a questi luoghi continuano ad abitare e a soffrire. Ricordiamo anche ciò che ci ha raccontato ieri il patriarca di Gerusalemme, il cardinale Pierbattista Pizzaballa. Questo incontro nasce in occasione di una mostra che è speculare a questo padiglione in A3, “Luxtenebra”, dedicata all’anniversario della costruzione delle due basiliche del Tabor e del Getsemani, costruite dall’architetto Antonio Barluzzi un secolo fa, nel 1924. Anche questa è un’altra storia interessante. Oggi abbiamo il piacere di affrontare questi temi con tre ospiti che vado a presentare. Alla mia destra, padre Alessandro Coniglio, frate francescano della Custodia di Terra Santa e docente allo Studio Biblico Francescano. Grazie, padre Alessandro, per il lungo viaggio che hai fatto per essere tra noi. Alla sua destra, l’architetto Vincenzo Zuppardo, curatore della mostra delle Basiliche del Tabor e del Getsemani, che sono già state esposte in altre occasioni e che abbiamo riproposto qui Grazie alla disponibilità del Meeting di Rimini. E infine, Carla Benelli, storica dell’arte e responsabile dei progetti di conservazione dell’Associazione Pro Terra Santa, che oggi promuove questo incontro. Partirei da padre Alessandro, senza dilungarmi oltre, con una citazione del patriarca di Gerusalemme, Pierbattista Pizzaballa, che all’epoca era “semplice”, tra virgolette, custode di Terra Santa. Diceva in un suo libretto che c’è una grazia particolare che emana dai luoghi santi, di cui tutti coloro che li visitano possono beneficiare. Allora, che cosa significa, cos’è questa Grazia che emana dai luoghi santi e perché è importante la memoria dei luoghi santi?
Coniglio. Grazie intanto a te, Andrea, e al Meeting che ci ospita. La Grazia dei luoghi santi significa, in qualche modo, la partecipazione alla vita di Dio che questi luoghi offrono a coloro che li visitano. Vedo nel pubblico anche alcuni ex pellegrini che ho avuto il piacere di guidare in Terra Santa, e credo che l’esperienza che il pellegrino fa quando si trova nei luoghi santi sia proprio l’esperienza di questa vita che ancora emana, promana da questi luoghi dopo 2.000 anni. Sono luoghi che sono stati abitati da una presenza, che è la presenza del Signore Gesù. Quando parliamo di luoghi santi, è vero che dovremmo includere anche quelli dell’Antico Testamento, ma essenzialmente la Custodia di Terra Santa e i pellegrini visitano soprattutto i luoghi del Nuovo Testamento, i luoghi legati alla memoria di Gesù di Nazareth. Questa Grazia, cioè questa vita divina, viene ancora partecipata a coloro che visitano i luoghi santi. Penso che in questo senso fare memoria di quegli eventi, cioè fare memoria del passaggio di nostro Signore, voglia dire non semplicemente ricordare qualcosa che è passato e che è chiuso storicamente in un’esperienza di 2.000 anni fa. La memoria che i luoghi santi trasmettono è una memoria viva, è un po’ come quando si parla nella Santa Messa del memoriale dell’Ultima Cena, del memoriale dell’Eucaristia o del memoriale del sacrificio del Calvario. Per noi la parola “memoriale”, più che la parola “memoria”, trasmette non semplicemente un ricordo esaurito di qualcosa che possiamo soltanto tenere in uno scomparto della nostra mente chiamato memoria, ma indica la possibilità di interagire nel mio oggi con quel mistero. Ed ecco, in questo senso, i luoghi santi trasmettono ancora questa grazia, cioè la possibilità di entrare in contatto con il mistero che lì si è vissuto 2000 anni fa. Tu citavi nella tua introduzione la figura di Maria, che probabilmente è andata pellegrina a ripercorrere i passi che Gesù stesso aveva percorso. Noi abbiamo nei Vangeli stessi il comando che Gesù dà ai suoi discepoli dopo la Risurrezione di tornare in Galilea, e lì lo vedranno. Che cosa significa questo tornare in Galilea? Significa proprio rimandare i suoi discepoli a rifare quell’esperienza che avevano già vissuto con lui, ma viverla in un modo diverso. Quando Gesù era con loro, non avevano compreso pienamente chi fosse Gesù di Nazareth. Per loro, il mistero di Gesù trascendeva ancora le loro categorie di ebrei osservanti, quali potevano essere i primi discepoli. Ma una volta che Gesù li rimanda in Galilea, la Galilea diventa una regione non più soltanto geografica, ma diventa una regione dello spirito, il luogo in cui, dopo l’esperienza della Risurrezione, i discepoli possono rileggere con occhi nuovi ciò che avevano già vissuto con Gesù. In fondo, questa è l’esperienza che fa ogni pellegrino che viene oggi in Terra Santa: alla luce di una fede che ormai può essere più o meno matura, ma che certamente è la fede nel Risorto, ripercorre quei luoghi e in quei luoghi rivive nel suo presente, nel suo oggi, quella Grazia originale che quei luoghi portano con sé. Questa è la memoria dell’essenziale, per richiamarmi al titolo del Meeting di quest’anno, è la memoria di ciò che veramente resta nella storia. Quindi, è una memoria di qualcosa che è ancora vivente, non la memoria di qualcosa che è morto, di qualcosa che è ormai chiuso, ma è la memoria viva di questo essenziale, che è la persona, il mistero di Gesù di Nazareth, con cui possiamo continuare a entrare in relazione. È interessante che proprio uno dei due santuari che sono giubilati in questo anno centenario, il santuario del Tabor, abbia infatti una duplice memoria dal punto di vista della visita che i pellegrini vi fanno. Il santuario in sé richiama evidentemente il mistero della trasfigurazione di Gesù, che è il mistero più importante, più bello, più significativo che lì si è svolto. Ma, secondo la tradizione, proprio lì, su quel monte, Gesù avrebbe dato appuntamento ai discepoli prima della sua ascensione al cielo, almeno nella versione matteana dei fatti, in cui sembra che tutto poi si concluda in Galilea (mentre San Luca ci fa ritornare comunque al Monte degli Ulivi per l’ascensione di Gesù). Ma ecco, il monte a cui Gesù avrebbe dato appuntamento ai suoi discepoli dopo la Risurrezione sarebbe proprio il Tabor, anche se il suo nome non è citato nei Vangeli, ma del resto non è citato nemmeno nell’episodio della Trasfigurazione. Questo ci dice proprio come Gesù vuole che i suoi discepoli ritornino su quegli stessi luoghi che avevano visitato quando lui era ancora in mezzo a loro nel suo corpo di carne, nel suo corpo fisico, ma in realtà questo invito di Gesù a tornare sui luoghi significa poter fare esperienza che anche nella sua nuova realtà di Risorto, lui è con loro, continua ad essere con loro e continua a rendersi presente nelle loro vite. Ecco perché è importante la monumentalizzazione di questi luoghi, che la Custodia di Terra Santa ha fatto nel corso dei secoli, in particolare negli ultimi cento anni, dopo la caduta dell’impero turco, quando c’è stata di nuovo la sensazione che i luoghi santi potessero tornare ad essere finalmente monumentalizzati come meritavano ma non perché quelle opere d’arte debbano congelare il mistero che è in essi contenuto, ma perché quelle opere d’arte, come le due basiliche di Barluzzi, devono essere semplicemente lo stimolo per il pellegrino per entrare a vivere sempre di più quel mistero che è ancora attuale e perennemente presente.
Avveduto. Grazie, grazie padre Alessandro, perché ci permette di introdurre un secondo tema, che appunto è uno dei temi centrali della mostra. Ciò di cui parlavi mi ha fatto venire in mente anche una frase che il custode di Terra Santa scrive nel catalogo che abbiamo realizzato per la mostra, che potete trovare qui in libreria al Meeting, dove dice che: “In Terra Santa ogni località dove sorge un santuario è un richiamo preciso a un determinato mistero della vita di Cristo”. Lui quindi chiede di tornare in Galilea; anche Papa Francesco ogni tanto usa questa espressione, “dovete ritornare alla vostra prima Galilea”, per rivivere continuamente ciò che è stato. Da qui nasce l’importanza di luoghi fisici che ci aiutano a vivere con più consapevolezza questo mistero della vita di Cristo. Da questa consapevolezza forse nasce anche questa mostra, dedicata certamente a un giubileo, al centenario della costruzione delle basiliche del Tabor e del Getsemani, che sono due basiliche particolari, costruite con un’architettura particolare. Ed è per questo motivo che chiedo all’architetto Vincenzo Zuppardo di raccontarci innanzitutto il perché di questa mostra e di raccontarci anche un po’ di più su ciò che si nasconde dietro questa architettura. Le due basiliche sono state realizzate, tra l’altro, da un architetto particolare, che era Antonio Barluzzi, una persona di grande fede. Allora, forse, questo rapporto nel Tabor e nel Getsemani si fonde per spiegarci qualcosa. Vincenzo.
Zuppardo. Grazie Andrea, ringrazio anch’io il Meeting per l’ospitalità per questo incontro e, soprattutto, per la mostra che è esposta qui a fianco a noi. Come dicevi tu, queste due basiliche hanno dato lo spunto per un lavoro che è andato ben oltre quello che ci aspettavamo. L’assist è venuto dal centenario, da questa ricorrenza: queste due basiliche sono state completate nel 1924, cento anni fa. Ma immediatamente ci è sembrato che questa circostanza del centenario congiunto di questi due luoghi offrisse lo spunto per qualcosa di ancora più interessante. Io ho approcciato questo lavoro con l’aiuto, chiaramente, di un comitato scientifico anche guidato da fra Alessandro, dal mio punto di vista, cioè quello non di uno studioso storico dell’arte o biblista, ma di un architetto che esercita la professione da diversi anni. Tra l’altro, in Terra Santa ho avuto anche la fortuna di lavorare al restauro e al consolidamento strutturale della facciata della basilica della Trasfigurazione sul Tabor. Quindi sin da subito, da quando sono arrivato in Terra Santa, ho percepito, ho visto Barluzzi, Antonio Barluzzi, come un compagno di strada. Quindi sin da subito, in realtà, ho cominciato un po’ ad approfondire il suo lavoro e poi, chiaramente, avendo la possibilità anche di metterci mano, ancora di più, per me è stato anche una guida e un maestro, seppur in maniera indiretta, attraverso le sue opere. Forse mi faccio aiutare da qualche immagine, perché parlando di architetture e di luoghi forse è anche importante vedere qualche immagine. Chiaramente vi invito tutti a visitare la mostra dove potrete vedere ancora più nel dettaglio i temi di cui stiamo parlando.
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Vediamo se riesco anche a far funzionare. Ecco, questa è una bellissima foto di Antonio Barluzzi con due frati, appena scattata qualche anno dopo l’inaugurazione del Tabor, proprio davanti a questa chiesa. Chi era Antonio Barluzzi? Antonio Barluzzi era un architetto nato a Roma ed era un uomo di una grandissima carica, con una fortissima carica ideale. Aveva, sin da giovane, il desiderio di dedicare la sua vita a qualcosa di grande. Aveva in mente di farsi anche sacerdote. Entrò in seminario in un momento della sua vita, poi capì che non era quella la sua strada e uscì.
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Arrivò a Gerusalemme… vediamo se, ecco… Arrivò a Gerusalemme per un primo lavoro fatto in collaborazione con il fratello maggiore Giulio, anche lui ingegnere, per costruire insieme l’ospedale italiano a Gerusalemme, che è un elemento molto importante nel panorama urbanistico di questa città, oggi sede del Ministero dell’Istruzione Israeliano. E il Tabor e il Getsemani sono i due primi lavori che la Custodia gli affida e che aprono la strada per una collaborazione molto fruttuosa, con anche alti e bassi, con delle vicende che ovviamente hanno avuto varia fortuna, ma molto proficua.
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Ecco, qui vediamo le opere che lui ha realizzato per la Custodia. Il progetto del Tabor, in realtà, era stato affidato al fratello Giulio, che aveva presentato, con la collaborazione del fratello Antonio, quattro bozzetti diversi in vari stili: nello stile siriaco, nello stile crociato, nello stile bizantino. E il custode Razzoli aveva preliminarmente approvato il progetto in stile siriaco che vediamo qui in questa immagine. Poi, nel frattempo, scoppia la Prima Guerra Mondiale, quindi i due fratelli sono costretti a tornare a Roma, il progetto chiaramente si interrompe, e in quel momento Barluzzi, Antonio, decide di entrare in seminario. Capisce che non è la sua strada e si arruola nell’esercito per realizzare delle strade. Viene mandato nel Genio Militare e costruisce delle strade nel fronte orientale, sulle Alpi. Viene a sapere che l’esercito inglese stava organizzando una spedizione a Gerusalemme e lui, che aveva immediatamente intuito che quella città per lui era particolarmente significativa, si fa inviare come parte del piccolo contingente italiano a Gerusalemme e quindi entra con Allenby, con il generale Allenby, vediamo se abbiamo l’immagine, entra a Gerusalemme e da lì si occupa inizialmente del restauro dell’ospedale italiano che aveva costruito qualche anno prima con il fratello e nel 1918 viene convocato dal custode Diottallevi, il nuovo custode, nel suo ufficio per discutere di alcuni nuovi progetti. Questo incontro è anche raccontato nel bel libro biografico di Daniel Madden, *Monuments of Glory*.
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Quest’illustrazione è presa da questo libro. Il custode ha sul tavolo i quattro disegni dei bozzetti che avevano realizzato per il Monte Tabor e non solo gli riconferma questo incarico, ovviamente la cosa era stata messa in discussione, c’era stata la guerra di mezzo, il custode era cambiato, quindi il nuovo custode riconferma l’incarico al Barluzzi e aggiunge un altro incarico, quello per la basilica del Getsemani, la basilica dell’Agonia. E io, veramente, qui come architetto mi metto nei panni di Antonio Barluzzi che, a 35 anni di età, quasi la mia età, riceve dal custode questi due importanti incarichi. Quindi sicuramente gli saranno brillati gli occhi, ma anche un po’ avrà avuto un nodo allo stomaco per questa responsabilità che doveva sentire sulle proprie spalle. E il custode chiede ad Antonio Barluzzi quale stile da utilizzare per queste nuove chiese da costruire in Terra Santa: “Dobbiamo utilizzare lo stile dei crociati, lo stile bizantino, lo stile neoclassico?” E Barluzzi, in quel momento, ha una grandissima intuizione che caratterizzerà la sua opera futura e direi anche che forse è la vera cifra della sua eredità culturale. Lui risponde: “Non possiamo assolutamente seguire uno stile del passato, ma non possiamo neanche abbandonarci alle mode del momento…
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Dobbiamo scavare un po’ più a fondo, dobbiamo guardare al mistero che quei luoghi vogliono comunicare. Sostanzialmente, risponde Barluzzi al custode, dobbiamo cercare l’essenziale: se non cerchiamo quello, cosa cerchiamo? Dobbiamo andare al cuore del significato di questi luoghi, e l’architettura, le forme, devono esprimere, devono essere a servizio di quel significato che devono esprimere, devono essere al servizio dell’immedesimazione di chi visita questi luoghi in quel mistero. E quindi, appunto, a 35 anni di età inizia a lavorare contemporaneamente su due progetti, quello del Monte Tabor e quello della basilica del Getsemani, che hanno un segno opposto come significato. Lo accennava prima fra Alessandro: il Tabor è il momento dell’epifania della divinità di Gesù, e l’agonia è il momento più basso, avvenuto durante la notte, l’evento del Getsemani avviene durante la notte. Quindi, qual è l’elemento che esprime meglio questi misteri? Barluzzi individua un materiale che rende giustizia di questo mistero, e questo materiale è la luce. La luce, l’esplosione di luce al Tabor, e la sua assenza al Getsemani. Da qui anche il titolo che abbiamo dato al centenario per queste due basiliche e anche alla mostra che abbiamo portato quest’anno al Meeting: *Luxtenebra*, queste due parole latine che abbiamo combinato in un’unica parola, proprio a sottolineare anche la compresenza (non c’è uno spazio fra *Lux* e *Tenebra*) è un unico concetto a sottolineare la compresenza di questi due elementi nella vita di Gesù ma anche nella nostra realtà, nella nostra vita. Quindi non andrò a descrivere nel dettaglio le due architetture, ma volevo soltanto raccontare due piccoli dettagli che però fanno capire l’approccio di Barluzzi e l’uso della luce in queste due basiliche.
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Partendo dal Tabor (se riesco a cambiare slide… non so se devo puntare da qualche parte…) Ecco, partendo dal Tabor abbiamo una facciata tripartita che già ricorda l’episodio evangelico dove Pietro suggerisce di costruire tre tende per Mosè, per Elia e per Gesù, e all’interno di questa chiesa troviamo dei piani sfalsati: quindi il piano dell’aula dell’ingresso, la cripta su un livello più basso, le due cappelle sulle absidi laterali e il grande altare maggiore, ecco, che vediamo in questa foto, sopra l’arcone della cripta. L’occhio del visitatore è guidato attraverso questi piani sfalsati verso il punto focale, che è il mosaico che rappresenta Gesù trasfigurato. L’elemento caratterizzante di questo spazio è la luce che entra copiosa dalle grandi finestre dell’ordine superiore, queste grandi finestre. La luce si riflette nella pietra chiara utilizzata per la costruzione, nei dettagli di mosaici dorati, nei grandi arconi, creando degli effetti di luce molto interessanti. L’elemento su cui vorrei soffermarmi un po’ di più è la vetrata che si trova all’interno della cripta. Questo è già un fatto inusuale: la cripta solitamente è uno spazio buio, ma nella chiesa della luce Barluzzi pone una grandissima vetrata semicircolare che illumina anche la cripta. Tra l’altro, a questa vetrata sono particolarmente affezionato perché è anche il motivo per cui sono arrivato ormai dieci anni fa in Terra Santa, per la prima volta, perché si stava eseguendo un restauro di questa vetrata e sono arrivato in una delle ultime campagne. Durante il restauro è emersa una particolarità che ha anche sconvolto il procedimento che si stava mettendo in atto, una particolarità inedita di questo oggetto. Le singole tarsie…, è una vetrata che rappresenta due bellissimi pavoni e un calice al centro, quindi sono dei simboli eucaristici. Ogni singola tarsia è realizzata non con un unico vetro, ma con due vetri accoppiati fra loro. I due vetri sono di colore diverso. Se andiamo alla prossima slide. Ecco, da qui si vede molto bene. Ogni singola tarsia è composta da due vetri accoppiati di opacità diversa e di colore diverso. Perché è stata fatta questa cosa? Veramente, è una tecnica molto inusuale che ha complicato sicuramente non solo il restauro ma anche la realizzazione a suo tempo (non vediamo più l’immagine… ecco), i due vetri sono di opacità diversa e di colore diverso. Perché l’artigiano ha fatto questa cosa? L’opacità diversa rende ogni singolo vetro, la luce che passa da ogni singola tarsia, perfettamente calibrata: due vetri opachi non fanno passare luce, due vetri trasparenti fanno passare molta luce, un vetro opaco e un vetro trasparente fanno passare una quantità intermedia di luce. Ma anche il colore dei due vetri non è uguale: il colore del vetro interno è diverso in maniera drastica rispetto a quello esterno e quindi, a seconda delle condizioni di luce che si trovano tra l’interno della chiesa e l’esterno, il colore finale visibile per il visitatore cambia nel tempo, durante la giornata e durante le stagioni dell’anno. Perché il vetro rosso si mescola, per esempio, a un vetro blu che si trova all’interno e quindi quella singola tarsia si vede viola. Quindi questo è un esempio che fa capire come l’architetto Barluzzi e gli artigiani che hanno lavorato con lui abbiano avuto un’attenzione incredibile sull’utilizzo della luce all’interno di questo spazio. Passando al Getsemani, qui Barluzzi realizza una chiesa bassa, senza slanci, per non adombrare gli ulivi secolari che si trovano nel giardino appena fuori questa chiesa. Nel preparare questa mostra abbiamo fatto spegnere tutte le luci artificiali all’interno della basilica, ritornando in qualche modo alla condizione di luce originaria immaginata dal Barluzzi per questa chiesa. Ed entrando dall’esterno, dal giardino degli ulivi, dall’orto degli ulivi, quindi con la forte luce quasi violenta di Gerusalemme, si entra in uno spazio buio. (Questo telecomando dà un po’ di problemi). Si entra in uno spazio buio. Una persona che entrava appena dopo di me ha acceso la torcia del cellulare per vedere cosa c’era. I limiti dello spazio sono determinati solamente da queste grandi finestre traforate, con dei vetri opalescenti che fanno entrare una luce tenue, notturna, violacea. Poi, alzando lo sguardo, si notano dettagli dei mosaici delle volte, dettagli dorati che quindi riflettono la luce, le stelle del cielo stellato della notte del Getsemani, qualche cornice dorata, e poi sul fondo c’è un accento di luce che è dato da questo lucernario, l’unica fonte di luce naturale all’interno di questo spazio, che si trova esattamente sopra la Sacra Roccia, che è il baricentro compositivo di questa chiesa. Man mano l’occhio si abitua all’oscurità, si iniziano a notare altri dettagli: le colonne, i capitelli, il pavimento mosaicato che riprende le trame del pavimento della chiesa bizantina su cui questa chiesa è poi stata riedificata. Quindi, anche in questo caso, la percezione dello spazio avviene in maniera dinamica, come abbiamo visto per la vetrata della cripta del Tabor. È un processo che richiede tempo. Questa scoperta del mistero, questa introduzione al mistero, che è il punto centrale del lavoro di Barluzzi, non avviene in maniera immediata o facile. Richiede tempo, richiede pazienza. Purtroppo, oggi ci siamo fatti prendere forse un po’ la mano dalla comodità dell’interruttore della luce elettrica e quindi nei nostri spazi, nelle nostre case, negli uffici, ma soprattutto nei luoghi sacri, ormai spesso vediamo un’illuminazione piatta, sempre uguale a se stessa, da supermercato, dove tutto è visibile, tutto è chiaro, ma in realtà non c’è un processo di comprensione, di introduzione a un mistero. Quindi, uno degli insegnamenti per me da architetto di questo centenario, di lavoro che abbiamo fatto per questo centenario, è proprio il valore simbolico che la luce ha all’interno di uno spazio. Non soltanto che si carica di un valore funzionale, per poter leggere, per sapere dove mettere i piedi, ma di un valore simbolico che credo dovremmo anche riuscire a recuperare nei nostri spazi di culto. Grazie.
Avveduto. Grazie, Vincenzo, per averci aiutato a capire di più che cosa significasse per Barluzzi l’introduzione al mistero nei lavori che faceva. Forse abbiamo capito anche un po’ di più perché veniva soprannominato il Gaudì della Terra Santa. Chi ha già visto la mostra lo sa: c’è una lettera, che forse hai trovato proprio tu all’interno dell’archivio della Custodia di Terra Santa, in cui non è sua nipote, ma una sua carissima amica di famiglia che si rivolgeva ad Antonio Barluzzi chiamandolo “zio”, gli scrive: “Caro zio, sono finalmente arrivata a Dio e lo devo prima di tutto a te che mi hai dato la consapevolezza della mia insoddisfazione e del limite della mia natura”. Questo lo avrà fatto raccontandole dei lavori, del lavoro al Tabor, al Getsemani, nelle altre basiliche che ha curato. Attraverso quei lavori riusciva a trasmetterle questo aspetto, e lei dice: “Mi hai parlato di Lui – con la L maiuscola, attenzione – diversamente dagli altri, in un modo che mi ha soddisfatta”. Ora – scrive- un altro uomo eccezionale mi ha fatto capire che Dio mi vuole e devo andare da Lui”. Questo rapporto è molto stretto. Quell’uomo era un sacerdote e si chiamava Don Luigi Giussani. Però questo per dire che, appunto, non c’era una differenza nella concezione del mistero tra lui, che lavorava alle pietre, e questa ragazza, questa sua amica, che incontrava un sacerdote che le ha trasmesso la stessa cosa. Tornando a quello che diceva Padre Alessandro, mi colpiva perché, quando parlavi dei luoghi come memoria vivente, i luoghi per essere una memoria vivente hanno bisogno di persone vive. Che continuano a fare memoria dei luoghi, altrimenti diventerebbero musei. Allora, il rapporto tra pietre della memoria, come vengono chiamate, e pietre vive diventa estremamente importante. Penso che, appunto, per l’Associazione Pro Terra Santa questo sia stato sempre un rapporto imprescindibile anche nei lavori e nei progetti di conservazione che l’associazione ha portato avanti negli anni. Certamente la Custodia di Terra Santa ha conservato i luoghi, ma dentro la custodia di questi luoghi e dentro la storia di questi luoghi si intrecciano delle altre storie più piccole, che possono aiutarci a guardare questi luoghi non come musei, ma come memoria vivente e non solo, come via d’incontro. A questo incontro abbiamo dato come secondo aspetto proprio la custodia di luoghi santi e la via dell’incontro. Anche perché avrebbe senso parlare oggi, dopo il 7 ottobre, dei luoghi santi, se non facendoci aiutare proprio dalle testimonianze che da questi luoghi giungono, per pensare anche a un futuro diverso. Per questo cedo la parola a Carla Benelli.
Benelli. A me spetta un compito molto difficile dopo queste due presentazioni. Vi devo portare nell’attuale, nell’oggi. È chiaramente un passaggio complicato in un momento tragico come quello che stiamo vivendo. Vedo che siete tantissimi, state con me. Spero di non deludervi. Il passaggio non è facile. Parlare di questi luoghi in questo periodo, in questo momento, non è affatto facile. Io ci proverò e spero di essere all’altezza. Dedico questa presentazione al nostro amico e collega Osama Hamdan, che alcuni di voi hanno conosciuto, che è mancato proprio pochi mesi fa e che ci è stato a fianco in tutti questi anni. Era musulmano, rifugiato di Gerusalemme e ci ha permesso di arrivare fino a qui. Speriamo di continuare noi, a cui spetta oggi il compito di mantenere la memoria, di trasmettere le cose fatte finora, di non buttarle via, e speriamo di essere all’altezza. Il mio compito però è particolarmente complicato, è difficile perché devo fare tante premesse, quindi spero di non annoiarvi. La prima delle premesse importanti è capire di che cosa stiamo parlando.
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Stiamo parlando della Terra Santa, ma stiamo parlando di un luogo che quasi da sempre è un luogo di dolore, un luogo di guerre, è un luogo che ha vissuto anche tanti periodi di pace, ma che periodicamente è destinato a entrare nel precipizio della guerra. Quindi non possiamo parlare di lavoro di conservazione, soprattutto nei territori palestinesi dove l’Associazione Pro Terra Santa lavora, senza cercare di capire di che cosa stiamo parlando, qual è la condizione del patrimonio culturale in questo territorio. Capisco che in questo momento stiamo anche pensando ai tanti uomini, donne, bambini che hanno perso la vita, che stanno soffrendo. Ma capirete quanto comunque la conservazione del patrimonio culturale sia fondamentale per questi luoghi. È un luogo dove non ci sono tante risorse, le risorse naturali sono poche: non c’è acqua, c’è poca terra, non c’è petrolio, non c’è gas. A parte che a Gaza adesso hanno trovato dei giacimenti, ma diciamo che è un territorio che ha una risorsa fondamentale, che è la sua storia, il suo patrimonio. E la condizione del suo patrimonio è abbastanza tragica. I territori palestinesi, in particolare per quel poco di terra che è soggetto all’autorità palestinese, ha vissuto negli ultimi anni un attacco coloniale molto forte. Parliamo di insediamenti, del muro di separazione, che colpisce moltissimo il patrimonio culturale. Perché, come dicevo, essendo il patrimonio culturale una delle poche risorse del territorio, è chiaramente un patrimonio che fa gola a molti. Bisogna prenderlo, bisogna acquisirlo. Vedete uno degli insediamenti coloniali in Cisgiordania che è costruito intorno a un monastero bizantino. Vedete il muro di separazione che cambia il percorso per acquisire i resti di un monastero. E la parte palestinese non è esente da limiti, il problema di quel territorio non è solo l’occupazione israeliana. Nei territori che sono gestiti dall’autorità palestinese ci sono tantissime carenze. La parte fondamentale delle carenze è proprio la mancanza di personale formato alla conservazione. Ed è su questo argomento che padre Michele Piccirillo, francescano di Terra Santa, famosissimo archeologo, grande studioso della Custodia Francescana, incontra Osama Hamdan, l’architetto musulmano di Gerusalemme, rifugiato, e su questo argomento inizia a ragionare su come formare la comunità locale alla conservazione del patrimonio. Io ho avuto la fortuna, nel 1999, di incontrare queste due persone che saranno determinanti per la mia vita e per l’Associazione Pro Terra Santa, perché padre Michele sarà poi quello che fonda l’Associazione Pro Terra Santa. L’incontro avviene a Gerico e inizio a lavorare con loro. Iniziamo proprio da Gerico, perché Gerico è uno dei primi luoghi che viene affidato, parliamo degli anni del processo di pace. Nel 1994 c’è finalmente questo spiraglio di luce che vede Israele e Palestina finalmente intorno a un tavolo di pace, che cercano di trovare una soluzione, e Gerico viene affidata all’Autorità Palestinese. È in quel momento che Michele Piccirillo e Osama Hamdan iniziano a lavorare sul restauro di questo meraviglioso mosaico, mille metri quadri di mosaico pavimentale islamico, per la formazione dei primi sei ragazzi.
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Erano tutti ragazzi, uomini, per fare i primi mosaicisti palestinesi. Io inizio a lavorare con loro proprio in quegli anni. Siccome eravamo molto giovani e pieni di speranze, non ci fermiamo lì. Quelli sono anni in cui il territorio, la regione, era una regione relativamente in pace: non c’era la guerra in Siria, era un momento in cui si poteva tranquillamente andare in Giordania, in Siria, in Libano e quindi noi, grazie al sostegno di Michele Piccirillo, iniziamo a fare formazione non solo ai ragazzi palestinesi ma addirittura ragazzi e ragazze, questa volta siriani, libanesi e giordani, e sviluppiamo questo progetto sempre pensato per la comunità locale. Quello che era in fondo il pensiero di Michele Piccirillo, francescano di Terra Santa e partecipante alla Custodia di Terra Santa, era che non si possono conservare questi luoghi se non tenendo conto della comunità locale che ora vive intorno. Tanto che a Gerico, durante la seconda intifada, con ragazzi palestinesi, Michele Piccirillo, francescano, affida a Osama Hamdan il restauro di una sinagoga. E noi svolgiamo questo lavoro con i ragazzi musulmani del Mosaic Center nella sinagoga di Ain Duq a Gerico, perché era sotto il controllo dell’Autorità Palestinese nel momento in cui era in corso la seconda intifada. I ragazzi dovevano rimanere a dormire a Gerico. Gerico è una piccola oasi, chi l’ha visitata ne è consapevole. I nostri ragazzi non potevano entrare e uscire da Gerico perché era tutta sigillata. Per l’intifada c’erano tanti problemi, e io e Osama in questi anni dovevamo attraversare il deserto a piedi per arrivare dentro Gerico e seguire i lavori.
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Nel 2005, finalmente l’Associazione Pro Terra Santa diventa una realtà, Michele Piccirillo riesce a fondarla e nello stesso tempo viene fondata anche l’Associazione Palestinese del Mosaic Center e noi lavoriamo nel restauro del centro storico di Sabastia, che è un piccolo villaggio in cui il centro storico era completamente abbandonato, pieno di immondizie, e lo trasformiamo in un luogo aperto per la comunità. In questo momento viene a mancare Michele Piccirillo. Nel 2008, un mese prima di compiere 64 anni, muore, ci lascia in eredità proprio il restauro del Getsemani. Noi affrontiamo il restauro della Basilica del Getsemani con sei ragazzi, questa volta tre ragazzi e tre ragazze musulmani, di Gerusalemme. Perché di Gerusalemme? Chi frequenta quel territorio sa che i palestinesi non possono accedere facilmente a Gerusalemme. C’è bisogno di un permesso che viene concesso raramente dagli israeliani, e quindi noi avevamo bisogno di avere dei ragazzi e delle ragazze formate di Gerusalemme, perché sono gli unici palestinesi che possono lavorare a Gerusalemme. E così formiamo questi sei ragazzi, tre ragazzi e tre ragazze e nel lavoro del Getsemani – ci sono molti mosaici – noi ci confrontiamo soprattutto con il restauro dei mosaici. Partiamo dai lacerti di mosaico bizantino che sono presenti nella Basilica e che danno l’idea di come formare il mosaico attuale, il mosaico pavimentale. I lacerti bizantini sono pochissimi, restano questi piccoli lacerti che danno l’idea a Barluzzi e all’artista Piero Dacchiardi di fare il disegno del pavimento attuale.
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Le cupole, come ne ha parlato Vincenzo, sono tutte mosaici. I mosaici sono tutti realizzati dal laboratorio Monticelli, che è un laboratorio romano. Vedete che le cupole del Getsemani hanno dei disegni che si ripetono: è il cielo stellato del Getsemani, della notte dell’agonia. Molte cupole sono decorate con gli olivi, alcune hanno dei candelabri e poi la cupola centrale. Alcuni dettagli del cielo del Getsemani rappresentano i simboli della passione, i vasi con gli uccelli affrontati e i simboli dei vari stati che partecipano alla costruzione della Basilica. La Basilica viene chiamata anche la Basilica delle Nazioni perché subito dopo la Prima Guerra Mondiale e partecipano alla costruzione della Basilica, aiutando la Custodia finanziariamente i tanti paesi, tra cui quelli che avevano partecipato alla Prima Guerra Mondiale: c’è la Germania, c’è l’Inghilterra, ci sono gli Stati Uniti, ma c’è anche il Cile, l’Argentina, che aiutano la costruzione della Basilica. Di particolare rilevanza è il timpano della Basilica. Mentre la Basilica resta un po’ abbassata proprio perché non doveva disturbare gli olivi, Barluzzi vuole che il frontone, che il timpano sia quasi un arco trionfale. Qui chiama Bargellini, un artista italiano fiorentino, a costruire questo timpano in cui c’è la rappresentazione di Gesù Cristo che intercede nei confronti di Dio sia per i potenti che per i poveri, per i deboli. Quindi c’è la varia umanità inginocchiata davanti a Cristo: da un lato ci sono i poveri, la madre che perde il bimbo e si inginocchia, ma dall’altro si inginocchiano i saggi, i cavalieri, i re. La costruzione della Basilica sarà molto complessa, soprattutto l’interno. Mentre il pavimento e la cupola diventano non particolarmente rilevanti per Barluzzi e sono considerati una semplice decorazione, i quadri delle absidi dell’altare principale e dei laterali diventano particolarmente importanti e la scelta dell’artista per questi quadri sarà molto difficile. È una storia molto lunga, tanto che gli ultimi mosaici vengono inaugurati nel 1952: si inizia nel 1923 e si finisce solo nel 1952. Ci sono tante storie, lo trovate nel catalogo. In particolare c’è questa storia che Barluzzi voleva che gli artisti che partecipavano a questa decorazione fossero italiani. C’era una questione politica molto delicata perché erano gli anni del mandato britannico. Barluzzi voleva assolutamente che la chiesa del Getsemani fosse un trionfo del cattolicesimo e dell’italianità. Quindi alla fine questi sono gli artisti che finiscono per decorare la Basilica. Ma quello che per me è importante, e credo che questo fosse il compito che l’associazione mi ha dato, era dire che per noi questo del restauro non è mai un lavoro solo per il monumento, solo per il restauro. Come vi dicevo, la particolarità è proprio il rapporto con la comunità locale. Questi sei ragazzi, tre ragazzi e tre ragazze, in formazione durante il lavoro del restauro, sono tutti e sei musulmani, tutti e sei di Gerusalemme, e si sono trovati a lavorare in una delle basiliche più importanti della cristianità.
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Le condizioni del mosaico, come vedete, erano particolarmente compromesse da infiltrazioni d’acqua dal tetto, che avevano rovinato i mosaici. Questi erano i problemi del timpano, con grandi lacune. Questi sono di nuovo i sei ragazzi che lavorano con due formatori. Ma la cosa importante da dire è che noi abbiamo trovato l’occasione con questo lavoro di restauro di invitare alla visita del Getsemani la comunità locale, la comunità del Monte degli Olivi, perché la chiesa si trova al fondo del Monte degli Olivi, lungo le pendici del Monte degli Olivi. Il quartiere arabo del Monte degli Olivi è un quartiere particolarmente difficile. C’è una microcriminalità piuttosto elevata. La comunità non aveva l’abitudine di entrare nella chiesa e percepiva la chiesa come una cosa per pellegrini e per i turisti. Noi abbiamo portato in visita nella chiesa tutte le scuole del quartiere. Era molto bello vedere questi bimbi che venivano e poi ci chiedevano se potevano portare le famiglie.
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Queste sono alcune delle immagini dei ragazzi che abbiamo formato: li abbiamo portati in Italia, dove hanno vinto anche un premio in un concorso di mosaici. E questa è la realtà ancora oggi: l’associazione di mosaicisti locali, il Mosaic Center, che lavora grazie al sostegno dell’Associazione Pro Terra Santa, è un luogo d’incontro, è un luogo dove bambini del posto e visitatori, quando possibile, si incontrano, condividono la passione per questi luoghi e lo sforzo di proteggerli. È chiaramente un segnale di speranza molto difficile da cogliere in questo momento, ma è essenzialmente in questo momento che dobbiamo continuare a pensare che questa terra ha un futuro. Un futuro che coinvolge tutta la gente che sta lì, nessuno escluso. E noi speriamo che questo segnale venga colto da tutti e che possa presto tornare la pace in una terra che ne ha veramente tanto bisogno. Grazie.
Avveduto. Grazie, Carla. Grazie per averci aiutato a capire perché i luoghi santi possono essere una via di incontro. L’hai fatto ricordando più volte l’architetto Osama Amdan che è scomparso quest’anno. Dopo una vita spesa a preservare la bellezza, ha lavorato in tante chiese, sinagoghe e moschee, colpendo spesso chiunque lo incontrasse. Visitava i siti di Betania, ad esempio, e ci teneva che tutti raccogliessero anche le cicche di sigarette perché il luogo doveva essere bello, espressione di una bellezza e di una pulizia che arrivava a ogni minimo dettaglio, a ogni minimo particolare. Ho avuto l’opportunità e vorrei chiudere così, di incontrarlo poche settimane prima che morisse in una lunga chiacchierata che è durata ore. Lui era già sofferente, e questa sofferenza l’aveva portato a dire: “Basta sofferenza per tutti, basta”. Era un dolore che lo aveva fatto immedesimare anche nel dolore degli altri, anche di coloro che probabilmente nella vita aveva combattuto. Ma c’è un aspetto ancora più importante che Osama diceva spesso e che ha continuato a ripetere anche poche settimane prima di morire: certo, uno può mangiare – con un panino si sopravvive – mentre per vivere bene ci vuole la memoria di quello che siamo stati. Bisogna conservare la memoria di quello che siamo stati, perché la memoria è l’identità, è ciò che ti permette di andare incontro all’altro. E diceva, lavorando per il patrimonio della Terra Santa visibile nelle chiese, ma anche nelle sinagoghe e nelle moschee, mi ha detto questa frase: “È la bellezza che ci aiuterà a fare la pace”. E allora, conservare questa bellezza oggi significa certamente aiutare la memoria, ma una memoria vivente, come diceva padre Alessandro, una memoria di qualcosa che è accaduto e che continua ad accadere. Ed è incredibile che questa memoria si giochi nel rapporto tra le pietre della memoria e le pietre vive. Vi ringrazio perché ci avete aiutato a fare un passo in più verso questa consapevolezza che c’è una possibilità di sperare. Ma non è una speranza distopica o utopica; è una speranza che nasce da alcuni piccoli gesti concreti, come l’opera infaticabile della custodia di Terra Santa nella custodia dei luoghi, come l’architettura che abbiamo visto nelle varie basiliche che ci trasmettono un senso del mistero, come l’incontro con le maestranze locali e la consapevolezza che il patrimonio culturale appartiene a tutti ed è qualcosa che devono difendere tutti. Questi tre aspetti ci dicono che sono gesti forse piccoli oggi rispetto alla marea di violenza che sta dissanguando la Terra Santa, ma sono importanti. Ci dicono, appunto, che la via dell’incontro è possibile, che sperare è possibile. La pace forse oggi no—il Cardinale Pizzaballa era piuttosto pessimista a riguardo – ma la pace la costruiremo. Proviamo, intanto, a incontrarci, proviamo a parlarci, e lo possiamo fare partendo dai piccoli segni che ci avete raccontato oggi. Quindi grazie per essere stati con noi e per le vostre parole. Prima di concludere, volevo ringraziare naturalmente il Ministro degli Esteri che ci ha ospitato in quest’arena e invitare tutti a visitare anche il padiglione che racconta le attività del Ministero degli Esteri e della Cooperazione Internazionale. Da ultimo, naturalmente, un invito a chi non l’avesse già fatto, di andare a visitare la mostra “Lux Tenebrae”, curata da Vincenzo Zuppardo, nel padiglione speculare al nostro, e che è possibile anche prendere il catalogo. Grazie ancora a tutti voi, una buona serata e un buon Meeting.